Propaganda nazionalrazzista e Welfare
Secondo la propaganda nazionalrazzista la principale causa dell’inadeguatezza dello stato sociale è il fenomeno migratorio.
Il trasformare i migranti in capri espiatori e il demonizzare coloro che ne riconoscono l’umanità come se fossero traditori e corrotti, attraverso campagne di odio variamente sviluppate, sembrano costituire aspetti centrali della propaganda nazionalrazzista (in un altro post avevo definito nazionalrazziste quelle organizzazioni che svolgono una politica tesa a stimolare e manipolare la rabbia e la frustrazione degli italiani, in particolare, di chi soffre per il disagio sociale, sollecitando paura e odio per i migranti).
Si tratta di una strategia che pare funzionare assai bene dal punto di vista dell’acquisizione del consenso, stando almeno ai sondaggi di ieri (2016) e di oggi (anche se alcuni importanti partiti o movimenti nazionalrazzisti presenti in Europa non hanno brillato particolarmente in alcune recenti consultazioni elettorali).
Del resto, dopo oltre dieci anni di crisi economica (non va scordato che è iniziata in realtà già nel 2008, per poi esplodere nel 2011) e dopo circa tre decenni di progressiva riduzione delle garanzie sociali, non è così sorprendente che possa funzionare.
Molto spesso si è rivelata efficiente ed efficace nella lotta politica l’identificazione di un nemico determinato, ben visibile, su cui stimolare la proiezione di rabbie e frustrazioni, senso di impotenza e delusioni, senso di ingiustizia e di insicurezza, paura e angoscia.
Com’è noto, del resto, funzionò perfettamente tale operazione in Germania, permettendo ad Adolf Hitler di andare al potere e di esercitarlo su quasi tutta l’Europa. Il nazionalsocialismo tedesco scelse come nemici del popolo, descrivendoli come colpevoli delle sue sofferenze, gli ebrei, i comunisti, i socialdemocratici, i democratici e i liberali.
Oggi, secondo la propaganda nazionalrazzista, tra i principali fattori causali del disagio sociale, e pertanto tra i principali nemici, vi sono i migranti e coloro che li rispettano in quanto esseri umani.
La superficialità della propaganda nazionalrazzista sui temi sociali
Impressiona il livello di superficialità della propaganda nazionalrazzista sulle questioni relative allo stato sociale. Tra le cause del disagio non vi sarebbe la crescita delle diseguaglianze, che, come spiega l’Istat, rende i pochi ricchi ancora più ricchi, impoverisce la classe media, e aumenta drammaticamente il livello di povertà, ma il fenomeno migratorio. Cioè, sarebbero i più poveri ad impoverire ed emarginare i meno poveri.
Pare, inoltre, che l’interesse nutrito dal nazionalrazzismo per il Welfare sia più fumo che arrosto. E ciò, in qualche modo segna una differenza tra i nazionalrazisti e i socialrazzisti.
In un precedente post avevo proposto tale definizione per coloro, che non solo temono, ma addirittura odiano i migranti e palesano tale sentimento con particolare violenza, in vari modi, a partire dai social, ritenendoli una minaccia non solo per la loro sicurezza ma anche per la conservazione dello stato sociale: per i socialrazzisti eliminando i migranti le garanzie dello stato sociale sarebbero assicurate e perfino rinforzate per gli italiani. I socialrazzisti sono persone su cui la propaganda nazionalrazzista punta molto per incrementare i suoi consensi, estendendoli al di fuori della cerchia dei razzisti da sempre.
La parzialità nella propaganda nazionalrazzista sullo stato sociale.
Un tema su cui costantemente insiste la propaganda nazionalrazzista è quello dell’incidenza dei migranti sulla spesa sociale. Si tratta di una clamorosa distorsione della realtà. Infatti, a seconda del metodo di calcolo, nell’ultimo anno per cui si ha il dato, il 2014, come spiega il Dossier statistico immigrazione, il gettito fiscale e contributivo versato dagli immigrati in Italia è superiore di 1,8 o di 2,2 miliardi di euro rispetto alla spesa pubblica destinata all’immigrazione[1].
Naturalmente la propaganda nazionalrazzista si guarda bene dal fare osservare che le principali voci di spesa pubblica italiana sono sanità e pensioni, che sono rivolte principalmente alla popolazione anziana, che è italiana[2].
Secondo la propaganda nazionalrazzista, poi, gli immigrati rubano il lavoro. Questa “teoria” non tiene conto di alcuni particolari: i 2,3 milioni di occupati stranieri (pari al 10,8% degli occupati totali) si concentrano in pochi settori e professioni scarsamente qualificate (soprattutto come personale non qualificato nei servizi domestici e di cura e come operai edili) e non paiono avere grosse chances per crescere[3]. Il fatto è che per gli immigrati il permesso di soggiorno è legato al lavoro, perciò devono lavorare e non possono essere selettivi nella loro ricerca lavorativi. E ciò concorre a creare non pochi effetti discriminatori[4]. D’altra parte, non possono permettersi di rimanere inattivi, non avendo altri redditi, né supporto familiare.
Anche la retorica secondo la quale “tolgono la casa” agli italiani va messa in discussione: la propaganda razzista, tutta presa dall’esaltare la “concorrenza” degli immigrati su questo bene scarso, tralascia di spiegare che “la casa” si assegna in base a condizioni socio-economiche di oggettivo bisogno[5].
La natura contraddittoria dello stato sociale nella propaganda nazionalrazzista
Del resto il nazionalrazzismo è in sé alquanto incompatibile con i valori a fondamento dello stato sociale configurato dalle democrazie liberali moderne. Libertà, uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale, anche nei termini di pari opportunità, sono principi per la cui realizzazione effettiva è stato concepito lo stato sociale. E il suo fine è perseguire l’integrazione e l’inclusione nella società di tutti, nessuno escluso.
Il nazionalrazzismo, invece, ripudia proprio l’integrazione e l’inclusione. E la stessa idea di tutela o ricostruzione del legame sociale, alla base delle politiche sociali delle liberal-democrazie, è ammessa dal nazionalrazzismo soltanto nella prospettiva di una solidarietà riservata ai membri della nazione.
Così, la crisi del senso di appartenenza alle istituzioni che pervade grande parte della popolazione, viene nel nazionalrazzismo ad essere sfruttata proprio nella sua matrice di sofferenza sociale, ma non per rimediarvi, bensì, per rimpiazzarla con un nuovo sentimento di appartenenza: quello alla nazione. All’interno di questa, peraltro, anche la solidarietà sociale perde la sua connotazione di diritto e di dovere.
Quelli proposti dalla propaganda nazionalrazzista più che diritti sociali sembrano privilegi
Infatti, quale stato sociale è quello in cui i diritti sociali sono riconosciuti solo ad alcuni e non ad altri in analoghe o peggiori condizioni di disagio? Quale stato sociale è quello in cui si afferma l’idea che non si deve salvare la vita di un uomo, una donna o un bambino che stanno affogando solo perché non appartengono alla nazione? Che tipo di stato sociale è quello che non si connette con i diritti civili e politici?
La risposta a tali quesiti è che non è uno stato sociale. Non lo è nel senso della nostra Costituzione. È, invece, un insieme di privilegi accordati strumentalmente per incrementare o per conservare il consenso popolare.
L’abbiamo già visto in tante, troppe, esperienze di totalitarismo di sinistra e di destra. Si chiamavano diritti sociali, ma erano qualcosa di diverso, poiché i diritti o sono per tutti o non sono. Altrimenti si tratta non di diritti ma di privilegi concessi in virtù di politiche discriminatorie, una sorta di grotteschi premi-fedeltà. Non è a questo tipo di stato sociale che pensavano i nostri padri costituenti quando scrivevano la Costituzione. Infatti, si legge nell’art.2 che la Repubblica non soltanto garantisce i diritti inviolabili dell’uomo ma “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Quando si esclude un gruppo dal sistema del Welfare si creano le premesse per escluderne poi altri
D’altra parte, la politica nazionalrazzista di esclusione del migrante da ogni forma di solidarietà, nel caso in cui vi fosse un governo nazionalrazzista, potrebbe tranquillamente essere seguita da una riduzione dei diritti sociali per altre categorie di persone domani.
Nel momento in cui si dà il via alla discriminazione, nel momento in cui la si legittima, la diga può dirsi crollata per sempre.
Se quest’anno viene negato ogni tipi di sostegno sociale ai rifugiati e ai richiedenti asilo, l’anno venturo potrebbe toccare alle persone LGBT, alle coppie di fatto o a quelle che hanno meno di due figli: quest’ultima ipotesi richiama qualcosa di già visto nel ventennio fascista. Ma le altre ipotesi sono meno fantasiose di quanto possa apparire a prima vista. Specie, considerando la visione rigidamente conservatrice dei costumi che spesso il nazionalrazzismo esprime (una recente notizia del sindaco di Pontida pare andare decisamente in tale direzione)
La “storica” scarsa attenzione allo stato sociale delle organizzazioni nazionalrazziste
Forse la mancata accuratezza della discussione sui temi dello stato sociale, seriamente inteso, da parte dei nazionalrazzisti potrebbe avere avere “radici storiche”. Infatti, alcune forze nettamente nazionalrazziste e altre che lo sono di meno (ma spesso senza remore cavalcano la propaganda nazionalrazzista) fino a 4 o 5 anni fa sostenevano convintamente la teoria “più mercato, meno stato”. E per “meno stato” intendevano esplicitamente dire: “meno stato sociale”.
Una parte dei nazionalrazzisti di oggi, che si dicono preoccupati per gli effetti dell’immigrazione sul Welfare, quindi, fino a ieri proponevano in campagna elettorale e realizzavano, quando erano al governo, una politica di tagli (lineari) alla spesa sociale. Banalizzavano le teorie keynesiane e demonizzavano chi ne richiamava l’attualità, definendoli “partiti delle tasse”, del “più stato e meno mercato”[6].
Sembra, quindi, poco probabile che non soltanto vi sia, nella prospettiva del nazionalrazzismo, un’idea di politica sociale corrispondente ai bisogni e alle dinamiche della società attuale, ma anche una corrispondenza con quanto, magari pure in termini informi, in termini di attese e di preoccupazioni è al centro del socialrazzismo.
La capacità di condizionamento politico della propaganda nazionalrazzista
Se il nazionalrazzismo è rinvenibile in termini integrali in precisi movimenti e partiti politici, la capacità di condizionamento politico della propaganda nazionalrazzista va ben oltre. In particolare, sembra che riesca ad incidere sui temi dello stato sociale, dei diritti civili e della sicurezza.
Mi pare che comportamenti e politiche di ispirazione nazionalrazzista siano riscontrabili anche nei partiti per i quali il razzismo è un odioso disvalore. Un ruolo non irrilevante probabilmente è giocato dall’influenza del crescente socialrazzismo,
Un esempio è fornito dalla presa di posizione della sindaca di Podigoro. Ma altri esempi possono rivenirsi all’interno delle polemiche interne allo stesso Consiglio dei Ministri tra il ministro Minniti e il ministro Delrio e di quelle tra il primo e il ministro Orlando, ma vi sono state anche quelle tra Marco Minniti e il sindaco di Firenze, Dario Nardella, e ancora tra il Ministro dell’Interno e Gino Strada.
Quella di Podigoro pare essere una di quelle situazioni in cui la leadership politica non ascolta la pancia dei cittadini per coglierne paure e rabbie, per elaborarle e per poi parlare alla loro testa. Sembra uno di quei casi in cui l’azione politico-amministrativa è direttamente condizionata dalla pancia dei cittadini (si possono considerare al riguardo i pensieri sviluppati in un altro post)[7].
Episodi come quelli di Podigoro, le esitazioni in seno alla maggioranza di Governo relative al disegno di legge sul cosiddetto Ius Soli temperato[8], l’astensione del Movimento Cinque Stelle, la contrarietà di Forza Italia e gli attacchi delle altre opposizioni di destra, insieme alle tante polemiche sull’operato delle imbarcazioni delle ONG, procurano una forte impressione circa la reale influenza della propaganda nazionalrazzista. Un’impressione ancor più forte di quanto non sia quella derivante dai sondaggi.
Alberto Quattrocolo
[1] È vero che la spesa per il welfare e i costi sociali dell’integrazione sono sostenuti principalmente a livello locale (casa, sanità e asili nido), mentre il gettito fiscale e quello contributivo (con l’eccezione dell’Irpef regionale e comunale), essendo destinati a livelli centrali risultano meno rilevabili a livello locale, ma occorre tenere presente che anche quando la propaganda nazionalrazzista denuncia una presenza eccessiva di stranieri nelle strutture sanitarie, trascura di segnalare che l’80 per cento della spesa sanitaria è rivolta agli anziani, cioè ad italiani.
[2] Se si sommano le diverse voci (sanità, scuola, servizi sociali, casa, giustizia, accoglienza e rimpatri e trasferimenti economici) del 2014 si arriva a 14,7 miliardi di euro, pari a circa l’1,8 per cento del totale della spesa pubblica italiana, di tali quasi 15 miliardi la spesa relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo (che rientra all’interno della voce “ministero dell’Interno”, e che include non soltanto l’accoglienza, ma anche i rimpatri e la lotta all’irregolarità) ammontava in quell’anno 1 miliardo di euro. Importo aumentato a oltre 3 miliardi a seguito dell’aumento degli sbarchi nel 2015 e 2016 (e a oltre 4 miliardi, nel 2017), ma questi sono in corso di ridimensionamento nella seconda parte del 2017. Ora, dando un’occhiata alle entrate balza all’occhio un altro aspetto taciuto dalla propaganda nazionalrazzista: le entrate. Qui le voci principali sono il gettito Irpef e i contributi previdenziali (che contribuiscono al sostegno della spesa pensionistica, pur non essendo una vera e propria imposta). Chi obietta sull’inserimento dei contributi come voce di entrate, non considera che circa 2,3 milioni d’immigrati pagano i contributi e che ogni anno migliaia di essi tornano ai loro paesi lasciando una parte di contributi sociali in Italia, che non vengono più riscossi, per un valore di 375 milioni di euro all’anno. Inoltre soltanto 26 mila prendono una pensione previdenziale e solo 38 mila ricevono una pensione di tipo assistenziale. E poi vi sono l’imposta sui consumi, sui carburanti, le entrate del lotto e delle lotterie, le imposte sui permessi di soggiorno e sulle acquisizioni di cittadinanza: sommando il tutto si arriva 16,9 miliardi di euro, di cui 10 miliardi versati dagli immigrati. Rispetto alla spesa che era di circa 15 miliardi, l’avanzo positivo è di 2,2 miliardi di euro.
[3] Peraltro, le ricerche empiriche hanno smentito o almeno molto ridimensionato, la supposta competizione tra italiani e stranieri per il lavoro. I dati, anzi mostrano che gli occupati stranieri si concentrano nel settore dei servizi alla persona (il 28,9%), nell’industria (18,4%) e nelle costruzioni (13,3%), mentre gli italiani lavorano prevalentemente nell’istruzione/sanità e pubblica amministrazione (22,1%) e nell’industria (20,4%), ma con ruoli differenti da quelli degli stranieri, e nel commercio (15,6%). Per quanto riguarda le professioni gli stranieri hanno il peso maggiore nei servizi domestici, dove rappresentano il 72,7% degli occupati.
[4] Spiega una ricerca della Fondazione Moressa che gli stranieri mediamente dovrebbero lavorare 80 giorni in più per avere la stessa retribuzione degli italiani. E ciò non dipende dal fatto che sono meno preparati, ma perché ghettizzati in professioni di scarso livello. Infatti, con l’arrivo della Crisi il tasso di occupazione degli stranieri è infatti sceso dal 67,1% al 58,1%, mentre gli italiani sono scesi dal 58,1% al 55,3%.
[5] Al riguardo la propaganda nazionalrazzista si guarda dal ricordare che mediamente solo il 20 % degli immigrati è proprietario di casa, contro l’80 % degli italiani e che il reddito medio di un immigrato corrisponde al 63 % di quello di un italiano.
[6] Chiamavano comunisti i sostenitori della preservazione o dell’incremento dello stato sociale, anche quando costoro erano anni luce distanti dal comunismo o lo avevano fermamente avversato fino al crollo dell’Unione Sovietica.
[7] Mentre potrebbe non dare quest’impressione la presa di posizione di Pippi Mellone, sindaco di Nardò, sullo Ius Soli.
[8] Si prevede che un bambino nato in Italia da genitori extracomunitari diventi automaticamente italiano soltanto se almeno uno dei due genitori: si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni; dichiara un reddito non inferiore all’assegno sociale; vive in una casa rispondente ai criteri di idoneità; supera un test di conoscenza dell’italiano. Inoltre, può essere riconosciuta la cittadinanza ai bambini arrivati in Italia molto piccoli, che hanno fatto le elementari e le medie nel nostro Paese a quelli tra i 12 e i 18 anni, che potranno ottenere la cittadinanza solo dopo avere abitato in Italia per almeno sei anni e superato un ciclo scolastico
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