Distanziamento spaziale e distanziamento umano
Per quasi due mesi abbiamo osservato le norme sul cosiddetto distanziamento sociale, ma, da un certo punto di vista, sarebbe preferibile e piuttosto rassicurante se potessimo affermare che si è trattato di un distanziamento spaziale e non di un distanziamento umano.
Anche Dario Fortin (docente e ricercatore in Educazione professionale sociosanitaria presso l’Università di Trento) ha scritto il 30 aprile su Avvenire che «il distanziamento non è “sociale” ma solo fisico» e che bisogna tenerlo a mente.
Distanziamento spaziale e distanziamento umano non coincidono
La distinzione tra distanziamento spaziale e distanziamento sociale non è solo una questione di puntiglio terminologico. Fortin ha ricordato che la parola “sociale” «oggi si riferisce a un mondo concreto fatto di 5 milioni di volontari e di decine di migliaia di giovani in Servizio civile e di professionisti dedicati a prendersi cura delle persone». Tuttavia, poiché l’espressione “sociale” rinvia anche alla dimensione dei rapporti tra le persone, il “distanziamento sociale” può evocare una sorta di distanziamento umano su larga scala. E, a sua volta, il distanziamento umano rimanda a qualcosa di inquietante: in quanto parente prossimo della de-umanizzazione dell’Altro e in quanto affine dell’odio, in effetti, il distanziamento umano non serve a prevenire contagi, anzi è un potente fattore di diffusione di altre patologie alquanto dannose. Come, del resto, abbiamo sperimentato da quando il distanziamento umano si è radicato nel nostro mondo: cioè, ben prima della comparsa del Coronavirus [1].
I dogmi del distanziamento umano
Negli ultimi anni, infatti, il distanziamento umano su vasta scala aveva ottenuto notevole successo in un’ampia parte della società.
Il dogma della scorrettezza
Declinata dapprima come una sorta di ribellione liberatoria, la scorrettezza, spesso sfacciata, aveva contribuito potentemente a far avanzare il distanziamento umano, suscitando tanta di quella approvazione da imporsi come una nuova forma di correttezza politica e da riuscire a relegare la correttezza orginaria nell’angolino negletto dell’ipocrisia, marchiandola, per giunta, con l’etichetta di “sinistroide”. Quasi contestualmente la stessa violenza verbale era stata spacciata come capacità (e come dovere) di saper “parlare chiaro”, venendo così elevata al rango di franchezza e trascinandosi dietro lo sdoganamento dei peggiori disvalori. Tra i principali, naturalmente, rientrava a pieno titolo quello del razzismo, che era rimasto un dogma implicito, per una sorta di sopravvissuto, per quanto lacero e malconcio, senso del pudore, tanto che si era preferito travestirlo da patriottismo, e come tale venderlo al dettaglio, rendendo ovviamente l’antirazzismo il principale equivalente dell’antipatriottismo e perfino del tradimento.
Il dogma dell’antibuonismo
Erano state declassate a buonismo la solidarietà e l’empatia verso i cosiddetti soggetti vulnerabili, a partire dai rifugiati, richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale o umanitaria, e dagli immigrati in generale, i quali, nella versione antibuonista, ovviamente, perdevano ogni connotato di fragilità, e perfino di umanità. Il buonismo, quindi, era divenuto il peggiore dei tradimenti, secondo i dogmi del nuovo pensiero mainstream: infatti, per rendere rifugiati e richiedenti asilo degli esseri minacciosi e detestabili agli occhi della popolazione, era stato loro imposto, grazie ad un martellamento incessante, il nome spregiativo e calunnioso di clandestini, sicché chiunque fosse incline a riconoscerne e a rispettarne l’umanità, automaticamente era iscritto nella lista dei complici dell’illegalità [2]. Del resto non migliore trattamento era stato indirizzato alle persone senza fissa dimora (si veda, in questa rubrica, il post di Vera Barzizza La deumanizzazione delle persone senza fissa dimora) e a tutti coloro che erano colpiti dal disagio sociale, fossero essi vecchi o nuovi poveri. Infatti, non poteva di certo definirsi un atteggiamento solidale o altruistico, e men che meno empatico, quello largamente abusato di citare, strumentalizzandole, le sofferenze degli italiani in difficoltà al solo fine di sostenere il proprio rifiuto verso le più elementari politiche di accoglienza [3].
Il dogma del “Prima io” e la trasformazione dell’egoismo in virtù civile e politica
L’istanza egoistica del “Prima io” era stata fatto oggetto di un tentativo di elevazione al rango di legge naturale e di aurea regola morale, nel tentativo di celarne l’intrinseca disumanità, ricoprendola, appunto, con posticce nobilitazioni. Così, il “Prima noi” era proposto non soltanto nei termini di diritto sacrosanto a proteggersi se stessi, ma soprattutto come diritto-dovere di preservare i propri “simili” dalle supposte mire perverse, predatorie, parassitarie o colonizzanti dei “dissimili”. Ma la lista dei “dissimili”, oggetto di incessanti campagne di de-umanizzazione, non si limitava alle persone straniere o di origine straniera, poiché vi figuravano anche: le già citate persone senza fissa dimora, le persone appartenenti alle comunità Rom e Sinti, le persone e i movimenti LGBT, le persone e le associazioni favorevoli al mantenimento e all’applicazione della legge 194, quelle impegnate nella promozione delle pari opportunità e del contrasto alla violenza di genere, i lavoratori e i responsabili delle organizzazioni del Terzo Settore, l’A.N.P.I., la Caritas, Papa Francesco, Liliana Segre, Ilaria Cucchi, Greta Thunberg, Carola Rackete, George Soros …
Il dogma del distanziamento dalla cultura e dalla scienza
Ma, se scrivere “restiamo umani” era diventato, per una parte consistente della politica e del suo elettorato, l’equivalente di un’eresia e di un lampante segno di anti-italianità, era perché prima si erano scavati abissi di distanziamento umano e sociale anche sul piano della cultura e della conoscenza, presupposti fondamentali della convivenza civile e della partecipazione alla cosa pubblica.
Il distanziamento dai fatti
Non si può non ricordare quanto le analisi (o la semplice esposizione) dei dati di fatto, da parte di persone dedite da decenni allo studio di determinate e complesse materie, venissero liquidate, davanti alle telecamere o sui social, da chi non possedeva un grammo di quelle competenze, con uscite sconcertanti come: «questo lo dice lei!». Perfino nei talk-show politici e nei telegiornali l’esame puntuale dei problemi era stato spesso derubricato a insopportabile tecnicismo, quasi che le spiegazioni dei fenomeni dibattuti, e l’esposizione dei fatti a fondamento di quelle spiegazioni, fossero considerate una sorta di arsenico per l’audience e un formidabile corrosivo per l’informazione [4].
Il distanziamento sociale dalla competenza
Più in generale, lo studio, l’approfondimento e la competenza erano stati declassati al livello di snobistici atteggiamenti elitari e condannati come sfoggi di privilegi immeritati: in un brevissimo arco temporale avevano subito una radicale svalutazione sia l’adozione di approcci complessi a problemi complessi sia l’adesione al principio di realtà – entrambi i quali presuppongono l’esatto contrario del distanziamento umano visto che richiedono quel minimo di riconoscimento reciproco indispensabile per dialogare e discutere capendo di che cosa si sta parlando.
Un New Deal per rendere compatibile il distanziamento spaziale con la vicinanza umana
Venendo all’oggi, rispetto a questa intimidita e incerta Fase 2, in linea teorica, anche a causa dei disagi derivanti dal distanziamento spaziale cui siamo stati (e ancora in larghissima parte siamo) sottoposti, è possibile ipotizzare che lo sperimentare quotidianamente quanto abbiamo bisogno di vicinanza umana – e quanto sia vero che nessuno di noi si salva da solo – possa farci gradualmente abbassare mura e reticolati di ostilità e pregiudizio: quelle difese, cioè, dietro alle quali ci siamo fin qui illusi di poterci proteggere da quei nemici immaginari subdolamente prefabbricati a nostro uso e consumo.
Un New Deal per ridurre il distanziamento umano
In altri termini, se davvero c’è, in conseguenza della crisi complessiva innescata dal COVID 19, una piccola possibilità di riuscire ad accorciare un po’ il distanziamento umano, non ci si può illudere che ciò avvenga per magia. È plausibile ritenere, infatti, che occorra, ad esempio, “cambiare rotta verso un futuro di emancipazione sociale“, come viene sostenuto e spiegato in un recente documento del Forum Diseguaglianze e Diversità. Più in generale, appare improcrastinabile l’adozione di programmi politici capaci, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione, di
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ciò, verosimilmente, non basterebbe a produrre come effetto (almeno non nel breve termine e forse neppure nel medio), il superamento del distanziamento umano radicatosi nelle nostre comunità, però toglierebbe molti appigli a coloro che ne hanno fatto, davvero con incredibile successo, la loro bandiera. Una bandiera che continuano a sventolare senza perdere troppa approvazione, neppure dopo due mesi di sottomissione collettiva ad un severo distanziamento spaziale [5].
Un New Deal culturale e relazionale
Il distanziamento umano, quindi, non sembra essere colmabile soltanto con politiche economico-sociali. Occorrono probabilmente anche politiche culturali e un più diretto aiuto alla riflessione e alla costruzione (o alla riparazione) dei legami sociali: in entrambi i casi si tratterebbe di offrire un aiuto a pensare. Ma, mentre il primo riguarda più direttamente il tentativo di contrastare l’impoverimento culturale, incluso l’analfabetismo funzionale, cercando, come suggeriva Don Milani in Lettera ad una professoressa, di trasmettere la voglia di apprendere, il secondo rinvia alla dinamica dei rapporti e dei legami sociali, la quale implica anche una riflessione sui propri vissuti. Un Nuovo Patto in tale ambito, dunque, non può tradursi nella costituzione di un nuovo ente – né nella creazione di un’applicazione o di un algoritmo – che si metta a pensare al posto delle persone. In altri termini, servirebbe avviare un Nuovo Corso che ci veda tutti – non soltanto, coloro che hanno responsabilità di governo e, in generale, responsabilità politiche – impegnati nel tentativo di ascoltare se stessi e gli altri sia con con il cuore che la testa, per cercare di sentire e di ragionare [6].
Un New Deal che dia alle emozioni un diritto di cittadinanza ma non i pieni poteri
Viviamo delle e con le nostre emozioni, certo, ma, in quanto esseri umani, abbiamo anche il dono di non subirle e basta, ma di saperle pensare. Abbiamo, cioè, la libertà e la responsabilità di essere padroni delle nostre menti: abbiamo la facoltà di non lasciarle in preda all’ansia, alla frustrazione e alla rabbia; abbiamo il diritto-dovere di non lasciarle in ostaggio all’odio, trasformandoci in burattini di coloro che, proprio con la manipolazione delle nostre emozioni, aspirano (e tante volte riescono) ad assumere il controllo politico della nostra comunità e delle nostre vite. Un New Deal di questo tipo, dunque, dovrebbe saper evitare il più proverbiale degli errori: rilevare la pagliuzza nell’occhio altrui senza scorgere la trave nel proprio. Quindi, a proposito di emozioni e di sentimenti cui dare riconoscimento e cittadinanza (ma anche contenimento, onde “non mandarle al governo”), se in cima alla lista si collocano la rabbia, la paura e l’odio, occorrerebbe anche l’accortezza di non farsi comandare sotterraneamente proprio da quei vissuti: neppure dall’odio indirizzato verso quelli che hanno diffuso e che ancora adesso, tutti i giorni, spingono verso il distanziamento umano.
Un New Deal permeato di Ascolto e Mediazione
Ma, se è facile svolgere considerazioni come queste (ammesso che abbiano senso), difficilissimo è metterle in pratica. Perché? Perché è proprio quando abbiamo più bisogno di lucidità e di capacità analitiche che queste facoltà, tante volte, se ne vanno a spasso Allora, in una prospettiva di “New Deal relazionale“: da un lato, non sarebbe male moltiplicare e rendere accessibili alla cittadinanza anche quei servizi, inclusi quelli da remoto, che, offrendo ascolto e contenimento alle persone e ai loro vissuti più dolorosi e disturbanti, ne gestiscono i conflitti in ambito familiare, culturale, sociale, ecc. (nel suo piccolo, Me.Dia.Re., da quasi dieci anni, eroga gratuitamente il sostegno di SOS CRISI e, con l’emergenza Coronavirus, ha attivato il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione); dall’altro, come già sostenuto in un altro post, andrebbero stimolati progetti di Social Media Conflict Management, perché quel che accade in termini relazionali sui social probabilmente avrà un’importanza e un’influenza crescenti.
Un esempio vale più di mille parole
Nel corso del convegno alla base del post sopra ricordato era stato affermato:
Rispondiamo all’odio con un altro odio, che è frutto della paura e dell’angoscia che quell’odio ci suscita? Reagiamo con la violenza verbale alla violenza verbale? Demonizziamo chi comunica in modo violento, finendo così con il contribuire anche noi alla legittimazione culturale della violenza, mentre ci illudiamo di risolverla? Certo questa opzione esiste ed è la più largamente usata. È, però, una risposta conflittuale. E come tale viene vissuta dall’altro cui si indirizza la nostra risposta indignata, il quale, a guardarlo da vicino, non è tanto diverso da noi. Nel senso che, molto spesso, non si sente un aggressore ma un aggredito. Il suo è un meccanismo di auto-giustificazione? Può darsi, ma… e allora? Il fatto è che ci crede. Si sente una vittima non un carnefice. Resta, perciò, in campo un’altra opzione: quella della de-escalation, la quale, infatti, tenta proprio di disinnescare le premesse della violenza, a partire dalla de-umanizzazione, e tenta di restituire la capacità di pensare e di pensarsi.
Un New Deal relazionale, quindi, implica progetti ed iniziative, auspicabilmente sostenuti e promossi con politiche ad hoc, ma presuppone anche la declinazione di atteggiamenti quotidiani che, attraverso l’esempio, concorrano a rafforzare la capacità di pensare. E il più significativo, il più esemplare, degli esempi è quello offerto dai rappresentanti delle istituzioni (inclusi e per primi, i politici) e, in generale, da chi contribuisce alla creazione dell’opinione pubblica: quale prezioso contributo fornirebbero alla riduzione del distanziamento umano, pur in presenza del distanziamento spaziale, quelli convinti di non aver cavalcato le paure, di non aver alimentato rancori, di non aver sfruttato lo scontento, se ammettessero di aver anch’essi contribuito in modo formidabile alla propagazione dell’odio politico. E soprattutto, se smettessero di demonizzare i loro avversari politici sul piano personale (anziché discutere di contenuti), offendendo così, senza trarne il minimo vantaggio politico, anche i loro elettori. Un New Deal relazionale, basato sul rancore e sulla criminalizzazione dei seminatori di odio (politici, giornalisti, opinionisti, troll, ecc.), in fondo, finirebbe col negare se stesso e spaccherebbe ancor di più la nostra già divisa, sfiduciata e litigiosa comunità.
Alberto Quattrocolo
[1] Se è arduo negare che ci eravamo già rinchiusi in confini stretti, che escludevano l’Altro, spersonalizzandolo, e che eravamo ipernutriti di odio e paranoia, sembra che neppure con l’inizio e con la prosecuzione dell’epidemia abbiamo cambiato dieta: si pensi all’impressionante quantità di aggressioni verbali e fisiche, razziste, in danno, soprattutto, ma non solo, di persone di origine africana, mediorientale, asiatica, est-europea e latino-americana compiute prima del Coronavirus, e a quelle messe in atto, all’inizio dell’epidemia, in danno di persone cinesi e perfino di coloro che non lo erano ma venivano scambiate per tali. Oppure, si pensi alla violenza verbale indirizzata a Silvia Romano, finalmente liberata 18 mesi dopo essere stata rapita in Kenya o alla ministra Teresa Bellanova
[2] Contestualmente ha preso piede qualcosa di definibile come cattivismo, che, strettamente correlato non soltanto all’esaltazione di un egoismo sfrenato, ma anche al cinismo più esibito, alla dietrologia pregiudiziale e alla sfiducia generalizzato, è stato proposto come il più razionale e il più sano dei modi di guardare e di stare al mondo.
[3] Ad esempio, troppe volte, senza alcun ritegno, sono state sventolate le sofferenze dei terremotati di Amatrice a mo’ di giustificazione della propria indifferenza, o perfino del proprio compiacimento, per la morte dei migranti: di quelli annegati nel Mediterraneo o schiantati dalla sete e dal caldo o dalle violenze nel deserto; di quelli accoppati dalla denutrizione, dalle mostruose condizioni igieniche, dal disumano sovraffollamento, dalla crudeltà quotidiana, punteggiata da esecuzioni e torture da parte dei carcerieri nei lager libici.
[4] Sicché trasmissioni televisive, anche molto seguite, nominalmente deputate a “fare informazione”, tutto facevano tranne che informazione, a meno di voler considerare tale la messa in scena di battibecchi sfrontati e di altre performances sguaiatamente aggressive tra i partecipanti.
[5] Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al presumibilmente consistente plauso popolare riscosso dall’ottuso e suicida rifiuto della (peraltro moderatissima) proposta di rilasciare permessi di soggiorno temporanei ai lavoratori stranieri, appoggiata, oltre che dai sindacati, dall’associazione dei coltivatori diretti, consapevole del rischio tracollo per l’agricoltura, uno dei pochi settori non ancora devastati dagli effetti della pandemia.
[6] Circa tre anni fa su questa rubrica, Politica e Conflitto, si erano dedicati alcuni post al tema del rapporto della politica con la pancia della cittadinanza e più di uno al tema dell’ascolto politico. Ma, oggi, non è più possibile attribuire la funzione e l’onere dell’ascolto politico soltanto agli esponenti politici.
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