Iniziano le 4 giornate di Napoli il 27 settembre 1943
Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l’eroica difesa dei confini, l’impero. Tenevamo l’impero, mancava il pane, il caffé ma tenevamo l’impero. […] Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo’ basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo’ basta, mo’ basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo’ basta, mo’ basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi.
E. de Luca, “Il giorno prima della felicità”
Tra il 27 e il 30 settembre 1943, la città di Napoli si rese protagonista di un’insurrezione popolare contro l’occupazione tedesca, prima metropoli europea a sperimentare la resistenza in armi al nazismo e a liberarsi prima dell’arrivo degli Alleati anglo-americani.
La memoria delle Quattro Giornate, influenzata da giudizi ideologici e politici, ondeggia tuttora tra retorica e dubbio, tra negazionismo e celebrazione folcloristica: come scrisse il giornalista Pietro Gargano, “nacque il mito degli scugnizzi vittoriosi sui tedeschi, riconoscimento meritato, ma questa versione della storia fu usata con malizia e tolse peso all’importanza corale della ribellione”. La battaglia in realtà durò più di quattro giorni, i caduti furono centinaia, ma un certo stereotipo della napoletanità ha spesso ridotto la rivolta a un “parapiglia”, un’ “ammuina” armata contro un nemico che si stava già allontanando: invece il nemico era ben presente in forze e stava sistemando le mine per far saltare il Ponte della Sanità, l’Acquedotto e altre strutture che furono salvate con i combattimenti.
I diari di guerra della Wehrmacht confermano le dinamiche e la forza dell’insurrezione, così come il gran numero di vittime nei rioni popolari del centro e come l’eterogeneità degli insorti, civili e militari fedeli al neocostituito Regno del Sud, uomini, donne e un nutrito gruppo di “femminielli”, anziani e ragazzini, gente del popolo e antifranchisti reduci dalla Spagna, “sovversivi” già schedati, arrestati o spediti al confino dai Tribunali speciali, antifascisti da mesi all’opera in clandestinità, “sbandati” dell’8 settembre e persino fascisti delusi. Non fu la presunta disgregazione sociale della città a produrre la rivolta, ma la particolare coesione dei quartieri a fornire la struttura di relazioni su cui costruire l’organizzazione militare: un episodio di resistenza autonoma attuata attraverso le strutture informali della società e senza il supporto delle organizzazioni politiche o istituzionali, che in quel momento non erano ancora organizzate.
Il 1° settembre ’43 la città aveva subito l’ultimo grande bombardamento anglo-americano, il 105° in 43 mesi di guerra, per un totale di 22 mila morti, decine di migliaia di feriti, mutilati e dispersi tra la popolazione civile, oltre a centomila appartamenti distrutti. L’armistizio piombò su una Napoli in rovine, semiparalizzata, con l’acqua razionata, i viveri ridotti al minimo, insufficienti per tutta la popolazione, in parte affamata e disoccupata, che trascorreva il maggior tempo nelle grotte e nei rifugi.
Nelle stesse ore in cui veniva annunciato l’armistizio, la notizia dello sbarco alleato a Salerno contribuì a creare il clima propizio alla rivolta, ma le autorità militari rifiutarono di consegnare le armi ai rappresentanti dei partiti antifascisti per organizzare la difesa, né seppero dare direttive ai subalterni, e addirittura i generali Pentemalli e Del Tetto, responsabili militari della provincia, si diedero alla fuga.
L’occupazione tedesca della città non avvenne pacificamente, con numerosi episodi di resistenza in armi; il 12 settembre, dato il rallentamento dell’avanzata degli Alleati, i tedeschi sospesero i preparativi per la ritirata e instaurarono col terrore il loro pieno dominio sulla città. Un corriere da Berlino aveva infatti portato l’ordine di non lasciare la città e, in caso di avanzata degli Alleati, di non abbandonarla prima di averla ridotta “in cenere e fango”: proprio a Napoli il nazismo manifestò in anteprima la brutalità che avrebbe in seguito caratterizzato le fasi successive della lenta risalita tedesca verso nord.
Il colonnello Walter Scholl, assunto il comando delle forze occupanti, proclamò il coprifuoco, impose la consegna delle armi e dichiarò lo stato d’assedio, con l’ordine di giustiziare tutti coloro che si fossero resi responsabili di azioni ostili alle truppe tedesche, in ragione di cento napoletani per ogni tedesco eventualmente morto.
Furono uccise decine di militari italiani per le strade, spesso costringendo la popolazione rastrellata ad assistere, mentre circa 4.000 persone furono deportate in lunghe colonne dirette ad Aversa; i nazisti saccheggiarono e rasero al suolo, assaltarono le caserme, incendiarono l’Università (noto centro dell’antifascismo), operarono la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli; tra il 23 e il 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto, sgomberate per creare una “zona militare di sicurezza” fino a 300 metri dal mare, che sembrava preludere alla distruzione del porto. La città sconvolta era alla fame, il gas non c’era più, l’acqua mancava, per dissetarsi i cittadini dovevano ricorrere a pozzi sporchi e infetti o arrivare sino alla periferia; sotto le macerie e per le strade giacevano i cadaveri insepolti. Le malattie aumentavano, l’epidemia minacciava.
La goccia che fece traboccare il vaso fu l’ordine “per il servizio obbligatorio al lavoro nazionale” emanato dal prefetto Soprano, in esecuzione della decisione di Kesserling di deportare i lavoratori in Germania. I primi contingenti di giovani avrebbero dovuto presentarsi il 25, ma i posti di raccolta restarono deserti; il Comando tedesco fece affiggere sui muri della città e pubblicare sul giornale la minaccia d’immediata fucilazione per coloro che non si fossero immediatamente presentati.
Il 27 settembre, dopo un’ampia retata dei tedeschi che catturarono in vari punti della città circa 8.000 uomini, 4-500 napoletani aprirono i combattimenti, con le armi accumulate in segreto nei giorni precedenti; una delle prime scintille della lotta scoppiò al quartiere Vomero, attecchendo subito in tutta la città, dapprima in focolai isolati, poi con carattere sempre più unitario; molte le vittime, molti gli episodi di eroismo. Per quattro giorni, i napoletani scelsero la lotta aperta, imbracciarono le armi, eressero barricate, lanciarono bombe, tesero agguati, costringendo le truppe tedesche alla resa, alla fuga. Artisti, poeti, scrittori, ufficiali dell’esercito italiano e antifascisti si unirono agli insorti. Anche l’episodio risolutivo ebbe luogo al Vomero, con la presa del presidio tedesco e il conseguente scambio di ostaggi, autentica umiliazione per il Comando superiore germanico di Scholl.
Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuarono i combattimenti e le ritorsioni degli ex occupanti: ancora il l° ottobre, questi aprirono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un’ora prima dell’entrata dei primi carri armati anglo-americani nella città liberata. Costretti alla fuga, i nazisti sfogarono la rabbia a San Paolo Belsito, presso Nola, dando fuoco all’Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.
Il bilancio dell’insurrezione napoletana: secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano, i combattenti furono 1589; 152 i caduti tra essi (168 secondo altre fonti), 140 vittime tra i civili, 162 feriti, 75 invalidi permanenti, 19 caduti non identificati; tuttavia, in base alla relazione del sacerdote patriota Antonio Bellucci, “gli uccisi dai tedeschi – come risulta dal registro del cimitero di Poggioreale – fra militari, civili, uomini e donne di ogni età furono 562”. L’elenco delle perdite continuò ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.
Nel dopoguerra, oltre alla medaglia d’oro al valor militare alla città di Napoli, furono conferite 4 medaglie d’oro alla memoria ad altrettanti “scugnizzi” caduti nei combattimenti, 10 d’argento, 7 di bronzo e altre onorificenze al valore.
Finiti i bombardamenti, le granate, i morti e il terrore, persino il Vesuvio, dopo una tremenda eruzione coincisa proprio con le quattro giornate, smise di fumare. “S’è levato ‘o cappiell”, dissero i napoletani, interpretandolo come segno di saluto alla rinascita da lungo attesa.
Silvia Boverini
Fonti:
www.anpi-lissone.over-blog.com;
E. De Luca, “Il giorno prima della felicità”, Feltrinelli;
www.storiaxxisecolo.it;
G. Gribaudi, “Napoli, la prima città insorta contro i nazisti”, 27/09/2011, Il Mattino;
E. Puntello, “Quattro Giornate di Napoli, non fu «ammuina» ma azione preparata”, https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it;
G. Aragno, “Le Quattro Giornate – Storie di antifascisti”, Intramoenia
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