Stand by me | La parola agli operatori di Me.Dia.Re.
Intervista a Luca Giachero sulle forme diffuse di accoglienza dei rifugiati
Qual è la tua professione e qual è il tuo ruolo all’interno di Me.Dia.Re.?
Sono uno psicologo psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico e associato dell’Associazione Me.Dia.Re. Coordino il progetto IntegraTo, dell’associazione Me.Dia.Re., co-finanziato dalla Città di Torino. Tale progetto prevede la realizzazione di un’attività di consulenza e sostegno psicologico a favore dei rifugiati accolti nell’ambito del progetto di “Accoglienza in Famiglia” della Città di Torino e delle famiglie torinesi ospitanti.
Quali sono i principali aspetti, i vissuti, che rilevi nei rifugiati ospitati nell’ambito del progetto di Accoglienza in Famiglia?
Rispetto ai rifugiati ospitati nell’ambito del progetto di Accoglienza in Famiglia all’interno dei colloqui precedenti all’inserimento in famiglia e a ciò finalizzati emerge soprattutto la consapevolezza di avere a disposizione un’opportunità importante. Ciò costituisce una sostanziale differenza rispetto alla fase della prima accoglienza. Infatti, costoro hanno già fatto un percorso che li ha resi più consapevoli del contesto in cui sono inseriti, dei suoi limiti e delle sue possibilità. Sono, pertanto, maggiormente in grado di cogliere il fatto che ad essi viene proposta un’opportunità ulteriore. Quindi, in quei colloqui non vengono avanzate richieste particolari, né sono espressi dubbi o criticità, essendo nel loro vissuto prevalente la dimensione del “dono”. Le persone più fragili sono certamente anche intimorite dalla novità, preoccupate dal cosa vorrà dire essere ospitati in una famiglia.
Tuttavia, al di là di quanto si profila nei colloqui per l’inserimento, nell’ambito dei colloqui di sostegno psicologico per chi è già ospitato in famiglia, per ora, in questa fase sperimentale, la gran parte delle preoccupazioni sono proposte dai rifugiati come pertinenti una sola questione: il lavoro. La dimensione ansiosa è rappresentata da questa sintesi: “adesso mi manca solo il lavoro, una volta trovato quello tutto il resto andrà a posto”. Ciò ha un risvolto positivo poiché indica che sono proiettati al futuro, cioè al come vivere dopo, quando anche il progetto di Accoglienza in famiglia sarà concluso, quindi la loro è una prospettiva di autonomizzazione.
Quali sono i principali aspetti, i vissuti, che rilevi nelle famiglie ospitanti?
Rispetto alla famiglia, l’aspetto principale riguarda alcune difficoltà di relazionarsi con gli ospiti connesse con la preoccupazione che questi non riescano ad autonomizzarsi. Succede, cioè, che le famiglie si pongano su di un piano educativo nei confronti dell’ospite – che è un adulto, e magari neanche più tanto giovane, spesso genitore a sua volta – motivando questo atteggiamento in termini di attenzione preoccupata alle loro capacità di attivarsi, darsi da fare e cavarsela poi da soli. Questo atteggiamento innesca una dinamica relazionale generativa di conflitti tra famiglie e ospiti. Ma, alla base di quell’atteggiamento, pare esservi un grosso investimento della famiglia sul piano umanitario, a supporto della generosità di porre a disposizione le propria casa. Tale spinta solidaristica, tuttavia, può portare a sottostimare inizialmente le difficoltà, come se fossero risolvibili solo grazie all’altruismo e alla buona volontà. L’impatto con una realtà più complessa, può dare luogo a irrigidimenti delle famiglie su posizioni più pedagogiche e direttive verso il rifugiato ospitato che, però, le patisce.
Dal tuo punto di osservazione, quali sono allora i “pro” del progetto di Accoglienza in famiglia?
Indubbiamente tanti, anzi, più di quanti non possa spiegarne qui. Ma tra i tanti, ci tengo a porne in rilievo uno che rischia di essere sottovalutato. Gli aspetti critici che possono emergere nella relazione tra famiglia e rifugiato si può dire che trovino un’importante compensazione. Infatti, è vero che l’Accoglienza in famiglia consente di proseguire il processo di inserimento sociale e l’orientamento urbano, ma soprattutto è fondamentale perché crea una rete di contatti, che non sono più quelli della prima accoglienza, forniti o mediati dalle istituzioni, ma quelli di natura informale messi a disposizione dalle famiglie (i loro amici, i loro conoscenti, ecc.), che, a differenza dei primi, non connotano l’ospite in termine di utente di un servizio sociale, di appartenente a una categoria particolare. Si tratta dei migliori canali ai fini dell’inserimento e dell’integrazione.
Quali sono la funzione e il senso del supporto psicologico offerto a costoro?
Va considerato che se il rifugiato ha già beneficiato del sostegno psicologico nella fase della prima accoglienza, all’interno del percorso SPRAR, il sostegno psicologico può anche ricollegarsi ad alcuni degli aspetti emersi in quella fase, legati maggiormente ad aspetti traumatici e di separazione dagli affetti e dai legami famigliari. Ma, più, in generale, data la positiva transizione attraverso i passaggi precedenti, il sostegno psicologico serve ad accompagnare il rifugiato fuori dalla dimensione protetta, fin lì sperimentata, che è stata anche quella dell’attesa (dell’asilo, della borsa lavoro, ecc.). Questa nuova fase, infatti, procura dell’ansia, che come detto, viene mentalizzata e verbalizzata soprattutto rispetto al tema del lavoro da trovare. Però, capita di rilevare qualche regressione sul piano della consapevolezza delle proprie risorse psicologiche, della fiducia in se stessi. A volte emergono, ad esempio, aspetti di rivendicazione verso gli educatori. Il sostegno psicologico permette di affrontare queste crisi e di viverle come momento necessario prodromico a una transizione. E aiuta a gestire l’ansia e a orientarsi, anche con ricadute concrete sul piano di un efficace ricerca del lavoro. Inoltre, si realizza un’attività di mediazione rispetto ai conflitti con la famiglia ospitante che accennavo prima.
Ascoltando i rifugiati come psicologi quali emozioni e sentimenti vengono suscitati?
In chi come me, da alcuni anni, si occupa anche del sostegno psicologico per i richiedenti asilo e rifugiati che si trovano ancora nella prima fase di accoglienza, quando ancora aperte sono le ferite provocate dai diversi traumi vissuti, legati alle violenze patite nel loro Paese e alle spesso atroci esperienze passate nel percorso migratorio, sorge, quasi in automatico, il confronto. Intendo dire che, da un lato, mi permette di vedere il percorso compiuto da costoro nell’arco, per dire, di tre anni e di rilevare come i blocchi iniziali si sono sciolti, come si siano sviluppate consapevolezze maggiori. E questo mi colpisce, mi dà delle belle sensazioni, restituisce un senso al percorso da essi svolto e al nostro contributo al suo compimento. Dall’altro lato, il contro-transfert più personale è quello di una minore pesantezza, di un minor carico di sofferenza da dover gestire e del sollievo legato al non dover superare la diffidenza: aspetti, questi, che, associati alla padronanza della lingua italiana, consente una maggiore reciprocità.
Quale riflessione ti suscita questa esperienza?
I progetti di prima accoglienza sono certamente importanti, ed è importante che al loro interno vi sia anche il sostegno psicologico, ma l’esperienza del progetto IntegraTo mi induce a convincermi sempre di più del fatto che c’è bisogno di progetti istituzionali di accompagnamento più ampi, che prevedano diverse forme di sostegno all’integrazione nel lungo periodo. In questo senso il progetto sul rifugio diffuso mi pare un passo rilevante, forse iniziale.