A Orangeburg il no al razzismo nel bowling si paga con la vita
Succedeva a Orangeburg, nella Carolina del Sud, 51 anni fa, l’8 febbraio del 1968, che la dignità umana, l’inalienabile e insopprimibile diritto di ogni essere umano ad essere considerato e trattato come una persona, venisse affermata anche in relazione al bowling. Però, tentare di far riconoscere il valore di ogni essere umano poteva essere pericoloso. Talmente pericoloso che quel tentativo sfociò nel Massacro di Orangeburg.
La segregazione razziale
I fatti accaduti a Orangeburg vanno inseriti in una cornice precisa. La schiavitù era stata abolita più di cento anni prima, nel 1865, ma negli Stati del sud, si era affermata la segregazione razziale , cioè il principio secondo il quale bianchi e neri erano “uguali ma separati“. E separati dovevano vivere.
Nel 1896 la Corte suprema, in applicazione di tale principio, aveva ratificato la segregazione dei neri nei trasporti, nei servizi pubblici, nelle scuole ecc.
In parole povere, il razzismo non era illegale. Anzi, era illegale ribellarsi al razzismo. Ed era terribilmente pericoloso.
Il movimento anti-segregazionista
Dopo la Seconda Guerra Mondiale i movimenti anti-segregazionisti ebbero uno sviluppo decisivo, grazie al ruolo svolto dalle Chiese evangeliche e al ricorso a forme di lotta nonviolenta, che suscitarono un rispetto fino ad allora insperato nella popolazione bianca non razzista.
Nel 1954, poi, la Corte suprema con una sentenza storica segnò una netta discontinuità rispetto alla tutela della segregazione. Infatti, diede ragione a una famiglia nera che aveva intentato una causa perché la figlia potesse frequentare una scuola per bianchi.
Il principio stabilito dal massimo organo giurisdizionale, però, non scalfì l’ottusità dei razzisti, la cui opposizione all’integrazione fu tale che per alcuni anni in molti Stati gli studenti neri dovettero andare a scuola scortati dai soldati.
Rosa Parks, Martin Luther King e la Corte suprema
Intanto una donna in Alabama diede il via ad un movimento contro la segregazione negli autobus. Su tali mezzi, infatti, i neri non erano solo separati dai bianchi ma dovevano cedere loro il posto. Rosa Parks, che si era rifiutata di cedere il proprio posto ad un uomo bianco, venne perfino arrestata. Ma fu un boomerang per i segregazionisti: un allora sconosciuto Martin Luther King, per protestare contro la segregazione razziale, organizzò un boicottaggio pacifico delle autolinee di Montgomery.
La comunità di colore di Montgomery per ben 381 giorni si astenne dal prendere quegli autobus, come aveva fatto quotidianamente fino ad allora. Accusate di aver intralciato un servizio pubblico, King e altre 90 persone furono arrestate. Il reverendo King, però, ricorse in appello e vinse.
Il 4 giugno 1956, una corte distrettuale degli Stati Uniti d’America stabilì che la segregazione razziale sugli autobus di linea urbana era anticostituzionale.
La nascita del sit-in
Mentre seguivano altre mobilitazioni, tese ad ottenere l’esercizio pieno del diritto di voto e a garantire un’effettiva alfabetizzazione dei neri, guidate dal movimento di Martin Luther King, nel 1960, a Grennsboro, in North Carolina quattro studenti neri tennero a battesimo il sit-in. Dopo aver acquistato alcuni articoli in un magazzino, avevano chiesto un caffé al banco, ricevendo come di consueto un netto rifiuto. Invece, di sloggiare con le orecchie basse, come i razzistisi aspettavano che facessero, restarono seduti, fino alla chiusura del negozio.
Il sit-in diventò una forma di protesta contro la segregazione e la discriminazione così diffusa da essere adottata in 15 città di 5 stati del sud.
Le marce del ’63
Nell’aprile ‘63, M.L.King aveva organizzato una marcia di protesta di 40 giorni, durante la quale erano stati arrestati più di 2500 neri. Anche in conseguenza di questa recrudescenza repressiva, le manifestazioni si erano moltiplicate su tutto il territorio degli Stati Uniti, a sud come a nord.
Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, proprio in quell’aprile del ‘63, aveva chiesto al Congresso di emanare leggi che: garantissero ai cittadini un uguale accesso ai servizi e alle strutture pubbliche e private; vietassero efficacemente la discriminazione nelle assunzioni da parte di imprese e istituzioni federali; proibissero al governo federale di fornire in alcun modo un sostegno finanziario a programmi o attività favorenti la discriminazione razziale.
Pochi mesi dopo, il 28 agosto si svolse la marcia su Washington contro la discriminazione razziale. Vi parteciparono tutte le maggiori associazioni, ma anche persone comuni e perfino le star del cinema e della musica (abbiamo ricordato l’impegno di Paul Newman in tale ambito in questo post, nonché quello di Sidney Poitier e di Sammy Davis Jr). Quel giorno gli Stati uniti si fermarono: ogni attività venne sospesa e mentre gli americani guardavano l’avvenimento in diretta alla televisione, tutto il mondo ne veniva a conoscenza tramite quotidiani e riviste.
Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto
I partecipanti alla marcia, ribadendo il loro convinto credo nelle istituzioni democratiche e nella capacità del potere legislativo di far rispettare la giustizia, intendevano fare pressioni sul Congresso per la promulgazione del Civil Rights Act.
Com’è noto l’iniziativa legislativa di Kennedy non vedrà la luce che dopo l’assassinio di John Kennedy (il 22 novembre ’63, lo abbiamo ricordato qui).
Portate avanti dal suo successore, Lyndon B. Johnson, con l’appoggio decisivo di Robert F. Kennedy (ministro della Giustizia), queste istanze ebbero infine successo con l’approvazione del Civil Rights Act del 1964, seguito dal Voting Act del 1965.
La discriminazione e la segregazione nella vita quotidiana
Nonostante tutto ciò, nella vita di tutti i giorni, in posti come Orangeburg, si era ben lontani dal vedere compiuto il processo di desegregazione.
Inoltre, i neri vivevano in condizioni di estrema povertà assai più di quanto non accadesse alla popolazione bianca. Nel Paese più ricco del Pianeta, buona parte della popolazione nera non trovava lavoro, era costretta a tirare avanti con sussidi sociali e a vivere nei ghetti in condizioni inumane, dove spesso l’unica prospettiva possibile era quella criminale.
Neppure la violenza razzista era sparita: proseguivano, infatti, gli assassinii e gli attentati ai danni dei neri e di quei bianchi apertamente contrari alla discriminazione. Organizzazioni quali il Ku Klux Klan (KKK) o i White Citizens Councils (Comitati di cittadini bianchi) erano tutt’altro che in crisi. L’ideologia razzista era impermeabile alle leggi e alle sentenze, e i razzisti se ne infischiavano delle marce.
Per essi il presidente Johnson e il suo predecessore, John F. Kennedy, così come il fratello di questi, Robert, o il reverendo King, erano degli “amici dei negri”, degli anti-americani, dei pericolosissimi sovversivi, dei filo-comunisti.
Il massacro di Orangeburg
Perciò, nel 1968 protestare contro la segregazione razziale, inclusa quella praticata nelle sale da bowling, in una città del sud come Orangeburg, poteva significare il rischio di morire.
La segregazione nelle piste da bowling di Orangeburg
La protesta iniziò il 6 febbraio, quando 200 studenti si riunirono per protestare contro la segregazione razziale nelle sale bowling della zona.
La segregazione nelle sale da bowling poteva sembrare un fatto trascurabile in mezzo a tanta ingiustizia, violenza e prevaricazione. La stessa protesta poteva apparire un po’ bizzarra ai benpensanti, a coloro che si dichiaravano non razzisti ma aggiungevano che i neri un po’ se le andavano a cercare. In realtà, non si trattava di un voler piantar grane a tutti costi.
Reagire al fatto che perfino in quelle sale persistesse la prepotenza bianca significava, a ben vedere, mettere in risalto la squallida cattiveria della mentalità razzista. In particolare, si accendevano i riflettori sulla persistente ottusità dei razzisti dichiarati e sulla meschinità di chi si dichiarava terzo, cioè “né con quegli esagitati del Ku Klux Klan né con quei fanatici estremisti del movimento per i diritti civili“. Del resto la ribellione contro tale segregazione finiva anche con lo svelare la bassezza dei proprietari delle sale che, dicendo grosso modo “a casa mia faccio come mi pare”, si trinceravano dietro l’argomento della “proprietà privata” dei loro locali pubblici.
Gli arresti
La prima dimostrazione si svolse senza incidenti, protraendosi per 24 ore di protesta ininterrotta. La notte dopo, tuttavia, 15 studenti vennero arrestati. La notte seguente, la folla, sebbene disarmata, diventava sempre più compatta e determinata a far sentire le proprie ragioni. La notte dell’8 febbraio 1968, quindi, centinaia di studenti, riuniti nel locale campus universitario per la terza notte di proteste, erano già alquanto provati da una lunga serie di confronti sia con le forze dell’ordine che con i politici e la popolazione bianca locale.
Riguardo alle prime, quei giovani stavano affrontando non solo i poliziotti della Carolina del Sud ma anche le truppe della Guardia Nazionale, dotate perfino di veicoli militari.
La sparatoria
Forse per imporre il silenzio, ad un tratto un poliziotto sparò in aria. Quello sparo, però, non fu seguito dal silenzio. Gli altri poliziotti, sentendo la detonazione, aprirono a loro volta il fuoco sulla folla disarmata. Sparavano con dei fucili. Tre studenti furono uccisi – Samuel Hammond, Henry Smith e Delano Middleton – e altri 27 rimasero feriti.
Quello di Orangeburg fu uno dei primi scontri tra studenti universitari e forze dell’ordine negli Stati Uniti a sfociare nel sangue. Quelle pallottole sparate contro gli studenti a Orangeburg precedettero di due anni quelle della Kent State University e e di due mesi quelle usate contro il leader dei diritti civili Martin Luther King Jr.
Una sola condanna, per l’attivista Cleveland Sellers, rappresentante dell’ “Associazione studentesca non violenta”
Il Governatore del South Carolina, Robert E. McNair, nella conferenza stampa del giorno dopo, attribuì la responsabilità del massacro di Orangeburg a fantomatici infiltrati del movimento Black Power. Le indagini successive sbugiardarono questo volgare tentativo di trasformare le vittime in colpevoli, negando la palese, assurda, ingiustizia della violenza subita.
Il processo che seguì fu il primo in cui la polizia era accusata di un uso eccessivo della forza durante una manifestazione di protesta. Tutti e 9 gli agenti imputati, però, furono assolti. Anzi, l’unico ad essere condannato alla reclusione, per sette mesi, fu l’attivista Cleveland Sellers. Questo rappresentante dell’ “Associazione studentesca non violenta” fu giudicato reo di aver incitato la folla e, quindi, di aver causato la sparatoria. Venticinque anni dopo la condanna, Sellers ricevette la “grazia”, ma la rifiutò: considerava quella condanna un vessillo d’onore.
Alberto Quattrocolo
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