La politica che non parla (o parla poco) alla pancia ma (soprattutto) alla testa
Blaise Pascal in uno dei suoi Pensieri propone “due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Da sempre uno dei compiti della politica consiste nel prestare attenzione alla pancia dei cittadini. In senso buono, cioè virtuoso, tale attenzione consiste nel tenere presente e tentare di soddisfare: da un lato, i bisogni materiali delle persone, quindi quello di avere abbastanza di cui sfamarsi in modo sano ed equilibrato, di avere un tetto sulla testa, ecc.; dall’altro, esigenze e aspetti aventi una natura prevalentemente emotiva, morale e relazionale, senza trascurare quelli che si chiamano i diritti civili, i bisogni culturali, ecc.
In senso meno virtuoso, viene in mente l’espressione di Giovenale (satira X), secondo la quale il popolo “due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi”(panem et circences).
Quest’ultima formula è stata poi usata per definire criticamente quella tipologia di azione politica volta ad attrarre e mantenere il consenso popolare attraverso l’organizzazione di spettacoli e attività ludiche collettive, così da distrarre l’attenzione del popolo dai problemi della cosa pubblica, così da conservarne il controllo e la gestione alla sola élite al comando.
Domenico Starnone sulla rubrica “Parole” di Internazionale, in particolare sul numero 1192 (17/23 febbraio 2017) aveva scritto un articolo dal titolo “La via del colon” in cui osservava che quei politici che sanno parlare alla pancia e facendolo riuscirebbero, secondo alcuni, a dire cose nuove e giuste, in realtà starebbero chiedendo di mandare in letargo la «vecchia e desueta ragione» per poter veicolare con maggiore efficacia le loro proposte.
Ho l’impressione, però, che anche il rivolgersi alla sola ragione non sia soltanto un eccesso, come affermato nel citato pensiero di Pascal, ma anche un modo di porsi in rapporto alla cittadinanza che, involontariamente, può incastrare la dinamica relazionale sul piano prettamente emotivo, per così dire: irrazionale.
Innanzitutto, però, si può pensare ad una delle cause per le quali, per ipotesi, una forza politica trascurerebbe, o più probabilmente, potrebbe dare l’impressione di trascurare, questa componente del rapporto con la cittadinanza.
La prima delle possibili cause di tale eventuale atteggiamento, mi pare, potrebbe risiedere nel fatto che quella forza politica sia, in realtà, in conflitto con le emozioni e i sentimenti circolanti (rabbia, paura, sfiducia, insoddisfazione, senso di abbandono, ecc.) e, soprattutto, con i valori che parrebbero essere implicati, considerandoli perfino disvalori.
In tal caso, pertanto, il conflitto – anche non dichiarato – sarebbe collocabile sul piano politico-culturale-emotivo. Cioè, i valori implicitamente o esplicitamente evocati dagli stati d’animo sarebbero considerati da quella forza politica disvalori da contrastare e sradicare, mentre gli stati d’animo sarebbero giudicati come pericolosi e, in quanto tali, da arginare e sedare.
Naturalmente la forza politica in questione, pur in conflitto, potrebbe guardarsi dal reagire in maniera troppo esplicitamente combattiva contro la popolazione pervasa di quegli stati d’animo, preferendo eluderne le emozioni scomode e rivolgersi a quella porzione di cittadinanza cercando portarla a concentrarsi su altri temi.
Un’altra opzione possibile è che quella parte politica ribatta criticamente sul piano dei valori e delle azioni politiche direttamente o indirettamente richieste, pur dichiarando di comprendere gli stati d’animo.
La terza alternative potrebbe consistere nel negare a quei sentimenti presenti in una parte (minoritaria o maggioritaria di una popolazione) diritto di cittadinanza in virtù della loro mancata corrispondenza con i dati di realtà, affermando, ad esempio, che non trovano conferma nelle statistiche, nelle analisi e negli studi ufficiali.
L’ultima possibilità potrebbe essere quella di non accusare il colpo, di ignorare o almeno dare poco spazio a bella posta, alla rabbia, alle paure, allo scontento, ecc. e di evidenziare e rilanciare, anche mediaticamente, i sentimenti positivi e favorevoli o “le iniziative dal basso” che ne sono testimonianza concreta e simbolica.
Poiché non si può fare a meno di comunicare e di meta-comunicare, tutte queste alternative avrebbero delle implicazioni e, aggiungerei, dei costi.
La prima delle precedenti modalità relazionali ipotizzate, infatti, comunica implicitamente o che non sono stati rilevati, per distrazione, quei sentimenti e quelle emozioni, oppure che non sono meritevoli di attenzione. Difficilmente la cittadinanza attraversata da tali scomodi vissuti potrebbe sentirsi ascoltata, in tal caso. E verosimilmente potrebbe essere indotta a ritenere che tale atteggiamento elusivo riveli un’arrogante forma di superiorità, riconducibile, nella rappresentazione mentale che potrebbe costituirsi, all’appartenenza dei politici in questione alla schiera dei privilegiati. In sintesi: “non ci capite e non ci volete capire perché ve ne state ben pasciuti al caldo e al sicuro”.
La seconda opzione prefigurata (dichiarare di comprendere la pancia ma di disapprovare la tipologia di valori e di azioni legislative e amministrative cui quei vissuti nel caso di specie rinvierebbero) potrebbe essere efficace, se i vissuti non fossero troppo radicati e troppo profondamente disturbanti, ma anche in tal più favorevole caso è dubitabile che funzionerebbe. Apparirebbe probabile, infatti, che sul piano della relazione il messaggio principalmente ricevuto sia quello del giudizio negativo in termini morali ancor prima che politici. Difficilmente, quando ci si sente giudicati negativamente sul piano morale per le emozioni che si provano, si è disponibili a mettersi in discussione. Anzi, più frequentemente ci si convince sempre di più della correttezza delle azioni che si vorrebbe fossero intraprese e si ricambia colui che ci giudica giudicandolo negativamente a nostra volta. In tal caso, nuovamente, il pensiero (giudicante) di quella popolazione sarebbe all’insegna del “non ve ne frega niente e vi permettete di giudicarci, perché il problema non è vostro ma nostro, ma se i ruoli fossero inverti sareste molto più intolleranti e reattivi di noi”.
La terza alternativa (prospettare i dati ufficiali che segnalano un miglioramento della situazione sociale cui si ricollegherebbero quegli inappropriati o esagerati vissuti di disagio), dal punto di vista relazionale, incontrerebbe l’ostacolo di quello che, ai cittadini in questione, apparirebbe come un tentativo di disinformazione ufficiale. Infatti, se ho la percezione che la situazione sia grave e pericolosa, è alquanto improbabile che la presentazione da parte di qualche agenzia governativa o internazionale di analisi che disconfermano la mia percezione mi rassicuri, avendo io sempre sulla pelle o davanti agli occhi ciò che ritengo essere dei veri stimoli informativi di contenuto opposto a quelli. In una simile situazione, rispetto al politico che proponendo quei dati non ascolta “la sua pancia”, il pensiero del cittadino arrabbiato, turbato o in ansia potrebbe essere condensato nei seguenti termini: “i tuoi dati sono falsi e me li spacci per veri per prendermi in giro e disinteressarti della mia condizione”.
La quarta alternativa (dare spazio agli esempi e alle voci di coloro che hanno trovato o che stanno cercando rimedi individuali o collettivi al disagio e non a coloro che non lo hanno fatto), potrebbe lusingare una parte della popolazione e offendere l’altra (magari la più numerosa) nell’esatta misura con la quale si dichiara di apprezzare la prima. Infatti, in termini comunicativi, la forza politica che adottasse tale tipo di comunicazione, sia pur involontariamente, potrebbe trovarsi ad essere fraintesa, come se trasmettesse un implicito giudizio negativo nei confronti di quella parte della popolazione che non ha reagito come quella parte della cittadinanza il cui comportamento risulterebbe maggiormente apprezzabile. Anche in tal caso, in termini liquidatori il vissuto relazionale della popolazione interessata da vissuti scomodi e dolorosi potrebbe essere sintetizzata così: “il tuo citare esempi che giudichi virtuosi equivale a stigmatizzare come viziosi tutti gli altri e, soprattutto, è una forma ipocrita di sordità intenzionale ai problemi della gente comune, sicché sei solo teso a giustificare la tua inazione e il tuo disinteresse”
L’elemento comune, dunque, alle implicazioni relazionali sopra prefigurate in ordine ai possibili atteggiamenti di politici che non prestano attenzione “alla pancia” del cittadino è riassumibile negli ulteriori vissuti sgradevoli che quelle modalità relazionali possono provocare. Vale a dire: sentirsi etichettati come vittimisti, intolleranti, collerici e/o fobici; sentirsi trattare alla stregua di bambini capricciosi e incontentabili o come adulti puerilmente egoisti, lagnosi e incapaci di reagire. Tutto ciò, oltre alla sensazione di essere giudicati sul piano morale e abbandonati a livello materiale, psicologico e relazionale, può suscitare un’escalation dei sentimenti negativi verso la forza politica in questione e verso le situazioni (fatti, processi, istituzioni o gruppi di persone) ritenute causative dei problemi patiti, nonché un progressivo avvicinamento alle forze politiche che si propongono come sintoniche con tali vissuti di disagio.
Nell’ipotesi qui contemplata, in conclusione, non andrebbe sottovalutata un’ulteriore sotto-ipotesi: che le sensazioni e i sentimenti di tradimento, distanza e abbandono da parte della politica (o di una sua porzione) provocati nel cittadino dalla mancata accoglienza del suo disagio, siano in effetti il sintomo visibile di una difficoltà che è però (anche) nella sfera della politica e, in particolare, quella di gestire il conflitto della “propria pancia” con la “pancia” della cittadinanza.
Anche nel caso di questo post la suggestione di fondo è stata prevalentemente cinematografica: Mezzogiorno di fuoco (di Fred Zinnemann, del 1952), Alba Fatale (di William A. Wellman, 1943, tratto dall’omonimo romanzo di Walter Van Tilburg Clark), meno universalmente conosciuto ma scelto nel ‘98 per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, e Salvate la tigre (di John J. Avildsen, 1973), che procurò l’Oscar come migliore attore protagonista a Jack Lemmon.
Alberto Quattrocolo
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