Il riconoscimento e la mediazione
Ascoltando le persone in conflitto – che si tratti di un conflitto di coppia, tra membri di una famiglia o all’interno di un altro contesto relazionale, al di là dei fatti caratterizzanti le singole vicende, quel che pare essere un aspetto largamente ricorrente è il vissuto di mancato riconoscimento sperimentato dai protagonisti. La sensazione del mancato riconoscimento da parte dell’altro non soltanto fa soffrire, ma pare essere l’elemento di più frequente innesco della dinamica conflittuale.
La frustrazione del bisogno di riconoscimento
In effetti, si dice che il conflitto possa sorgere dalla frustrazione di un bisogno. In altre parole dall’azione o dall’inazione dell’altro che ci impedisce di soddisfare un’esigenza. Però, accanto ai bisogni materiali, gli esseri umani ne hanno anche di immateriali. E tra questi quello di sentirsi riconosciuti è certamente un bisogno che attiene alla dimensione relazionale.
Torna alla mente allora una sintesi proposta da Brian Muldoon in un testo intitolato The Heart of Conflcit:
«Mi arrabbio, dunque esisto».
«Mi arrabbio, dunque esisto».
Ci sono tre livelli sintetizzati in questa frase: emotivo (l’emozione della rabbia), comportamentale (l’adozione di un comportamento che manifesta quell’emozione) e cognitivo (il fine del comportamento).
Rispetto a quest’ultimo, si può pensare che nel momento in cui diamo visibilità alla rabbia provata per non essere stati riconosciuti dall’altro, lo facciamo per ottenere, appunto, quel riconoscimento non pervenuto. Reagiamo a quella che ci pare essere un’ingiustizia relazionale.
A complicare le cose, però, c’è poi come l’altro reagisce alla nostra reazione. Infatti, può vivere a sua volta un sentimento di non riconoscimento, da noi provocato con la nostra condotta intesa a rispondere a quella che abbiamo avvertito come un’ingiustizia relazionale.
Infatti, è vero che qualcuno tra coloro ai quali proponiamo la nostra versione del “mi arrabbio dunque sono” può accogliere tale nostra comunicazione facendo autocritica e, magari, sentendosi anche in colpa. Ma è vero che qualcun altro può a propria volta sentirsi non riconosciuto.
La mediazione come attività di riconoscimento svolta dal mediatore
Qual è il compito del mediatore di quel conflitto, dunque, rispetto a tale dinamica di bisogni di riconoscimento frustrati?
Nell’approccio dell’Associazione Me.Dia.Re., il mediatore ha la funzione di riempire i vuoti, anche e soprattutto i vuoti di riconoscimento. Ciò non significa, però, che cerca di stimolare ciascun soggetto in conflitto a riconoscere l’altro. Tale attività, infatti, potrebbe dare luogo in ciascun soggetto in conflitto ad un ulteriore vissuto di mancato riconoscimento, ascrivibile, questa volta, alla condotta del mediatore. In altri termini, ciascun soggetto potrebbe non sentirsi riconosciuto dal mediatore nel momento in cui tale professionista tentasse di indurlo a riconoscere l’altro confliggente, disconoscendo, implicitamente, le motivazioni sottese a quella posizioni di disconoscimento dell’altro (ad esempio, la convinzione di aver subito un affronto, un tradimento della fiducia riposta, la percezione che l’altro sia un vittimista che “ci marcia”, ecc.).
Nel modus operandi di Me.Dia.Re. il mediatore non stimola le persone in conflitto a riconoscersi reciprocamente, ma si pone, egli per primo, con la sua attività di ascolto, nella prospettiva di farle sentire riconosciuti da lui.
L’esperienza dimostra che dallo sviluppo di questa dinamica relazionale tra mediatore e attori del conflitto, deriva poi anche una de-tensione nel confronto tra questi ultimi e l’avvio di scambi tra di loro contraddistinti da un riconoscimento reciproco progressivo.
Alberto Quattrocolo
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