Tu chiamale, se vuoi, Emozioni
La nostra collega Daniela Meistro Prandi, qualche giorno fa, ha postato sulla sua pagina Facebook una domanda; una domanda di una semplicità assolutamente disarmante nella sua complessità.
Ha chiesto agli amici di Facebook:
“Quali sono state e quali sono le emozioni, i sentimenti (positivi o negativi) che hanno caratterizzato questo periodo?”.
Le risposte sono state tutte interessanti e non scontate; il fattore più emozionante nel leggerle è stata la loro assoluta onestà e semplicità… Un po’ come se ognuno di coloro che hanno risposto (me inclusa) attendesse che qualcuno chiedesse loro, in sostanza, “come stai?”.
Nel percorso di Ascolto e Mediazione (sia esso di mediazione familiare o di mediazione in altro ambito) chiedere al confliggente “come stai?” – cosa che, in effetti, facciamo all’inizio di colloquio individuale e/o di seduta di mediazione vera e propria – è un po’ come abbracciarlo e financo come abbracciare il conflitto. Equivale, in fondo, a dire:
“accomodati, qui potrai parlare liberamente, senza filtri, perché a noi interessa sapere cosa ti sta attraversando, per analizzarlo tutti insieme, in un rapporto paritario, senza necessità o ingombri di giudizio”.
“Come stai?” è una domanda che incontriamo tutti i giorni, nei nostri rapporti interpersonali Ed è una domanda alla quale spesso rispondiamo con un distratto e scontato “bene, grazie”. Ma racchiude tutto un mondo di sentimenti e stati d’animo a rischio di implosione.
Chiedere “come stai?”, in Mediazione, significa anche stringere un patto di lealtà con il confliggente.
Infatti, spesso, la risposta proposta nel primo incontro, cioè “Bene, grazie”, che è accompagnata spesso da una smorfia, a metà strada tra la diffidenza e la sorpresa, diventa, nel corso degli incontri successivi, più articolata e complessa, fino ad arrivare a manifestarsi in tanti sentimenti ed emozioni contrastanti.
E qui si apre la “fase 2” (!) dei mediatori, nei colloqui con i loro utenti: quella in cui si cerca di dare una forma ed un nome alle emozioni.
In qualche modo “legittimarle”, tutte… quelle c.d. “positive” e quelle c.d. “negative”.
La qual cosa non è facile, perché le emozioni non si trovano rinchiuse in cassetti a tenuta stagna; si trovano tutte in un unico contenitore – il confliggente, appunto – e premono per uscire.
Spesso i nostri interlocutori arrivano con un cuore ed una mente in tumulto; ed il primo conflitto che devono affrontare è proprio quello tra quei loro, diversi e contrastanti sentimenti, che li accompagnano e li attraversano.
In questo senso possiamo immaginare un colloquio, che è, ad un tempo, individuale e collegiale: ci siamo noi mediatori, c’è il nostro interlocutore-confliggente e c’è “tutta l’allegra compagnia” di emozioni in libertà, che hanno accompagnato il confliggente (e che, in qualche modo, lo hanno indirizzato fino a noi).
Il mediatore, attraverso un ascolto empatico, riuscirà poco alla volta a lavorare in sinergia con il confliggente per dare insieme un nome alle sue varie componenti emotive.
Ed allora si darà il “benvenuto” alla Tristezza, alla Rabbia, alla Frustrazione, alla Malinconia…ma anche all’Allegria, alla Consapevolezza, all’Orgoglio… E, quando si arriverà a dare un nome a ciascuna delle emozioni e dei sentimenti che accompagnano il nostro confliggente, allora si scoprirà che queste emozioni, se conosciute, non fanno più paura, ma anzi ci saranno utili per affrontare al meglio il percorso di mediazione e arrivare a delle risposte e/o soluzioni.
[Personalmente ho risposto “Gratitudine”, alla domanda di Daniela, ma di questo parlerò un’altra volta].
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