1988, inizia il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan

Il 15 maggio 1988, dopo 9 anni di conflitto, l’Armata Rossa sovietica iniziò le operazioni di disimpegno dall’Afghanistan di circa 100.000 uomini di svariate divisioni, brigate e reggimenti d’assalto, mezzi blindati e corazzati, squadroni di caccia e di elicotteri d’attacco, consulenti militari, personale del GRU e del KGB; la maggior parte dell’esercito sovietico era dispiegata nelle grandi città e negli aeroporti principali, dai quali partivano i “raid senza quartiere sulla popolazione”, tutti situati nelle province orientali.

Gli accordi di Ginevra del 1988 tra Afghanistan e Pakistan, con l’URSS e gli Stati Uniti come garanti, posero fine all’intervento sovietico nella guerra civile afgana e stabilirono un meticoloso piano di ritiro, elaborato dallo Stato Maggiore sovietico, che attraverso una completa copertura aerea e il fuoco di sbarramento delle batterie di artiglieria intendeva limitare ulteriori perdite – si registrarono tuttavia 500 caduti.

La ritirata si concluse il 15 febbraio dell’anno seguente, quando l’ultimo generale lasciò la “tomba degli imperi”: lo precedeva una lunga fila di blindati e di uomini con il kalashnikov in spalla, la tel’njaška sotto la mimetica, il volto segnato e tanti compagni lasciati sul campo. Quell’immagine fu il simbolo della vittoria dei mujaheddin, che combattendo una guerra di liberazione, e “per procura” allo stesso tempo, poterono festeggiare la cacciata del secondo esercito più potente del mondo dalla loro terra.

Dall’esterno era difficile capire quanto la guerra afgana avesse pesato nell’Unione Sovietica. L’assenza di pubbliche manifestazioni di dissenso, del tipo di quelle che caratterizzarono l’America durante la guerra del Vietnam, non deve ingannare: fin dall’inizio i sovietici hanno odiato questa guerra, comprendendo appieno l’inaccettabilità delle motivazioni ufficiali. E questa non fu l’ultima delle ragioni che diedero a Gorbaciov la forza di mettere la questione all’ordine del giorno: già due anni prima, al XXVII Congresso del partito, il Presidente aveva parlato per la prima volta di “piaga purulenta” dell’Afghanistan. La nuova politica della glasnost e l’attenuazione della censura consentirono ai giornalisti sovietici di dare descrizioni più veritiere di quanto stava accadendo in Afghanistan, rendendo edotta la popolazione delle reali condizioni in cui si trovava a operare il “limitato contingente di truppe sovietiche”; il nuovo clima contagiò le stesse forze armate, tra alti ufficiali che manifestavano aperto dissenso e reduci che raccontavano le loro reali esperienze: “all’inizio eravamo elettrizzati. Ci dissero che stavamo andando a combattere contro gli Americani. Solo che quando arrivammo, degli Americani non c’era traccia. Dovevamo combattere contro fantasmi che apparivano e scomparivano nella notte. La popolazione civile era ovviamente ostile. Noi non capivamo loro e loro non capivano noi.”.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan, da molti definita il “Vietnam russo”, che preannunciò la definitiva caduta dell’URSS e devastò lo stato afgano, aveva avuto inizio il 24 dicembre 1979, dopo lunghi tentennamenti seguiti al colpo di stato messo in atto nell’aprile ‘78 dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), quando il presidente Mohammed Daoud Khan, in carica dal 1973 dopo aver detronizzato il re, venne ucciso, e il potere fu assunto da Mohammed Taraki, uomo poco gradito alle gerarchie religiose. Nasceva con lui la “Repubblica Democratica dell’Afghanistan”.

La “rivoluzione d’aprile” del 1978 era stata salutata come la speranza di un nuovo Afghanistan. Duecentomila famiglie contadine ricevettero le terre ridistribuite con la riforma agraria. Fu abolito l’ushur, la decima dovuta dai braccianti ai latifondisti, i prezzi dei beni primari furono calmierati, i servizi sociali garantiti a tutti dallo stato, i sindacati legalizzati. Partì una campagna di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa; nelle aree rurali vennero costruite scuole e cliniche mediche; iniziò un piano di emancipazione delle donne: le bambine finalmente poterono andare a scuola e, per legge, non furono più oggetto di scambio economico nei tradizionali matrimoni combinati.

Nonostante la laicizzazione dello Stato, la religione islamica non venne penalizzata; tuttavia, le gerarchie religiose islamiche afgane iniziarono a denunciare la soppressione della libertà religiosa da parte del governo: in realtà, come spiegarono allora il New York Times e la BBC, era la riforma agraria ad aver suscitato la loro opposizione, dato che i religiosi erano anche proprietari delle terre e beneficiari delle decime. E furono questi a fomentare l’opposizione armata, la jihad dei mujaheddin (santi guerrieri) contro “il regime dei comunisti atei senza Dio”.

Taraki rifiutò seccamente questa definizione, preferendo quella di “rivoluzionario” e “nazionalista”. Anche in politica estera il nuovo governo afgano scelse il non allineamento, limitando i rapporti con l’URSS di Leonid Breznev ad accordi di cooperazione commerciale.

Ma a Washington il caso afgano suscitò grande preoccupazione e molti alla CIA, al Pentagono e al Dipartimento di Stato suggerirono al presidente Jimmy Carter di sostenere la nascente guerriglia afgana in funzione antisovietica, procurandosi un nuovo fedele alleato regionale in sostituzione dell’Iran, appena perduto con la rivoluzione khomeinista del gennaio ‘79. Molti alla Casa Bianca osservarono che armare i mujaheddin afgani era avventato, per il rischio di provocare un intervento armato dell’URSS, oltre che per la pericolosità potenziale di allevare una simile forza integralista islamica. Ma l’idea di far impantanare l’URSS in un “suo Vietnam” fece accantonare i dubbi, e il 3 luglio ‘79 Carter firmò la prima direttiva per l’organizzazione degli aiuti bellici ed economici segreti ai mujaheddin afgani, convinto di siglare la condanna a morte del nemico sovietico.

La CIA costruì praticamente dal nulla un’enorme rete internazionale che coinvolgeva tutti i paesi arabi, Arabia Saudita in testa, allo scopo di far arrivare ai mujaheddin fiumi di denaro e armi, nonché migliaia di volontari della guerra santa. Come base logistica dell’operazione fu scelto il fidato Pakistan, al confine meridionale afgano. Qui la CIA e i servizi segreti militari pachistani costruirono campi di addestramento e centri di reclutamento. Usando una strategia già sperimentata altrove, l’intelligence Usa promosse e gestì direttamente in loco la produzione e il traffico di oppio per autofinanziare in nero l’operazione. Fu così che l’eroina afgana iniziò a invadere le strade d’America e d’Europa.

I mujaheddin afgani diventarono rapidamente una potente forza militare capace di minacciare la tenuta del governo di Taraki: a metà del ’79, le formazioni della guerriglia islamica riunite in un unico fronte di resistenza sostenuto da Iran, Pakistan e Cina, controllavano quasi l’80% del territorio.  Rifiutando le ripetute richieste afgane d’aiuto militare, l’URSS rimase sostanzialmente fuori dalla guerra civile, fin quando, a settembre, Taraki fu ucciso dal suo vice Hafizullah Amin, che salì al potere e subito fece quello che Taraki non aveva mai fatto: perseguitare l’opposizione politica islamica, finendo per rafforzarla e radicalizzarla.

Per il Cremlino, Amin era un uomo della CIA (e i suoi trascorsi negli Usa sembravano confermarlo): la sua scelta di uccidere Taraki, amato dagli afgani, era incomprensibile, la sua politica repressiva dannosa, le sue posizioni ideologiche ambigue, un affronto i suoi incontri con l’incaricato di affari USA a Kabul. Il 24 dicembre Breznev ordinò all’Armata Rossa di invadere il paese.

La guerra afgano-sovietica finì lasciandosi dietro morti e feriti su tutti i fronti, un territorio devastato e una guerra civile tra contrapposte fazioni di mujaheddin che si contenderanno per anni il controllo del paese.

La guerra in Afghanistan fu anche una delle cause che concorsero alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il conflitto cambiò la percezione dei leader sovietici sull’uso della forza e sull’intervento militare in paesi stranieri per mantenere salda l’URSS; accelerò glasnost e perestrojka e stimolò la nascita di nuove forme di partecipazione politica critiche verso il partito comunista, a cominciare dai numerosi e attivi veterani (soprannominati Afgantsy); screditò l’immagine dell’Armata Rossa, rafforzando le spinte indipendentiste delle repubbliche sovietiche, le quali vedevano l’intervento in Afghanistan come una guerra russa combattuta da soldati non russi.

Le cifre ufficiali parlarono di 15.000 caduti sul fronte sovietico, ma ricerche più recenti hanno valutato almeno 26.000 morti, 50.000 feriti e 300 dispersi, oltre al fatto che quasi il 90% dei combattenti contrassero malattie a causa delle pessime condizioni climatiche e sanitarie.

Calcolare le perdite afgane è difficile, visto che i combattimenti non si arrestarono con il ritiro sovietico, ma proseguirono per molti anni: le stime vanno da 670.000 a 2 milioni di civili afgani morti, 1.200.000 disabili e circa 3 milioni di feriti, causati tanto dalle azioni sovietiche quanto dai razzi dei mujaheddin; i caduti delle forze governative si stimano intorno a 18.000 uomini, per i mujaheddin intorno a 75.000 – 90.000 morti.

Più di 5 milioni di afgani (un terzo della popolazione prebellica) trovarono rifugio nei campi profughi allestiti in Pakistan o in Iran, con ulteriori 2 milioni di profughi interni al paese; nel corso degli anni Ottanta gli afgani da soli costituivano la metà dei rifugiati presenti in tutto il mondo. Le condizioni di vita nei campi profughi mieterono ulteriori vittime.

Il paese era stato devastato dai combattimenti: Kandahar, seconda città del paese, scese da una popolazione di 200.000 abitanti a non più di 25.000 a causa delle campagne di bombardamento aereo dei sovietici; il sistema di irrigazione del paese, di vitale importanza dato il clima arido, uscì quasi completamente distrutto dal conflitto, rendendo incoltivabili molte zone. Tra i 10 e i 16 milioni di mine furono sparse per tutto il paese da entrambi i contendenti, continuando a provocare vittime anni dopo la fine dei combattimenti e impedendo il ritorno di molti rifugiati alle loro case.

Sulla pelle degli afgani, gli Stati Uniti avevano vinto la loro jihad contro l’URSS, senza immaginare che presto la jihad si sarebbe rivoltata contro di loro.

Silvia Boverini

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Fonti:
D. Bartoccini, “Trent’anni fa la ritirata dell’Armata Rossa dall’Afghanistan”, https://it.insideover.com; A. Jacoviello, “La ritirata sovietica dall’ Afghanistan sarà ‘onorevole’”, https://ricerca.repubblica.it; M. Liberti, “L’invasione sovietica dell’Afghanistan – il Vietnam russo”, www.instoria.it; www.studiperlapace.it; E. Piovesana, “Afghanistan, 24 dicembre 1979”, http://it.peacereporter.net; https://milanoinmovimento.com; www.it.wikipedia.org

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