25 ottobre 1911: gli italiani iniziano a deportare i libici in Italia

Antefatti: l’invasione e l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica

Le navi italiane aveva aperto il fuoco contro le forze turche di stanza in Libia il 3 ottobre 1911, pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum inviato dal governo Giolitti al governo turco. E così era iniziata la guerra italo-turca, motivata dal fatto che il Regno d’Italia voleva delle colonie in Nord Africa e aveva deciso che quelle che facevano al caso suo erano le due province del vacillante impero ottomano costituite dalla Tripolitania e dalla Cirenaica[1].

L’Impero ottomano, sulla carta, era un nemico facile da battere, ma la sconfitta delle forze turche fu un po’ meno rapida e un po’ più impegnativa rispetto a come era stata immaginata[2]. Inoltre, la popolazione libica considerò gli italiani come dei conquistatori e non dei liberatori dalla dominazione turca, anche se questa era stata l’aspettativa del governo italiano[3].

Soprattutto non potevano essere considerati gesti di liberazione il massacro indiscriminato perpetrato, il 23 ottobre, per le strade di Tripoli, come rappresaglia per gli attacchi alle truppe italiane da parte della popolazione locale, al fianco dei soldati turchi, nelle vie della città e nel vicino villaggio di Sciara Sciat.

25 ottobre 1911, Giolitti ordina la deportazione dei ribelli

Alle 16,45 del 25 ottobre – quindi, due giorni dopo l’attacco arabo ai soldati italiani appostati a Sciara Sciat e la successiva caccia italiana all’arabo per le vie di Tripoli, esitata in 4000 morti, bambini, ragazzi e donne inclusi, – il presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Giovanni Giolitti, inviava al generale Carlo Caneva, a capo del corpo di spedizione italiano, un telegramma:

Quanto a rivoltosi arrestati, che non siano fucilati costà, li manderà alle isole Tremiti, nel mare Adriatico, coi domiciliati coatti, dove ella può direttamente dirigerli avvisandomi partenza. Le isole Tremiti possono accogliere oltre 400 detenuti.

Tra il 25 e il 30 ottobre Caneva imbarcò assai più di 400 detenuti: il numero esatto non è noto, ma non si è lontani dalla realtà affermando che furono più di 4.000. Infatti, non furono inviati solo alle Tremiti, ma anche a Ustica, Favignana, Caserta, Gaeta e Ponza, cioè nelle colonie penitenziarie.

Ma chi erano coloro che venivano deportati?

Le vittime casuali della deportazione

Raccontava un testimone oculare, il giornalista Giuseppe Bevione, che ad essere imbarcati erano «uomini di tutte le età: vecchi canuti e giovani imberbi» [4]. Alle Tremiti giunsero soprattutto le persone catturate nell’area di Tripoli. Secondo la relazione della Commissione dei prigionieri di guerra dell’epoca, oltre a «tutti coloro che erano accusati di attività politica o militare o di collaborazione con i ribelli e che esercitavano, in virtù del loro rango sociale, una certa influenza sulle rispettive tribù», venivano deportati anche

un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e di bambini e ragazzi.

In pratica veniva deportato chiunque capitasse a tiro, «in modo frettoloso».

Chi moriva in viaggio veniva gettato in mare, per gli altri iniziava l’agonia

Il viaggio, di 4 giorni circa, per le Tremiti e le altre destinazioni non era una crociera turistica né erano dei villaggi turistici i luoghi di destinazione.

Le navi erano gelide e inadatte a trasportare dei reclusi, molti dei quali perivano proprio per le condizioni di questa navigazione e venivano semplicemente gettati fuori bordo.

Nelle colonie penali italiane le possibilità di sopravvivere alla detenzione erano minime. Alle Tremiti, dove c’era posto per meno 400 persone (360), ne arrivarono più di 1.300. Ne morì uno su tre. Secondo la «Direzione delle carceri» la capienza dei sette cameroni destinati ai deportati era al massimo di 360 posti. Così tutti gli altri furono ammassati in maniera promiscua, malati e sani, maschi e femmine, bambini e adulti, un po’ nelle stalle e un po’ nelle grotte. Cavità «scavate sul pendio nel monte sovrastante l’Isola di San Nicola», come scrissero due delegati di Pubblica sicurezza il 2 novembre 1911, che «mancano di porte ed il vento vi penetra da tutti i lati», «buie, umide e senza scolo», «poco adatte persino per gli animali».

Le cifre

La scarsità di cibo e acqua, l’abbondanza di malattie (soprattutto, il tifo e il colera), l’ostilità di una parte cospicua della popolazione locale, che spesso rubava i viveri destinati ai prigionieri, spiegano perché già il 9 gennaio 1912 risultarono deceduti 198 deportati: inclusi due bimbi di 10 anni, mentre a giugno i morti erano diventati 437, un terzo di quelli che erano arrivati. Del resto, i tremitesi che, vedendo in quei deportati degli esseri umani, mostrarono loro della solidarietà, furono accusati di «sovversione» e di «simpatie socialiste».

Non diverso era il destino dei libici che venivano inviati nelle altre colonie penali. Come i 920 uomini che, il 29 ottobre 1911, laceri e malandati venivano sbarcati ad Ustica. Di questi 69 perirono entro due mesi dall’arrivo, inclusi giovani di 16 anni.

Al 31 gennaio 1912 i morti in viaggio non erano meno di 600-700, mentre i deportati giunti vivi nelle strutture detentive italiane erano stati così distribuiti: 1.080 alle Tremiti, 834 ad Ustica, 654 a Gaeta, 349 a Favignana, 136 a Ponza. Di questi entro il 1912, ne vennero rimpatriati 917. Ma le deportazioni continuarono negli anni seguenti per impennarsi durante la grande rivolta del 1915, tanto che nel marzo del 1916 (nel pieno quindi della Prima Guerra Mondiale, cui l’Italia prese parte per “liberare” alcuni territori dalla dominazione austro-ungarica), nella sola Ustica vi erano 1.300 libici detenuti[5].

Una dominazione vergognosa, oltre che inutile e fallimentare.

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Mentre sul Carso i soldati italiani si avviavano a morire come le mosche – e la popolazione civile subiva pesantissimi effetti collaterali[6]  -, il conflitto contro i libici continuava, sopravanzando continuamente le punte di spietatezza già raggiunte.

Anche la ritirata delle truppe italiane dalle regioni più interne verso la costa fu punteggiata di abusi, massacri, razzie e altre forme di sadismo: persone ferite gravemente che venivano inondate di benzina e bruciate vive dagli ufficiali e dai soldati italiani, altre buttate dentro i pozzi, molte fucilate per capriccio, per non citare i paesi non ribelli che venivano depredati con sistematicità.

Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine.

Nel suo rapporto per il generale Santangelo, il tenente colonnello Gherardo Pànatano aveva scritto:

Non è raro purtroppo sentire ufficiali distinti e di animo generoso proclamare le teorie più reazionarie e più feroci, come ad esempio, l’utilità della soppressione di tutti gli arabi della Tripolitania. […] Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente delle esecuzioni e se ne vantano […] Donde venga ai nostri ufficiali tanta cieca ferocia, tanta sete di sangue, tanta raffinatezza di crudeltà, io non so comprendere. […] Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine. Anzi, non potendo vendicarci sui nemici che ottennero, con così scarsi mezzi, risultati tanto vistosi, sfoghiamo l’umiliazione sui deboli, sugli inermi.

 

Complessivamente il tentativo di occupare la Libia durò 4 anni dall’autunno del 1911 alla fine del mese di luglio 1915. Per raggiungere l’occupazione globale sarebbero occorsi altri 17 anni. Più di tre lustri, quindi, segnata anche questi da morte e terrore ai danni della popolazione libica. Un ottavo di essa venne annientato dagli italiani, nei campi di sterminio, con esecuzioni arbitrarie e in combattimento.

Alberto Quattrocolo

Fonti:
Bernini S., Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione, 1911-1918, in N. Lablanca (a cura di), Un nodo, Immagini e documenti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Lacaita, Manduria, 2002
Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. I, Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922, Laterza, Roma-Bari, 1986
Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005

 

[1] Il Regno d’Italia ambiva anche alla regione libica del Fezzan, ma su questa gli ottomani non avevano alcun controllo.

[2] L’impero turco era in piena decadenza, le sue truppe dislocate in Tripolitania e Cirenaica erano incomparabilmente inadeguate a reggere la forza del corpo di spedizione italiano ed era difficile dar loro manforte dalla madrepatria, visto che l’unica via era il Mediterraneo, controllato dalla marina italiana.

[3] Del resto il regio decreto n. 1247 del 5 novembre 1911, che dichiarava l’annessione all’Italia della Tripolitania e della Cirenaica, difficilmente avrebbe potuto essere considerato un atto di liberazione

[4] G. Bevione, Come siamo andati a Tripoli, Bocca, Torino, 1912.

[5] Il 28 novembre 1914, infatti, con l’attacco alla Gahra di Sebha e la distruzione della guarnigione che la presidiava, iniziava la rivolta araba che avrebbe respinto i soldati italiani fino alla costa. Nel gennaio 1915, iniziava infatti una precipitosa ritirata dalla regione del Fezzan. E a fine luglio questa ritirata era costata 5.400 morti uomini del contingente italiano. Ma, complessivamente, come scrisse il Ministro delle Colonie, il numero va portato a 10.000.

[6] L’Italia, dopo un anno di neutralità, entrò nella Prima Guerra Mondiale il 24 maggio 1915. 10 milioni furono i soldati da una parte e dall’altra uccisi nella Prima Guerra Mondiale, 8 milioni di militari vennero feriti e 5 milioni di civili persero la vita per l’occupazione nemica o i bombardamenti.

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