Tesi di Federica Fasano: La mediazione familiare: uno spazio per restituire voce alle emozioni

La tesi di Federica Fasano per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re) è un viaggio in quella parte del conflitto troppo spesso sottovalutata, trascurata o elusa: la parte emotiva.

Scrive, infatti, Federica Fasano nella sua introduzione:

«Le emozioni nel conflitto sono spesso sottovalutate nonostante giochino un ruolo tutt’altro che secondario: sono determinanti tanto nell’attivare come nel superare i conflitti».

Tralasciare il riconoscimento della condizione emotiva dei protagonisti del conflitto, quindi, si suggerisce in qualche modo nella tesi, significa non soltanto compromettere l’efficacia dell’intervento di mediazione, ma ancor di più permettere alla dinamica conflittuale di progredire e, in tal modo, di aumentare la sua dannosità multidimensionale.

A questo proposito, Federica Fasano puntualizza che non rilevare la valenza determinante dei risvolti emotivi significa non rendersi conto di «come il conflitto comprometta il senso di identità delle persone, arrecando profonda sofferenza, ed inneschi sentimenti di avversione tra i partecipanti del conflitto».  E aggiunge: «all’interno di questa cornice viene meno quella che viene definita intelligenza emotiva, ovvero la possibilità di riconoscere le proprie e le altrui emozioni, provocando il sequestro emozionale» (per un approfondimento sul sequestro emozionale provocato dal conflitto e sulle sue ricadute sull’intelligenza emotiva si rinvia a Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione).

In conclusione si deve precisare che le riflessioni di Federica Fasano sono tutt’altro che astratte. Non a caso scrive nell’introduzione che il suo comprendere che la mediazione non è semplicemente «uno strumento per giungere ad un accordo e riportare pace tra gli attori di conflitto», è derivato dall’esperienza pratica della formazione in aula (la cui metodologia è fortemente interattiva) e del tirocinio:

«Ho potuto, infatti, fare esperienza e conoscere tutte quelle emozioni che attraversano, scaturiscono e sono scaturite dal conflitto e comprendere come la pratica di mediazione sia una possibilità importante per permettere alle persone di dare voce alle proprie emozioni».

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Federica Fasano.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

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Tesi di Stefania Guido: Complessità dell’ascolto, ascolto della complessità in mediazione familiare

La tesi di Stefania Guido, coordinatrice del Centro di Mediazione Penale della Città di Torino, per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re.) è un percorso di profonda riflessione – sul «conflitto, come condizione costituente l’essere umano»; sulla «complessa dimensione dell’amore nell’ambito della relazione di coppia», sui principali modelli di mediazione familiare e sull’ascolto, «quale dimensione privilegiata degli incontri di mediazione» – in cui vengono sapientemente connessi a spunti di notevole interesse forniti da pensieri sviluppati dalle «esperienze formative, di orientamento analitico», da lei precedentemente svolte.

Infatti, come osserva nelle conclusioni,

«sebbene non sia compito del mediatore risolvere i conflitti intrapsichici delle persone, tuttavia mi pare importante evidenziare che, per il mediatore, il non aver timore di trattare l’argomento “conflitto” e le sue differenti riverberazioni proceda dalla soggettiva elaborazione sulla questione». Inoltre, osserva, i contributi teorici che ha proposto sul tema del «riconoscimento possono offrire interessanti spunti di riflessione in merito alla possibilità di aperture verso la dimensione simbolica, dimensione che, essendo eminentemente collegata al pensiero e alla parola, può favorire un’uscita da spirali di azione e reazione». Analoga attenzione viene da lei riservato al «tema dell’amore», visto che «il conflitto di coppia riverbera improrogabili domande affettive, frequentemente di natura non razionale».

Ma se questi temi sono maggiormente correlati all’esperienza e ai vissuti dei protagonisti del conflitto, Stefania Guido non esclude dalla sua analisi anche la posizione delicata del mediatore, soffermandosi sulla complessità dell’ascolto che include una molteplicità di rischi, inclusi quelli connessi alla possibilità che

«un atteggiamento non giudicante, indispensabile a svolgere un processo di mediazione, può incorrere», scivoli inavvertitamente verso una sorta di «collusione». Il che presenta risvolti drammaticamente problematici «nelle situazioni liminali – dove cioè il conflitto vira verso forme di violenza», proponendosi il rischio che «questa stessa posizione non giudicante da parte del mediatore possa essere “ascoltata” e “fraintesa” da coloro che esercitano forme di violenza, soprattutto nei casi di violenza psicologica, come un “dare ragione a loro”».

 Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Stefania Guido.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

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Ascolto (ed empatia) nella mediazione penale

Nell’ambito dell’incontro organizzato e condotto da Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso e Antonella Sapio, All’ora del thè, in compagnia di Alberto Quattrocolo dell’Associazione Me.Dia.Re., si è parlato di come si concretizza nella pratica dell’incontro una condizione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale e, pertanto, della natura non direttiva, ma di accompagnamento, dell’intervento mediativo. Infatti, dopo avere discusso delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale (si veda questo articolo con il relativo video) e degli sbocchi professionali di entrambe (cliccare qui per l’articolo e il video), lo spunto proposto da una domanda di Maria Alice Trombara ad Alberto Quattrocolo è stato il seguente:

«Alberto, mi volevo ricollegare a quello che tu dicevi sulla mediazione penale specificando che attualmente il modello della Morineau è quello che si usa maggiormente in Europa, ma anche Oltreoceano (pensiamo al Canada): sappiamo che la Morineau propone questa tripartizione in “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”, che lei, come “numismatica greca”, prende dalla tragedia greca, ma nel mondo moderno, nel mondo attuale, come viene vissuta dai nostri medianti questa tripartizione (appunto, “Teoria”, “Crisi” e “Catarsi”) e il mediatore come riesce ad accompagnarli in questi tre stadi, ossia dalle emozioni ai valori, diciamo così?».

Dando per scontato che ci segue sappia precisamente in cosa consistono questi tre passaggi, mi limito a ricordarli velocemente. L’idea di fondo sarebbe che attraverso il percorso di mediazione le persone che vi aderiscono verrebbero accompagnate in una trasformazione, passando da un momento di contrapposizione reciproca, nella quale la verità dell’una esclude quella dell’altra, ad una fase di scontro particolarmente sofferto fino ad arrivare a riconoscere l’umanità altrui: cioè, a sentire riconosciuta la propria sofferenza e a riconoscere quella dell’altro. Naturalmente, li sto banalizzando, questi tre passaggi. Se fosse qui la Morineau, avrebbe il diritto di bacchettarmi le dita.

L’attività di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale non dovrebbe essere condizionata da (eventuali) finalità o aspettative (ri)educative

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Ma… per venire alla tua domanda e non girarci troppo attorno, va detto che questa modalità descrittiva può prestarsi tranquillamente anche alle situazioni che continuiamo ad incontrare, sia tu che io, nel nostro quotidiano operativo. Però, una delle accortezze che entrambi dovremmo avere è quello di cercare di non trasformare l’approccio mediativo – quindi, all’insegna di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale – in approccio educativo. Infatti, tu, molto correttamente, hai detto «accompagnare» e non «orientare». In altri termini, si tratta, per il mediatore penale, di non avere aspettative sulle parti, tali che, se non arrivano alla “catarsi”, allora quelle sono persone brutte, sporche e cattive.

Ciò vale per la mediazione penale, d’accordo, ma anche per la mediazione dei conflitti in generale. E, per quanto riguarda la mediazione penale, questa precauzione è importante per evitare che sia proposta una mediazione che abbia in realtà una finalità di Giustizia Riabilitativa (cioè che sia pensata, organizzata e svolta con il fine di procurare la rieducazione e riabilitazione del reo) a spese della vittima. Occorre, pertanto, stare attenti alla possibile strumentalizzazione della vittima, della sua sofferenza, da parte di chi gestisce il percorso di mediazione penale, dato il rischio di procurarle involontariamente una vittimizzazione secondaria, mentre è intento a perseguire lo scopo di procurare al reo un’occasione di tipo rieducativo, di risocializzazione. Bisogna tenere insieme, quindi, le diverse istanze. Poi andrebbe aperta una parentesi, che qui accenno soltanto, su una certa ambiguità che, secondo me, c’è nel nostro ordinamento, il quale sembra mescolare un po’ la Giustizia Riabilitativa e la Giustizia Riparativa. La mia impressione è che ogni tanto la prima venga mascherata, addobbata, con le vesti della seconda.

Ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e intelligenza emotiva

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Tuttavia, al di là di quest’ultima digressione, si tratta come dici tu, di accompagnare. E, da questo punto di vista, dar luogo ad una dimensione di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale significa creare una situazione relazionale molto rilevante. Quindi, per utilizzare un linguaggio che non si rifà ai miti e ai termini della classicità e della tragedia greca, potremmo dire che un atteggiamento  di ascolto (ed empatia) nella mediazione penale può essere fondamentale per ripristinare quelle risorse, quelle competenze, che sono state chiamate da Goleman, intelligenza emotiva. Infatti, se questa è considerata come la capacità di sentire e riconoscere le proprie emozioni, di gestirle, di riconoscere le emozioni altrui e di autodeterminarsi, nel senso di saper regolare il proprio comportamento non lasciandolo governare dalla dittatura della situazione (cioè, del conflitto e delle sue dinamiche), allora l’ascolto del mediatore può permettere il ripristino di queste competenze. E, sotto questo profilo, può farsi un parallelo con quanto diceva la Morineau, perché le persone ascoltate ricominciano ad ascoltarsi (ad ascoltare sé stesse), il che rende loro maggiormente accessibile anche l’ascolto dell’altro.

Le differenze tra l’ascolto (e l’empatia) nella mediazione penale e l’approccio conciliativo: gli esempi cinematografici dei “Soliti ignoti” e di “Guardie e ladri”

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Naturalmente il recupero da parte dei confliggenti di una capacità empatica l’uno nei confronti dell’altro, cioè di questa dimensione dell’intelligenza emotiva, non è perseguito attraverso un tentativo da parte del mediatore di un loro riavvicinamento di tipo (ri)conciliativo, né è l’effetto di uno sforzo di questo tipo. Il quale, anzi, ove fosse declinato potrebbe verosimilmente produrre un esito opposto, cioè di irrigidimento, proprio nella misura in cui i tentativi del terzo di conciliare sono percepibili dalle parti come disconoscimento delle loro emozioni e ragioni conflittuali, essendo pertanto suscettibili di dare luogo ad un loro irrigidimento reciproco e ad un’irritazione più o meno esplicita verso il mediatore stesso. Insomma, il riconoscimento reciproco tra le persone in conflitto si realizza su un piano contemporaneamente emotivo e cognitivo, grazie all’ascolto e al riconoscimento di ciascuno da parte del mediatore che incrementa un arricchimento della conoscenza reciproca.

La ri-umanizzazione della vittima da parte del reo (“I soliti ignoti”)

A questo proposito, stando con i piedi per terra, mi viene in mente il film “I soliti ignoti” (1958, di Mario Monicelli), forse il capolavoro assoluto della commedia cinematografica italiana, in cui c’è una scena in cui l’aspetto catartico di cui parla la Morineau è ben rappresentato con qualche decennio di anticipo sulla sua teorizzazione. È la scena in cui sul tram Vittorio Gassman nei panni di Peppe, ex pugile suonato di nessun successo e attuale maldestro aspirante ladro, sottrae dalla borsetta di Nicoletta, interpretata da Carla Gravina, le chiavi dell’appartamento in cui lavora come cameriera (quelle chiavi gli occorrono per penetrare con i suoi complici in quell’abitazione e, da lì, accedere al locale adiacente del monte dei pegni che essi intendono svaligiare quella notte). Infatti, in quella sequenza, resosi conto che lei, accortasi della scomparsa delle chiavi e convinta di averle smarrite, è precipitata in un’ansia incontenibile e sta iniziando a disperarsi per la paura di essere licenziata, il personaggio di Gassman muta atteggiamento: il suo meccanismo di disimpegno morale si scioglie, perché empatizza con lei, sicché lei, ai suoi occhi, non è più soltanto uno strumento per compiere il furto progettato, una chiave da girare per avere accesso ai preziosi di cui intende impossessarsi, ma è una persona. L’essere seduto lì accanto a lei, mentre si dispera nella ricerca spasmodica delle chiavi, lo induce a ri-umanizzarla (tanto che di nascosto infila nuovamente le chiavi nella borsa e poi finge di ritrovarle).

 Il riconoscimento reciproco tra il ladro, Totò, e la guardia, Aldo Fabrizi

Anche nell’altro capolavoro del cinema comico italiano, cioè “Guardia e ladri” (di Mario Monicelli e Steno, 1951) – cui abbiamo dedicato, infatti, un post della rubrica Corsi e Ricorsi (in occasione del suo anniversario dall’uscita sugli cinematografici) in cui si evidenziavano le diverse implicazioni in termini di Giustizia Riparativa ante litteram – si verifica qualcosa di simile. Infatti, per buona parte del film il ladro interpretato da Totò e la guardia interpretata da Aldo Fabrizi si demonizzano reciprocamente, sentendosi entrambi oggetto di una persecuzione da parte dell’altro. Entrambi pensano all’altro, e lo descrivono, come se fosse un mostro, come un campione di spietata disumanità. Però, quando hanno la possibilità di conoscersi, pur restando nei rispettivi ruoli, si riconoscono entrambi come esseri umani. Per esempio, si riconoscono e si rispecchiano in quanto mariti e come genitori, nonché in quanto poveri diavoli spaesati in quell’Italia post-bellica, ridotta in macerie e in miseria; poveri diavoli, che, come tutti gli altri italiani, dopo aver attraversato l’inferno del ventennio fascista e della Seconda Guerra Mondiale, arrancano faticosamente, sospesi tra una sorta di speranza incredula e un’angoscia mesta per il presente e il futuro.

Può cliccare qui chi vuole seguire il video, nel quale si commenta anche la canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De André. Qui, invece, si trova il video integrale dell’intervista.

Gli sbocchi professionali per i mediatori penali e per i mediatori familiari

Nell’ambito del ciclo di incontri All’ora del thè, in compagnia di …, organizzato e condotto da Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso e Antonella Sapio, dedicato a «Mediazione Familiare e dintorni. Chiacchiere in rete. “Perché tutti siamo importanti nelle dinamiche familiari”», il 7 luglio, si è parlato (anche) degli sbocchi professionali per chi si è formato alla mediazione penale. Infatti, dopo essersi soffermati sulle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale (si veda questo post della rubrica Riflessioni), si è affrontata la questione di quali sono attualmente gli sbocchi professionali per chi si forma alla mediazione penale e a quella familiare. Lo spunto fornito ad Alberto Quattrocolo per riflettere su questo argomento, infatti, è stato posto da Antonella Sapio in questi termini:

«La mediazione è sicuramente una risoluzione alternativa della controversia – la possibilità di risolvere un conflitto in modo paritario -, e ciò è apprezzabile in una società che tende al conflitto… Ma, da un punto di vista lavorativo, quali sono gli sbocchi e quali possono essere per chi si accinge a seguire un master di Mediazione Familiare o di Mediazione Penale o entrambi?»

Questa domanda sugli sbocchi professionali, se veniva posta fino a qualche tempo fa da chi era interessato a seguire un percorso formativo sulla mediazione penale, dava luogo ad attimi di incertezza e talora a risposte che rischiavano di risuonare elusive oppure vaghe. Infatti, occorre considerare che fino a ieri – fino ad oggi in realtà – ci sono state – e, in qualche misura, permangono – differenze rilevanti tra un territorio e l’altro. Io, ad esempio, vivo a Torino, la città in cui ha sede Me.Dia.Re., e qui dal 1995 c’è un centro di mediazione penale minorile presso il Comune di Torino, che è frutto di un’intesa tra il Ministero della Giustizia, il Comune e la Regione Piemonte. E si tratta di un servizio che lavora moltissimo. Però, non tutte le città, non tutti i capoluoghi di provincia o di regione hanno dei centri così radicati e così antichi.

L’esperienza torinese (replicabile in altri territori) dei Servizi di Ascolto e Mediazione (Penale) che comprendono un servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato e per le persone ad esse affettivamente legate

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Per quanto riguarda Me.Dia.Re. fin dall’inizio quasi 20 anni fa abbiamo declinato i nostri Servizi gratuiti come di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, e non solo di Mediazione, prevedendo nel materiale informativo e svolgendo di fatto anche dei percorsi di mediazione tra vittima e reo, e come Servizi di Ascolto e Sostegno alle Vittime di reato e alle persone ad esse affettivamente legate.

Questo fatto ci ha consentito l’attivazione di percorsi di mediazione penale anche in assenza di convenzioni formali con strutture invianti quali possono essere quelle dell’amministrazione della giustizia. Ciò in virtù di accessi spontanei o su invio da parte di servizi non necessariamente legati all’amministrazione penitenziaria e, più, in generale, al sistema della giustizia penale.

Questo tipo di esperienza ci ha fornito delle competenze che abbiamo utilizzato proficuamente in ambito sanitario e in ambito lavorativo-organizzativo.

La mediazione (penale) in ambito sanitario e organizzativo-lavorativo

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Due ambiti normalmente non associati alla mediazione penale, ma che invece sono e andrebbero considerati come dei contesti applicativi di approcci di Giustizia Riparativa, nonché come sbocchi professionali piuttosto interessanti. Infatti, nell’uno e nell’altro caso spesso e volentieri il conflitto si collega con un fatto che è previsto dalla legge come reato: nell’ambio del conflitto in sanità, quando si tratta di evento avverso, l’ipotesi è quella della lesione personale colposa o dell’omicidio colposo; nel caso del conflitto sul luogo di lavoro, per esempio, può esserci un’ipotesi di mobbing. Quindi, se si gestiscono quei tipi di conflitto si sta facendo mediazione penale oppure no? Secondo me, sì, dal momento che si può dar luogo all’applicazione di principi e metodi di questo strumento di Giustizia Riparativa.

In termini autoreferenziali, sottolineo che è dal 2005 che portiamo avanti un progetto di Ascolto e Mediazione dei Conflitti in Sanità, introducendo, attraverso dei corsi di formazione, nelle Aziende Sanitarie Pubbliche di Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, proprio dei team (di Ascolto e Mediazione) per la gestione delle relazioni conflittuali tra professionisti della salute (medici, infermieri, ecc.) e pazienti (e loro famigliari). E, non c’è qui il tempo per segnalare quanto il fenomeno del contenzioso in sanità sia d’importanza serissima, sotto diversi profili: umano, sociale, economico e giudiziario.

Non tanto diversa è la problematica dei costi diretti e indiretti derivanti dai conflitti non gestiti all’interno delle organizzazioni di lavoro. Che si tratti di imprese – di piccolissime, piccole, medie o grandi e perfino enormi dimensioni -, di enti pubblici, di cooperative o associazioni del Terzo Settore o di associazioni di professionisti.

L’accresciuto e ulteriormente crescente bisogno di mediatori penali

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Poi, certamente, c’è anche la mediazione penale classicamente intesa. E, anche qui, in termini autoreferenziali, Me.Dia.Re. ha una convenzione con le strutture qui presenti sul territorio (in primo luogo, l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna – UIEPE – di Torino), che ci inviano i casi (il che avviene all’interno del progetto ComuniCare, di cui Me.Dia.Re. è partner, e che è successivo al più contenuto progetto Repair, del quale eravamo capofila).

Ma, al di là dell’autoreferenzialità di cui sopra, l’implementazione di questi progetti di Giustizia Riparativa, comprendenti anche attività di mediazione penale, che vedano collaborare l’istituzione pubblica con una rete di soggetti privati, pone in rilievo il fatto che, rispetto ad un relativamente recente passato, è cresciuta moltissimo la consapevolezza dell’utilità – ormai, quasi oserei dire, l’indispensabilità – della mediazione tra autori (o supposti tali) e vittime (o presunte tali); e ciò implica per chi si è formato alla mediazione penale una più concreta possibilità di sbocchi professionali rispetto al passato. Del resto, non a caso noi di Me.Dia.Re. ci siamo trovati a lavorare nei progetti di mediazione penale sopra citati, proprio in concomitanza con l’entrata in vigore delle norme sulla Messa alla Prova per gli adulti. In altri termini, anche della mediazione penale tipicamente intesa c’è un bisogno crescente e viepiù riconosciuto da parte di organi e uffici dell’autorità giudiziaria non meno che da parte dei professionisti dei vari UEPE. A ciò si deve aggiungere che, considerando l’attuale riforma della giustizia penale, la quale prevede un ancora più significativo ricorso agli strumenti di Giustizia Riparativa, è facile prevedere che si aprirà una prateria. Cioè, si parla dell’imminente necessità di una pletora, difficile da quantificare con precisione, di professionisti della mediazione penale. Quindi, oggi la domanda di mediazione penale è imparagonabile a quella che c’era fino a poco tempo fa, allorché, in ogni caso non era, comunque, insussistente. Infatti, non ho problemi ad affermare che diversi mediatori penali che hanno collaborato o che operano attualmente nel Centro di Mediazione Penale Minorile del Comune di Torino sono stati formati da noi nei nostri corsi di Mediazione Penale, Lavorativa, Sanitaria e Scolastica. Ciò significa che quel centro lavora parecchio, come già puntualizzato, e che ha anche bisogno di risorse umane da dedicare a quelle attività. E suppongo che lo stesso discorso possa valere per i centri analoghi di altre città, come Milano, ad esempio.

È possibile vedere qui il video di questo confronto, che comprende anche la risposta fornita da Giovanni Grauso (avvocato, mediatore familiare, membro del consiglio direttivo dell’A.I.Me.F.) alla domanda postagli da Maria Rosaria Sasso:

«Quali possibilità professionali si aprono per i mediatori familiari con la riforma del processo (civile) della famiglia».

Qui si trova quello dell’intervista integrale.

Differenze e similitudini tra mediazione familiare e mediazione penale

Il 7 luglio 2021 abbiamo fatto una chiacchierata a tre sul vasto tema della mediazione penale. Le domande, o, per meglio dire, le sollecitazioni alla riflessione, tutt’altro che banali, poste da Antonella Sapio, Maria Rosaria Sasso e Maria Alice Trombara a Giovanni Grauso e Alberto Quattrocolo sono state tre. La prima delle questioni esplorate è stata quella delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale dal punto di vista operativo.

Il quesito posto da Maria Rosaria Sasso ad Alberto Quattrocolo, infatti, è stato:

«Gli ambiti di applicazione della mediazione sono tanti; perciò, per fare chiarezza a beneficio di chi ci ascolta, che differenza c’è nell’operato di chi fa mediazione familiare rispetto a chi svolge un’attività di mediazione penale?»

Il contesto giuridico

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Le differenze tra mediazione familiare  e mediazione penale ovviamente sono relative soprattutto ai protagonisti e al contesto. Riguardo a quest’ultimo, in primo luogo, occorre considerarlo in termini giuridici. La mediazione familiare riguarda la gestione di conflitti disciplinati da norme di diritto civile e in particolare quelle sulla famiglia, sulla separazione, sul divorzio, sulla tutela del minore e così via. La mediazione penale riguarda conflitti legati alla commissione di un reato, perciò le norme sono quelle previste dal diritto penale; e l’autorità giudiziaria competente e le altre istituzioni e strutture coinvolte sono quelle di tale ramo dell’ordinamento.

Il contesto relazionale

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Ma, oltre a ciò, rispetto al rapporto tra mediazione familiare e mediazione penale va rilevato che anche lo sfondo e le vicende sono diverse. Da un lato, c’è una coppia genitoriale che sta vivendo un conflitto. Pertanto, soffermando l’attenzione su cu ciò che occorre apprendere ai fini della preparazione allo svolgimento della professione di mediatore familiare, non a caso, i percorsi formativi prevedono l’acquisizione di conoscenze connesse a tale dimensione. Mentre per la mediazione penale è opportuno avere altre conoscenze teoriche e, segnatamente anche quelle criminologiche e vittimologiche. In particolare, può essere decisamente utile conoscere, da una parte, il processo di vittimizzazione, dall’altra, i meccanismi di disimpegno morale che possono attivarsi nella mente dell’aggressore prima, durante e dopo l’esecuzione della condotta lesiva.

Il processo di vittimizzazione

Gli spunti di Viano sugli stadi del processo di vittimizzazione, infatti, sono spesso utili al mediatore quando deve ascoltare e rapportarsi con la vittima. Analogamente la conoscenza dei meccanismi mentali di autogiustificazione della condotta aggressiva tornano molto utili sia nell’ascoltare il presunto reo che nel valutare l’opportunità di accompagnare le due parti all’incontro di mediazione, onde prevenire i rischi di una rivittimizzazione da parte dell’aggressore nei confronti della vittima, specie se il primo persiste in una condizione di totale negazione dell’esistenza reale e dell’umanità della seconda.

I meccanismi di autogiustificazione

Tuttavia, i meccanismi di autogiustificazione sono ravvisabili largamente anche nei nostri quotidiani conflitti non tradottisi in condotte penalmente rilevanti. Possono rilevarsi, dunque, anche in quelle relazioni conflittuali di coppia che vengono gestiti in sede di mediazione familiare. Sicché questo, in realtà, è un tema che pertiene alla mediazione dei conflitti in generale, non soltanto alla mediazione penale, e che andrebbe, quindi, secondo me, esplorato con cura anche nei percorsi formativi sulla mediazione in ambiti diversi da quello penale.

Il tema della violenza

Quest’ultimo rilievo vale anche per la tematica della violenza, ricco di implicazioni anche sotto il profilo dei rapporti tra mediazione familiare e mediazione penale. Pensiamo, per esempio, alla violenza nelle relazioni affettive. È particolarmente importante per un mediatore penale non essere a digiuno su tale tematica, come lo è per un mediatore familiare (ne abbiamo parlato anche in questo post della rubrica Riflessioni). Il che vale anche per quella particolare forma di condotta dannosa che è la violenza psicologica, tanto sottovalutata quanto lesiva (abbiamo affrontato il tema in questo post). Pertanto, nella mediazione penale e nella mediazione familiare occorre essere preparati all’eventualità di trovarsi di fronte ad una relazione caratterizzata da violenza. Il che significa: da un lato, avere conoscenze e competenze adeguate, quindi degli strumenti; dall’altro, avere dei dispositivi che consentano di poter impiegare al meglio quelle conoscenze, cioè, un setting in cui poter usare in maniera idonea quegli strumenti nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare. Così, ad esempio, nel modello Morineau, che è il più impiegato dai mediatori penali, si prevede di svolgere dei colloqui individuali preliminari all’incontro di mediazione. È chiaro che in tali colloqui individuali la persona maltrattata ha maggiori possibilità di rivelare la violenza inflittale, e di parlarne, rispetto alle situazioni in cui, accanto ad essa, si trovi seduta la persona maltrattante.
Quest’elemento dei colloqui individuali rinvia ad un’altra distinzione tra mediazione penale e mediazione familiare, giacché ben pochi modelli teorici e operativi di quest’ultima prevedono lo svolgimento di colloqui individuali come fase necessariamente preliminare all’incontro di mediazione. Anzi, per lo più si prevede come condizione per l’accesso al percorso la contestuale comparsa fin dal primo momento di entrambi le parti davanti al mediatore.

Nel nostro modello, cioè in quello di Me.Dia.Re., che definiamo di Ascolto e Mediazione (il modello è compiutamente descritto in Quattrocolo A., D’Alessandro M. Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli srl, Milano, 2021), si prevede, invece, la realizzazione di colloqui individuali nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare, nonché nelle mediazioni di conflitti sorti in altri ambiti relazionali. Anzi, nella nostra impostazione, si prevede che prima dell’eventuale incontro di mediazione vengano svolti almeno due colloqui individuali con ciascun attore del conflitto e che tra un incontro di mediazione e l’altro si svolgano dei colloqui individuali. Le ragioni alla base di tale accorgimento non sono collegate soltanto al tema della violenza, ma è chiaro che questo non trascurabile ricorso al colloquio individuale aumenta le situazioni in cui i protagonisti del conflitto si trovano a tu per tu con il mediatore, costituendo, pertanto, una risorsa preziosa per l’emersione di eventuali situazioni di violenza.

L’elemento in comune del conflitto e i diversi ruoli, e le diverse possibilità di approccio ad esso, nella mediazione penale e in quella familiare

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Ovviamente ci sono anche elementi comuni tra mediazione familiare e mediazione penale: il conflitto, in primo luogo, con le sue dinamiche di spersonalizzazione reciproca, perfino di de-umanizzazione, e in generale con la sua tendenza all’escalation.

Quindi, se è facile immaginare i partecipanti ad un percorso di mediazione familiare, che, nella versione classica di questo tipo di mediazione, sono i membri di una coppia (di fatto o di diritto) di genitori di uno o più figli minorenni che stanno vivendo una vicenda separativa in modo conflittuale, nel caso della mediazione penale è un po’ meno immediato delineare la categoria dei soggetti cui si indirizza. Infatti, va considerato che la mediazione familiare riguarda la gestione di un conflitto tra persone le quali hanno un rapporto che si è sviluppato nel tempo ed è caratterizzato da sentimenti profondi e complessi riguardanti anche altre persone. La mediazione penale può avere, invece, come utenti due persone che non si erano mai viste prima, se il conflitto è nato dalla commissione di un reato e non viceversa. Anzi, in taluni casi, l’autore e la vittima non si sono conosciuti neppure al momento della commissione del reato, come, ad esempio, nel caso del furto in un appartamento in quel momento disabitato.

In comune tra mediazione familiare e mediazione penale, quindi, c’è la gestione del conflitto, ma ci sono delle differenze che riguardano l’eterogeneità degli approcci possibili da parte del mediatore per governare quelle dinamiche.

Come probabilmente avete spiegato in altre interviste e conversazioni, infatti, i modelli di mediazione familiare sono molteplici e, per certi versi, ciascuno risponde, nella pratica operativa, ai modi diversi degli esseri umani di vivere il conflitto e di percepire e reagire alla proposta mediativa.

In ambito penale il modello prevalente è quello cosiddetto Umanistico, di cui un alfiere e una pioniera è stata certamente Jacqueline Morineau. Ebbene, la caratteristica che più salta all’occhio della Mediazione Umanistica è che non persegue un esito conciliativo e, pertanto, non adotta una prospettiva negoziale, di facilitazione di un processo di concessioni reciproche tra le parti, mentre concentra l’attenzione in maniera molto forte sulla dimensione emotiva.

L’accoglienza della dimensione emotiva come accoglienza delle persone al di là del ruolo

Ne deriva che, per chi vuole prepararsi ad operare come mediatore penale, è imprescindibile attrezzarsi alla gestione degli aspetti emotivi, a volte quelli più disturbanti, deflagranti, perturbanti, che possono concretizzare le diverse situazioni relazionali che si andranno ad incontrare. E le persone che s’incontrano in mediazione penale, non meno che in una mediazione familiare, non sono riducibili a dei ruoli.

La non trascurabile natura umana dei protagonisti dei partecipanti ai percorsi di mediazione familiare e mediazione penale

È vero, cioè, che la mediazione penale è tra vittima e autore del reato – presunta vittima e presunto autore, se il percorso di mediazione penale si svolge prima della sentenza di condanna definitiva -, però, non sono due entità astratte, sono esseri umani in carne e ossa, con una loro storia, un loro presente e un loro futuro. E ciò significa che vanno ascoltate al di là del ruolo, vanno ascoltate come persone, nella loro umanità, che è complessa, sfaccettata, tridimensionale. Il ché, a mio parere, per tutti i tipi di percorsi, quelli appunto di mediazione familiare e mediazione penale nonché quelli di mediazione in altri ambiti relazionali.

«Quindi, da quanto è emerso, possiamo dire che mentre nella mediazione familiare c’è una coppia, quindi, anche un legame da ricostruire, nella mediazione penale ci sono delle persone che potrebbero neanche conoscersi, perciò c’è una ferita da sanare, perché la vittima è la parte debole?», osserva Maria Rosaria Sasso.

Sì, riguardo al tema delle ferite, va precisato che mentre la mediazione familiare sorge per prevenire e contenere i danni che il conflitto tra i genitori può arrecare ai figli, i quali sono tutelati dall’esterno (cioè, sono tutelati dal mediatore che tenta di governare quel conflitto, ma non partecipano direttamente ad esso), nel caso della mediazione penale non c’è un soggetto terzo di cui si persegue la tutela. La mediazione penale, in effetti, non sorge per proteggere qualcun altro, ma solo per accogliere e dare prossimità ai protagonisti della vicenda. Nasce, in altri termini, come attività di Giustizia Riparativa, la quale non si dà fini altri e ulteriori rispetto a quelli riguardanti i soggetti che vi partecipano. Poi, certamente, c’è anche la comunità, come aspetto centrale, nell’approccio della Giustizia Riparativa, ma non nel senso di una sua tutela diretta, come accade invece al minore rispetto alla mediazione familiare, che lo tutela dalla sofferenza procuratagli dalla conflittualità sorta tra i genitori.

 

È possibile vedere qui il video in cui Alberto Quattrocolo risponde a questa prima domanda dell’intervista. Mentre qui si trova il video integrale dell’intervista