Da via Rasella a via Ardeatina: occhio per occhio…
Roma, 23 marzo 1944. Diciotto chili di esplosivo e spezzoni di ferro esplodono in via Rasella, proprio mentre l’11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment “Bozen” la sta percorrendo a piedi. Muoiono sul posto ventisei uomini della polizia nazista e due civili Italiani, a cui si aggiungeranno altri sette militari tedeschi nei giorni successivi.
L’attacco fu progettato e realizzato da 17 dei cosiddetti gappisti, i membri dei Gruppi d’azione patriottica (GAP), le unità partigiane del Partito Comunista Italiano. Legittimo o meno, fu uno dei più tremendi attentati urbani anti-tedeschi. Va da sé, non poteva rimanere impunito, soprattutto considerato che, in quel periodo, la capitale era occupata dai nazisti. Questi, già in precedenza, non avevano risparmiato atti di crudeltà, come il rastrellamento del ghetto di qualche mese prima.
La rappresaglia fu pressoché istantanea, se si considera che la decisione coinvolse anche l’alto comando in Germania: dieci uomini per ogni tedesco ucciso. 330 vittime sacrificali non erano facili da trovare in meno di ventiquattrore, ma, alla fine, ne moriranno cinque in più.
Le modalità con cui le Fosse Ardeatine si riempirono di morte sono sconcertanti: possibili solo se quel meccanismo umano chiamato empatia viene messo a tacere completamente. La deumanizzazione dell’altro, della vittima in questo caso, può spalancare le porte sugli abissi della moralità.
Così, più di tre centinaia di persone furono assassinate, una alla volta, con un colpo di pistola al collo dall’alto verso il basso, e accatastate in uno sterminato cumulo di cadaveri. Difficile immaginare di poter compiere un’atrocità del genere. Difficile cercare di immedesimarsi in chi premette il grilletto per così tante volte. Proprio questo comporta la deumanizzazione: non sei più umano, dunque non posso sentirti soffrire. Quel giorno, un pezzetto di umanità si sgretolò per sempre.
Alessio Gaggero
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