Tesi di Stefania Guido: Complessità dell’ascolto, ascolto della complessità in mediazione familiare

La tesi di Stefania Guido, coordinatrice del Centro di Mediazione Penale della Città di Torino, per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re.) è un percorso di profonda riflessione – sul «conflitto, come condizione costituente l’essere umano»; sulla «complessa dimensione dell’amore nell’ambito della relazione di coppia», sui principali modelli di mediazione familiare e sull’ascolto, «quale dimensione privilegiata degli incontri di mediazione» – in cui vengono sapientemente connessi a spunti di notevole interesse forniti da pensieri sviluppati dalle «esperienze formative, di orientamento analitico», da lei precedentemente svolte.

Infatti, come osserva nelle conclusioni,

«sebbene non sia compito del mediatore risolvere i conflitti intrapsichici delle persone, tuttavia mi pare importante evidenziare che, per il mediatore, il non aver timore di trattare l’argomento “conflitto” e le sue differenti riverberazioni proceda dalla soggettiva elaborazione sulla questione». Inoltre, osserva, i contributi teorici che ha proposto sul tema del «riconoscimento possono offrire interessanti spunti di riflessione in merito alla possibilità di aperture verso la dimensione simbolica, dimensione che, essendo eminentemente collegata al pensiero e alla parola, può favorire un’uscita da spirali di azione e reazione». Analoga attenzione viene da lei riservato al «tema dell’amore», visto che «il conflitto di coppia riverbera improrogabili domande affettive, frequentemente di natura non razionale».

Ma se questi temi sono maggiormente correlati all’esperienza e ai vissuti dei protagonisti del conflitto, Stefania Guido non esclude dalla sua analisi anche la posizione delicata del mediatore, soffermandosi sulla complessità dell’ascolto che include una molteplicità di rischi, inclusi quelli connessi alla possibilità che

«un atteggiamento non giudicante, indispensabile a svolgere un processo di mediazione, può incorrere», scivoli inavvertitamente verso una sorta di «collusione». Il che presenta risvolti drammaticamente problematici «nelle situazioni liminali – dove cioè il conflitto vira verso forme di violenza», proponendosi il rischio che «questa stessa posizione non giudicante da parte del mediatore possa essere “ascoltata” e “fraintesa” da coloro che esercitano forme di violenza, soprattutto nei casi di violenza psicologica, come un “dare ragione a loro”».

 Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Stefania Guido.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Ascolto (ed empatia) nella mediazione penale

Nell’ambito dell’incontro organizzato e condotto da Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso e Antonella Sapio, All’ora del thè, in compagnia di Alberto Quattrocolo dell’Associazione Me.Dia.Re., si è parlato di come si concretizza nella pratica dell’incontro una condizione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale e, pertanto, della natura non direttiva, ma di accompagnamento, dell’intervento mediativo. Infatti, dopo avere discusso delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale (si veda questo articolo con il relativo video) e degli sbocchi professionali di entrambe (cliccare qui per l’articolo e il video), lo spunto proposto da una domanda di Maria Alice Trombara ad Alberto Quattrocolo è stato il seguente:

«Alberto, mi volevo ricollegare a quello che tu dicevi sulla mediazione penale specificando che attualmente il modello della Morineau è quello che si usa maggiormente in Europa, ma anche Oltreoceano (pensiamo al Canada): sappiamo che la Morineau propone questa tripartizione in “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”, che lei, come “numismatica greca”, prende dalla tragedia greca, ma nel mondo moderno, nel mondo attuale, come viene vissuta dai nostri medianti questa tripartizione (appunto, “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”) e il mediatore come riesce ad accompagnarli in questi tre stadi, ossia dalle emozioni ai valori, diciamo così?».

Dando per scontato che ci segue sappia precisamente in cosa consistono questi tre passaggi, mi limito a ricordarli velocemente. L’idea di fondo sarebbe che attraverso il percorso di mediazione le persone che vi aderiscono verrebbero accompagnate in una trasformazione, passando da un momento di contrapposizione reciproca, nella quale la verità dell’una esclude quella dell’altra, ad una fase di scontro particolarmente sofferto fino ad arrivare a riconoscere l’umanità altrui: cioè, a sentire riconosciuta la propria sofferenza e a riconoscere quella dell’altro. Naturalmente, li sto banalizzando, questi tre passaggi. Se fosse qui la Morineau, avrebbe il diritto di bacchettarmi le dita.

L’attività di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale non dovrebbe essere condizionata da (eventuali) finalità o aspettative (ri)educative

Ma… per venire alla tua domanda e non girarci troppo attorno, va detto che questa modalità descrittiva può prestarsi tranquillamente anche alle situazioni che continuiamo ad incontrare, sia tu che io, nel nostro quotidiano operativo. Però, una delle accortezze che entrambi dovremmo avere è quello di cercare di non trasformare l’approccio mediativo – quindi, all’insegna di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale – in approccio educativo. Infatti, tu, molto correttamente, hai detto «accompagnare» e non «orientare». In altri termini, si tratta, per il mediatore penale, di non avere aspettative sulle parti, tali che, se non arrivano alla “catarsi”, allora quelle sono persone brutte, sporche e cattive.

Ciò vale per la mediazione penale, d’accordo, ma anche per la mediazione dei conflitti in generale. E, per quanto riguarda la mediazione penale, questa precauzione è importante per evitare che sia proposta una mediazione che abbia in realtà una finalità di Giustizia Riabilitativa (cioè che sia pensata, organizzata e svolta con il fine di procurare la rieducazione e riabilitazione del reo) a spese della vittima. Occorre, pertanto, stare attenti alla possibile strumentalizzazione della vittima, della sua sofferenza, da parte di chi gestisce il percorso di mediazione penale, dato il rischio di procurarle involontariamente una vittimizzazione secondaria, mentre è intento a perseguire lo scopo di procurare al reo un’occasione di tipo rieducativo, di risocializzazione. Bisogna tenere insieme, quindi, le diverse istanze. Poi andrebbe aperta una parentesi, che qui accenno soltanto, su una certa ambiguità che, secondo me, c’è nel nostro ordinamento, il quale sembra mescolare un po’ la Giustizia Riabilitativa e la Giustizia Riparativa. La mia impressione è che ogni tanto la prima venga mascherata, addobbata, con le vesti della seconda.

Ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e intelligenza emotiva

Tuttavia, al di là di quest’ultima digressione, si tratta come dici tu, di accompagnare. E, da questo punto di vista, dar luogo ad una dimensione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale significa creare una situazione relazionale molto rilevante. Quindi, per utilizzare un linguaggio che non si rifà ai miti e ai termini della classicità e della tragedia greca, potremmo dire che un atteggiamento  di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale può essere fondamentale per ripristinare quelle risorse, quelle competenze, che sono state chiamate da Goleman, intelligenza emotiva. Infatti, se questa è considerata come la capacità di sentire e riconoscere le proprie emozioni, di gestirle, di riconoscere le emozioni altrui e di autodeterminarsi, nel senso di saper regolare il proprio comportamento non lasciandolo governare dalla dittatura della situazione (cioè, del conflitto e delle sue dinamiche), allora l’ascolto del mediatore può permettere il ripristino di queste competenze. E, sotto questo profilo, può farsi un parallelo con quanto diceva la Morineau, perché le persone ascoltate ricominciano ad ascoltarsi (ad ascoltare sé stesse), il che rende loro maggiormente accessibile anche l’ascolto dell’altro.

Le differenze tra l’ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e l’approccio conciliativo: gli esempi cinematografici dei “Soliti ignoti” e di “Guardie e ladri”

Naturalmente il recupero da parte dei confliggenti di una capacità empatica l’uno nei confronti dell’altro, cioè di questa dimensione dell’intelligenza emotiva, non è perseguito attraverso un tentativo da parte del mediatore di un loro riavvicinamento di tipo (ri)conciliativo, né è l’effetto di uno sforzo di questo tipo. Il quale, anzi, ove fosse declinato potrebbe verosimilmente produrre un esito opposto, cioè di irrigidimento, proprio nella misura in cui i tentativi del terzo di conciliare sono percepibili dalle parti come disconoscimento delle loro emozioni e ragioni conflittuali, essendo pertanto suscettibili di dare luogo ad un loro irrigidimento reciproco e ad un’irritazione più o meno esplicita verso il mediatore stesso. Insomma, il riconoscimento reciproco tra le persone in conflitto si realizza su un piano contemporaneamente emotivo e cognitivo, grazie all’ascolto e al riconoscimento di ciascuno da parte del mediatore che incrementa un arricchimento della conoscenza reciproca.

La ri-umanizzazione della vittima da parte del reo (“I soliti ignoti”)

A questo proposito, stando con i piedi per terra, mi viene in mente il film “I soliti ignoti” (1958, di Mario Monicelli), forse il capolavoro assoluto della commedia cinematografica italiana, in cui c’è una scena in cui l’aspetto catartico di cui parla la Morineau è ben rappresentato con qualche decennio di anticipo sulla sua teorizzazione. È la scena in cui sul tram Vittorio Gassman nei panni di Peppe, ex pugile suonato di nessun successo e attuale maldestro aspirante ladro, sottrae dalla borsetta di Nicoletta, interpretata da Carla Gravina, le chiavi dell’appartamento in cui lavora come cameriera (quelle chiavi gli occorrono per penetrare con i suoi complici in quell’abitazione e, da lì, accedere al locale adiacente del monte dei pegni che essi intendono svaligiare quella notte). Infatti, in quella sequenza, resosi conto che lei, accortasi della scomparsa delle chiavi e convinta di averle smarrite, è precipitata in un’ansia incontenibile e sta iniziando a disperarsi per la paura di essere licenziata, il personaggio di Gassman muta atteggiamento: il suo meccanismo di disimpegno morale si scioglie, perché empatizza con lei, sicché lei, ai suoi occhi, non è più soltanto uno strumento per compiere il furto progettato, una chiave da girare per avere accesso ai preziosi di cui intende impossessarsi, ma è una persona. L’essere seduto lì accanto a lei, mentre si dispera nella ricerca spasmodica delle chiavi, lo induce a ri-umanizzarla (tanto che di nascosto infila nuovamente le chiavi nella borsa e poi finge di ritrovarle).

 Il riconoscimento reciproco tra il ladro, Totò, e la guardia, Aldo Fabrizi

Anche nell’altro capolavoro del cinema comico italiano, cioè “Guardia e ladri” (di Mario Monicelli e Steno, 1951) – cui abbiamo dedicato, infatti, un post della rubrica Corsi e Ricorsi (in occasione del suo anniversario dall’uscita sugli cinematografici) in cui si evidenziavano le diverse implicazioni in termini di Giustizia Riparativa ante litteram – si verifica qualcosa di simile. Infatti, per buona parte del film il ladro interpretato da Totò e la guardia interpretata da Aldo Fabrizi si demonizzano reciprocamente, sentendosi entrambi oggetto di una persecuzione da parte dell’altro. Entrambi pensano all’altro, e lo descrivono, come se fosse un mostro, come un campione di spietata disumanità. Però, quando hanno la possibilità di conoscersi, pur restando nei rispettivi ruoli, si riconoscono entrambi come esseri umani. Per esempio, si riconoscono e si rispecchiano in quanto mariti e come genitori, nonché in quanto poveri diavoli spaesati in quell’Italia post-bellica, ridotta in macerie e in miseria; poveri diavoli, che, come tutti gli altri italiani, dopo aver attraversato l’inferno del ventennio fascista e della Seconda Guerra Mondiale, arrancano faticosamente, sospesi tra una sorta di speranza incredula e un’angoscia mesta per il presente e il futuro.

Può cliccare qui chi vuole seguire il video, nel quale si commenta anche la canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De André. Qui, invece, si trova il video integrale dell’intervista.

Gli sbocchi professionali per i mediatori penali e per i mediatori familiari

Nell’ambito del ciclo di incontri All’ora del thè, in compagnia di …, organizzato e condotto da Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso e Antonella Sapio, dedicato a «Mediazione Familiare e dintorni. Chiacchiere in rete. “Perché tutti siamo importanti nelle dinamiche familiari”», il 7 luglio, si è parlato (anche) degli sbocchi professionali per chi si è formato alla mediazione penale. Infatti, dopo essersi soffermati sulle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale (si veda questo post della rubrica Riflessioni), si è affrontata la questione di quali sono attualmente gli sbocchi professionali per chi si forma alla mediazione penale e a quella familiare. Lo spunto fornito ad Alberto Quattrocolo per riflettere su questo argomento, infatti, è stato posto da Antonella Sapio in questi termini:

«La mediazione è sicuramente una risoluzione alternativa della controversia – la possibilità di risolvere un conflitto in modo paritario -, e ciò è apprezzabile in una società che tende al conflitto… Ma, da un punto di vista lavorativo, quali sono gli sbocchi e quali possono essere per chi si accinge a seguire un master di Mediazione Familiare o di Mediazione Penale o entrambi?»

Questa domanda sugli sbocchi professionali, se veniva posta fino a qualche tempo fa da chi era interessato a seguire un percorso formativo sulla mediazione penale, dava luogo ad attimi di incertezza e talora a risposte che rischiavano di risuonare elusive oppure vaghe. Infatti, occorre considerare che fino a ieri – fino ad oggi in realtà – ci sono state – e, in qualche misura, permangono – differenze rilevanti tra un territorio e l’altro. Io, ad esempio, vivo a Torino, la città in cui ha sede Me.Dia.Re., e qui dal 1995 c’è un centro di mediazione penale minorile presso il Comune di Torino, che è frutto di un’intesa tra il Ministero della Giustizia, il Comune e la Regione Piemonte. E si tratta di un servizio che lavora moltissimo. Però, non tutte le città, non tutti i capoluoghi di provincia o di regione hanno dei centri così radicati e così antichi.

L’esperienza torinese (replicabile in altri territori) dei Servizi di Ascolto e Mediazione (Penale) che comprendono un servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato e per le persone ad esse affettivamente legate

Per quanto riguarda Me.Dia.Re. fin dall’inizio quasi 20 anni fa abbiamo declinato i nostri Servizi gratuiti come di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, e non solo di Mediazione, prevedendo nel materiale informativo e svolgendo di fatto anche dei percorsi di mediazione tra vittima e reo, e come Servizi di Ascolto e Sostegno alle Vittime di reato e alle persone ad esse affettivamente legate.

Questo fatto ci ha consentito l’attivazione di percorsi di mediazione penale anche in assenza di convenzioni formali con strutture invianti quali possono essere quelle dell’amministrazione della giustizia. Ciò in virtù di accessi spontanei o su invio da parte di servizi non necessariamente legati all’amministrazione penitenziaria e, più, in generale, al sistema della giustizia penale.

Questo tipo di esperienza ci ha fornito delle competenze che abbiamo utilizzato proficuamente in ambito sanitario e in ambito lavorativo-organizzativo.

La mediazione (penale) in ambito sanitario e organizzativo-lavorativo

Due ambiti normalmente non associati alla mediazione penale, ma che invece sono e andrebbero considerati come dei contesti applicativi di approcci di Giustizia Riparativa, nonché come sbocchi professionali piuttosto interessanti. Infatti, nell’uno e nell’altro caso spesso e volentieri il conflitto si collega con un fatto che è previsto dalla legge come reato: nell’ambio del conflitto in sanità, quando si tratta di evento avverso, l’ipotesi è quella della lesione personale colposa o dell’omicidio colposo; nel caso del conflitto sul luogo di lavoro, per esempio, può esserci un’ipotesi di mobbing. Quindi, se si gestiscono quei tipi di conflitto si sta facendo mediazione penale oppure no? Secondo me, sì, dal momento che si può dar luogo all’applicazione di principi e metodi di questo strumento di Giustizia Riparativa.

In termini autoreferenziali, sottolineo che è dal 2005 che portiamo avanti un progetto di Ascolto e Mediazione dei Conflitti in Sanità, introducendo, attraverso dei corsi di formazione, nelle Aziende Sanitarie Pubbliche di Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, proprio dei team (di Ascolto e Mediazione) per la gestione delle relazioni conflittuali tra professionisti della salute (medici, infermieri, ecc.) e pazienti (e loro famigliari). E, non c’è qui il tempo per segnalare quanto il fenomeno del contenzioso in sanità sia d’importanza serissima, sotto diversi profili: umano, sociale, economico e giudiziario.

Non tanto diversa è la problematica dei costi diretti e indiretti derivanti dai conflitti non gestiti all’interno delle organizzazioni di lavoro. Che si tratti di imprese – di piccolissime, piccole, medie o grandi e perfino enormi dimensioni -, di enti pubblici, di cooperative o associazioni del Terzo Settore o di associazioni di professionisti.

L’accresciuto e ulteriormente crescente bisogno di mediatori penali

Poi, certamente, c’è anche la mediazione penale classicamente intesa. E, anche qui, in termini autoreferenziali, Me.Dia.Re. ha una convenzione con le strutture qui presenti sul territorio (in primo luogo, l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna – UIEPE – di Torino), che ci inviano i casi (il che avviene all’interno del progetto ComuniCare, di cui Me.Dia.Re. è partner, e che è successivo al più contenuto progetto Repair, del quale eravamo capofila).

Ma, al di là dell’autoreferenzialità di cui sopra, l’implementazione di questi progetti di Giustizia Riparativa, comprendenti anche attività di mediazione penale, che vedano collaborare l’istituzione pubblica con una rete di soggetti privati, pone in rilievo il fatto che, rispetto ad un relativamente recente passato, è cresciuta moltissimo la consapevolezza dell’utilità – ormai, quasi oserei dire, l’indispensabilità – della mediazione tra autori (o supposti tali) e vittime (o presunte tali); e ciò implica per chi si è formato alla mediazione penale una più concreta possibilità di sbocchi professionali rispetto al passato. Del resto, non a caso noi di Me.Dia.Re. ci siamo trovati a lavorare nei progetti di mediazione penale sopra citati, proprio in concomitanza con l’entrata in vigore delle norme sulla Messa alla Prova per gli adulti. In altri termini, anche della mediazione penale tipicamente intesa c’è un bisogno crescente e viepiù riconosciuto da parte di organi e uffici dell’autorità giudiziaria non meno che da parte dei professionisti dei vari UEPE. A ciò si deve aggiungere che, considerando l’attuale riforma della giustizia penale, la quale prevede un ancora più significativo ricorso agli strumenti di Giustizia Riparativa, è facile prevedere che si aprirà una prateria. Cioè, si parla dell’imminente necessità di una pletora, difficile da quantificare con precisione, di professionisti della mediazione penale. Quindi, oggi la domanda di mediazione penale è imparagonabile a quella che c’era fino a poco tempo fa, allorché, in ogni caso non era, comunque, insussistente. Infatti, non ho problemi ad affermare che diversi mediatori penali che hanno collaborato o che operano attualmente nel Centro di Mediazione Penale Minorile del Comune di Torino sono stati formati da noi nei nostri corsi di Mediazione Penale, Lavorativa, Sanitaria e Scolastica. Ciò significa che quel centro lavora parecchio, come già puntualizzato, e che ha anche bisogno di risorse umane da dedicare a quelle attività. E suppongo che lo stesso discorso possa valere per i centri analoghi di altre città, come Milano, ad esempio.

È possibile vedere qui il video di questo confronto, che comprende anche la risposta fornita da Giovanni Grauso (avvocato, mediatore familiare, membro del consiglio direttivo dell’A.I.Me.F.) alla domanda postagli da Maria Rosaria Sasso:

«Quali possibilità professionali si aprono per i mediatori familiari con la riforma del processo (civile) della famiglia».

Qui si trova quello dell’intervista integrale.

Differenze e similitudini tra mediazione familiare e mediazione penale

Il 7 luglio 2021 abbiamo fatto una chiacchierata a tre sul vasto tema della mediazione penale. Le domande, o, per meglio dire, le sollecitazioni alla riflessione, tutt’altro che banali, poste da Antonella Sapio, Maria Rosaria Sasso e Maria Alice Trombara a Giovanni Grauso e Alberto Quattrocolo sono state tre. La prima delle questioni esplorate è stata quella delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale dal punto di vista operativo.

Il quesito posto da Maria Rosaria Sasso ad Alberto Quattrocolo, infatti, è stato:

«Gli ambiti di applicazione della mediazione sono tanti; perciò, per fare chiarezza a beneficio di chi ci ascolta, che differenza c’è nell’operato di chi fa mediazione familiare rispetto a chi svolge un’attività di mediazione penale?»

Il contesto giuridico

Le differenze tra mediazione familiare  e mediazione penale ovviamente sono relative soprattutto ai protagonisti e al contesto. Riguardo a quest’ultimo, in primo luogo, occorre considerarlo in termini giuridici. La mediazione familiare riguarda la gestione di conflitti disciplinati da norme di diritto civile e in particolare quelle sulla famiglia, sulla separazione, sul divorzio, sulla tutela del minore e così via. La mediazione penale riguarda conflitti legati alla commissione di un reato, perciò le norme sono quelle previste dal diritto penale; e l’autorità giudiziaria competente e le altre istituzioni e strutture coinvolte sono quelle di tale ramo dell’ordinamento.

Il contesto relazionale

Ma, oltre a ciò, rispetto al rapporto tra mediazione familiare e mediazione penale va rilevato che anche lo sfondo e le vicende sono diverse. Da un lato, c’è una coppia genitoriale che sta vivendo un conflitto. Pertanto, soffermando l’attenzione su cu ciò che occorre apprendere ai fini della preparazione allo svolgimento della professione di mediatore familiare, non a caso, i percorsi formativi prevedono l’acquisizione di conoscenze connesse a tale dimensione. Mentre per la mediazione penale è opportuno avere altre conoscenze teoriche e, segnatamente anche quelle criminologiche e vittimologiche. In particolare, può essere decisamente utile conoscere, da una parte, il processo di vittimizzazione, dall’altra, i meccanismi di disimpegno morale che possono attivarsi nella mente dell’aggressore prima, durante e dopo l’esecuzione della condotta lesiva.

Il processo di vittimizzazione

Gli spunti di Viano sugli stadi del processo di vittimizzazione, infatti, sono spesso utili al mediatore quando deve ascoltare e rapportarsi con la vittima. Analogamente la conoscenza dei meccanismi mentali di autogiustificazione della condotta aggressiva tornano molto utili sia nell’ascoltare il presunto reo che nel valutare l’opportunità di accompagnare le due parti all’incontro di mediazione, onde prevenire i rischi di una rivittimizzazione da parte dell’aggressore nei confronti della vittima, specie se il primo persiste in una condizione di totale negazione dell’esistenza reale e dell’umanità della seconda.

I meccanismi di autogiustificazione

Tuttavia, i meccanismi di autogiustificazione sono ravvisabili largamente anche nei nostri quotidiani conflitti non tradottisi in condotte penalmente rilevanti. Possono rilevarsi, dunque, anche in quelle relazioni conflittuali di coppia che vengono gestiti in sede di mediazione familiare. Sicché questo, in realtà, è un tema che pertiene alla mediazione dei conflitti in generale, non soltanto alla mediazione penale, e che andrebbe, quindi, secondo me, esplorato con cura anche nei percorsi formativi sulla mediazione in ambiti diversi da quello penale.

Il tema della violenza

Quest’ultimo rilievo vale anche per la tematica della violenza, ricco di implicazioni anche sotto il profilo dei rapporti tra mediazione familiare e mediazione penale. Pensiamo, per esempio, alla violenza nelle relazioni affettive. È particolarmente importante per un mediatore penale non essere a digiuno su tale tematica, come lo è per un mediatore familiare (ne abbiamo parlato anche in questo post della rubrica Riflessioni). Il che vale anche per quella particolare forma di condotta dannosa che è la violenza psicologica, tanto sottovalutata quanto lesiva (abbiamo affrontato il tema in questo post). Pertanto, nella mediazione penale e nella mediazione familiare occorre essere preparati all’eventualità di trovarsi di fronte ad una relazione caratterizzata da violenza. Il che significa: da un lato, avere conoscenze e competenze adeguate, quindi degli strumenti; dall’altro, avere dei dispositivi che consentano di poter impiegare al meglio quelle conoscenze, cioè, un setting in cui poter usare in maniera idonea quegli strumenti nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare. Così, ad esempio, nel modello Morineau, che è il più impiegato dai mediatori penali, si prevede di svolgere dei colloqui individuali preliminari all’incontro di mediazione. È chiaro che in tali colloqui individuali la persona maltrattata ha maggiori possibilità di rivelare la violenza inflittale, e di parlarne, rispetto alle situazioni in cui, accanto ad essa, si trovi seduta la persona maltrattante.
Quest’elemento dei colloqui individuali rinvia ad un’altra distinzione tra mediazione penale e mediazione familiare, giacché ben pochi modelli teorici e operativi di quest’ultima prevedono lo svolgimento di colloqui individuali come fase necessariamente preliminare all’incontro di mediazione. Anzi, per lo più si prevede come condizione per l’accesso al percorso la contestuale comparsa fin dal primo momento di entrambi le parti davanti al mediatore.

Nel nostro modello, cioè in quello di Me.Dia.Re., che definiamo di Ascolto e Mediazione (il modello è compiutamente descritto in Quattrocolo A., D’Alessandro M. Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli srl, Milano, 2021), si prevede, invece, la realizzazione di colloqui individuali nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare, nonché nelle mediazioni di conflitti sorti in altri ambiti relazionali. Anzi, nella nostra impostazione, si prevede che prima dell’eventuale incontro di mediazione vengano svolti almeno due colloqui individuali con ciascun attore del conflitto e che tra un incontro di mediazione e l’altro si svolgano dei colloqui individuali. Le ragioni alla base di tale accorgimento non sono collegate soltanto al tema della violenza, ma è chiaro che questo non trascurabile ricorso al colloquio individuale aumenta le situazioni in cui i protagonisti del conflitto si trovano a tu per tu con il mediatore, costituendo, pertanto, una risorsa preziosa per l’emersione di eventuali situazioni di violenza.

L’elemento in comune del conflitto e i diversi ruoli, e le diverse possibilità di approccio ad esso, nella mediazione penale e in quella familiare

Ovviamente ci sono anche elementi comuni tra mediazione familiare e mediazione penale: il conflitto, in primo luogo, con le sue dinamiche di spersonalizzazione reciproca, perfino di de-umanizzazione, e in generale con la sua tendenza all’escalation.

Quindi, se è facile immaginare i partecipanti ad un percorso di mediazione familiare, che, nella versione classica di questo tipo di mediazione, sono i membri di una coppia (di fatto o di diritto) di genitori di uno o più figli minorenni che stanno vivendo una vicenda separativa in modo conflittuale, nel caso della mediazione penale è un po’ meno immediato delineare la categoria dei soggetti cui si indirizza. Infatti, va considerato che la mediazione familiare riguarda la gestione di un conflitto tra persone le quali hanno un rapporto che si è sviluppato nel tempo ed è caratterizzato da sentimenti profondi e complessi riguardanti anche altre persone. La mediazione penale può avere, invece, come utenti due persone che non si erano mai viste prima, se il conflitto è nato dalla commissione di un reato e non viceversa. Anzi, in taluni casi, l’autore e la vittima non si sono conosciuti neppure al momento della commissione del reato, come, ad esempio, nel caso del furto in un appartamento in quel momento disabitato.

In comune tra mediazione familiare e mediazione penale, quindi, c’è la gestione del conflitto, ma ci sono delle differenze che riguardano l’eterogeneità degli approcci possibili da parte del mediatore per governare quelle dinamiche.

Come probabilmente avete spiegato in altre interviste e conversazioni, infatti, i modelli di mediazione familiare sono molteplici e, per certi versi, ciascuno risponde, nella pratica operativa, ai modi diversi degli esseri umani di vivere il conflitto e di percepire e reagire alla proposta mediativa.

In ambito penale il modello prevalente è quello cosiddetto Umanistico, di cui un alfiere e una pioniera è stata certamente Jacqueline Morineau. Ebbene, la caratteristica che più salta all’occhio della Mediazione Umanistica è che non persegue un esito conciliativo e, pertanto, non adotta una prospettiva negoziale, di facilitazione di un processo di concessioni reciproche tra le parti, mentre concentra l’attenzione in maniera molto forte sulla dimensione emotiva.

L’accoglienza della dimensione emotiva come accoglienza delle persone al di là del ruolo

Ne deriva che, per chi vuole prepararsi ad operare come mediatore penale, è imprescindibile attrezzarsi alla gestione degli aspetti emotivi, a volte quelli più disturbanti, deflagranti, perturbanti, che possono concretizzare le diverse situazioni relazionali che si andranno ad incontrare. E le persone che s’incontrano in mediazione penale, non meno che in una mediazione familiare, non sono riducibili a dei ruoli.

La non trascurabile natura umana dei protagonisti dei partecipanti ai percorsi di mediazione familiare e mediazione penale

È vero, cioè, che la mediazione penale è tra vittima e autore del reato – presunta vittima e presunto autore, se il percorso di mediazione penale si svolge prima della sentenza di condanna definitiva -, però, non sono due entità astratte, sono esseri umani in carne e ossa, con una loro storia, un loro presente e un loro futuro. E ciò significa che vanno ascoltate al di là del ruolo, vanno ascoltate come persone, nella loro umanità, che è complessa, sfaccettata, tridimensionale. Il ché, a mio parere, per tutti i tipi di percorsi, quelli appunto di mediazione familiare e mediazione penale nonché quelli di mediazione in altri ambiti relazionali.

«Quindi, da quanto è emerso, possiamo dire che mentre nella mediazione familiare c’è una coppia, quindi, anche un legame da ricostruire, nella mediazione penale ci sono delle persone che potrebbero neanche conoscersi, perciò c’è una ferita da sanare, perché la vittima è la parte debole?», osserva Maria Rosaria Sasso.

Sì, riguardo al tema delle ferite, va precisato che mentre la mediazione familiare sorge per prevenire e contenere i danni che il conflitto tra i genitori può arrecare ai figli, i quali sono tutelati dall’esterno (cioè, sono tutelati dal mediatore che tenta di governare quel conflitto, ma non partecipano direttamente ad esso), nel caso della mediazione penale non c’è un soggetto terzo di cui si persegue la tutela. La mediazione penale, in effetti, non sorge per proteggere qualcun altro, ma solo per accogliere e dare prossimità ai protagonisti della vicenda. Nasce, in altri termini, come attività di Giustizia Riparativa, la quale non si dà fini altri e ulteriori rispetto a quelli riguardanti i soggetti che vi partecipano. Poi, certamente, c’è anche la comunità, come aspetto centrale, nell’approccio della Giustizia Riparativa, ma non nel senso di una sua tutela diretta, come accade invece al minore rispetto alla mediazione familiare, che lo tutela dalla sofferenza procuratagli dalla conflittualità sorta tra i genitori.

 

È possibile vedere qui il video in cui Alberto Quattrocolo risponde a questa prima domanda dell’intervista. Mentre qui si trova il video integrale dell’intervista

Tesi di Lucia Santamaria: “Ben ti sta!” Sofferenza, pena e colpa tra mediazione familiare e mediazione penale

La tesi di Lucia Santamaria per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re) è un avvicinamento a quelle emozioni, «sconvenienti», che costituiscono una componente importante dei conflitti e che difficilmente «trovano spazio e legittimità di riconoscimento», generando piuttosto spesso «la messa in discussione della dimensione morale di chi le prova». E tale esplorazione si svolge nel duplice campo della mediazione familiare e della mediazione penale.

Lucia Santamaria scrive, infatti, nell’introduzione:

«La rivendicazione, la sofferenza potenzialmente infliggibile all’altro, assume il valore di un finto sollievo o risarcimento, o di un’azione giusta mirata a riportare nella rottura di una relazione il senso di parità di potere l’uno verso l’altro. Nella dimensione familiare questo può attuarsi nell’escalation di un conflitto altamente costoso per entrambi i configgenti in termini di risorse materiali (tempo, energie e denaro) ed emotivo-affettive e nella devianza rappresentativa del ricorso al diritto familiare come battaglia giuridica che si prolunga nel tempo. Nella dimensione vittima di reato-reo, spesso si concretizza nella devianza rappresentativa del diritto penale visto come vendetta, nella richiesta non solo della certezza della pena, ma di una pena aspra, nella narrazione mediatica distorta e stereotipata che si fa richiesta che il sistema istituzionale presti la voce all’urlo della domanda di giustizia che spesso appare sotto la forma di una richiesta di vendetta. Proprio per questo la risposta giuridica della separazione/divorzio o della commissione di una pena commisurata al reato appare insufficiente perché per sua natura non si fa carico della radice di sofferenza del conflitto e di come questa si declina nei vissuti emotivi dei configgenti e nelle motivazioni che animano il conflitto».

 Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Lucia Santamaria.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Mediazioni e compromessi come sinonimo di vita (libera)

Abbiamo già dedicato una riflessione al tema mediazioni e compromessi (Mediazione e compromesso), in questa rubrica dell’Associazione Me.Dia.Re. (Riflessioni, appunto), ponendo in rilievo anche l’esistenza di una dialettica, a volte un vero e proprio conflitto, tra i favorevoli a priori, da un lato, i contrari per principio, sul fronte opposto, e quelli favorevoli o contrari a seconda dei casi, nel mezzo. A tale riguardo si era posta l’attenzione anche sul contrasto, talora violento, che può svilupparsi all’interno di un gruppo (una famiglia, un gruppo di lavoro, un’associazione sindacale, oppure un insieme di sindacati, un partito politico, o diversi partiti appartenenti alla stessa area, ecc.) tra le cosiddette colombe, cioè coloro per i quali è bene tenere aperti i canali del dialogo e, in particolare, svolgere un percorso di mediazioni e compromessi con la controparte, e i cosiddetti falchi, vale a dire quelli per i quali con il nemico non si deve trattare, poiché il farlo vorrebbe dire rimetterci l’identità, l’onore, la dignità, la sicurezza, i diritti, gli interessi…

Quella spirale conflittuale che non ammette dubbi e fabbrica traditori

Nelle situazioni in cui il conflitto tra due o più entità raggiunge livelli di escalation e radicalizzazione particolarmente significativi, quasi automaticamente iniziano tempi duri per le colombe, tanto che cala un’ombra sui loro suggerimenti di contemplare mediazioni e compromessi come opzioni permeate di pragmatismo e prevenzione di autodistruzioni. Si è assistito innumerevoli volte, nella storia anche recente, alla delegittimazione e, perfino, alla scomunica e alla demonizzazione, dei fautori della prevenzione del conflitto bellico imminente col ricorso a tentativi di mediazioni e compromessi. Ad esempio, nella nostra rubrica Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato come venissero emarginati coloro che erano per un approccio negoziale nel caso della Prima e della Seconda Guerra del Golfo (rispettivamente nei post Un’avventura senza ritorno e Il naturale colore della verità), abbiamo più volte rammentato come venissero tacciati di tradimento nel lungo corso della Guerra Fredda, coloro che, al di qua o al di là della cosiddetta cortina di ferro, promuovevano l’idea del dialogo. Si pensi all’odio di cui fu fatto bersaglio il presidente John F. Kennedy per non aver adottato una politica improntata alla massima durezza verso l’Unione Sovietica (l’abbiamo ricordato qui) e i suoi alleati; ma si può anche ricordare il trattamento riservato dal Cremlino, nonché da una larga parte del mondo dell’informazione e della cultura ossequiosa alle direttive del Politburo, ad Andrei Sakharov [1]. D’altra parte, per ricordare un altro pluridecennale conflitto, si può pensare ad Itzhak Rabin, ucciso, ancor prima che dalla mano del suo assassino, dall’odio verso chi, favorevole al dialogo, viene considerato come traditore dai membri del gruppo cui appartiene; persone che, in quell’occasione, non permisero a Rabin di costruire un futuro di convivenza fondato su mediazioni e compromessi, sicché non gli perdonarono di aver pensato, detto e tentato di mettere in pratica le seguenti parole: «Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere».

Leggi, governi e maggioranze politiche basate su mediazioni e compromessi

Tuttavia mediazioni e compromessi, al di là dei conflitti più o meno ricorrenti tra fautori del dialogo e sostenitori del confronto duro, sono all’ordine del giorno, più di quanto non ci rendiamo conto, negli infiniti microcosmi del nostro ménage quotidiano: in famiglia e in altri contesti relazionali, nonché in ambito imprenditoriale, sindacale, commerciale, finanziario e politico- istituzionale.

Quanti governi, in Italia e altrove, sono stati frutto di mediazione e compromesso?

Riguardo a quest’ultimo ambito, è difficile tenere il conto dei governi che, ad esempio, in Europa, sono sorti a seguito di mediazioni e compromessi[2]. Oggi, il governo Draghi, come molti altri precedenti, inclusi quelli citati in nota, è un altro governo sostenuto dalla quasi totalità delle forze politiche. Occorre, tuttavia, ricordare, per limitarci ai governi della cosiddetta Seconda Repubblica, i tanti governi sostenuti in Parlamento da diversi partiti diversi da quelli risultati vittoriosi all’esito delle elezioni, sulla base di mediazioni e compromessi politici tra le forze parlamentari: da quelli guidati tra il 1994 e il 2001 da Lamberto Dini (supportato da una parte del centro sinistra e da una parte del centro destra), ai due governi di Massimo D’Alema e a quello di Giuliano Amato (tutti e tre successivi alla crisi del governo Prodi e sostenuti dalla fiducia di maggioranze parzialmente diverse da quelle uscite dalle elezioni), a quelli succedutesi nei dieci anni compresi tra il 2010 e il 2021, aventi a capo Mario Monti, seguito, dopo le elezioni del 2013, da Enrico LettaMatteo Renzi e, infine, Paolo Gentiloni (tutti e tre sostenuti dal PD e da un parte del centrodestra) e dai due presieduti da Giuseppe Conte (il primo frutto di un’intesa post elettorale tra il primo e il terzo partito per numero di elettori alle politiche del 2018, M5S e Lega; il secondo frutto di un accordo tra M5S, PD, cioè, il secondo arrivato alle elezioni, e un partito di sinistra avente un minore consenso elettorale, LeU).

La Costituzione e le leggi fondate su mediazioni e compromessi

D’altra parte, mediazioni e compromessi, nei sistemi di democrazia liberale, sono alla base della stessa esistenza di tali ordinamenti e ne costituiscono un nutrimento davvero ricorrente, collocandosi spessissimo come la premessa politica necessaria di larghissima parte della produzione legislativa. Infatti, fu frutto di un’opera complessa e, a tratti anche tormentata, di mediazioni e compromessi anche la stesura e l’approvazione della nostra carta costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio del 1948[3]. Ma anche di leggi ordinarie, che ebbero una rilevanza decisiva per la vita di milioni di persone, anch’esse frutto di mediazioni e compromessi, se ne possono ricordare numerosi esempi e, tra le più dibattute, si può pensare: alla legge che ha introdotto nel nostro ordinamento il divorzio ed a quella sull’aborto, nonché alla legge, di diversi decenni successiva, sulle unioni civili, approvata il 20 maggio del 2016[4]; oppure, per fare un altro balzo temporale all’indietro e passare ad un altro ambito, si può pensare allo Statuto dei diritti dei lavoratori [5].

«Compromesso è sinonimo di vita» e non può essere a sua volta un dogma

Da quanto sopra esposto si potrebbe pensare che si voglia proporre un elogio del compromesso senza se e senza ma. Il che per certi aspetti corrisponde al vero, se e nella misura in cui mediazioni e compromessi vengono ad essere intesi come antitetici all’ottusità, all’intolleranza, al dogmatismo, al fanatismo, alla compressione o alla negazione delle libertà e degli altri diritti fondamentali.

Amos Oz, in “Contro il fanatismo”, ha scritto:

«Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza d’integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte… Ritengo che l’essenza del fanatismo sia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere».

Spostandosi sul terreno della gestione (professionale o meno) dei conflitti, le parole di Amos Oz hanno una rilevanza peculiare. Infatti, anche il mediatore professionale (familiare, penale, in ambito sanitario, in ambito organizzativo-lavorativo, ecc.), come chi in una certa situazione si trova a svolgere tale ruolo, pur non essendo quella la sua professione, deve stare attento a non essere guidato dal proprio «desiderio di costringere gli altri a cambiare ».

La neutralità del mediatore e l’astensione dal tentativo di rendere migliori i confliggenti

Per Amos Oz occorre controllare quella «inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere». Ebbene, la stessa avvertenza potrebbe valere per chi si appresta a gestire un conflitto altrui. Gestire un conflitto tra coniugi (mediazione familiare), tra fratelli o tra genitori e figli (mediazione in famiglia), tra autore e vittima di un reato, tra un paziente e un medico (mediazione sanitaria), tra due o più membri di un’équipe di lavoro (mediazione organizzativo-lavorativa), ecc., infatti, specie se lo si fa professionalmente dovrebbe significare agire con spirito imparziale e neutrale: imparziale nel senso che non si parteggia per nessuno degli attori del conflitto; neutrale nel senso che non si deve perseguire un particolare esito del percorso. La neutralità, quindi, significa anche non cercare di pilotare la mediazione verso l’estinzione del conflitto, muovendo dall’assunto che la sua esistenza è dannosa per i protagonisti e gli altri soggetti interessati dai suoi effetti, moralmente ed eticamente negativa, economicamente costosa… Infatti, sostanzialmente tutti i modelli di mediazione si fondano sulla sospensione del giudizio non soltanto sulle ragioni, aspirazioni, interessi e obiettivi delle parti, ma anche sul loro essere in conflitto. In breve, si può dire, pressoché tutte le impostazioni partono dalla premessa che il conflitto in sé non è un fatto negativo e che i suoi protagonisti non vanno giudicati negativamente per il fatto di esserne attori e autori.

La sospensione del giudizio sul conflitto e sui suoi protagonisti

Abbiamo già scritto altrove che la mediazione familiare dovrebbe essere laica, cioè non dovrebbe essere intesa né svolta come una specie di processo (non dichiarato) in cui i membri della coppia genitoriale sono posti sul banco degli imputati, accusati di agire irresponsabilmente contro gli interessi dei loro figli, in quanto intrappolati dalle spire delle ripicche reciproche, dei rancori, delle ansie di controllo e dai desideri di “fargliela pagare”. E lo stesso dicasi per la mediazione di conflitti relativi ad altri ambiti relazionali o sociali. Infatti, se, per il mediatore, la premessa non solo concettuale ma anche relazionale è che il conflitto non è né positivo né negativo, allora dovrebbe evitare non soltanto di giudicare, ma anche di fare, indirettamente, sentire giudicate le persone che a lui si rivolgono. Il giudizio negativo, però, in realtà, diventa un fatto, cioè un atteggiamento, intrinsecamente implicito, e talora decisamente esplicito, se e quando il professionista persegue la finalità di porre termine al conflitto, inducendo i suoi attori a comportarsi, a sentire e a pensare in termini non conflittuali ma collaborativi. In tali casi, infatti, senza dichiararlo lavora per far cambiare le persone che ha davanti, per renderle migliori, per raddrizzarle dalle storture del pensiero e dei sentimenti che il conflitto ha provocato in loro. Insomma, non gli sta bene che siano conflittuali come sono e vuole indurle a smetterla di esserlo. Il che, tuttavia, non significa esattamente farle sentire accettate, né rispettare la loro libertà di «lasciarli vivere».

Mediare non significa necessariamente perseguire l’estinzione del conflitto

Nella rubrica Riflessioni abbiamo scritto numerosi articoli (ma si può anche leggere il saggio A. Quattrocolo, M. D’Alessandro, Ascolto e Mediazione, Franco Angeli srl, Milano, 2021), riguardo al fatto che esiste anche un’impostazione secondo la quale l’obiettivo del percorso di mediazione non è necessariamente quello di estinguere il conflitto (lo è quando è questa la richiesta delle parti), bensì offrire ai confliggenti, anche quelli indisponibili a mediare nel senso prevalentemente attribuito a tale verbo, degli spazi in cui essere ascoltati, compresi e riconosciuti dal mediatore, ed eventualmente da lui supportati nel far pervenire all’altro dei contenuti importanti fin lì ignorati.

Come ha scritto Lucia Santamaria nella sua tesi di fine corso:

«La mediazione, lontana dalla pretesa irenica di estinguere ogni conflitto, assume i tratti di uno spazio libero in cui la sospensione del giudizio e la dimensione di ascolto del mediatore possono neutralizzare il vissuto di sconvenienza delle componenti emotive vendicative restituendo anche a queste la dignità di esistere e di essere ascoltate e riconosciute. Uno spazio in cui il vissuto doloroso dei configgenti è accolto senza censure e giudizi. Non è detto che questo basti per portare a il conflitto a risoluzione, la mediazione è nel suo senso più pieno una possibilità e configgenti e mediatori abitano la terrà libera della possibilità di comprensione, interpretazione e significazione e non quella della certezza della risoluzione o del controllo del conflitto».

Sulle caratteristiche, il metodo e le finalità di questa impostazione (detta appunto “Ascolto e Mediazione”) che cerca di evitare di fare la guerra al conflitto (quindi, ai confliggenti) ci si è soffermati già più volte, però restano degli aspetti da precisare.

Un’apparente contraddizione di fondo

A questo punto del discorso, però, ci si potrebbe chiedere:

«Se la mediazione non persegue l’estinzione del conflitto, allora che senso ha? Pensare che la mediazione familiare possa non avere come finalità la cessazione delle ostilità tra i membri della coppia genitoriale non significa forse rasentare una contraddizione stridente, dal momento che quel particolare tipo di gestione del conflitto sorge proprio per tutelare i figli (minori) dagli effetti spesso pesantemente deleteri della conflittualità che domina i rapporti tra i genitori?»

In molti risponderebbero di sì ad entrambi gli interrogativi. In mediazione e compromesso abbiamo posto in rilievo come la gran parte delle scuole di pensiero e delle metodologie operative interpretino l’attività del mediatore come finalizzata alla conclusione del conflitto, il più delle volte, sanzionata dal conseguimento di un accordo (formale o informale). In estrema sintesi, per lo più, la mediazione è intesa e applica come percorso teso a far uscire i confliggenti dalle strettoie della contrapposizione e a giungere, a seconda dei paradigmi di riferimento, ad un riconoscimento reciproco, alla pattuizione dei loro rapporti futuri, inclusi eventuali risarcimenti e indennizzi simbolici e/o economici. Il che, però, come si faceva notare, pone anche qualche problema operativo rispetto a coloro, e non sono pochi, che rischiano di essere esclusi (cioè di rifiutarsi di partecipare o di farlo solo proforma), in quanto non intendono mediare, ma vincere, magari perché aspirano ad avere la soddisfazione di sentirsi riconosciuta la loro ragione o, più in generale, ad ottenere giustizia; oppure perché intimamente vogliono vendicarsi ma ci sono anche coloro che sono disposti a perdere pur di lottare per la difesa di un principio, così come si può essere disposti a tollerare costi, angosce e disagi pur di proteggere sé o altri dalla cattiveria o dalla doppiezza di cui si è convinti che sia traboccante la controparte…

Un’impostazione alternativa, che slega mediazioni e compromessi tra le parti e li pone all’interno della mente del mediatore tra giudizio e non-giudizio

In quell’articolo si accennava anche al fatto che normalmente mediazioni e compromessi sono intese come legate da una sorta di rapporto genitore-figlio: le prime, se funzionano, generano i secondi. Ma si può anche interpretare questa dinamica come qualcosa che si sviluppa ad un livello più profondo, meno visibile e meno scontato, nella mente del mediatore: si tratta di un rapporto tra aspetti mentali, emotivi e cognitivi, in cui la mediazione e il compromesso si scambiano di posto ed è il secondo (a sua volta, frutto di una mediazione introspettiva, interna alla mente del mediatore) a creare le condizioni per la prima. Il compromesso interno, che si svolge nella mente del mediatore, precede, secondo tale prospettiva, lo svolgimento dell’intervento professionale di mediazione, cioè di un percorso di incontri non giudicanti con gli attori del conflitto, cui il mediatore riconosce ad essi la libertà di essere come sono. Si tratta di una mediazione della dialettica interna al mediatore tra «quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino» e il rispetto per la sua libertà di essere come vuole. Un processo, quindi, che esita in un compromesso sempre interno alla sua mente e che lo prepara alla gestione del percorso di mediazione vera e propria con i confliggenti, accompagnandolo anche in ogni momento d’interazione con loro. Quindi, in tal caso, una serie di mediazioni e compromessi si sviluppano nell’animo del mediatore prima, durante e dopo gli incontri con le parti, con la funzione di consentirgli di acquisire e conservare un equilibrio, instabile e dinamico, che lo preservi dal tradurre i propri sentimenti e pensieri, eventualmente intrisi di disapprovazione in atteggiamenti e comportamenti avalutativi in presenza delle parti, consentendogli la più totale libertà di valutazione in loro assenza.

Alberto Quattrocolo

[1] Come abbiamo ricordato in un post a lui dedicato (Sakharov, un portavoce della coscienza per l’umanità, oggi come ieri), il padre della prima bomba H sovietica, nel 1953, divenuto poi riluttante coordinatore del team che fabbricò la “bomba dello Zar”, prima di diventare, sei anni dopo, esplicito sostenitore della necessità «di un riavvicinamento dei sistemi socialista e capitalista, che potrebbero eliminare o ridurre sostanzialmente» le più gravi minacce per la sopravvivenza dell’umanità, cioè

«estinzione termonucleare, catastrofe ecologica, carestia, un’esplosione incontrollata della popolazione, alienazione e distorsione dogmatica della nostra concezione della realtà». Le sue dichiarazioni sul raggiungimento attraverso mediazioni e compromessi di «una società democraticamente governata, democratica e pluralista, priva di intolleranza e dogmatismo, una società umanitaria che si preoccupi della Terra e del suo futuro».

Queste idee, infatti, che gli fruttarono il Nobel per la pace nel 1973, gli procurarono anche le ire del Partito: lettere firmate dai membri dell’Accademia Sovietica delle Scienze lo accusavano pesantemente sul piano politico, mentre sui giornali comparivano lettere fasulle di “persone semplici” che lo attaccavano come “traditore” e, man mano, che si rafforzava il suo impegno per la difesa dei diritti umani in ogni angolo della Terra, attraverso accordi internazionali e non con l’ingerenza nella vita di singoli Paesi, attraverso un approccio riformista globale e non rivoluzionario, cresceva l’insofferenza del Politburo nei suoi confronti, che arrivò a perseguitarlo in tutti i modi possibili, facendolo passare per il peggiore dei traditori.

[2] Perfino i governi che diedero vita alle dittature fasciste italiane e tedesche, in qualche misura, si fondarono su accordi tra parti e istituzioni politiche diverse: quello di Benito Mussolini sorse, sì, dopo la marcia su Roma, ma a seguito di un (deprecabile e invero evitabile) accordo (lo abbiamo ricordato qui), così come fu frutto di un compromesso quello nato, 11 anni dopo, in Germania con l’affidamento della carica di cancelliere del Reich ad Adolf Hitler (lo abbiamo ricordato nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione). D’altra parte anche il governo europeo maggiormente impegnato nel difendersi e contrastare Hitler e Mussolini, quello britannico, guidato dal conservatore Winston Churchill, si basò su un’intesa tra tutte le principali forze politiche, tanto che Clement Attlee (leader dei laburisti) ebbe perfino l’incarico di vice primo ministro. D’altra parte, se è vero che governi di unità nazionale ce n’erano già stati nella Prima Guerra Mondiale (prima quello di Herbert Henry Asquith e poi di David Lloyd George) e durante la Grande Depressione (con la guida di Ramsay MacDonald). Dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo a Benito Mussolini (25 luglio del 1943) e la firma dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, anche l’Italia conobbe, pur ancora occupata dalle truppe hitleriane nel Centro Nord, dove Mussolini aveva eretto la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), conobbe dei governi di unità nazionale (Badoglio II, Bonomi II, Bonomi III, Parri, De Gasperi I, De Gasperi II e De Gasperi III), costituiti con la collaborazione dei sei partiti antifascisti (DC, PCI, PSIUP, PLI; PDL; PdA) aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).  Nel secondo dopoguerra un altro governo italiano di unità nazionale fu il terzo guidato da Giulio Andreotti (detto anche il “governo della non sfiducia”, avendo la maggioranza grazie all’astensione del PCI di Enrico Berlinguer, in accordo col cosiddetto “compromesso storico”).

[3] Abbiamo ricordato in questo post le vicende e le discussioni che portarono all’approvazione del testo definitivo della nostra Costituzione e alla sua promulgazione il 27 dicembre del 1947, mentre al precedente referendum con cui gli italiani, il 2 giugno del 1946, a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla fine del coinvolgimento dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, votarono per la forma repubblicana, e contestualmente elessero i membri dell’Assemblea costituente, è stato dedicato questo post di Corsi e Ricorsi: Repubblica o monarchia?

[4] La legge introduttiva del divorzio fu approvata dalla Camera il primo dicembre del 1970 con i voti favorevoli di 319 deputati e i voti contrari di altri 286. Vale la pena tornare per sommi capi alla prima proposta di legge formulata che, prevedendo la possibilità di divorziare dopo cinque anni di separazione legale, sollevò resistenze diffuse, tanto che, attraverso mediazioni e compromessi, pur di non rinunciare all’introduzione del divorzio nel nostro Paese, questo come altri aspetti del testo originario furono emendati. Solo adesso si è arrivati ad una normativa che prevede il divorzio “breve” dopo sei mesi, in caso di accordo tra i coniugi, o un anno, in mancanza di accordo. Qualcosa di simile accadde circa otto anni dopo, con la legge che introdusse l’aborto (la legge n. 194 del 22 maggio del 1978): ci vollero, in effetti, sette anni prima di giungere all’approvazione di un testo legislativo. Sette anni di discussioni, dibattiti, scomuniche, conflitti, dubbi, ripensamenti. E aggiustamenti. In quel caso il compromesso che permise di far prevalere nel voto a scrutinio segreto i sì, seppur di poco (308 favorevoli e 275 contrari), fu l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i medici: una previsione assai discussa allora e tuttora, specie per l’inflazionato uso ostruzionistico che se ne fa. Anche la legge sulle unioni civili del 2016 fu frutto di un compromesso all’interno del PD e tra questo e il Nuovo Centro Destra: da una parte si rinunciò all’equiparazione delle unioni civili al matrimonio e alla stepchild adoption (cioè la possibilità per le coppie, in alcuni casi, di adottare il figlio biologico di uno dei due partner), dall’altra si recedette dalla propria posizione di rifiuto pressoché totale. In ogni caso, il governo dell’epoca, guidato da Matteo Renzi, decise di porre la fiducia in Parlamento e grazie alla divisione interna all’opposizione del centro destra, a seguito di quell’intesa, una parte di essa approvò la legge, come concordato con la maggioranza, portando a 369 i voti favorevoli e limitando a 193 quelli contrari.

[5] Si tratta della legge 300 del 20 maggio 1970, alla cui approvazione definitiva in aula il PCI decise di astenersi sebbene Bruno Trentin, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, sostenesse che i parlamentari comunisti avrebbero dovuto votare a favore e ricordasse al suo partito che la proposta originaria di uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori era stata avanzata da Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, sin dal 1952

Mediazione e compromesso

Mediazione e compromesso sono, si potrebbe dire con un po’ di esagerazione, ingredienti onnipresenti della nostra vita quotidiana a tutti i livelli. E con ciò il discorso potrebbe chiudersi subito qui, se non fosse che…

Mediazione e compromesso come virtù o come vizi?

… se non fosse che mediazione e compromesso non sono termini neutrali, per come risuonano alle orecchie delle singole persone. Le valenze e le implicazioni attribuite a mediazione e compromesso sono, infatti, quanto mai eterogenee.

Volendo schematizzare (e banalizzare), si potrebbero individuare due posizione estreme: da un lato, quelli favorevoli sempre, per principio, alla sequenza mediazione e compromesso nella misura in cui tale atteggiamento è ritenuto sinonimo di sincera disponibilità al dialogo, di moderazione, di senso pratico, di spiccata capacità di non essere schiavi di posizioni dogmatiche e di coscienza di non avere il monopolio della ragione e della verità; sul fronte opposto si stagliano quelli contrari sempre, anch’essi per principio, al binomio mediazione e compromesso e sono propensi ad attribuirgli significati oscuri , o almeno opachi, dal momento che con il nemico non si tratta, si combatte, perché sui principi e sui valori non si può transigere, il farlo significa per loro, in realtà, non averli o infischiarsene, insomma… essere delle banderuole!

Mediazione e compromesso come sinonimo di maturità e di capacità di dialogo

I primi includono anche coloro che, avendo vissuto conflitti durissimi, tanto dolorosi quanto inutilmente costosi, hanno concluso che era il caso di imparare la lezione, di riconoscere che nessuno ha la verità in tasca, che l’ottusità è una cattiva consigliera e che occorre sempre negoziare fino all’ultimo istante, e anche oltre, pur di non sopportare, e pur di non infliggere ad altri, sofferenze così importanti. Così, molti leader politici e milioni di cittadini, all’indomani della Grande Guerra (poi destinata a diventare la prima delle due guerre mondiali), pur registrando con angoscia l’affermarsi di partiti ultranazionalisti in Europa, consideravano indispensabile trattare e negoziare anche con i più prepotenti di questi, pur di evitare il ripetersi di un bagno di sangue come quello del conflitto mondiale da poco attraversato.

Mediazione e compromesso come segnale di debolezza, di mancanza di valori e perfino di intelligenza con il nemico

Tra i secondi figurano quelli che ritengono di essersi fidati una volta di troppo, di essere stati troppo cedevoli e di averci rimesso in maniera pressoché irrecuperabile; quelli che hanno visto traditi dei principi inderogabili in nome della retorica del dialogo, che sono stati testimoni di quanto danno possano fare la cedevolezza alla prepotenza e all’arroganza altrui e di quanto sia immorale e pericoloso non presidiare certi confini. Sono anche coloro che fanno propria la sentenza latina «si vis pacem, para bellum» («se vuoi la pace, prepara la guerra»), essendo convinti che, in ogni possibile situazione, per assicurare la pace occorra mostrare di essere determinati a difendersi e, magari anche ad attaccare preventivamente, così da scoraggiare gli altrui propositi aggressivi.

Il conflitto tra favorevoli e contrari all’opzione mediazione e compromesso

La contrapposizione tra favorevoli e contrari al binomio mediazione e compromesso può verificarsi all’interno dei più disparati gruppi impegnati in una contesa con uno o più altri soggetti. La dialettica tra sostenitori della linea dura (i falchi) e quelli propensi alla trattativa (le colombe), infatti, può verificarsi all’interno delle famiglie non meno che nelle équipe di lavoro, nelle associazioni sindacali e in quelle datoriali. E in tali casi, accade spesso qualcosa di simile a quanto si sviluppa in analoghe dialettiche di tipo politico. Le colombe, che rinfacciano ai falchi di comportarsi da irresponsabili, vengono a loro volta accusate da questi ultimi di non essere disposti a battersi per la causa e addirittura di simpatizzare, sotto sotto, con il nemico, sicché replicano a tale infamante insinuazione con l’accusa ai sostenitori dell’intransigenza di voler dare supporto alle tesi della fazione guerrafondaia a discapito di quella più moderata, anch’essa presente nel gruppo avverso [1].

A seconda delle circostanze, mediazione e compromesso o rifiuto del dialogo e conflitto

Naturalmente ci sono coloro che, posti di fronte alla prospettiva del binomio mediazione e compromesso, scelgono una terza opzione e rispondono con un prudente «dipende». Sono le persone che, se ulteriormente sollecitate a chiarire, aggiungono che non sono fanatici né del dialogo a tutti i costi né della contrapposizione in ogni circostanza. Ritengono, ad esempio, che, sì, si può e si deve scendere a patti con Tizio (magari con tanti Tizi), ma che non si deve mai farlo con Caio [2].

Più in generale, va considerato che le persone, tendenzialmente, non sono blocchi monolitici, ma esseri ricchi di sfaccettature, la cui condotta e i cui atteggiamenti mentali variano in relazione alle situazioni concrete che devono fronteggiare e ai beni (interessi, diritti, sentimenti, valori, ecc.) in gioco. Perciò, concretamente, ciascuno di noi può trovarsi ad assumere la posizione della colomba in una determinata vicenda e quella del falco rispetto ad un’altra questione.

Che rapporto c’è tra mediazione e compromesso?

Normalmente si pensa al compromesso come al risultato di una mediazione svoltasi tra persone con posizioni iniziali divergenti. Si parla di mediazione sia nel caso in cui vi sia stato un soggetto terzo, imparziale, che ha organizzato e gestito gli incontri tra le parti, che nelle situazioni in cui queste si siano confrontate senza l’aiuto di una figura neutrale.

In ogni caso, il compromesso è considerato il frutto di una mediazione riuscita, che si sia trattato o meno di un’attività mediativa svolta da un professionista incaricato di condurre le parti verso un accordo (il compromesso).

Il “rapporto genitoriale” tra mediazione e compromesso

Anche sul piano professionale, secondo molte impostazioni, mediazione e compromesso hanno questo rapporto: se la prima funziona, se è efficace, sorge il secondo. Cioè: da una mediazione riuscita nasce il compromesso. Una mediazione fallisce, invece, se da essa non discende il secondo.

Questa impostazione, per cui la madre è la mediazione e il compromesso è il figlio, appare centrale nell’istituto della mediazione civile e commerciale introdotto nel nostro ordinamento nel 2010 (con il decreto legislativo n. 28): infatti, quell’atto avente valore di legge definiva conciliazione l’accordo conseguito all’esito di una mediazione riuscita.

La stessa relazione genitore – figlio tra mediazione e compromesso, del resto, sussiste nella mediazione familiare (sorta ben prima del 2010), almeno stando alla descrizione di molte scuole di pensiero e a quella di altrettante impostazioni di pratica operativa presenti in tale ambito. Tanto che tale “rapporto genitoriale” tra mediazione e compromesso è ravvisabile anche nello Statuto dell’associazione professionale A.I.Me.F. (Associazione Italiana Mediatori Familiari), nel cui art. 14 (Definizioni) si legge:

«”Mediatore familiare”: terza persona imparziale, qualificata e con una formazione specifica che agisce in modo tale da incoraggiare e facilitare la risoluzione di una disputa tra due o più persone in un processo informale e non basato sul piano antagonista vincitore-perdente, il cui obiettivo è di aiutare le parti in lite a raggiungere un accordo direttamente negoziato, rispondente ai bisogni e agli interessi delle parti e di tutte le persone coinvolte nell’accordo»[3].

La mediazione familiare, quindi, è un’attività professionale volta a conseguire, in uno specifico ambito relazionale e giuridico («questioni familiari»), l’obiettivo di risolvere una lite mediante il raggiungimento di un accordo. Schematicamente, secondo quest’impostazione, abbiamo un mediatore familiare che con la sua azione di mediazione gestisce il conflitto e ne facilita la soluzione (l’estinzione) procurando il raggiungimento di un accordo (cioè, di un compromesso).

Le implicazioni derivanti dalla connessione tra attività di mediazione e compromesso

La rappresentazione della mediazione come processo volto a generare un compromesso, cioè come mezzo impiegato in vista di un fine specifico (l’accordo), ha delle implicazioni di un certo spessore su registri diversi.

Il mancato compromesso come sinonimo di fallimento della mediazione

Si è già fatto notare che, se la mediazione è considerata come un’attività avente come obiettivo la stipula di un accordo che palesa e sostanzia l’estinzione del conflitto, il mancato conseguimento di tale risultato finisce col denunciare il fallimento dell’attività mediativa svolta. Tale insuccesso può essere attribuito a responsabilità del mediatore oppure a oggettiva impossibilità di raggiungere una soluzione della lite a causa della rigidità ostinata delle parti. In termini un po’ frettolosi o brutali: il mancato compromesso deriverebbe da errori commessi dal mediatore nella conduzione della mediazione, e si tratterebbe di errori considerati come tali ex post, quindi non costituenti automaticamente segnali di inadeguatezza della sua prestazione; oppure il non raggiungimento dell’accordo deriverebbe da una precedente e preliminare errata valutazione nell’avvio del percorso di mediazione, allorché il professionista, sbagliando, aveva ritenuto che quei confliggenti potessero raggiungere un accordo (anche in tal caso quell’errore, si rivela come tale ex post, quindi non è detto che fosse evitabile).

Conflitti mediabili o non mediabili, cioè estinguibili o non estinguibili con un accordo

Su un altro registro, l’associazione tra mediazione e compromesso fa sì che i conflitti possano essere distinti in mediabili e non mediabili, a seconda che appaiano, ad un primo esame, suscettibili o meno di essere risolti e di dare luogo ad accordi. In virtù di tale discrimine l’opera del mediatore verrebbe erogata soltanto a favore delle persone protagoniste di conflitti considerati, in base ad un preliminare e necessariamente sommario, esame, presumibilmente mediabili, cioè aventi un’accettabile probabilità di estinguersi in un compromesso. A tale riguardo sono diversi i parametri individuati per una pre-definizione di mediabilità del conflitto. Ad esempio, nell’ambito della mediazione civile e commerciale, alcuni anni fa, a ridosso dell’entrata in vigore del sopra citato decreto legislativo e del correlato decreto attuativo, fu elaborato un vademecum della mediazione (a cura dell’avv. Debora Ravenna dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano – Gruppo Mediazione – con il patrocinio di Ordine degli Avvocati di Milano – Camera Arbitrale di Milano) nel quale si definivano le caratteristiche dei casi mediabili e di quelli non mediabili. Tra i primi rientravano le situazioni nelle quali è evidente che le parti sono disposte a farsi reciproche concessioni[4]. Tra i casi non mediabili risultavano esserci i seguenti: quando sono in gioco questioni di principio; quando le parti non sono interessate a mantenere un rapporto tra di loro; le situazioni nelle quali le parti non vogliono incontrarsi per cercare una soluzione, ma aspirano soltanto a “disfarsi” del problema, delegandone ad altri la soluzione; le situazioni in cui le parti chiedono “giustizia”, rivolgendosi direttamente ed unicamente al giudice per ottenere un risarcimento o per vedersi riconosciuta la ragione[5].

Risvolti operativi, potenzialmente discriminatori, dell’associazione mediazione e compromesso

Va precisato che, al di là dell’iscrizione teorica del caso concreto nella categoria dei mediabili o dei non mediabili, l’associazione tra mediazione e compromesso ha dei risvolti operativi che sono immediatamente connessi con quella discriminazione. Ad esempio, se la condizione per l’avvio del percorso di mediazione è la comparsa fin dall’inizio di tutte le persone in conflitto al cospetto del mediatore, per iniziare a pianificare le modalità di sviluppo della discussione, si sta già creando un meccanismo selettivo. Infatti, si sta creando un meccanismo di esclusione nei confronti di coloro che, per le più diverse ragioni, almeno inizialmente, non sono disposti a sedersi allo stesso tavolo cui si accomoda la controparte. O, se proprio lo fanno, non è per convinzione che accettano di sedersi allo stesso tavolo, ma per evitare di essere giudicati negativamente: una partecipazione, questa, quindi, assai distante dall’essere un’adesione volontaria, ma che è significativa della percezione da parte di tali soggetti di un messaggio giudicante (e pregiudizievole) nei loro confronti. Un pre-giudizio di rigidità, di paura del confronto, di intransigenza maleducata, di brutto carattere…

Il distanziamento delle persone in conflitto indisponibili ad un iter di mediazione e compromesso

Implicitamente o esplicitamente, come già accennato, l’elenco delle caratteristiche che rendono un caso mediabile, ovvero non mediabile, costituisce anche una descrizione delle situazioni, e delle persone in esse coinvolte, preventivamente escluse dalla fruizione di un servizio di mediazione. In altri termini, una persona avrebbe un identikit incompatibile con tale risorsa professionale quando si sta battendo per affermare o per tutelare un principio, se si vuole sentire dare ragione, se è giunta ad un livello tale di delusione e amarezza da non essere interessata a continuare il rapporto con la controparte, nel caso in cui non si senta disposta, fin da subito, ad aderire ad un percorso in cui dovrà concedere qualcosa. Quindi, in estrema sintesi, se non si è inclini fin dall’inizio ad accettare l’idea di pervenire ad un compromesso con la controparte e se non si è disponibili ad assumere un atteggiamento collaborativo per conseguire tale obiettivo, allora la mediazione non fa per noi. In tal caso, possiamo portare la nostra rabbia, la nostra sofferenza, le nostre angosce e la nostra solitudine da un’altra parte (dove?), poiché la nostra indisponibilità iniziale alla prospettiva del compromesso (cioè all’accoppiata mediazione e compromesso) ci renderebbe inidonei a tale tipo di supporto.

L’associazione mediazione e compromesso come risorsa professionale rivolta soprattutto ai protagonisti di conflitti blandi o di non-conflitti

Questa casistica di casi mediabili e non mediabili, cioè di vicende in cui astrattamente mediazione e compromesso appaiono, fin dall’inizio, potersi plausibilmente produrre entrambi, ha delle conseguenze, che non andrebbero trascurate, sulla diffusione della mediazione e sull’accesso spontaneo ad essa.

Un parco clienti di nicchia

Se consideriamo l’aspetto commerciale (indipendentemente dal fatto che il servizio di mediazione offerto sia a pagamento o gratuito), è naturale che sorga il dubbio circa la possibilità che l’offerta di una mediazione (volontaria o obbligatoria) finalizzata a produrre un accordo possa avere un grande mercato. Infatti, è possibile che non susciti particolare entusiasmo una vetrina in cui sia esposta l’accoppiata mediazione e compromesso presso quei protagonisti di conflitti che non sono fin dal principio palesemente disponibili a farsi reciproche concessioni, che ritengono di essere indiscutibilmente dalla parte della ragione, che si stanno battendo per affermare un principio e che non sono dichiaratamente interessati a mantenere un buon rapporto con la controparte.

Il rischio di un servizio di mediazione come supporto professionale per chi ne ha meno bisogno

Il possibile parco clienti, cioè, appare piuttosto limitato, quasi di nicchia, essendovi il rischio che, con una definizione delle condizioni di mediabilità rigidamente intesa e, soprattutto, con la prospettazione di un percorso di mediazione come finalisticamente inteso alla conclusione di un accordo, vengano in realtà delineate implicitamente come mediabili, ossia conciliabili, delle situazioni che, concretamente parlando, non sono (fortemente) conflittuali e di qualificare come non mediabili proprio le relazioni conflittuali. L’effetto paradossale è che la declinazione di un’offerta mediativa trovi interessamento da parte di coloro che ritengono di aver bisogno di una facilitazione della comunicazione nella negoziazione che hanno già avviato o che intendono iniziare, ma non presso coloro che, immersi nelle dinamiche conflittuali, considerano con ripugnanza la prospettiva di giungere ad un compromesso con il nemico. E, oggi come ieri, costoro non costituiscono una sparuta minoranza. Più verosimilmente compongono una rigogliosa maggioranza.

La liberazione della mediazione dalla finalità (e dall’aspettativa) del compromesso

Un altro modo di intendere la mediazione – un modo, invero, al momento in molti ambiti non così diffuso, come, invece, lo sono quei modelli che la interpretano come un processo finalizzato all’estinzione del conflitto e alla sua trasformazione in un accordo (formale o informale, esplicito o implicito) – è quello di delinearla in termini teorici, e di applicarla nella pratica operativa e di promuoverla, non ponendo in evidenza l’aspetto dell’accordo, ma la sua componente più interna, troppo spesso sottorappresentata dai diversi studi professionali e dalle diverse scuole teoriche: l’ascolto.

La mediazione come, in primo luogo, spazio d’ascolto

L’ascolto svolto dal mediatore secondo questa impostazione (che è iscrivibile nel cosiddetto filone “umanistico” e che è definita “Ascolto e Mediazione”) non serve soltanto a comprendere i termini delle questioni dibattute, ma ha una valenza decisamente più ampia[6]. L’ascolto, infatti, è un mezzo e, contemporaneamente, un fine. Più precisamente: il suo obiettivo è far sentire la persona accolta. Il che significa, in primo luogo, offrirle uno spazio e un tempo di ascolto tutto per sé (colloqui individuali, vengono chiamati “tecnicamente”), in cui possa narrare la propria versione, la propria verità, e sentirsi ascoltata: ascoltata, non giudicata e neppure interpretata; compresa, non consigliata, né approvata o disapprovata. Quindi, in un percorso di mediazione l’obiettivo dell’ascolto è quello di offrire ai confliggenti ciò che il conflitto ad essi tipicamente toglie: di nuovo, l’ascolto (l’ascolto da parte dell’altro, l’ascolto dell’altro e l’ascolto di sé stessi)[7]. Sicché, tale mediazione non è declinata e promossa sottolineando eventuali risvolti conciliativi, ma specificando che è rivolta anche a coloro che, protagonisti di un conflitto, non si sentono riconosciuti e compresi dalla controparte e, magari, neppure da coloro che gli stanno più vicino, coloro che si sentono vittime di un’ingiustizia… Insomma, coloro che stanno soffrendo. Che stanno soffrendo e che non sono disposte a pensare di conciliarsi con il loro nemico, magari neppure a ipotizzare di poter dialogare con quella/e persona/e che così profondamene detestano e/o temono.

L’ascolto come reintegrazione

Non si può trascurare il fatto che i conflitti tra le persone e tra i gruppi molto spesso sorgono dalla sensazione di non essere riconosciuti e che, comunque, con la loro progressione (l’escalation), inducono i loro attori a riconoscersi sempre meno, spingendoli a sviluppare rappresentazioni reciproche monodimensionali, spesso spregiative, all’insegna della spersonalizzazione e finanche della de-umanizzazione, con ciò impedendo ogni possibilità di ascolto reciproco e svuotando lo strumento della parola di ogni possibilità espressiva autentica e profonda. Perciò, quando i mediatori riescono a far sentire gli attori del conflitto riconosciuti nella loro tridimensionalità, riconosciuti come esseri umani e non solo come parti di un conflitto, allora riducono di molto il vuoto, l’isolamento, che tante volte il conflitto crea negli individui, nelle famiglie, nei gruppi, nelle comunità e nelle organizzazioni. Da questo riconoscimento operato dal mediatore nei confronti delle singole parti può derivare (e, in effetti, di fatto, per lo più deriva) un allentamento della tensione e della de-umanizzazione reciproca tra i confliggenti, mentre correlativamente si sviluppa un confronto all’insegna di una maggiore consapevolezza circa i propri e altrui sentimenti, emozioni, pensieri, motivazioni e aspettative.

Un approccio pragmatico basato sulle caratteristiche più problematiche dei conflitti

Quanto sopra scritto a proposito dell’ascolto può risuonare vagamente idealistico, ma in realtà è quanto mai lontano da tale tipo di risvolto. Se la funzione della mediazione è quella di tentare di gestire i conflitti, allora, occorre che, nella pratica, essa tenga conto anche (se non soprattutto) delle caratteristiche di questi che li rendono davvero poco gestibili. Il che presuppone la consapevolezza che spessissimo la parola mediazione tiene lontani coloro che, pur soffrendo parecchio, non sono disposti a mediare il loro conflitto, ritenendo che ciò equivalga ad accettare un compromesso al ribasso, e quindi che implichi una futura resa, cioè una prossima sconfitta, in quanto mediazione e compromesso sono vissuti come sinonimo di rinuncia alle proprie ragioni, come sacrificio dei propri diritti e interessi, come tradimento dei propri valori e come repressione di un basilare senso e bisogno di giustizia. Per tale ragione veicolare l’idea della mediazione, e poi concretamente svolgerla, in primo luogo come servizio di ascolto assolve una funzione duplice: la prima, e più ovvia, non è quella di indurre con l’inganno ad accedere alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma è dare un luogo e un tempo di accoglienza anche a chi ha quel genere di sentimento, di pensiero e di atteggiamento; la seconda è prevenire ed evitare il frequente rischio che, nella pratica operativa, il mediatore sia vissuto dalle parti come un soggetto deputato a svolgere un’azione di contrasto alle loro istanze conflittuali. In breve, si tratta di evitare che la mediazione sia vissuta come una sorta di conflitto al loro conflitto e, quindi, a loro stessi[8].

Alberto Quattrocolo

 

[1] Nel mondo anglosassone, e con particolare rilevanza negli Stati Uniti, coloro che si espressero a favore dell’accordo di Monaco furono accusati di cecità politica, di ostinato rifiuto di guardare in faccia la realtà (la natura ingiusta di quel patto e la facilmente profetizzabile slealtà di Hitler) e di subalternità alla tracotanza del Terzo Reich. L’espressione utilizzata per condannare la decisione britannica e francese di accordarsi con la Germania nazista fu appeasement.Tale termine tornò diverse altre volte ad essere impiegato per esprimere disapprovazione rispetto a negoziazioni ufficiali e ufficiose e tentativi diplomatici di mediazione e compromesso volti a prevenire o ad evitare la traduzione di crisi tra gli stati in aperti conflitti bellici: così anche la politica adottata dal presidente John F. Kennedy nei confronti dell’URSS e di Cuba fu censurata dai cosiddetti “falchi” come una politica di appeasement (con ciò creandogli un certo imbarazzo per il ricordo favore espresso a suo tempo, dal padre, Jospeh Patrick Kennedy, ambasciatore statunitense a Londra, per l’accordo di Monaco). La reazione di Kennedy alle esortazioni da parte dei suoi consiglieri militari a rapportarsi con intransigente durezza nei confronti di Chruščёv era, privatamente, non meno rabbiosa. Appena un anno prima, ad esempio, si era sfogato con il suo consigliere politico e amico Kenneth O’Donnell dicendo:

«Quei pezzi grossi delle forze armate hanno un unico, grande vantaggio: se li ascoltiamo e facciamo quello che dicono loro, dopo nessuno di noi potrà più dirgli da vivo che avevano torto» .

Con tali parole il presidente degli Stati Uniti, il 19 ottobre 1962, nel bel mezzo dei tredici giorni della crisi dovuta alla scoperta dell’installazione di missili sovietici con testate nucleari a Cuba puntate sul territorio statunitense (una crisi, quella, durante la quale l’umanità intera trattenne il fiato temendo che da un momento all’altro potesse prodursi una guerra nucleare tra le due super-potenze con esiti catastrofici per tutti gli abitanti del nostro pianeta), commentò l’esortazione ricevuta dal generale Curtis Le May di ordinare un massiccio bombardamento aereo dell’isola. «Se non reagiamo qui a Cuba la nostra credibilità verrà sacrificata», aveva affermato Le May. «Quale crede che sarebbe la loro [dell’Unione Sovietica] reazione», aveva chiesto Kennedy. Nessuna, era stata la risposta di Le May, il quale aveva sostenuto che il blocco solo navale dell’isola e le altre iniziative politiche prospettate dal presidente avrebbero portato «dritto alla guerra…». «In altre parole, lei in questo momento è in un bruttissimo guaio», aveva aggiunto il capo dell’aviazione. «Come ha detto?», aveva chiesto interdetto JFK. «Lei è in un bruttissimo guaio», aveva ribadito Le May. Il presidente gli aveva rivolto un’occhiata gelida e un sorriso altrettanto glaciale, dicendogli: «Forse non se n’è accorto, ma c’è dentro anche lei». Dopo la riunione, John Kennedy, arrabbiatissimo e ancora incredulo, riferendo al suo amico e consigliere politico Kenneth O’Donnell la convinzione del generale Le May che i sovietici non avrebbero reagito al bombardamento americano di Cuba, pronunciò le parole sopra citate (JFK. Una Vita incompiuta, di Robert Dallek, 2004 Arnoldo Mondatori, Milano).

[2] Tra questi, tanto per fare due esempi della cruenta storia del Novecento, possono essere considerati coloro che il 10 ottobre del 1963 salutarono con approvazione e una buona dose di sollievo la firma del trattato tra Stati Uniti e Regno Unito, da un alto, e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dall’altro, sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (cioè, di quelli condotti fuori dal sottosuolo), ma ritenevano, invece, che, quasi esattamente 15 anni, prima avesse avuto ragione da vendere Winston Churchill nel giudicare un errore il tentativo condotto a Monaco di Baviera, dal primo ministro britannico, Neville Chamberlain, nonché del primo ministro francese Daladier e del capo del governo Benito Mussolini (ma questi già all’epoca in diverse cancellerie era considerato poco più di un dittatore di carta pesta di uno stato di second’ordine e, di fatto, un portavoce del Führer), di trattare con Adolf Hitler, perché ritenevano perverse sotto ogni profilo le sue pretese sulla Cecoslovacchia (all’epoca l’unico stato democratico ad oriente della Francia), del tutto inverosimili le sue promesse di non avere alcuna intenzione di estendere ulteriormente i domini tedeschi a spese di quella e di altre nazioni e sommamente immorale fargli delle concessioni sulla pelle di milioni di persone e di uno stato sovrano e democratico, i cui rappresentanti erano stati esclusi dal tavolo della mediazione. Erano coloro che, anche a decenni di distanza, si riconoscevano, dunque, nel discorso svolto da Winston Churchill, il 5 ottobre del 1938, cioè cinque giorni dopo la firma dell’accordo di Monaco, nel quale, davanti alla Camera dei Comuni, aveva affermato che il suo primo ministro e compagno di partito Chamberlain non aveva garantito la pace per le future generazioni né aveva assicurato, come andava sostenendo, la fine di un incubo, bensì l’inizio:

«Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra».

[3] Il testo dell’art.14 prosegue così:

«L’accordo raggiunto dovrà essere volontario, mutuamente accettabile e durevole. Il mediatore si applicherà affinché l’autorità decisionale resti alle parti. Il ruolo del mediatore familiare comporta fra l’altro il compito di assistere le parti nell’identificare le questioni, di incoraggiare la loro abilità nel risolvere i problemi ed esplorare accordi alternativi, sorvegliandone la correttezza legale, ma in autonomia dal circuito giuridico e nel rispetto della confidenzialità.

“Mediazione Familiare”: indica la mediazione di questioni familiari, includendovi rapporti tra persone sposate e non (conviventi more uxorio, genitori non coniugati), con lo scopo di facilitare la soluzione di liti riguardanti questioni relazionali e/o organizzative concrete, prima, durante e/o dopo il passaggio in giudicato di sentenze relative tra l’altro a: dissoluzione del rapporto coniugale; divisione delle proprietà comuni; assegno di mantenimento al coniuge debole o gli alimenti; responsabilità genitoriale esclusiva o condivisa (potestà genitoriale); residenza principale dei figli; visite ai minori da parte del genitore non affidatario, che implicano la considerazione di fattori emotivo-relazionali, con implicazioni legali, economiche e fiscali. La mediazione familiare richiede un periodo di sospensione delle cause eventualmente in atto».

[4] Altri casi mediabili sarebbero: le cause in cui le parti hanno interesse a mantenere (buoni) rapporti (come le vicende conflittuali tra condomini, quelle inerenti relazioni familiari o rapporti d’affari, ecc); cause che le parti intendono risolvere velocemente, essendo per esse più importante chiudere la questione che ottenere il giusto o il massimo); le cause nelle quali le parti vogliono evitare il procedimento giurisdizionale (ad esempio per considerazioni correlate a questioni di buon nome o di apparenza); le vicende nelle quali le parti ritengono che il giudizio non soddisferebbe appieno i loro reali interessi; le parti avrebbero difficoltà ad adempiere l’onere probatorio in sede di giudizio; su casi analoghi vi è una giurisprudenza controversa che rende imprevedibile l’esito; un risultato negativo in sede giudiziaria potrebbe portare alla proliferazione di cause analoghe (di filoni) intentate contro una delle parti; rispetto al prosieguo del contenzioso giudiziario il rischio d’impresa è considerato troppo alto; una o entrambe le parti sono interessate alla riservatezza; i costi e/o i tempi del giudizio sono considerati eccessivi; nessuna delle parti ha una posizione forte in fatto o in diritto; sussistono rilevanti aspetti emotivi dei quali si ha la consapevolezza cui non sarebbe attribuito adeguato rilievo nella causa; la negoziazione tra avvocati si è bloccata, ma le parti sanno che un terzo potrebbe sbloccarla.

[5] Tra gli altri casi non mediabili rientrerebbero: le situazioni nelle quali una delle parti è palesemente in mala fede; quei contenziosi finalizzati ad ottenere un precedente giurisprudenziale; quelle vicende nelle quali la “storia” delle persone è caratterizzata da episodi di violenza, tossicodipendenza, alcolismo, malattia mentale.

[6] Questa impostazione è più compiutamente descritta in Alberto Quattrocolo, Maurizio D’Alessandro, Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli srl, Milano, 2021

[7] Si vedano al riguardo anche molti altri articoli della rubrica Riflessioni, tra i quali: Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione; L’empatia non è un passeggiata

[8] A tale riguardo si può anche leggere: La mediazione familiare è laica

Fair Play Goodbye

In occasione della recente vittoria (11 luglio 2021), nella finale del campionato europeo, degli azzurri contro la nazionale inglese a Wembley, è stato osservato che il proverbiale ossequio britannico al fair play è venuto meno: non per caso s’intitola “Inghilterra sconfitta, c’era una volta il fair play” l’articolo scritto da Enrico Franceschini su Repubblica, l’indomani della partita. E, di certo, non è stato Franceschini il solo a proporre questo rilievo.

La mediazione non si occupa della gestione di quelle particolari contese costituite dalle competizioni sportive (semmai dei conflitti extra-sportivi che da quelle sorgono), le quali sono sottoposte a specifiche regole e a sistemi di governo e di valutazione istituzionalizzate da ben prima che la mediazione diventasse una professione. Del resto, in campo vigono, appunto, norme e sanzioni e operano arbitri con il fine di garantire il rispetto di una soglia minima di fair play da parte degli attori in competizione: regole e sorveglianti, a ben vedere, che prevedono e perseguono in ogni caso un livello basico di riconoscimento reciproco.

Al di fuori del campo, invece, in quel più vasto campo di gioco che è la vita, il rispetto del fair play non trova un supporto altrettanto istituzionalizzato, pervasivo e vincolante. E, se ciò non è certamente un male, resta un aspetto da considerare con attenzione, soprattutto da parte di chi, per le più diverse ragioni, si propone di gestire un conflitto.

“L’ideale di combattere con onore per una causa che sia buona”

Ha scritto, anni fa, Johan Huizinga:

«È un ideale umano di ogni epoca quello di combattere con onore per una causa che sia buona. Questo ideale sin dall’inizio è violato nella sua cruda realtà. La volontà di vincere è sempre più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore. Per quanto la civiltà umana ponga dei limiti alla violenza a cui si sentono portati i gruppi, tuttavia la necessità di vincere domina a tal punto i combattenti che la malizia umana ottiene sempre libero gioco e si permette tutto ciò che può inventare l’intelletto» [1].

Ebbene, queste amare osservazioni relative alle condotte conflittuali di popoli o di gruppi ampi di persone, in realtà, possono essere estese con notevole frequenza anche ai conflitti inter-individuali o, comunque, tra gruppi più ristretti di persone.

In termini più prosaici, si potrebbe asserire, quando litighiamo, pur avendo consapevolezza dei vincoli costituiti dai doveri di correttezza, di lealtà, di adesione alla verità dei fatti, e dalla necessità di conservare, appunto, un certo fair play, la volontà di prevalere, o il connesso timore che a prevalere possa essere la nostra controparte, ci succede spesso che sia «più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore».

Lo screditamento e la denigrazione dell’avversario e altri colpi bassi di varia natura

Chiunque si occupi di gestione dei conflitti – ma, si potrebbe dire, chiunque si dia la briga di guardarsi attorno e magari anche un po’ dentro – sa bene come questi molto spesso siano caratterizzati da una progressione, la cosiddetta escalation, la quale, sul piano mentale, implica e, contestualmente stimola, una vicendevole rappresentazione astratta dell’altro. Costui diventa, infatti, agli occhi della mente della sua controparte, il nemico. Cessa di essere percepito e pensato come un essere umano in carne e ossa, per diventare una sorta di precipitato di malignità, un concentrato di vizi morali, capace di compiere le peggiori nefandezze. E come tale viene non soltanto pensato, ma anche descritto ai terzi, cioè: a coloro che, ancora tentennanti o già convinti, si cerca di persuadere a sposare la propria (giusta e perfino santa) causa o che si vuole fidelizzare ad essa, a coloro che si teme possano essere sedotti dalla perfida abilità oratoria dell’avversario e a coloro che, per ruolo, attitudine, scelta del momento o altro, si astengono dal parteggiare.

Tra questi ultimi, ovviamente, figurano sia coloro hanno un ruolo formale o informale di arbitro o di giudice, e quelli che svolgono una funzione di mediazione. Il tutto con buona pace dei principi e dei doveri di fair play, anche, anzi soprattutto, quando esplicitamente richiamati.

Anche i mediatori (familiari, penali, civili e commerciali, ecc.), quindi, hanno la frequentissima esperienza di imbattersi in narrazioni reciprocamente demonizzanti dei protagonisti del conflitto, impegnati a tratteggiarsi l’un l’altro a tinte fosche, non disdegnando di ricorrere ad ogni mezzo pur di screditare la controparte. Sicché i tentativi di levare ogni traccia di attendibilità alla versione dei fatti proposti dal nemico – giacché l’escalation del conflitto diventa una vera e propria opera di costruzione dell’immagine del nemico – si sostanziano anche in più o meno giuridicamente rilevanti comunicazioni diffamatorie.

In certi casi trova inveramento puntuale nelle dinamiche conflittuali afferenti la sfera dei rapporti privati (ad esempio, nei conflitti interni a gruppi di lavoro o in altre comunità ristrette) qualcosa di simile alla deplorevole moralmente e intrinsecamente antidemocratica opera di “character assassination” alla quale assistiamo nel conflitto politico tanto spesso e, forse, in misura crescente.

Le licenze dalla verità e la sospensione della sincerità

Infangare la controparte, poi, significa anche infischiarsene del rispetto per la verità. E anche qui il fair play va a farsi benedire.

L’abbandono della correttezza del comportamento, in ordine al mancato rispetto per la verità, cui ci si riferisce non riguarda il registro dell’obiettività. È chiaro, infatti, che se si è di parte (se si è parte di un conflitto) l’obiettività ne risente. L’indifferenza al fair play rispetto al tema della verità riguarda piuttosto la possibilità – tutt’altro che rara – che i confliggenti: omettano coscientemente di dire qualcosa di poco conveniente alle loro tesi; edulcorino a bella posta la gravità delle loro azioni aggressive, o degli effetti nocivi di queste; ancora, sempre per infangare o ridicolizzare l’immagine del nemico, distorcano i fatti e i loro significati, oppure s’inventino cose mai inveratesi. La prima vittima del conflitto è la verità, infatti, è il titolo di un post pubblicato su questo sito, anch’esso, come il presente, nella rubrica Riflessioni. Si spiegava lì che

«ciascuna delle parti è convinta di averne il monopolio [della verità] e rigetta i contenuti e gli argomenti della controparte, in quanto falsi. Essere dalla parte della verità, del resto significa anche essere dalla parte giusta, cioè della giustizia. Quindi, anche se si dovesse mentire, inventando dei fatti o alterandone la dinamica o il significato, magari nel tentativo di persuadere altre persone della validità e giustezza delle proprie idee e comportamenti, ci si può sentire, comunque, dalla parte della verità: infatti, la menzogna proposta verrebbe considerata solo come uno strumento al servizio del superiore fine della vittoria sulla controparte, che costituirebbe l’affermazione della giustizia sull’ingiustizia, del vero sul falso… ».

La mancanza di riguardo per le vittime casuali

Le ultime considerazioni citate rinviano ai diversi sofisticati modi con i quali, confliggendo, ci capita di azzittire la nostra coscienza, quella vocina interna che ci lancia, inascoltati ma variamente molesti, appelli al fair play e, ancor più basicamente ai principi della morale comune, codificati anche da diversi precetti religiosi. Siamo dotati, infatti, di un’abilità talmente formidabile nell’eludere quei vincoli morali, quando ci troviamo impegnati in una schermaglia diretta o indiretta con il nostro nemico, che riusciamo molto spesso a negare anche le nostre responsabilità rispetto ai danni che derivano ai terzi dalla nostra condotta conflittuale. In tali casi, la neutralizzazione della responsabilità può consistere nell’attribuirla alla controparte, nell’escludere l’effettività dei disagi e delle sofferenze procurate agli “innocenti”, o nel ridurre la gravità,  oppure nel sostenere che i terzi, in realtà, non sono affatto innocenti e che gli effetti dannosi da essi patiti patiti sono, a ben vedere, più che meritati.

In fondo, è in considerazione di tali risvolti dei conflitti tra genitori interessati da una vicenda separativa che si è affermata la mediazione familiare. Cioè, per prevenire e contenere le sofferenze dei figli. Ma, tanto per non dare (solo) la croce addosso alle coppie genitoriali in conflitto, si potrebbe porre mente alla sfrontata violenza verbale dilagante tra politici e tra elettori, spesso con il contributo determinante di giornalisti, opinionisti e influencer vari, sui social media e altrove, nei confronti degli avversari, ai cui famigliari non viene dedicato neppure il più sbiadito pensiero. Come, del resto, si può pensare alla sfacciataggine del ricorso metodico alla produzione e alla sistematica diffusione delle cosiddette fake news nel dibattito pubblico.

Il lato oscuro che il mediatore non deve giudicare, ricordando che, forse, neanche egli è sempre stato un campione di fair play

«La guerra tira fuori sempre il peggio dalle persone. Mai il meglio.», dice Oskar Schindler (Liam Neeson) in “Schindler’s List” (1993, di Steven Spielberg).

Sia pure in termini meno cruenti e devastanti, lo stesso può dirsi molto spesso degli ordinari conflitti della nostra quotidianità. Quei conflitti – in famiglia, sui luoghi di lavoro, in sanità, nonché nei rapporti conflittuali esitati in un reato o nei conflitti sorti dalla commissione di un reato (quelli gestiti dalla mediazione penale) -, cioè, di cui si occupa la mediazione nei suoi diversi campi applicativi.

Il mediatore, pertanto, una certa dimestichezza con tale lato oscuro dovrebbe avercela fin dall’inizio della propria carriera. Perché, se, da un lato, è astrattamente vero che, parafrasando Mao Tse Dong, non soltanto la rivoluzione ma anche un conflitto tra vicini di casa, o tra coniugi, non è un pranzo di gala, dall’altro, c’è un’altra più banale realtà da affrontare: noi mediatori non siamo antropologicamente diversi dai confliggenti che ascoltiamo. Navighiamo sugli stessi mari e sulla stessa barca. Anche a noi, verosimilmente, è capitato, e capiterà ancora, di tentare di comunicare ad altri l’immagine negativa che abbiamo della nostra controparte. E, se, nel farlo, ricorreremo a premesse e postille autodenuncianti esplicitamente la nostra parzialità, non dovremmo escludere che proprio quelle accortezze siano in realtà finalizzate a dare prova della nostra onestà intellettuale e, quindi, a fornire indirettamente una più forte solidità alle nostre successive affermazioni lesive della reputazione dei nostri nemici.

Insomma, anche chi per lavoro si occupa di mediazione può subire quella sorta di sotterranea dittatura del conflitto, che sottrae ai confliggenti una porzione rilevante della loro intelligenza emotiva (si veda il post Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione) e, di conseguenza, anche della capacità di avere il controllo sulle loro azioni e reazioni e sulla loro relazione.

Alberto Quattrocolo

[1] Huizinga J. (2004), Homo ludens, Einaudi, Torino, p. 117.

L’esperienza di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid

Dopo oltre un anno di pandemia durante il quale abbiamo continuato, anzi abbiamo dovuto ampliare, l’erogazione dei nostri tradizionali Servizi gratuiti, che sono, di fatto diventati dei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid (servizi svolti da remoto mediante videochiamate o conversazioni telefoniche, su appuntamento), ci sembra che valga la pena di dare conto di quanto abbiamo ascoltato dalle persone rivoltesi ai nostri servizi in questi 15 mesi abbondanti [1].

In estrema sintesi, gli interventi offerti si sono concretizzati: in una prima fase (quella corrispondente grosso modo al cosiddetto primo Lockdown), in forme di supporto erogate al fine della facilitazione della comunicazione interpersonale e della de-tensione dei rapporti principalmente per persone e famiglie che, a causa delle misure restrittive della circolazione finalizzate al contenimento dell’epidemia da Coronavirus, si sono trovate a vivere situazioni di criticità relazionali e difficoltà di comunicazione o di aperta conflittualità; in una seconda fase (il periodo estivo), in attività, sempre di ascolto e mediazione e di sostegno emotivo, indirizzate soprattutto a coloro che avevano subito gli effetti più dirompenti sul piano economico del Lockdown; nella terza fase (coincidente con la cosiddetta terza ondata), in attività di sostegno mediativo ed emotivo erogate in misura assai significativa a supporto di famiglie interessate da lutti dovuti al COVID, da esperienze di malattia con conseguente messa in quarantena presso il proprio domicilio e anche da ricoveri in terapia intensiva di uno o più membri del nucleo famigliare o di persone affettivamente significative facenti parte del gruppo famigliare più esteso.

I principali stati d’animo accolti nei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid

In generale, i principali vissuti emersi nei fruitori dei nostri servizi gratuiti sono stati quelli dell’impotenza e dell’insicurezza, acuiti dalla sensazione di non potersi porre come soggetti attivi ma solo come vittime della situazione di disagio. Ciò quasi sempre si è accompagnato a vissuti di colpevolizzazione o inadeguatezza. In alcuni casi questa condizione emotiva ha portato all’innescarsi di meccanismi di auto-isolamento dalla famiglia, come modalità di evitamento rispetto alla situazione. Così, si è riscontrato come la mancanza di comunicazione e di attenzione tra i membri della famiglia abbia talora provocato all’intero sistema familiare uno stato di confusione e disorganizzazione, creando un ambiente pervaso dall’ansia e dall’insicurezza. Più in generale, si è riscontrato come le accresciute difficoltà dei membri della famiglia nel continuare a supportarsi a vicenda abbiano spesso dato luogo ad un incremento della conflittualità.

La traduzione dell’angoscia e dell’impotenza in rabbia verso l’altro

Uno degli aspetti positivi che i percorsi hanno rivelato possedere riguarda l’elaborazione della rabbia: al termine del percorso svolto le persone hanno superato la tendenza a scaricare sull’altro la rabbia, scaturita da frustrazioni, angosce e dolori. In particolare, si è consapevolizzato che la rabbia, proiettata all’esterno crea lontananza, sia nel senso che tiene lontani gli altri, sia nel senso che ci si allontana dall’altro. Alimentando quella solitudine, fonte di ulteriore incrementi di dolore e rabbia.

Più nel dettaglio si è osservato quanto segue:

  • nella prima fase, le gran parte dei problemi relazionali ed emotivi gestiti erano legati soprattutto alla costrizione alla permanenza in casa, che aveva prodotto l’innesco di difficoltà di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti, oppure di una slatentizzazione di quelle fino a quel momento controllate. Più raramente sono state gestite tensioni tra famigliari, i quali, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, avevano sviluppato rilevanti difficoltà di dialogo;
  • nella seconda fase, sono prevalsi i conflitti e i disagi riconducibili agli effetti lungo termine del cosidetto Lockdown. In particolare, si è trattato di dinamiche conflittuali e di sofferenze dovute al fatto che lo stress, le paure e le frustrazioni, anche e soprattutto legate alle ricadute economico-occupazionali dell’epidemia, hanno dato luogo a difficoltà di condivisione e di supporto reciproco, traducendosi in fattori emotivi favorenti, appunto, l’assunzione di atteggiamenti risentiti o di condotte conflittuali;
  • nella terza fase, si è spesso appurato come moltissime situazioni conflittuali riproducessero nella sfera privata (famigliare) il conflitto manifestatosi sulla scena pubblica: coloro i quali sono stati denominati “negazionisti”, “no mask” e “minimizzatori” versus coloro cui è stata appioppata dai primi l’etichetta di “allarmisti”, “ipocondriaci”, “creduloni”, “complici della dittatura sanitaria”. Infatti, all’interno delle coppie e delle famiglie interessate da tale conflitto le tensioni si collegavano alle diverse modalità di reagire alle misure di prevenzione del contagio, come in parte riscontrato anche nei periodi precedenti, ma con un sovrappiù di ideologizzazione del conflitto. In ordine a tali situazioni, la criticità più ovvia per i mediatori è stata la conservazione di atteggiamenti di imparzialità (specie in rapporto alle più urlate prese di posizione negazioniste), rispetto alla quale si è rivelato provvidenziale, per presidiare quell’irrinunciabile aspetto dell’atteggiamento del mediatore, la forma supportiva costituita dalla supervisione. Va tuttavia segnalato che, in tutti i casi affrontati l’ideologizzazione del conflitto in questione era più apparente che sostanziale e, in ogni caso, costituiva una modalità reattiva rispetto all’angoscia e alla frustrazione, talché la stessa gestione di tali contrapposizioni, a prima vista caratterizzate da impressionante estremismo, è stata meno ardua di quanto inizialmente temuto.

Una contraddizione profonda sullo sfondo

In termini più generali, facendo ricorso a concetti psicoanalitici, può dirsi che, nello svolgere quest’attività gratuita di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid, si è rivelata la costanza di una irrisolta tensione interiore tra i freudiani “istinto di vita” (Eros) e “istinto di morte” (Thanatos), cioè tra le pulsioni di vita, quelle costruttive e vivificanti, che inglobano le pulsioni sessuali e sono alla base dei comportamenti mirati alla conservazione e allo sviluppo della vita, e la pulsione di morte, che rappresenterebbe la tendenza umana verso l’aggressività, la stagnazione e la distruzione. Infatti, negli ambiti più importanti dell’esistenza le persone si sono trovate a vivere una condizione fortemente contraddittoria: per seguire l’istinto di vita (Eros), ossia per tutelare la propria e l’altrui salute, hanno dovuto osservare dei comportamenti, di per sé, sarebbero etichettabili come depressivi e simbolicamente associabili a Thanatos: tenere le distanze, mascherarsi il viso, mortificare la propria spontaneità affettiva, reprimere la propria operosità, porre un freno allo spirito di iniziativa in ambito commerciale, ecc. (su tale chiave di lettura ci siamo soffermati nel post La mediazione tra Eros e Thanatos durante la pandemia pubblicato il 21 aprile del 2020 su questa rubrica).

Lutti, quarantene e solitudini

La sofferenza personale e relazionale, spesso foriera di disagi profondi su vari membri delle famiglie, dovuta alla  difficoltà di risolvere tale contraddizione, si è spesso associata all’angoscia legata ad una minaccia invisibile, in alcuni casi anche ai lutti sofferti a causa dell’epidemia o all’esperienza della malattia e/o della messa in quarantena: in non pochi degli ultimi casi gestiti da professionisti di Me.Dia.Re. i beneficiari avevano contratto il virus ammalandosi seriamente, pur senza necessitare di ricovero in ospedale. Anche rispetto a costoro, nel momento in cui si sono trovati costretti alla quarantena all’interno della propria stanza tra le mura domestiche, il servizio gratuito offerto è stato di fatto uno spazio in cui dare cittadinanza anche assai spesso a vissuti di solitudine, in cui poterli verbalizzare e rifletterci sopra, elaborandoli, nei limiti del possibile.

Ferite e sofferenze di lenta guarigione

Si potrebbe pensare che attualmente, grazie alla sempre più rilevante vaccinazione di massa e alla conseguente riduzione dei decessi e dei ricoveri, il tema della sofferenza legata alla pandemia possa essere messo discretamente da parte. Tuttavia, questa, pur comprensibile, tentazione di lasciarsi questo doloroso e angoscioso passato alle spalle, cozza con una realtà granitica: ci vuole tempo per riprendersi da simili batoste. Senza trascurare la diffusa persistente sensazione che il flagello sia tutt’altro che risolto ma solo sospeso.

I nostri Servizi gratuiti, infatti, continuano ad erogare prevalentemente un’attività di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid poiché il dolore, in tutte le sue forme, continua a circolare, così come continua, per ora, circolare il virus. Le perdite sofferte, sia quelle di persone care (famigliari, partner, amici) che quelle di natura economica e lavorativa, non sono solchi che possa richiudersi velocemente. Anzi, in molti casi il dolore emerge in tutta la sua potenza proprio nel momento in cui la minaccia esterna si fa meno opprimente e la necessità di reagirvi si attenua. Sono quelli i momenti nei quali le nostre difese psicologiche si abbassano e i sentimenti più ingombranti fin lì tenuti a bada affiorano con acuta intensità lacerante.

Non è casuale, quindi, che quei Servizi di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid siano fruiti anche come luogo in cui, per così dire, leccarsi le ferite. Cioè, per ascoltarsi, per entrare in contatto con le sofferenze fin lì un po’ represse, con il supporto esterno di mediatori e psicologi.

Alberto Quattrocolo

[1] In primo luogo, però, è doveroso ricordare grazie al sostegno di quali enti tali Servizi hanno potuto essere offerti gratuitamente: la Fondazione CRT, la fondazione Compagnia di San Paolo, la Città di Torino, la Circoscrizione 7 e la Circoscrizione 8 della Città di Torino.

 

Tesi di Lucy Battù: L’ascolto del desiderio nella mediazione familiare

La tesi di Lucy Battù per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re) è un viaggio nelle profondità degli elementi messi in gioco dal conflitto e che questi mette in gioco, ma è anche un’esplorazione delle ragioni per le quali e dei modi con cui è opportuno che essi siano accolti e riconosciuti dal mediatore. Il ché, naturalmente, rinvia direttamente alla sua attività di ascolto. E qui la tesi di Lucy Battù – che nelle pagine precedenti si è già soffermata sui caratteri fondamentali della mediazione familiare e di quella penale – spicca il volo. Infatti, dopo aver descritto il valore e la funzione dell’ascolto nell’Induismo, nell’Ebraismo nel Cristianesimo, e nel Buddhismo, approda a Michel Lobrot al suo approccio denominato “Non-Direttività Interveniente” (N.D.I.), che la porta a soffermarsi sulla centralità dell’ascolto dei desideri nell’attività di mediazione (familiare, penale, ecc.). Un ascolto che il mediatore deve svolgere rispetto ai desideri delle parti e anche rispetto ai propri desideri relativi al loro conflitto, poiché solo se è consapevole di questi ultimi può evitare di esserne condizionato e di sovrapporli ai loro.

Infatti, come ricorda Lucy, recuperando le riflessioni di George Pavlich:

«il mediatore, è colui che accoglie sia la parola che vela sia quella che svela e sa situarsi all’interno dell’ambiguità del linguaggio con lo stesso coraggio con il quale accetta di lavorare con le parti nel disordine, nel caos, nel non senso del conflitto che vivono ed esprimono». Quindi, «se i confliggenti non riescono a “riconoscersi” tra di loro, il mediatore, dovrà “riconoscere” a ciascuno le proprie emozioni, non i fatti».

D’altra parte, scrive nella premessa Lucy Battù, più in generale:

 «Le vocazioni si ascoltano quando, dentro di noi, avviene una “chiamata”. Cosi vale anche per le nostre scelte di vita: personali oppure lavorative. Alla base di queste c’è sempre una motivazione intrinseca legata a chissà quale esperienza che ci conduce a percorrere una determinata strada.».

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Lucy Battù.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…