1955, si chiude la Conferenza afroasiatica di Bandung
Chi c’è stato, nei regni della fame, non può rimpatriare.
(Pier Paolo Pasolini, L’uomo di Bandung, 1964)
Il 24 aprile 1955 si concluse la Conferenza Afroasiatica di Bandung, iniziata una settimana prima nell’omonima città sull’isola di Giava e promossa da India, Pakistan, Repubblica popolare cinese, Indonesia, Birmania e Ceylon, al fine di inserire un cuneo nell’assetto rigidamente bipolare del mondo all’epoca della Guerra fredda, restituendo capacità e spazi d’iniziativa ai cosiddetti “paesi terzi”; gli scopi erano quelli di incentivare il processo di decolonizzazione e consolidare il fronte dei Paesi ex-dipendenti.
Nehru per l’India, Zhou Enlai per la Cina, Nasser per l’Egitto, Kwame Nkrumah per il Ghana, Tito per la Jugoslavia furono alcuni dei principali leader nazionalisti e anti-colonialisti invitati dall’allora Presidente indonesiano Sukarno per immaginare un nuovo mondo alternativo a quello dei vecchi imperi coloniali europei, ormai in fase di avanzato disfacimento. Sukarno e i suoi ospiti miravano anche a sviluppare una strategia comune ed efficace per la modernizzazione socio-economica dei propri Paesi, favorendone la cooperazione nel quadro di una coesistenza pacifica e andando al di là del dualismo capitalismo-comunismo proposto dalla Guerra Fredda.
Il poeta senegalese David Diop scrisse, a tale proposito:
Per la prima volta nella storia, uomini di razze e tendenze diverse, e tuttavia uniti dall’odio contro il colonialismo e dall’amore per la pace, hanno proclamato la loro volontà di combattere ovunque la tirannia e di difendere la loro indipendenza contro ogni ingerenza straniera.
La conferenza segnò l’affermazione del Terzo Mondo e del movimento dei non allineati sulla scena mondiale. Il termine “Terzo Mondo” era stato utilizzato per la prima volta nel ’52 dal geografo e giornalista francese Sauvy, senza una connotazione denigratoria, ma riprendendo il dibattito della Rivoluzione francese sul Terzo Stato, per indicare tutti quei paesi non aderenti al modello occidentale né a quello sovietico. La definizione venne fatta propria dagli stati che si riunirono a Bandung proprio per proporsi come concreta alternativa a tali modelli.
Per il primo appuntamento della storia fra i paesi africani e asiatici indipendenti non furono fatte troppe distinzioni; non fu invitata alcuna potenza occidentale, ma parteciparono alla pari ventinove stati, abitati da più della metà della popolazione della terra, che sino a dieci anni prima erano colonie o semicolonie dipendenti da stati europei: oltre ai neutralisti, presero parte alla Conferenza tanto paesi comunisti quanto alleati dell’Occidente e persino membri della Nato e dei patti disseminati in Medio Oriente e nel sud-est asiatico da Foster Dulles, il Segretario di Stato di Eisenhower.
In risposta allo scetticismo tinteggiato di razzismo del Segretario di Stato statunitense, che rifiutò di inviare degli osservatori ufficiali alla conferenza, Sukarno presentò il summit internazionale di Bandung come un consesso aperto e tollerante di Paesi alla ricerca di soluzioni eque e solidali ai maggiori problemi dell’età contemporanea, espressione di un sincero spirito internazionalista, non di semplici obiettivi razziali o locali:
[Questa conferenza] non è un club esclusivo […], un blocco che cerca di opporsi agli altri blocchi. È il corpo di illuminate e tolleranti opinioni che cercano di spiegare al mondo che tutti gli uomini e tutti i paesi hanno il diritto di avere il proprio posto al sole – di spiegare al mondo che è possibile vivere insieme, confrontarsi, parlarsi senza perdere la propria identità individuale; e che vuole contribuire alla comprensione generale dei problemi e delle preoccupazioni comuni, e sviluppare una vera coscienza dell’interdipendenza degli uomini e delle nazioni per il loro benessere e la sopravvivenza sulla terra.
I politici occidentali inizialmente si preoccuparono che da questa collaborazione potesse sortire un blocco afro-asiatico in cerca di un ruolo sulla scena internazionale. I pochi osservatori presenti entrarono in un mondo nel quale l’Occidente non agiva da arbitro e non riceveva l’attenzione centrale dei delegati, incentrata piuttosto su uno dei maggiori eventi del Novecento, ossia la transizione di milioni di persone dal colonialismo all’indipendenza. Riconobbero che le popolazioni di Africa e Asia avevano delle priorità diverse da quelle occidentali e compresero che la cooperazione tra i paesi in via di sviluppo non era soltanto una questione regionale, ma avrebbe determinato il destino di tutto il mondo. Il poeta afroamericano Richard Wright, presente a tutti i lavori del summit, fece propri i valori anti-razzisti e solidali di Bandung, diffondendoli negli Stati Uniti e trasformandoli in un importante sostegno ideologico al movimento dei diritti civili guidato da Martin Luther King.
La conferenza definì il colonialismo “in tutte le sue manifestazioni, un male che dovrebbe essere velocemente curato”, una dichiarazione ampia abbastanza da condannare sia il colonialismo occidentale che il controllo sovietico sui paesi dell’Est Europa. La “Dichiarazione per la promozione della pace nel mondo e la cooperazione”, comunicato finale in dieci punti, incluse impegni per la cooperazione economica e culturale, sostegni ai diritti fondamentali, all’autodeterminazione dei popoli e alla promozione della pace nel mondo e della cooperazione: principi che cercarono di stabilire una base comune nelle relazioni internazionali piuttosto che infiammare vecchie animosità.
Le risoluzioni della Conferenza di Bandung tracciarono una ferma condanna del colonialismo, del razzismo e della politica di segregazione e discriminazione tra gruppi etnici o culture differenti, cui furono riconosciuti pari doveri e bisogni, soprattutto in tema di sicurezza economica e sociale. Coerentemente, la Conferenza enunciò i principi di una politica d’indipendenza economica volta a superare l’egemonia occidentale: cooperazione economica tra paesi asiatici e africani per lo scambio di assistenza tecnica e finanziaria, incoraggiamento alla creazione di industrie nazionali, trasformazione sul posto delle materie prime sino a quel momento acquistate ai prezzi stabiliti dal mercato occidentale, creazione di banche autoctone. Sul terreno della politica internazionale, la Conferenza proclamò che gli stati asiatici e africani rifiutavano di essere trascinati in una guerra per l’una o l’altra delle due grandi potenze mondiali: posizione “neutralista” importante in quella congiuntura politica, perché conteneva l’affermazione di una politica ormai indipendente da parte di quelle nazioni che sino a quel momento avevano visto le potenze occidentali disporre liberamente dei loro destini. I delegati elaborarono inoltre linee guida per la nascita del futuro Movimento dei non allineati (NAM), avvenuta poi a Belgrado nel ‘61.
Dal ‘55 il numero di Stati indipendenti in Asia e in Africa si è quadruplicato, e alcune delle nazioni partecipanti alla Conferenza sono protagoniste dell’economia globale, ridisegnando gradualmente i rapporti di forza tra Nord e Sud del mondo. Dal punto di vista della sfida all’eurocentrismo del passato, Bandung è stata una scommessa sostanzialmente vinta, affermando con forza le voci e le potenzialità dei Paesi non occidentali a livello mondiale. Inoltre Asia e Africa hanno relazioni economiche, politiche e culturali sempre più strette, che promettono di rafforzare ulteriormente l’importanza di tali continenti nei prossimi decenni: l’Europa non è più il motore della storia mondiale.
D’altro canto, molti degli ambiziosi obiettivi della conferenza non si sono realizzati, soprattutto in ambito economico e sociale. La maggioranza dei Paesi afro-asiatici continua a non rispettare diritti umani essenziali; il divario tra ricchi e poveri al loro interno continua a crescere a ritmi vertiginosi; terrorismo e conflitti armati continuano a devastare buona parte dei loro territori. Il NAM e altre organizzazioni ispirate da Bandung faticano a trovare una loro dimensione ideologica e operativa efficace, mostrandosi incapaci di risolvere emergenze umanitarie o crisi diplomatiche internazionali. Inoltre, molte nazioni in Asia e in Africa rimangono pesantemente dipendenti dal potere finanziario degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, subendo forme di neocolonialismo economico come il land grabbing o la privatizzazione selvaggia delle risorse minerarie. L’emigrazione di massa verso l’Europa, provocata spesso dagli effetti di tale neocolonialismo, contribuisce all’ulteriore impoverimento dei Paesi afro-asiatici, privandoli delle energie e delle abilità delle generazioni più giovani. Potenze emergenti come la Cina espandono continuamente i propri interessi strategici, entrando in conflitto con altri Paesi e alzando i livelli di instabilità internazionale. I Paesi africani faticano a sviluppare in modo equilibrato le proprie economie, mentre Iran e Arabia Saudita si contendono i resti di un Medio Oriente dilaniato da tensioni e conflitti armati.
Insomma, il mondo di oggi è molto diverso da quello pacifico, equo e solidale sognato da Sukarno a Bandung. Tuttavia, lo “spirito di Bandung” continua ad animare le attività di numerose organizzazioni non governative e movimenti popolari in cerca di alternative democratiche e sostenibili all’attuale sistema internazionale; ignorata o dimenticata nelle alte sfere, la promessa di un futuro più equo riemerge con forza dal basso e non smette di agitare gli equilibri politici mondiali. È forse questa l’eredità più importante lasciata dalla storica conferenza del 1955 al mondo di oggi.
Silvia Boverini
Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.treccani.it; S. Pelizza, “Lo spirito di Bandung: sessant’anni dopo”, www.ilcaffegeopolitico.org; www.ispionline.it; “I 60 anni della conferenza di Bandung”, https://ilmondocontemporaneo.wordpress.com; http://omero.humnet.unipi.it
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