5 ottobre 1911: l’Italia impone alla Libia i “benefici della civiltà”

Da alcuni anni alcune località sono tornate ad essere nominate sui media: Tripoli, Misurata, Bengasi, Ohms; Derna, Tobruch, e altre ancora. Sono i nomi di città libiche, che vengono citati per lo più in notizie che parlano di bombe, conflitti e violenze.

Queste località erano citate anche nelle notizie che arrivavano, oltre cento anni fa, al pubblico italiano ed europeo dai corrispondenti che seguivano lo svolgersi della guerra italo-turca.

Quelle terre che facevano gola all’Italia

Quasi tutta l’Africa settentrionale, ai primi del Novecento, era sotto il controllo delle potenze europee, in particolare della Francia e della Gran Bretagna. Questa controllava saldamente l’Egitto, mentre la Francia, che già da un pezzo aveva conquistato l’Algeria, sottraendola alla dominazione ottomana, si era impadronita anche della Tunisia, nonostante le mire dell’Italia, e stava colonizzando con successo il Marocco, a dispetto della Germania. Una parte del territorio libico era, invece, ancora sotto il dominio turco, che si estendeva su due delle tre regioni che lo costituiscono (Tripolitania, Cirenaica e Fezzaz). I turchi, in particolare, controllavano due province (Vilayet): la Tripolitania e la Cirenaica.

Queste province, però, da tempo, erano oggetto di un interesse significativo e crescente per l’Italia. La Tripolitania, ad esempio, costituiva il ponte tra la parte occidentale e quella orientale del Nord Africa le sue coste rappresentavano una valvola tra il bacino occidentale e quello orientale del Mediterraneo, laddove, cioè, si trovava quel canale di Suez che collegava l’Europa con l’Estremo Oriente.

Ma, oltre ad essere attrattive per i diversi interessi che andavano a stimolare in Italia, sul piano degli sviluppi commerciali e dei rapporti con le altre potenze, le province turche in Nord Africa lo erano, agli occhi degli italiani, anche per altre ragioni. Se, per gli industriali l’occupazione della Libia ottomana era vista come una possibilità di sviluppo per le loro produzioni, per i contadini poveri del Meridione essa rappresentava la possibilità di conseguire della terra libera da coltivare, terra, cioè, che a loro mancava in patria e che laggiù credevano di poter lavorare fruttuosamente, visto che la immaginavano fertile e abbondante.

Tale convinzione era diffusa non solo tra i braccianti e i piccoli agricoltori. Erano in molti a crederci, perché, in effetti, alla stregua di un Eden veniva descritta da giornalisti e scrittori di peso come Luigi Federzoni, Enrico Corradini e Giuseppe Bevione.

Le fandonie sulla fertile abbondanza della terra libica

Il primo, commentando alcuni giardini dell’oasi di Tripoli, dopo aver descritto ulivi schiantati dal peso delle olive e viti da quello dei grappoli, «altro che deserto!», sbottava, «Siamo in terra promessa». Il secondo era talmente spericolato nel suo ingigantire la fertilità e la ricchezza della natura che viene da chiedersi come qualcuno potesse non scoppiare a ridere leggendo le sue descrizioni: «gelsi grandi come faggi», «il grano e la melica danno tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa», «la vigna dà grappoli a incredibili, a venti e trenta chili per frutto», «ulivi grossi come querce».

Forse, gli autori di queste fantasticherie si limitavano a ingigantire la generosa flora dell’oasi di Tripoli – che contava 2 milioni di palme – e a rappresentare l’intero territorio libico come se fosse stato tutto un giardino, invece, di dare conto del fatto che era prevalentemente desertico e inospitale come una fornace.

Molti credettero a tali fandonie per semplice ignoranza, altri per interesse, altri ancora perché, in fondo, volevano essere ingannati.,

I favorevoli alla guerra

Più di tutti, tra i sostenitori dell’impresa bellica in Libia, si facevano sentire e notare i nazionalisti, le cui tesi erano fortemente appoggiate dagli organi della grande stampa. Ma, se l’Associazione Nazionalista Italiana invocava la guerra, ovunque e comunque, ritenendola la giusta cura per i mali dell’Italia, anche gli assai meno bellicosi liberali – che, alla fine del secolo precedente, avevano disapprovato il tentativo fallito di conquistare l’Etiopia, esitato nella sanguinosa sconfitta delle forze italiane ad Adua – erano a favore dell’impresa libica. Singolarmente lo erano anche due soggetti insospettabili di propositi guerrafondai: appoggiavano la guerra contro la Turchia, infatti, anche la Chiesa nel suo complesso e i giolittiani. Anzi, decisiva fu proprio la decisione del presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Giolitti, noto per essere un politico accorto, freddo e prudente, più attento alla politica interna che a quella estera, specie se foriera di avventure rischiose.

La fiera delle illusioni

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Forse, si pensò, Giolitti, impermeabile alla retorica della terra promessa, intendeva con la guerra alla Turchia dare sfogo e contemporaneamente mettere la sordina ai nazionalisti che spingevano forsennatamente per un’avventura balcanica. Oppure, intendeva contenere e distrarre l’irredentismo, le cui spinte gli parevano non meno pericolose, data l’alta possibilità, nel caso si fossero tradotte in azione, di scatenare una conflittualità non facilmente contenibile con gli Stati confinanti.

Quali che fossero le ragioni del presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, figurava tra i più autorevoli e convinti sostenitori della guerra libica, ritenendo che essa si sarebbe risolta in una breve passeggiata militare e che non avrebbe avuto conseguenze sul piano europeo.

Previsioni completamente sballate

Non sarebbe passato molto tempo prima che le previsioni del ministro venissero smentite su tutta la linea.

Gli arabi, cioè i libici, infatti, agirono in maniera diametralmente opposta a quanto avevano creduto il ministro degli Esteri e il console generale a Tripoli, Carlo Galli: non accolsero gli italiani come liberatori dal giogo ottomano, anzi si ribellarono immediatamente all’invasione italiana, dapprima affiancando le sparute guarnigioni turche e, poi, dopo, che queste furono debellate, continuando a combattere accanitamente contro gli italiani per altri vent’anni circa.

Inoltre, la vittoria delle truppe italiane su quelle turche, rivelò l’intrinseca debolezza dell’Impero ottomano alle popolazioni balcaniche, da quello assoggettate. E ciò indusse tali popoli a tradurre il loro nazionalismo in un vero e proprio attacco all’impero turco.

In breve, l’iniziativa bellica italiana contro l’Impero ottomano, lungi dall’essere irrilevante rispetto agli equilibri europei, contribuì a portare l’Europa e il resto del mondo verso quella spaventosa ecatombe che fu la Prima Guerra Mondiale.

Il discorso di Giolitti al Teatro Regio di Torino

Giolitti nel suo discorso al Teatro Regio di Torino, del 7 ottobre 1911, quando l’occupazione era ormai avviata, disse.

«Vi sono fatti che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del Governo di assumere tutte le responsabilità, perché un’esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo talora conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, talora per secoli»

Se il Governo avesse esitato, possiamo osservare oggi, sarebbe stato di gran lunga meglio non solo per il popolo libico, ma anche per quello italiano. E, forse, non soltanto, per questi due popoli.

La sinistra spaccata

Tra i favorevoli alla guerra vi erano anche non pochi esponenti di sinistra, tra cui il socialista Arturo Labriola – anche se poi cambiò posizione -, che considerava la conquista della Libia ottomana un’occasione per il proletariato meridionale di emanciparsi, il figlio di Anita e Giuseppe Garibaldi, Ricciotti Garibaldi, Angelo Oliviero Olivetti e Paolo Orano. Perfino Giovanni Pascoli, persuaso dalla propaganda, credette alla menzogna della Libia come terra promessa e anch’egli si convinse che il suo possesso avrebbe evitato agli italiani poveri di emigrare all’estero per lavorare. Del resto anche Ernesto Teodoro Moneta, che aveva ottenuto il Premio Nobel per la pace nel 1907, era a favore della conquista.

La voce dei contrari alla guerra – la voce, cioè, di quelli che restavano con i piedi per terra e vedevano la realtà così com’era – non trovava che un ascolto distratto. E, va detto, quando essi la alzavano, la loro voce, sperando di ottenere maggiore attenzione, lo facevano a loro rischio e pericolo.

L’isolamento degli oppositori alla guerra

Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, Edoardo Giretti Arcangelo Ghisleri (quest’ultimo geografo e storico) avevano smontato le ragioni della propaganda, inclusa la favola della Tripolitania come “colonia di insediamento”, evidenziando che i costi dell’impresa libica avrebbero posto termine al percorso di industrializzazione del Paese, facendola arretrare verso una società militarista e barbarica. Tra i socialisti, Gaetano Salvemini, alquanto assennatamente, avvertì che quella terra, «una enorme voragine di sabbia», altro che Eden, avrebbe ingoiato per anni soldati, mezzi e denaro [1]. Leone Caetani, duca di Sermoneta e principe di Teano, storico islamista e orientalista, deputato del Partito Democratico Costituzionale, per la sua opposizione alla guerra fu considerato un traditore della sua classe (più tardi fu anche perseguitato dal regime fascista, che lo espulse dall’Accademia dei Lincei e lo privò della cittadinanza italiana).

I sindacalisti rivoluzionari, tra cui Alceste de Ambris e Enrico Leone, i giovani socialisti e i repubblicani che si distinsero per l’intensità della loro opposizione ebbero guai e frustrazioni anche maggiori. Pietro Nenni, Amedeo Bordiga, Benito Mussolini – che aveva definito quest’impresa coloniale un atto di brigantaggio internazionale – e la CGIL tentarono di impedire la guerra con scioperi e manifestazioni, ma non ebbero grande seguito. Nenni e Mussolini scontarono anche alcuni mesi di carcere a Bologna.

5 ottobre 1911: l’inizio del lungo bagno di sangue

La voce della ragione non fu ascoltata. Neppure dal Governo, che il 26 settembre 1911 inviò un ultimatum alla Turchia. Era un guazzabuglio di arroganza nelle lagnanze e di vaghezza nelle richieste, ma non conteneva nulla che potesse realmente definirsi un casus belli, se non, dal punto di vista turco, proprio quel brutale e ingiustificato ultimatum in sé. Il governo turco, però, dopo un primo momento di comprensibile indignazione, assunse un atteggiamento accomodante: si impegnò perfino a garantire le prerogative dei commercianti italiani in Libia. L’offerta turca, comunicata ad ultimatum scaduto – il termine era appena di 24 ore -, fu considerata dal governo italiano niente più che un artificio per guadagnare tempo.

Il 3 ottobre venti navi italiane aprirono il fuoco contro i vecchi forti di Tripoli, ornati più che difesi da obsoleti cannoni turchi. Il 5 ottobre 1911, due giorni dopo avveniva lo sbarco. E in due settimane tutti i 34000 uomini del corpo di spedizione da contrapporre ai 4000 soldati turchi, erano a terra, intenti a occupare Tripoli e Homs in Tripolitania e Tobruch, Derna e Bengasi in Cirenaica.

La violenta rivolta libica e l’ancor più sanguinosa rappresaglia italiana

A Tripoli e Tobruch gli sbarchi avvennero quasi senza problemi, ma nelle altre località si combatté. E a Homs, la previsione del console Galli fu immediatamente smentita: i 500 soldati turchi della guarnigione ebbero l’appoggio di oltre 1.000 libici.

Ma anche a Tripoli l’occupazione fu presto contrastata. Il 23 ottobre la guarnigione italiana veniva attaccata dai turchi e dai libici, non soltanto quelli delle tribù del deserto ma anche quelli che abitavano nell’oasi di Tripoli e nella città stessa. Ad attaccare erano almeno in 8.000, ed erano molto motivati. Era un’insurrezione generale, alla quale partecipavano donne e uomini, vecchi e giovani, adolescenti inclusi. La rivolta, quindi, spazzava via 21 ufficiali e 482 soldati di truppa, uccisi nell’oasi, mentre altri venivano ammazzati entro le mura cittadine.

La rappresaglia italiana fu immediata e infinitamente più brutale della violenta ribellione libica. Per le strade di Tripoli iniziò la caccia all’arabo. E tra fucilate e impiccagioni di gruppo (vi è una foto che ritrae 14 ribelli impiccati alla stessa forca nella piazza del Pane di Tripoli) furono assassinate 4000 persone. E non fu che l’inizio, perché presto le forche e le esecuzioni sommarie si sparsero in tutta la Libia.

La descrizione dei difensori libici come traditori

I giornali italiani proponevano titoli gonfi di indignazione e di rabbia per l’ingratitudine libica, definendo la reazione di chi difende le proprie case, la propria terra e i propri cari dall’invasore come «un’insidia», «un tradimento», «un agguato», «un vile attacco» e «un assalto proditorio».

I soldati italiani, infatti, erano stati, sì, orribilmente massacrati, ma occorre considerare che nelle oltre due settimane trascorse dallo sbarco, non soltanto le truppe avevano occupato le case e stravolto la vita degli abitanti di Tripoli, ma non avevano fatto nulla per ingraziarsi la popolazione e proporsi come liberatori. Anzi, come annotò nel diario storico del proprio reparto il maggiore Braganze, i bersaglieri non meno dei fanti si diedero un gran daffare a molestare le donne.

Gli arabi, dunque, avevano reagito all’occupazione italiana in corso con una violenza impressionante. Nell’oasi dove si era svolto l’attacco, tra il Forte Messri e il villaggio di Sciara Sciat, non avevano preso prigionieri. Anzi, le truppe italiane trovarono poi i corpi dei bersaglieri spesso mutilati dei genitali.

Il massacro indiscriminato degli arabi: adulti e bambini, donne e uomini

La reazione italiana, però, fu ancora più brutale e priva di discernimento. Gli arabi, infatti, nel ribellarsi all’occupazione se l’erano presa con i militari e non con quei civili italiani che vivevano e lavoravano a Tripoli. Le nostre truppe, invece, non fecero distinzioni.  La caccia all’uomo si scatenò con una rapidità e una ferocia imprevedibili.

Paolo Valera scrisse:

«I corrispondenti inglesi e tedeschi hanno restituito le loro tessere al generale Carlo Caneva per protestare contro i massacri degli arabi. Tutti loro hanno assistito a scene orribili. Il corrispondente della Westminster Gazzette ha dichiarato che fra 400 cadaveri di donne e di fanciulle e ragazze e fra i 4000 uomini abbattuti dalla gragnuola di piombo non vi potevano essere neppure 100 colpevoli».

Una lunga e sanguinaria «missione di civiltà»

Un anno dopo la fine del conflitto con la Turchia – che, firmando l’armistizio il 18 ottobre 1912, lasciò all’Italia i Vilayet della Tripolitania e della Cirenaica, nonché le isole egee del Dodecaneso -, il Re affermò che quella italiana in Libia era una missione di civiltà. Compito dell’Italia era insegnare i benefici della civiltà alle popolazioni indigene e nel farlo, rispettare le loro proprietà, le loro famiglie, le loro tradizioni e la loro cultura.

I libici, però, continuavano a non apprezzare tali «benefici della civiltà», visto che implicavano una sottomissione a chi, lungi dall’agire come un liberatore, ogni giorno dispiegava una dominazione assai più spietata e oppressiva di quella turca.

Data l’indisponibilità della popolazione locale a sottomettersi, le violenze da parte italiana procedevano, infatti, secondo un’inarrestabile escalation: migliaia di libici vennero condannati a morte come traditori, con sentenze del tutto arbitrarie, e altre migliaia furono deportate nelle colonie penitenziarie italiane – di Ponza, Caserta, Gaeta, Ustica, Favignana e delle isole Tremiti – a morire di freddo, di fame, di abusi e di malattie.

Quando la gestione della questione libica passò nelle mani del governo presieduto da Benito Mussolini – che decise di procedere con ancor più spietata decisione, rispetto ai suoi predecessori, alla riconquista dell’intera Libia, visto che dal dicembre del 1914 era stata in gran parte liberata dall’invasore italiano, costretto dai “ribelli” ad abbandonare le zone interne e a ritirarsi sulla costa -, iniziò una nuova fase, lunga un decennio, di inedite e vergognose atrocità. Tra queste, non mancarono fucilazioni, deportazioni e marce forzate, di oltre 1.000 chilometri attraverso il deserto, verso campi di concentramento impostati e gestiti con il preciso scopo di far morire di fame, maltrattamenti e malattie le migliaia di deportati.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

A. Del Boca, Gli italiani in Libia, Vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1986.
A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005
L. Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi: l’esercito italiano a Tripoli, Roma, Daranews, 1995
N. Labanca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Bologna, Il Mulino, 2011
D. Quirico, Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, settembre 2003,
S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia, 1911/1912, Bompiani, 1977

 

 

[1] Riguardo a Salvemini, su questa rubrica, si è ricordato che fu tra i 12 professori universitari italiani, su 1200, che rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista nel 1931

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