Ascolto (ed empatia) nella mediazione penale
Nell’ambito dell’incontro organizzato e condotto da Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso e Antonella Sapio, All’ora del thè, in compagnia di Alberto Quattrocolo dell’Associazione Me.Dia.Re., si è parlato di come si concretizza nella pratica dell’incontro una condizione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale e, pertanto, della natura non direttiva, ma di accompagnamento, dell’intervento mediativo. Infatti, dopo avere discusso delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale (si veda questo articolo con il relativo video) e degli sbocchi professionali di entrambe (cliccare qui per l’articolo e il video), lo spunto proposto da una domanda di Maria Alice Trombara ad Alberto Quattrocolo è stato il seguente:
«Alberto, mi volevo ricollegare a quello che tu dicevi sulla mediazione penale specificando che attualmente il modello della Morineau è quello che si usa maggiormente in Europa, ma anche Oltreoceano (pensiamo al Canada): sappiamo che la Morineau propone questa tripartizione in “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”, che lei, come “numismatica greca”, prende dalla tragedia greca, ma nel mondo moderno, nel mondo attuale, come viene vissuta dai nostri medianti questa tripartizione (appunto, “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”) e il mediatore come riesce ad accompagnarli in questi tre stadi, ossia dalle emozioni ai valori, diciamo così?».
Dando per scontato che ci segue sappia precisamente in cosa consistono questi tre passaggi, mi limito a ricordarli velocemente. L’idea di fondo sarebbe che attraverso il percorso di mediazione le persone che vi aderiscono verrebbero accompagnate in una trasformazione, passando da un momento di contrapposizione reciproca, nella quale la verità dell’una esclude quella dell’altra, ad una fase di scontro particolarmente sofferto fino ad arrivare a riconoscere l’umanità altrui: cioè, a sentire riconosciuta la propria sofferenza e a riconoscere quella dell’altro. Naturalmente, li sto banalizzando, questi tre passaggi. Se fosse qui la Morineau, avrebbe il diritto di bacchettarmi le dita.
L’attività di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale non dovrebbe essere condizionata da (eventuali) finalità o aspettative (ri)educative
Ma… per venire alla tua domanda e non girarci troppo attorno, va detto che questa modalità descrittiva può prestarsi tranquillamente anche alle situazioni che continuiamo ad incontrare, sia tu che io, nel nostro quotidiano operativo. Però, una delle accortezze che entrambi dovremmo avere è quello di cercare di non trasformare l’approccio mediativo – quindi, all’insegna di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale – in approccio educativo. Infatti, tu, molto correttamente, hai detto «accompagnare» e non «orientare». In altri termini, si tratta, per il mediatore penale, di non avere aspettative sulle parti, tali che, se non arrivano alla “catarsi”, allora quelle sono persone brutte, sporche e cattive.
Ciò vale per la mediazione penale, d’accordo, ma anche per la mediazione dei conflitti in generale. E, per quanto riguarda la mediazione penale, questa precauzione è importante per evitare che sia proposta una mediazione che abbia in realtà una finalità di Giustizia Riabilitativa (cioè che sia pensata, organizzata e svolta con il fine di procurare la rieducazione e riabilitazione del reo) a spese della vittima. Occorre, pertanto, stare attenti alla possibile strumentalizzazione della vittima, della sua sofferenza, da parte di chi gestisce il percorso di mediazione penale, dato il rischio di procurarle involontariamente una vittimizzazione secondaria, mentre è intento a perseguire lo scopo di procurare al reo un’occasione di tipo rieducativo, di risocializzazione. Bisogna tenere insieme, quindi, le diverse istanze. Poi andrebbe aperta una parentesi, che qui accenno soltanto, su una certa ambiguità che, secondo me, c’è nel nostro ordinamento, il quale sembra mescolare un po’ la Giustizia Riabilitativa e la Giustizia Riparativa. La mia impressione è che ogni tanto la prima venga mascherata, addobbata, con le vesti della seconda.
Ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e intelligenza emotiva
Tuttavia, al di là di quest’ultima digressione, si tratta come dici tu, di accompagnare. E, da questo punto di vista, dar luogo ad una dimensione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale significa creare una situazione relazionale molto rilevante. Quindi, per utilizzare un linguaggio che non si rifà ai miti e ai termini della classicità e della tragedia greca, potremmo dire che un atteggiamento di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale può essere fondamentale per ripristinare quelle risorse, quelle competenze, che sono state chiamate da Goleman, intelligenza emotiva. Infatti, se questa è considerata come la capacità di sentire e riconoscere le proprie emozioni, di gestirle, di riconoscere le emozioni altrui e di autodeterminarsi, nel senso di saper regolare il proprio comportamento non lasciandolo governare dalla dittatura della situazione (cioè, del conflitto e delle sue dinamiche), allora l’ascolto del mediatore può permettere il ripristino di queste competenze. E, sotto questo profilo, può farsi un parallelo con quanto diceva la Morineau, perché le persone ascoltate ricominciano ad ascoltarsi (ad ascoltare sé stesse), il che rende loro maggiormente accessibile anche l’ascolto dell’altro.
Le differenze tra l’ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e l’approccio conciliativo: gli esempi cinematografici dei “Soliti ignoti” e di “Guardie e ladri”
Naturalmente il recupero da parte dei confliggenti di una capacità empatica l’uno nei confronti dell’altro, cioè di questa dimensione dell’intelligenza emotiva, non è perseguito attraverso un tentativo da parte del mediatore di un loro riavvicinamento di tipo (ri)conciliativo, né è l’effetto di uno sforzo di questo tipo. Il quale, anzi, ove fosse declinato potrebbe verosimilmente produrre un esito opposto, cioè di irrigidimento, proprio nella misura in cui i tentativi del terzo di conciliare sono percepibili dalle parti come disconoscimento delle loro emozioni e ragioni conflittuali, essendo pertanto suscettibili di dare luogo ad un loro irrigidimento reciproco e ad un’irritazione più o meno esplicita verso il mediatore stesso. Insomma, il riconoscimento reciproco tra le persone in conflitto si realizza su un piano contemporaneamente emotivo e cognitivo, grazie all’ascolto e al riconoscimento di ciascuno da parte del mediatore che incrementa un arricchimento della conoscenza reciproca.
La ri-umanizzazione della vittima da parte del reo (“I soliti ignoti”)
A questo proposito, stando con i piedi per terra, mi viene in mente il film “I soliti ignoti” (1958, di Mario Monicelli), forse il capolavoro assoluto della commedia cinematografica italiana, in cui c’è una scena in cui l’aspetto catartico di cui parla la Morineau è ben rappresentato con qualche decennio di anticipo sulla sua teorizzazione. È la scena in cui sul tram Vittorio Gassman nei panni di Peppe, ex pugile suonato di nessun successo e attuale maldestro aspirante ladro, sottrae dalla borsetta di Nicoletta, interpretata da Carla Gravina, le chiavi dell’appartamento in cui lavora come cameriera (quelle chiavi gli occorrono per penetrare con i suoi complici in quell’abitazione e, da lì, accedere al locale adiacente del monte dei pegni che essi intendono svaligiare quella notte). Infatti, in quella sequenza, resosi conto che lei, accortasi della scomparsa delle chiavi e convinta di averle smarrite, è precipitata in un’ansia incontenibile e sta iniziando a disperarsi per la paura di essere licenziata, il personaggio di Gassman muta atteggiamento: il suo meccanismo di disimpegno morale si scioglie, perché empatizza con lei, sicché lei, ai suoi occhi, non è più soltanto uno strumento per compiere il furto progettato, una chiave da girare per avere accesso ai preziosi di cui intende impossessarsi, ma è una persona. L’essere seduto lì accanto a lei, mentre si dispera nella ricerca spasmodica delle chiavi, lo induce a ri-umanizzarla (tanto che di nascosto infila nuovamente le chiavi nella borsa e poi finge di ritrovarle).
Il riconoscimento reciproco tra il ladro, Totò, e la guardia, Aldo Fabrizi
Anche nell’altro capolavoro del cinema comico italiano, cioè “Guardia e ladri” (di Mario Monicelli e Steno, 1951) – cui abbiamo dedicato, infatti, un post della rubrica Corsi e Ricorsi (in occasione del suo anniversario dall’uscita sugli cinematografici) in cui si evidenziavano le diverse implicazioni in termini di Giustizia Riparativa ante litteram – si verifica qualcosa di simile. Infatti, per buona parte del film il ladro interpretato da Totò e la guardia interpretata da Aldo Fabrizi si demonizzano reciprocamente, sentendosi entrambi oggetto di una persecuzione da parte dell’altro. Entrambi pensano all’altro, e lo descrivono, come se fosse un mostro, come un campione di spietata disumanità. Però, quando hanno la possibilità di conoscersi, pur restando nei rispettivi ruoli, si riconoscono entrambi come esseri umani. Per esempio, si riconoscono e si rispecchiano in quanto mariti e come genitori, nonché in quanto poveri diavoli spaesati in quell’Italia post-bellica, ridotta in macerie e in miseria; poveri diavoli, che, come tutti gli altri italiani, dopo aver attraversato l’inferno del ventennio fascista e della Seconda Guerra Mondiale, arrancano faticosamente, sospesi tra una sorta di speranza incredula e un’angoscia mesta per il presente e il futuro.
Può cliccare qui chi vuole seguire il video, nel quale si commenta anche la canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De André. Qui, invece, si trova il video integrale dell’intervista.
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