Stand by me | La parola agli operatori di Me.Dia.Re.
Intervista a Simona Corrente sul sostegno psicologico a rifugiati e richiedenti asilo
Qual è la tua professione e qual è il tuo ruolo nell’Associazione?
Sono una psicologa psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico e mediatrice dei conflitti. Sono membro del Comitato Direttivo dell’Associazione Me.Dia.Re. e coordino il progetto Hopeland, un progetto di sostegno psicologico per rifugiati, richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria adulti collocato all’interno dello SPRAR (Sistema di Protezione per Rifugiati e Richiedenti Asilo), realizzato dalla Città di Torino con fondi ministeriali. In particolare, come coordinatrice del progetto per conto di Me.Dia.Re., che è subappaltatrice della Cooperativa Esserci e dell’Associazione Frantz Fanon, incontro regolarmente i professionisti di quest’ultima per la ripartizione delle richieste di prese in carico psicologiche dei rifugiati e richiedenti asilo ospiti delle strutture di accoglienza segnalati alla nostra attenzione a questo fine. Inoltre conduco i colloqui di sostegno psicologico con tali utenti.
Quali sono i principali aspetti, i vissuti, che rilevi, se volessimo considerare la tua attività anche come una sorta di osservatorio?
Vi è da considerare che gli educatori delle comunità di accoglienza ci inviano, per la presa in carico psicologica dei rifugiati e richiedenti asilo, persone che hanno subito esperienze di particolare rilevanza traumatica e violenta sia nella loro terra di origine, nel viaggio per arrivare in Italia e nella fase post-migratoria. Cioè, gli educatori ci segnalano persone che hanno grosse difficoltà sul piano psichico, oltre che, naturalmente, su quello sociale. Sono persone che presentano sintomi invalidanti rispetto alla quotidianità, quali quelli riconducibili ad una situazione post-traumatica: inappetenza, insonnia, cefalee, ansia, depressione, comportamenti autodistruttivi e autolesionistici, attacchi di panico, flashback continui delle violenze sofferte, sicché nella loro mente si ripropongono pensieri intrusivi. Dal mio punto di osservazione, i vissuti più ricorrenti relativi alla loro storia passata gravitano ,spesso, attorno ad una dimensione di disintegrazione psichica: come se la loro identità fosse stata polverizzata dagli eventi violenti subiti. La loro identità,la loro storia di vita infatti, spesso, è stata continuamente interrotta dalla violenza inflittagli. E ciò emerge dalle cose che raccontano, dall’angoscia provata, dalla confusione delle loro narrazioni, dalla solitudine e allo smarrimento portati. In relazione alla fase post-migratoria, si ritrovano isolati, a contatto con sapori, odori, climi, paesaggi, lingue, modi di pensare e di agire anche diversissimi da quelli da essi conosciuti. E a ciò si aggiungono le implicazioni derivanti dalle procedure per la richiesta di asilo, tra cui l’audizione in commissione, necessaria ai fini della valutazione circa il riconoscimento o meno dello status di rifugiati o delle altre forme di protezione (sussidiaria o umanitaria). Rispetto all’audizione da parte della commissione territoriale va tenuto conto del fatto che in quell’occasione devono raccontare storie molto dolorose e angoscianti, a volte anche pregne di risvolti intimi e delicati, perciò vi é uno stress notevole, incrementato, naturalmente, anche dall’ansia di essere sotto giudizio. Inoltre, più in generale, qui sviluppano vissuti di profonda malinconia e tristezza rispetto alla perdita del loro capitale sociale: infatti, la maggior parte delle persone che noi ascoltiamo sono migranti, sì, ma forzati, cioè privi di un progetto migratorio, essendo state costrette ad abbandonare la loro terra spesso letteralmente di corsa. Non solo non hanno preparato “le valigie”, ma non hanno potuto preparare neppure i loro famigliari alla loro fuga, così interrompendo i legami e lasciando il loro ruolo sociale, insieme ai figli, ai coniugi, ai fratelli e ai genitori. Rispetto all’accoglienza, un vissuto frequente è quello del vuoto, dell’attesa sia dell’audizione da parte della commissione, o della successiva risposta da parte di questa, che dell’avvio del tirocinio o dell’attivazione della borsa-lavoro. Perciò, nell’inattività spesso la loro mente torna là, alle violenze, riacutizzando la sintomatologia: ansia, depressione, angoscia e la separazione tra adesso e prima..
Ecco, a questo proposito, quali sono la funzione e il senso del supporto psicologico offerto a costoro?
Una delle funzioni che è anche uno dei significati di tale forma di sostegno è di permette a queste persone di comunicare una testimonianza: nei colloqui la loro identità ripetutamente interrotta, grazie alla testimonianza da essi resa e da noi accolta, si ridefinisce un po’, prende forma. In questo senso noi fungiamo come una sorta di “collante”, ascoltando la loro storia e sentendo la loro realtà interna, ridando fluidità alla storia di vita la dove quella storia , a causa delle violenze subite, si era cristallizzata. Alcuni, poi, avvertono il bisogno di far sapere, di denunciare ciò che capita a casa loro. E depositano, affidano a noi le loro testimonianze. La loro dignità umana è stata annientata dalla tortura e dalla altre crudeltà inflittegli (stupri, discriminazioni per motivi religiosi, per l’orientamento sessuale, per l’appartenenza politica…) e là non hanno potuto far sentire la loro voce. Anzi non solo le loro parole non hanno cambiato la situazione del loro Paese, ma, quando pronunciate, gli hanno scatenato contro la brutalità e la ferocia.
Ascoltandoli come psicologi quali emozioni e sentimenti vengono suscitati, secondo la tua esperienza?
Si tratta di persone che hanno subito una violenza deliberata da parte di un altro essere umano. Prendo a prestito le parole di Roberto Beneduce per spiegare meglio questo concetto: “lo sguardo o l’ascolto psicologico che dà nome alle conseguenze di torture,massacri, violenze,incontra nelle pieghe di cicatrici e sintomi, non le tracce di un virus,non la persistente impronta di una frattura provocata da una caduta accidentale o l’ustione determinata da un’eruzione vulcanica e nemmeno “il disordine la pericolosa alterità” (Foucault 1978: 14) della follia ma la presenza, l’intenzionalità distruttiva dell’uomo stesso”. Questo aspetto è fondamentale da considerare: il trauma è deliberatamente provocato da un altro essere umano. Tutto ciò, come affermava anche Primo Levi, compromette totalmente la capacità di avere fiducia nell’altro.
Quindi, per chi ascolta le loro parole e i loro sentimenti, può essere faticoso. All’inizio è anche un po’ traumatico. Non a caso si parla di “trauma vicario” che colpisce l’operatore. Quando si sentono raccontare violenze disumane disumanizzanti, vengono meno le parole. Si può solo ascoltare. E, soprattutto, diventa impossibile proporre dei significati all’esperienza vissuta. Il vissuto dello psicoterapeuta, talora, dunque, è di impotenza, rimediabile solo restando lì, nella stanza, con la mente e con il cuore e non solo con il corpo, e aiutando la persona a far vivere delle emozioni rispetto ai fatti narrati. Perché riuscire a farlo significa che il mondo emotivo del soggetto non è stato annientato da ciò che gli hanno fatto.
Quali sono le criticità che si incontrano nello svolgere questa attività di sostegno piscologico?
Nello psicoterapeuta vi possono essere reazioni di fascinazione ma anche di disapprovazione, fastidio e perfino di repulsione rispetto a determinati aspetti culturali. E occorre riuscire a riconoscere e a gestire dentro di sé questi aspetti emotivi. Non a caso cerchiamo sempre di collocare le cose che ci vengono raccontate nella cornice culturale della persona che ascoltiamo. Un’altra difficoltà rispetto a queste persone sofferenti sul piano psichico e con disagi sul piano sociale (non avere un lavoro, avere un vicino di stanza che non si lava abbastanza, non riuscire a mangiare gli alimenti italiani), quest’ultimo aspetto è anch’esso fondamentale, però nella pratica le nostre possibilità di aiuto come psicologi sono limitate.
Cosa ti lascia questo lavoro? E quale riflessione ti stimola?
In questo momento storico, in cui il mondo è contrassegnato dalla conflittualità, dalla sfiducia, dal sospetto, dalla paura, dalla violenza, e noi italiani, europei, “occidentali”, siamo quelli fortunati, il fatto di conoscere queste vicende mi permette, al di là del mio lavoro, di esserne testimone e dare un piccolo contributo. Spesso, queste persone mi fanno venire in mente il Terzo Reich, la sua politica di persecuzione e di sterminio, e i milioni di persone che, pur sapendo tacevano e magari fingevano, anche e soprattutto con se stesse, di non sapere. Be’, io so e non posso e non voglio restare ferma e in silenzio. Sotto questo aspetto, perciò, ho un senso di gratitudine rispetto alla possibilità che mi è offerta di poter fare una cosa sia pure piccola.
La riflessione, così a caldo, non proprio meditata in effetti, è questa: all’interno di uno spazio di cura – parlo in termini generali, non solo rispetto ai rifugiati e richiedenti asilo -, mi pare importante provare a costruire delle buone relazioni, così da ridare fiducia agli esseri umani nell’altro. Per i richiedenti asilo e i rifugiati, come per tutti noi, una relazione sufficientemente buona è una relazione che può curare. Quindi non solo quella con lo psicoterapeuta può essere una relazione di cura, terapeutica.