Dove eravamo
Dove eravamo quando…?
Dove eravamo quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001? Tutti ce lo ricordiamo. Dove eravamo il 16 marzo 1978, quando in via Fani, a Roma, fu sequestrato Aldo Moro, oppure quando saltò in aria la stazione di Bologna e quando vi fu la strage di Ustica? Tutti coloro che erano abbastanza grandicelli per capire se lo ricordano. Dove eravamo quando fu ucciso, a Dallas, il 22 novembre del 1963, il presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy? E quando, cinque anni dopo, furono assassinati suo fratello Robert e un paio di mesi prima, il 4 aprile del ’68, il reverendo Martin Luther King, premio Nobel per la pace? Tutti gli americani e molte persone nel mondo se lo ricordano. Dove eravamo quando Neil Armstrong fece un piccolo passo per un uomo ma un grande balzo per l’umanità o quando il “rivoltoso sconosciuto” in piazza Tienanmen fronteggiava i carri armati? Tutti se lo ricordano.
Certi momenti coinvolgono tutti
Certi momenti ci coinvolgono tutti a prescindere dal luogo in cui avvengono. Si fissano nella memoria collettiva. E quando si tratta di fatti di sangue, feriscono e offendono su larga, larghissima, scala. Quando, il 6 gennaio del 1980 un killer mafioso assassinò il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, quando, il 3 dicembre ’82, nella strage di Via Carini, a Palermo, furono uccisi da killer mafiosi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, oppure quando il 30 aprile dello stesso anno Cosa Nostra uccise Pio La Torre e Rosario di Salvo, tutti gli italiani si sentirono coinvolti. Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio ci ammazzarono un po’ tutti. Dove eravamo in quel 23 maggio e in quel 19 luglio del ’92? Anche se non lo ricordiamo esattamente, rammentiamo bene quel che provammo. L’angoscia, il dolore, la rabbia, l’orrore, l’impotenza. Dove eravamo? In realtà, eravamo là, in quell’isola che sanguinava per conto di tutta l’Italia. Eravamo là, anche se distanti centinaia o migliaia di chilometri. Ci sentivamo là. Eravamo vicini con la mente e con il cuore.
Dove eravamo quando il piccolo Alfredino Rampi era imprigionato nel pozzo e cercavano di salvarlo? È facile rispondere: eravamo davanti alla TV. Angosciati, trepidanti e infine tristissimi. Addolorati e commossi, eravamo lì.
Dove siamo ora?
Dove siamo ora che tanti piccoli Alfredini muoiono nel grande pozzo del Mediterraneo o nel pozzo deserto del Sahara? Siamo altrove. Perché? Perché per noi quei bambini non sono Alfredino. Sono numeri. Quei bambini, quelle donne, quegli uomini non sono che una cifra, dei non-soggetti. Dei non-umani. Dove eravamo? Forse ce lo chiederemo tra 15 o 20 anni, magari di meno. Non c’eravamo.
Perché? Perché per noi non c’erano quei bambini, quelle donne, quegli uomini. Non c’erano mai stati. Se per noi ci fossero stati, se per noi fossero esistiti, in quel lontano, ma forse non così lontano, 2017 (dall’inizio dell’anno 2.542 migranti hanno perso la vita nel viaggio verso l’Europa e, di questi, 2.369 nel Mediterraneo Centrale tra il Nord Africa, la Libia e l’Italia), noi ci saremmo stati per loro. Li avremmo sentiti come persone e non come migranti e basta. Li avremmo sentiti come esseri umani in carne e ossa, con un cuore e un cervello, e non come una massa di alieni, come una seccatura o un’intrusione.
In tanti, in troppi, eravamo altrove
Ma dove eravamo nel 2017 o nel 2015, oppure nel 2013? In tanti, in troppi, eravamo altrove.
Eravamo stati vicini ai cecoslovacchi durante “la primavera di Praga” e, ancor più che vicini, pieni di indignazione e magone, quando i carri armati sovietici la schiacciarono. Eravamo stati vicini agli ungheresi nel ‘56 e poi eravamo stati solidali con Lech Walesa e Solidarność.
Condannavamo il Muro di Berlino ed eravamo vicini ai tedeschi della Germania Orientale quando tentavano di scavalcarlo (in circa 20 anni 133 furono le persone uccise dalla polizia di frontiera della DDR mentre tentavano la fuga).
Ma non eravamo altrattanto vicini ai 360 in fuga dall’Eritrea, cioè dal regime dittatoriale di Isaias Afewerki, che persero la vita nel naufragio del 3 ottobre 2013 a poche miglia da Lampedusa (368 morti acclarati e circa 20 dispersi). E, l’11 ottobre dello stesso anno, temo, ci sentimmo solo un po’ vicini ai 268 siriani morti affogati (tra questi 60 erano bambini). Eppure anche costoro erano in fuga da un regime non meno odioso di quello comunista della Repubblica Democratica Tedesca o degli altri stati appartenenti al Patto di Varsavia. Anzi, la situazione della Siria è senza dubbio più tragicamente sanguinosa di quella della Germania comunista.
Je suis Charlie, dicevamo anche noi. E ci siamo sentiti vicini alle vittime, e ai loro famigliari, di tutti gli attacchi terroristici commessi in Europa. Ma la strage di Nassiriya del 14 settembre di quest’anno, costata la vita a più di 80 persone, non figura nelle prime pagine di molti giornali.
Tutt’altro che indifferenti siamo stati rispetto alla sofferenza e poi alla morte del piccolo Charlie Gard, avvenuta a fine luglio di quest’anno, ma lo siamo rispetto ai più di 200 bimbi morti nel Mediterraneo nel 2017.
Avevamo i nostri guai
Potremmo tentare di giustificarci dicendo che stavamo lavorando o che stavamo cercando lavoro. Che c’era la Crisi. Che tenevamo famiglia. Che non è possibile essere ovunque e sentirsi vicini a tutti. Potremmo dire che avevamo i nostri guai. E sarebbe tutto vero.
Ma quante volte, pur tenendo famiglia, pur essendo occupati, o disoccupati in cerca di lavoro, pur presi da un bel po’ di guai, ci siamo stati per gli altri, per quelli più inguaiati di noi? Tante volte. E in molti casi siamo stati vicini non soltanto con le emozioni, ma anche con il corpo. Durante e dopo tante catastrofi ci siamo stati per coloro che soffrivano, morivano o erano morti. Abbiamo spalato fango da strade, case e negozi di altre città, abbiamo levato macerie di case non nostre. Abbiamo cercato superstiti, dispersi e morti sconosciuti. Abbiamo organizzato o partecipato a raccolte fondi.
Dove eravamo in quei casi? C’eravamo? Sì, eccome.
Forse si potrebbe iniziare a vederci e a sentire un po’ di più
Nel 2027 o nel 2032, i nostri figli, neonati e bimbi di oggi, saranno adolescenti, e forse ci chiederanno dove eravamo dieci o quindici anni prima. Cioè, in quegli anni di annegamenti, sfruttamenti, torture, tratte, campi profughi, campi di concentramento e crimini vari contro l’umanità. Sarebbe meno pesante, allora, meno schiacciante come responsabilità, poter rispondere: «Dapprima, per un bel po’ di anni, non ci siamo stati. Non li sentivamo come esseri umani, ma come alieni, come cose ingombranti. Non li volevamo vedere. Non li volevamo sentire. Poi, è capitato che, guardandoci in faccia, non ci siamo più piaciuti un granché. E non ci piaceva quello che veniva fatto, detto e scritto da alcuni politici e da tanti elettori[1]. Guardando te, che eri un affarino così piccolo, forte e indifeso allo stesso tempo, a me, per esempio, è scattato qualcosa dentro. Ho pensato che non volevo lasciarti lo stesso mondo in cui stavo vivendo. Così, poi, in qualche modo, a ciascuno per motivi forse anche molto personali, è successo di aprire gli occhi. E li abbiamo sentiti come esseri umani. Allora abbiamo agito come esseri umani. E ci siamo sentiti degli esseri umani».
E poi cos’è successo?
«Cosa avete fatto?», potrebbe chiederci nostra figlia o nostro figlio.
Forse risponderemo: «Cose piccole. Abbiamo iniziato a disapprovare esplicitamente chi faceva discorsi razzisti. Abbiamo detto che non parlavano a nostro nome coloro per i quali i migranti andavano scacciati con le ruspe o ricacciati in mare. Abbiamo anche inviato alcune decine di milioni di mail ai nostri sindaci e ai presidenti regionali, al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e ai Presidenti della Camera e del Senato, scrivendogli che per noi i migranti non erano marziani ma esseri umani e che pretendevamo che come tali fossero rispettati ».
«Tutto qua? ».
«Be’, sembra poco ma non lo è. Ma, sai, la cosa più importante è che abbiamo iniziato a interessarci davvero e a tentare di capire in che mondo viviamo. Abbiamo cercato di vedere i collegamenti tra i fatti che accadono».
«E cosa avete capito?».
Abbiamo capito dove eravamo
«Non tutto, ma alcune cose, forse, sì. Ad esempio, che le sofferenze, le diseguaglianze, la disoccupazione e le ingiustizie sociali non c’entravano nulla con gli sbarchi e con la presenza degli stranieri. Che, quando la coperta è corta, occorre accertarsi del fatto che davvero non basti a scaldare tutti e che, se è davvero così corta, occorre capire perché lo è e non bisogna spingere l’altro fuori al freddo, ma semmai procurarsi una coperta più grande.
«Tutto qui?».
«No, abbiamo anche pensato che quelli che ci dicevano che i migranti andavano respinti e aiutati a casa loro trascuravano di dirci che sarebbe già stato importante non fregarli a casa loro, magari in nome di irragionevoli ragioni di Stato. Ci è venuto il dubbio, infatti, che, forse, forse non occorrerebbero grossissimi aiuti se si smettesse di fregarli a casa loro. E se si smettesse di fare affari e appoggiare quelli che li fregano. Affari che, poi, sul lungo periodo, sono davvero pessimi per tutti».
«Ci avete visto chiaro finalmente?».
«Insomma, più che altro abbiamo iniziato a vedere le cose nella loro complessità. Abbiamo riconosciuto con quanti e quali incantesimi eravamo stati distratti, manipolati e ingannati. E abbiamo riconosciuto quanto eravamo noi stessi corresponsabili di queste distrazioni, di questi inganni e di queste manipolazioni».
«Ok, ma, poi, cos’è successo?».
Ci siamo ricordati dei nostri valori
«Poi non ci sono più state ragioni, cioè scuse, per trattarli come criminali o, ancora peggio, come rifiuti da smaltire. Ci siamo ricordati dove vivevamo, cioè dei nostri principi e di quanto c’era voluto, quanto s’era lottato perché si affermassero».
«Quali? ».
«Quelli scritti nella Costituzioni, ad esempio. Cioè, che tutti gli uomini sono uguali e meritano di essere rispettati. Che sono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo e che la Repubblica concede l’asilo a tutti coloro che provengono da posti in cui non sono garantite quelle libertà democratiche che sono garantite nel nostro Paese. E che a tutti è richiesto l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
«E quindi?».
«Quindi le cose sono cominciate a cambiare. A cambiare davvero».
«In meglio?».
«Beh, questo dimmelo tu».
Alberto Quattrocolo
[1] Altrove ho parlato di nazionalrazzismo e di socialrazzismo.
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