La mediazione come spazio di confronto
Contro la “retorica del dialogo”: la mediazione come spazio di confronto.
“Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso”. M. D’Alessandro
Generalmente intendiamo con il termine dialogo un discorso fra due o più persone che miri a un’intesa. Tant’è che aprire un dialogo fra parti contrapposte indica il tentativo di persone disposte a ragionare con l’intento di raggiungere una verità o un’opinione condivisa: quando infatti si utilizza l’espressione “tra noi manca il dialogo”, indichiamo il fatto che ognuno resti della propria opinione. Escludendo la poesia o il teatro dove si fa genere il dialogo, nasce con Platone per l’esigenza di presentare drammaticamente il processo di disvelamento e di conquista della verità, attraverso il contrasto di opinioni contrapposte.
Il fine del dialogo in generale, sia che si instauri tra due persone o gruppi reali sia che venga utilizzato come strumento retorico per trattare un tema, è trovare un’intesa o percorrere una strada concettuale che abbia come fine la scoperta della verità. Il dialogo trae la propria legittimazione dalla sua ripetibilità, dal suo dover render conto e nel suo tentativo di trovare l’intesa[2].
Se il dialogo presuppone un concetto di verità, il confronto prevede, invece, che ci sia il reciproco presentarsi di due punti di vista a cui viene offerta la possibilità sia di un incontro sia di uno scontro, sia di una convergenza sia di una divergenza.
Se definiamo la mediazione a partire dal concetto di prassi, essa non può essere un semplice agire tecnico-strumentale (cioè un mezzo in vista di un fine come prodotto)[3]. La razionalità dialogica dovrebbe intervenire per escludere la possibilità dell’inganno di molti da parte di uno o anche di un inganno tutti assieme: l’equiparazione dei ruoli e la regolazione del dialogo hanno la funzione di consentire la conduzione del discorso dialogico eliminando la possibilità del perseguimento di scopi particolari. Ma questa forma di conduzione dell’agire necessita di condizioni ideali che assicurino la correttezza del dialogo. Nel quadro del dialogo, in sostanza, si fa sentire il problema dell’inganno sofistico e l’appello alla serietà diventa impotente di fronte alle forme dell’inganno sistematico.
Le teorie che si rifanno al dialogo socratico per questo motivo risultano insufficienti per delineare e fondare un concetto di prassi e, dunque, anche della prassi della mediazione. Il dialogo ha, perciò, solo uno scopo rischiaratore che risulta preliminare e non fondante la prassi mediativa stessa. La tecnicizzazione di un ambito prevede il riconoscimento di una regolarità in una serie di eventi, o un gruppo di cose, e la sua conseguente assunzione a norma regolatrice.
Questo punto di vista fa emergere la critica a qualunque «normativismo» o «costruttivismo» che concepisca la realtà etico-morale a partire da valori che pretendano una universalità a priori e a cui la ragione debba conformarsi. Ciò che viene messo in discussione è in sostanza se esistano valori a priori e se la ragione sia una facoltà tale che possa riconoscerli e che abbia la possibilità di adeguare il reale al razionale.
Nel riconoscimento degli interessi in gioco il dialogo acquista dunque il proprio diritto solo come metodo rischiaratore ma va evitato che il dialogo «dispieghi una forma autonoma di razionalità», la quale viene poi erroneamente presa per la razionalità che spetta all’agire e viene calata sulla prassi per il tramite del dialogo.
Il dialogo che avviene nel processo mediativo ha dunque funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.
Contro la “retorica del dialogo” come tentativo di ripristinare intesa e comunicazione fa da contraltare la mediazione come spazio di confronto in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione. Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.
Se la mediazione pretende di non cadere nell’inganno sofistico di ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti deve dunque favorire il confronto ma non utilizzare tecniche o strategie che favoriscano forzatamente il dialogo.
Per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, è necessario che si separino i concetti di obiettivo e speranza[4]. L’obiettivo della mediazione è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dai mediatori, la speranza, invece, è che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.
Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.
Maurizio D’Alessandro
[1] In quest’articolo si cercherà di approfondire alcuni temi trattati in un precedente lavoro, cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sostenibile vol. VIII, (pag. 273-286), Aracne, Roma, 2015.
[2] Cfr., H.G. Gadamer, Studi platonici I, II, tr. it. di G. Moretto, Marietti, Genova, 1983, si veda in particolare il saggio Etica dialettica di Platone, pp. 25-35.
[3] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit. e M. D’Alessandro, Ermeneutica, ontologia, prassi e conflitto, in C. Ciancio – M. Pagano (a cura di), Religione e ontologia. Studi in onore di Marco Ravera e Ugo Ugazio, Aracne, Roma 2013.
[4] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit., p. 286.
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