Polemiche vecchie e nuove tra politici (M5S, PD, FORZA ITALIA) e giornali e tra giornalisti: un’ulteriore manifestazione dell’escalation del conflitto politico

La radicalizzazione del conflitto politico, che nella sua forma più visibile si manifesta continuamente nelle interviste, negli scambi sui social, nei talkshow, com’è noto, non è confinata alla sfera dei rapporti tra esponenti politici, ma include anche quelli tra questi e i commentatori di varia professionalità, cultura e provenienza che si esprimono sui media e soprattutto quelli tra politici e giornalisti: anche a tale livello, in effetti, pare che non vi siano cenni rilevanti di un auto-contenimento, ma anzi che vi siano frequenti manifestazioni della tendenza alla delegittimazione reciproca.

Del fatto che tale modalità di espressione del conflitto politico non raramente si estenda ai rapporti con la stampa si può rinvenire un esempio nel botta e risposta tra il garante del M5S, Beppe Grillo, e Repubblica. Ma non è di molto tempo fa la polemica sorta nell’ambito della Leopolda, che ha coinvolto soprattutto Renzi e il Fatto Quotidiano, a proposito della Top 11 delle “balle contro il governo”.

Tali polemiche, che ne richiamano alla memoria altre (ad esempio, quelle tra la stampa e Silvio Berlusconi, nonché quelle di Massimo D’Alema con alcune testate o alcuni giornalisti; e rispetto a quest’ultimo viene in mente anche l’intervista da lui rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, in cui, giudicando fallimentare l’azione del governo presieduto da Matteo Renzi, commenta criticamente anche l’atteggiamento del «sistema  dell’informazione» nei confronti di quell’esecutivo, definendolo «di favore al di là di ogni ragionevole limite» ), si caratterizzano, al pari di molte delle precedenti, per le accuse mosse, su un fronte, dall’esponente politico ai giornalisti e/o ai giornali di svolgere la loro professione con superficialità, con atteggiamento pregiudizialmente avverso o con vera e propria faziosità e, sul fronte opposto, per quelle della stampa ai politici di non sapere e di non volere accettare la critica, palesando un atteggiamento poco o per nulla democratico.

Non è un fenomeno recente, quello della conflittualità tra stampa e politica, anzi, risale a ben prima del ’94. E non può certo dirsi un fenomeno solo italiano. Perfino il cinema vi ha dedicato numerosissime pellicole.

Oggi, con l’affermarsi di un nuovo media (la rete), una delle peculiarità di questo settore del conflitto politico è rappresentata dal fatto che si pongono in contrapposizione anche l’attendibilità dei giornali e quella del web. Si ricorderà, infatti, la proposta avanzata sul Blog delle Stelle circa l’istituzione di «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media», in risposta a quanto detto da Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, in un’intervista sul Financial Times in ordine alla creazione di un network europeo anti-bufale, dichiarazione, peraltro, già commentata da Beppe Grillo.

Nell’ottica del presente Blog questo aspetto del dibattito in ambito politico appare interessante nella misura in cui anche tale dialettica tra politica e mediadi per sé preziosa e potenzialmente assai nutriente per il formarsi della conoscenza e, in generale, per il processo di sviluppo dell’opinione pubblica – finisce assai spesso per assumere contorni riconducibili ad un’estremizzazione delle prese di posizione. In sintesi, si sviluppa un meccanismo di delegittimazione continua tra le parti, spesso accompagnata da una nutrita serie di acuminati attacchi personali, sfocianti in accuse sul piano dell’etica e della morale.

In breve, allorché tale conflitto si esaspera, ciò che si produce consiste nella propensione di ciascuna parte (politici e giornalisti) ad interpretare il comportamento altrui sulla scorta della rabbia e del risentimento che inducono ad una radicale demonizzazione della controparte. Infatti, nel commentare o rispondere alle dichiarazioni degli altri, si nega ogni profilo di verità nel punto di vista altrui, connotandolo come intriso di inguaribile malafede e totale falsità. E spesso si pone in essere il tentativo di screditare la controparte su molteplici piani – si pensi al caso (o al metodo) Boffo.

In un certo senso, inevitabilmente, il conflitto tra politici e giornalisti, allora, si politicizza. E ciò interessa: da un lato, i rapporti tra le forze politiche e i giornali dichiaratamente schierati e quelli che si propongono come privi di ogni spirito di parte; dall’altro, il confronto tra giornalisti di testate diverse. Per fare un esempio, riguardo a quest’ultima forma di “politicizzazione” si prenda in considerazione la discussione del 24 gennaio tra Marco Travaglio (Direttore del Fatto Quotidiano), Alessandro Sallusti (Direttore del Giornale) e Elisabetta Gualmini (vicepresidente e assessore al welfare della Regione Emilia Romagna, professore ordinario di Scienza della politica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e Presidente della Fondazione di ricerca “Istituto Carlo Cattaneo”) nell’ambito della trasmissione Otto e Mezzo di Lilli Gruber. Una discussione, infatti, particolarmente accesa allorché gli ospiti della Gruber sono stati chiamati a commentare la notizia sull’avviso di garanzia ricevuto dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Nell’ambito della prima metà circa di tale dibattito televisivo, la discussione, in effetti, più che sulla notizia in sé, pareva imperniata su un altro livello della relazione tra i presenti: la messa in dubbio dell’obiettività del Fatto Quotidiano e del suo direttore rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti esponenti politici, a partire da quella relativa alla sindaca capitolina. Travaglio, infatti, si è trovato, da un lato, a esporre e sostenere il suo punto di vista sull’invito a comparire inviato dalla Procura di Roma alla Raggi e, dall’altro, a proporre numerose argomentazioni e “prove a discarico” rispetto all’accusa, relativamente implicita, di parzialità (cioè di essere “garantista” rispetto al M5S e rigoroso, o “giustizialista”, nei confronti degli altri partiti), mossagli dagli altri due ospiti.

Infatti, nella concitazione di un dibattito contrassegnato da ragionamenti continuamente interrotti, ha ricordato anche alcune inchieste sue e dei suoi collaboratori del Fatto per ribadire la sua credibilità («Se fosse vero che c’è stata la svolta garantista mia …», «Sono stato accusato di aver scritto il falso 150 volte… e in tutti i processi penali non sono mai stato condannato», «è Renzi che usa due pesi e due misure»). Inoltre ha indirizzato messaggi analoghi a quelli da lui percepiti sulla sua obiettività di giornalista ad Alessandro Sallusti («non sai nulla», «non conoscete i fatti», «siete voi doppiopesisti») e alla prof.ssa Gualmini («sei una dirigente di partito… non sarai mica un’analista indipendente»).

In realtà, in quella trasmissione, in cui Sallusti ha esplicitato che non si era in un’aula giudiziaria,  con l’approvazione di Lilli Gruber, e subito dopo ha svolto un’osservazione che richiamava un’analogia con la situazione da dibattimento processuale («sembra che stai facendo l’avvocato dei Cinquestelle»), sono stati davvero molteplici i piani relazionali e i temi contemporaneamente messi in gioco. Senza drammatizzare (si trattava di un talkshow in prima serata e non di un incontro tra leader di due Stati in guerra), si può comunque annotare che la complessità delle questioni esplicite e implicite e l’eterogeneità dei livelli che Lilli Gruber, come conduttrice, era chiamata a gestire, in questa prima parte della trasmissione, apparivano davvero consistenti.

Leggendo i commenti sulla pagina citata di La Repubblica, o quelle del Fatto quotidiano come sul Blog di Grillo o su altri blog, tale complessità sembra rinvenibile anche nella partecipazione dei privati cittadini a tali polemiche tra stampa e politici e tra giornalisti. Tra i moltissimi commenti che si possono passare in rassegna (accanto a quelli che si riducono alla dimensione della più esacerbata violenza verbale) spiccano quelli di coloro che, entrati nel conflitto e schieratisi da una parte o dall’altra, si sono richiamati a valori e principi di non poca portata (la libertà di espressione, la libertà di stampa, la democrazia, ecc.) nel sostenere la loro posizione.

Sullo sfondo il tema, a volte esplicitato, più spesso lasciato tra le righe, che più interessa in una prospettiva di Political Conflict Management, è quello della verità. Si tratta, infatti, di un aspetto che entra sistematicamente negli scambi tra le parti in conflitto e nelle narrazioni proposte da queste ai terzi.

Ci limitiamo ad annotare, a questo punto, che normalmente ogni parte ribatte all’altra affermando la veridicità delle sue dichiarazioni, negandola a quelle della controparte, e spiega ai terzi che ancor prima della giustizia è la verità che sta dalla sua.

Se nella realizzazione di un’attività professionale di mediazione il problema delle diverse “verità delle parti” va gestito con gli strumenti propri di quel setting, per il cittadino che non abbia voglia di svolgere un esercizio di conflict management, ma che sia soltanto interessato a conoscere, il poter capire chi tra politici e giornalisti stia dicendo la verità riguardo ad un determinato tema ha un altro e diverso rilievo.

Se non ci riesce, infatti, può derivargliene una sensazione di smarrimento, di disorientamento e, infine, perché no?, di rifiuto. Oppure può consapevolmente o inconsapevolmente risolvere questa interna tensione, creata dal dubbio, optando per una scelta predeterminata: la verità è quella sostenuta dal politico o dal giornalista che si colloca nel campo politico in cui mi riconosco (che può anche essere quello dell’astensionismo) o a cui va la mia simpatia.

In realtà, assai spesso, si ha l’impressione che anche nel caso dell’escalation del conflitto tra politica e stampa (o tra stampa e stampa) – al pari di quanto avviene in quello tra politici e nei conflitti che si sviluppano negli altri ambiti relazionali, sociali e istituzionali -, le parti espongano le loro argomentazioni, le loro verità, non solo per persuadere i dubbiosi e coloro che la pensano diversamente, ma anche per rinforzare il legame di fiducia – l’alleanza – con i simpatizzanti, i militanti e gli elettori, rinvigorendone l’ostilità verso l’avversario. E ciò può essere considerato particolarmente funzionale nei momenti in cui il vertice sente un rilassamento nell’impegno della base, o percepisce un calo nella motivazione alla contrapposizione radicale da parte dei militanti e degli elettori, oppure registra l’emergere di dissapori e contrasti interni al gruppo dirigente. Talora, le più “grosse sparate” contro l’avversario, infatti, ci servono proprio a serrare le fila dei nostri, ci servono ad elettrizzarli. Con buona pace del bisogno di verità dei terzi. Perché, in fondo, pensiamo in quelle situazioni, la verità ultima e  la giustizia sono dalla mia parte, perciò anche se esagero un po’, che differenza fa?

 

Alberto Quattrocolo

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