Giorgio Ambrosoli fu ucciso l’11 luglio 1979 per ordine di Michele Sindona
L’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Finanziaria di Michele Sindona, fu ucciso la sera dell’11 luglio 1979 da un killer ingaggiato dallo stesso Sindona. Aveva 45 anni. Si era sposato quindici anni prima, con Anna Lorenza Gorla. Avevano tre figli, di undici, dieci e otto anni.
Era stato nominato liquidatore della banca di Sindona, dall’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, nel settembre del ’74 e aveva scoperto un verminaio.
Scoprì, infatti, che, oltre a profilarsi un crac multimiliardario e ad esservi gravi irregolarità e falsi nella contabilità, nella banca si nascondeva un sistema di scatole cinesi di società controllate.
Dalla parte di Sindona e del suo piano di salvataggio della banca, a carico dei contribuenti, e contro l’attività di liquidazione e le indagini di Ambrosoli, si schierarono una parte della Democrazia Cristiana, incluso e in primis Giulio Andreotti, pezzi della finanza internazionale, Licio Gelli e la loggia P2, di cui faceva parte lo stesso Sindona: la sua tessera era la numero 0501 (a proposito della P2 si rinvia al post Il 23 settembre 1981 è istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, pubblicato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi).
Benché sottoposto a pressioni terribili (tentativi di corruzione e minacce incluse, tra le quali le telefonate anonime, che si scoprì erano fatte dal massone Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate), non trovò che l’appoggio di Ugo La Malfa, a livello politico, e del maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che gli faceva, volontariamente, da guardia del corpo. Infatti, sebbene fosse stato oggetto di minacce di morte, ad Ambrosoli non era stata accordata alcuna protezione da parte dello Stato.
Nel suo lavoro poté contare, sì, sul sostegno di Paolo Baffi, divenuto Governatore della Banca d’Italia, e di Mario Sarcinelli, capo dell’Ufficio Vigilanza (che già aveva respinto il progetto di salvataggio della banca di Sindona elaborato dal senatore Gaetano Stammati, che era affiliato alla loggia P2 e dall’onorevole Franco Evangelisti), ma solo fino al marzo del 1979, allorché entrambi vennero accusati di favoreggiamento personale e interesse privato in atti d’ufficio, nell’ambito di un’indagine sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito in relazione al caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano. Entrambi furono poi integralmente prosciolti in istruttoria nel 1981. Ma, nel frattempo, Baffi si era dimesso il 16 agosto 1979 (gli subentrò Carlo Azeglio Ciampi) e Sarcinelli era stato arrestato.
Il 25 febbraio del ’75 Ambrosoli aveva scritto una lettera alla moglie, che tutti chiamavano Annalori:
«È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese».
All’incirca quattro anni e quattro mesi dopo, la sera prima di firmare una dichiarazione formale relativa alla chiusura del suo lavoro di liquidatore, mentre si trovava davanti al portone di casa, il killer italo-americano William Joseph Aricò, pagato da Sindona, lo chiamò per nome, si scusò e gli sparò 4 colpi.
Sindona fu condannato dal tribunale federale di Manhattan a 25 anni di carcere, per 65 capi d’accusa, tra cui false dichiarazioni bancarie, appropriazione indebita di fondi bancari, frode e spergiuro. Il governo italiano, però, ottenne dagli USA l’estradizione perché Sindona potesse essere partecipare al processo per l’assassinio di Giorgio Ambrosoli.
Il 16 marzo 1985 Sindona venne condannato a 12 anni di prigione per frode e il 18 marzo dell’anno dopo fu condannato all’ergastolo quale mandante dell’omicidio Ambrosoli. Due giorni dopo ingerì del caffè al cianuro di potassio nel supercarcere di Voghera e in conseguenza di questo avvelenamento morì il 20 marzo 1986. La sua morte fu archiviata come suicidio.
Alberto Quattrocolo
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