Tesi di Lucia Santamaria: “Ben ti sta!” Sofferenza, pena e colpa tra mediazione familiare e mediazione penale

La tesi di Lucia Santamaria per il Corso di Mediazione Familiare (Edizione XIV del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re) è un avvicinamento a quelle emozioni, «sconvenienti», che costituiscono una componente importante dei conflitti e che difficilmente «trovano spazio e legittimità di riconoscimento», generando piuttosto spesso «la messa in discussione della dimensione morale di chi le prova». E tale esplorazione si svolge nel duplice campo della mediazione familiare e della mediazione penale.

Lucia Santamaria scrive, infatti, nell’introduzione:

«La rivendicazione, la sofferenza potenzialmente infliggibile all’altro, assume il valore di un finto sollievo o risarcimento, o di un’azione giusta mirata a riportare nella rottura di una relazione il senso di parità di potere l’uno verso l’altro. Nella dimensione familiare questo può attuarsi nell’escalation di un conflitto altamente costoso per entrambi i configgenti in termini di risorse materiali (tempo, energie e denaro) ed emotivo-affettive e nella devianza rappresentativa del ricorso al diritto familiare come battaglia giuridica che si prolunga nel tempo. Nella dimensione vittima di reato-reo, spesso si concretizza nella devianza rappresentativa del diritto penale visto come vendetta, nella richiesta non solo della certezza della pena, ma di una pena aspra, nella narrazione mediatica distorta e stereotipata che si fa richiesta che il sistema istituzionale presti la voce all’urlo della domanda di giustizia che spesso appare sotto la forma di una richiesta di vendetta. Proprio per questo la risposta giuridica della separazione/divorzio o della commissione di una pena commisurata al reato appare insufficiente perché per sua natura non si fa carico della radice di sofferenza del conflitto e di come questa si declina nei vissuti emotivi dei configgenti e nelle motivazioni che animano il conflitto».

 Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare Lucia Santamaria.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Mediazioni e compromessi come sinonimo di vita (libera)

Abbiamo già dedicato una riflessione al tema mediazioni e compromessi (Mediazione e compromesso), in questa rubrica dell’Associazione Me.Dia.Re. (Riflessioni, appunto), ponendo in rilievo anche l’esistenza di una dialettica, a volte un vero e proprio conflitto, tra i favorevoli a priori, da un lato, i contrari per principio, sul fronte opposto, e quelli favorevoli o contrari a seconda dei casi, nel mezzo. A tale riguardo si era posta l’attenzione anche sul contrasto, talora violento, che può svilupparsi all’interno di un gruppo (una famiglia, un gruppo di lavoro, un’associazione sindacale, oppure un insieme di sindacati, un partito politico, o diversi partiti appartenenti alla stessa area, ecc.) tra le cosiddette colombe, cioè coloro per i quali è bene tenere aperti i canali del dialogo e, in particolare, svolgere un percorso di mediazioni e compromessi con la controparte, e i cosiddetti falchi, vale a dire quelli per i quali con il nemico non si deve trattare, poiché il farlo vorrebbe dire rimetterci l’identità, l’onore, la dignità, la sicurezza, i diritti, gli interessi…

Quella spirale conflittuale che non ammette dubbi e fabbrica traditori

Nelle situazioni in cui il conflitto tra due o più entità raggiunge livelli di escalation e radicalizzazione particolarmente significativi, quasi automaticamente iniziano tempi duri per le colombe, tanto che cala un’ombra sui loro suggerimenti di contemplare mediazioni e compromessi come opzioni permeate di pragmatismo e prevenzione di autodistruzioni. Si è assistito innumerevoli volte, nella storia anche recente, alla delegittimazione e, perfino, alla scomunica e alla demonizzazione, dei fautori della prevenzione del conflitto bellico imminente col ricorso a tentativi di mediazioni e compromessi. Ad esempio, nella nostra rubrica Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato come venissero emarginati coloro che erano per un approccio negoziale nel caso della Prima e della Seconda Guerra del Golfo (rispettivamente nei post Un’avventura senza ritorno e Il naturale colore della verità), abbiamo più volte rammentato come venissero tacciati di tradimento nel lungo corso della Guerra Fredda, coloro che, al di qua o al di là della cosiddetta cortina di ferro, promuovevano l’idea del dialogo. Si pensi all’odio di cui fu fatto bersaglio il presidente John F. Kennedy per non aver adottato una politica improntata alla massima durezza verso l’Unione Sovietica (l’abbiamo ricordato qui) e i suoi alleati; ma si può anche ricordare il trattamento riservato dal Cremlino, nonché da una larga parte del mondo dell’informazione e della cultura ossequiosa alle direttive del Politburo, ad Andrei Sakharov [1]. D’altra parte, per ricordare un altro pluridecennale conflitto, si può pensare ad Itzhak Rabin, ucciso, ancor prima che dalla mano del suo assassino, dall’odio verso chi, favorevole al dialogo, viene considerato come traditore dai membri del gruppo cui appartiene; persone che, in quell’occasione, non permisero a Rabin di costruire un futuro di convivenza fondato su mediazioni e compromessi, sicché non gli perdonarono di aver pensato, detto e tentato di mettere in pratica le seguenti parole: «Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere».

Leggi, governi e maggioranze politiche basate su mediazioni e compromessi

Tuttavia mediazioni e compromessi, al di là dei conflitti più o meno ricorrenti tra fautori del dialogo e sostenitori del confronto duro, sono all’ordine del giorno, più di quanto non ci rendiamo conto, negli infiniti microcosmi del nostro ménage quotidiano: in famiglia e in altri contesti relazionali, nonché in ambito imprenditoriale, sindacale, commerciale, finanziario e politico- istituzionale.

Quanti governi, in Italia e altrove, sono stati frutto di mediazione e compromesso?

Riguardo a quest’ultimo ambito, è difficile tenere il conto dei governi che, ad esempio, in Europa, sono sorti a seguito di mediazioni e compromessi[2]. Oggi, il governo Draghi, come molti altri precedenti, inclusi quelli citati in nota, è un altro governo sostenuto dalla quasi totalità delle forze politiche. Occorre, tuttavia, ricordare, per limitarci ai governi della cosiddetta Seconda Repubblica, i tanti governi sostenuti in Parlamento da diversi partiti diversi da quelli risultati vittoriosi all’esito delle elezioni, sulla base di mediazioni e compromessi politici tra le forze parlamentari: da quelli guidati tra il 1994 e il 2001 da Lamberto Dini (supportato da una parte del centro sinistra e da una parte del centro destra), ai due governi di Massimo D’Alema e a quello di Giuliano Amato (tutti e tre successivi alla crisi del governo Prodi e sostenuti dalla fiducia di maggioranze parzialmente diverse da quelle uscite dalle elezioni), a quelli succedutesi nei dieci anni compresi tra il 2010 e il 2021, aventi a capo Mario Monti, seguito, dopo le elezioni del 2013, da Enrico LettaMatteo Renzi e, infine, Paolo Gentiloni (tutti e tre sostenuti dal PD e da un parte del centrodestra) e dai due presieduti da Giuseppe Conte (il primo frutto di un’intesa post elettorale tra il primo e il terzo partito per numero di elettori alle politiche del 2018, M5S e Lega; il secondo frutto di un accordo tra M5S, PD, cioè, il secondo arrivato alle elezioni, e un partito di sinistra avente un minore consenso elettorale, LeU).

La Costituzione e le leggi fondate su mediazioni e compromessi

D’altra parte, mediazioni e compromessi, nei sistemi di democrazia liberale, sono alla base della stessa esistenza di tali ordinamenti e ne costituiscono un nutrimento davvero ricorrente, collocandosi spessissimo come la premessa politica necessaria di larghissima parte della produzione legislativa. Infatti, fu frutto di un’opera complessa e, a tratti anche tormentata, di mediazioni e compromessi anche la stesura e l’approvazione della nostra carta costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio del 1948[3]. Ma anche di leggi ordinarie, che ebbero una rilevanza decisiva per la vita di milioni di persone, anch’esse frutto di mediazioni e compromessi, se ne possono ricordare numerosi esempi e, tra le più dibattute, si può pensare: alla legge che ha introdotto nel nostro ordinamento il divorzio ed a quella sull’aborto, nonché alla legge, di diversi decenni successiva, sulle unioni civili, approvata il 20 maggio del 2016[4]; oppure, per fare un altro balzo temporale all’indietro e passare ad un altro ambito, si può pensare allo Statuto dei diritti dei lavoratori [5].

«Compromesso è sinonimo di vita» e non può essere a sua volta un dogma

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Da quanto sopra esposto si potrebbe pensare che si voglia proporre un elogio del compromesso senza se e senza ma. Il che per certi aspetti corrisponde al vero, se e nella misura in cui mediazioni e compromessi vengono ad essere intesi come antitetici all’ottusità, all’intolleranza, al dogmatismo, al fanatismo, alla compressione o alla negazione delle libertà e degli altri diritti fondamentali.

Amos Oz, in “Contro il fanatismo”, ha scritto:

«Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza d’integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte… Ritengo che l’essenza del fanatismo sia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere».

Spostandosi sul terreno della gestione (professionale o meno) dei conflitti, le parole di Amos Oz hanno una rilevanza peculiare. Infatti, anche il mediatore professionale (familiare, penale, in ambito sanitario, in ambito organizzativo-lavorativo, ecc.), come chi in una certa situazione si trova a svolgere tale ruolo, pur non essendo quella la sua professione, deve stare attento a non essere guidato dal proprio «desiderio di costringere gli altri a cambiare ».

La neutralità del mediatore e l’astensione dal tentativo di rendere migliori i confliggenti

Per Amos Oz occorre controllare quella «inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere». Ebbene, la stessa avvertenza potrebbe valere per chi si appresta a gestire un conflitto altrui. Gestire un conflitto tra coniugi (mediazione familiare), tra fratelli o tra genitori e figli (mediazione in famiglia), tra autore e vittima di un reato, tra un paziente e un medico (mediazione sanitaria), tra due o più membri di un’équipe di lavoro (mediazione organizzativo-lavorativa), ecc., infatti, specie se lo si fa professionalmente dovrebbe significare agire con spirito imparziale e neutrale: imparziale nel senso che non si parteggia per nessuno degli attori del conflitto; neutrale nel senso che non si deve perseguire un particolare esito del percorso. La neutralità, quindi, significa anche non cercare di pilotare la mediazione verso l’estinzione del conflitto, muovendo dall’assunto che la sua esistenza è dannosa per i protagonisti e gli altri soggetti interessati dai suoi effetti, moralmente ed eticamente negativa, economicamente costosa… Infatti, sostanzialmente tutti i modelli di mediazione si fondano sulla sospensione del giudizio non soltanto sulle ragioni, aspirazioni, interessi e obiettivi delle parti, ma anche sul loro essere in conflitto. In breve, si può dire, pressoché tutte le impostazioni partono dalla premessa che il conflitto in sé non è un fatto negativo e che i suoi protagonisti non vanno giudicati negativamente per il fatto di esserne attori e autori.

La sospensione del giudizio sul conflitto e sui suoi protagonisti

Abbiamo già scritto altrove che la mediazione familiare dovrebbe essere laica, cioè non dovrebbe essere intesa né svolta come una specie di processo (non dichiarato) in cui i membri della coppia genitoriale sono posti sul banco degli imputati, accusati di agire irresponsabilmente contro gli interessi dei loro figli, in quanto intrappolati dalle spire delle ripicche reciproche, dei rancori, delle ansie di controllo e dai desideri di “fargliela pagare”. E lo stesso dicasi per la mediazione di conflitti relativi ad altri ambiti relazionali o sociali. Infatti, se, per il mediatore, la premessa non solo concettuale ma anche relazionale è che il conflitto non è né positivo né negativo, allora dovrebbe evitare non soltanto di giudicare, ma anche di fare, indirettamente, sentire giudicate le persone che a lui si rivolgono. Il giudizio negativo, però, in realtà, diventa un fatto, cioè un atteggiamento, intrinsecamente implicito, e talora decisamente esplicito, se e quando il professionista persegue la finalità di porre termine al conflitto, inducendo i suoi attori a comportarsi, a sentire e a pensare in termini non conflittuali ma collaborativi. In tali casi, infatti, senza dichiararlo lavora per far cambiare le persone che ha davanti, per renderle migliori, per raddrizzarle dalle storture del pensiero e dei sentimenti che il conflitto ha provocato in loro. Insomma, non gli sta bene che siano conflittuali come sono e vuole indurle a smetterla di esserlo. Il che, tuttavia, non significa esattamente farle sentire accettate, né rispettare la loro libertà di «lasciarli vivere».

Mediare non significa necessariamente perseguire l’estinzione del conflitto

Nella rubrica Riflessioni abbiamo scritto numerosi articoli (ma si può anche leggere il saggio A. Quattrocolo, M. D’Alessandro, Ascolto e Mediazione, Franco Angeli srl, Milano, 2021), riguardo al fatto che esiste anche un’impostazione secondo la quale l’obiettivo del percorso di mediazione non è necessariamente quello di estinguere il conflitto (lo è quando è questa la richiesta delle parti), bensì offrire ai confliggenti, anche quelli indisponibili a mediare nel senso prevalentemente attribuito a tale verbo, degli spazi in cui essere ascoltati, compresi e riconosciuti dal mediatore, ed eventualmente da lui supportati nel far pervenire all’altro dei contenuti importanti fin lì ignorati.

Come ha scritto Lucia Santamaria nella sua tesi di fine corso:

«La mediazione, lontana dalla pretesa irenica di estinguere ogni conflitto, assume i tratti di uno spazio libero in cui la sospensione del giudizio e la dimensione di ascolto del mediatore possono neutralizzare il vissuto di sconvenienza delle componenti emotive vendicative restituendo anche a queste la dignità di esistere e di essere ascoltate e riconosciute. Uno spazio in cui il vissuto doloroso dei configgenti è accolto senza censure e giudizi. Non è detto che questo basti per portare a il conflitto a risoluzione, la mediazione è nel suo senso più pieno una possibilità e configgenti e mediatori abitano la terrà libera della possibilità di comprensione, interpretazione e significazione e non quella della certezza della risoluzione o del controllo del conflitto».

Sulle caratteristiche, il metodo e le finalità di questa impostazione (detta appunto “Ascolto e Mediazione”) che cerca di evitare di fare la guerra al conflitto (quindi, ai confliggenti) ci si è soffermati già più volte, però restano degli aspetti da precisare.

Un’apparente contraddizione di fondo

A questo punto del discorso, però, ci si potrebbe chiedere:

«Se la mediazione non persegue l’estinzione del conflitto, allora che senso ha? Pensare che la mediazione familiare possa non avere come finalità la cessazione delle ostilità tra i membri della coppia genitoriale non significa forse rasentare una contraddizione stridente, dal momento che quel particolare tipo di gestione del conflitto sorge proprio per tutelare i figli (minori) dagli effetti spesso pesantemente deleteri della conflittualità che domina i rapporti tra i genitori?»

In molti risponderebbero di sì ad entrambi gli interrogativi. In mediazione e compromesso abbiamo posto in rilievo come la gran parte delle scuole di pensiero e delle metodologie operative interpretino l’attività del mediatore come finalizzata alla conclusione del conflitto, il più delle volte, sanzionata dal conseguimento di un accordo (formale o informale). In estrema sintesi, per lo più, la mediazione è intesa e applica come percorso teso a far uscire i confliggenti dalle strettoie della contrapposizione e a giungere, a seconda dei paradigmi di riferimento, ad un riconoscimento reciproco, alla pattuizione dei loro rapporti futuri, inclusi eventuali risarcimenti e indennizzi simbolici e/o economici. Il che, però, come si faceva notare, pone anche qualche problema operativo rispetto a coloro, e non sono pochi, che rischiano di essere esclusi (cioè di rifiutarsi di partecipare o di farlo solo proforma), in quanto non intendono mediare, ma vincere, magari perché aspirano ad avere la soddisfazione di sentirsi riconosciuta la loro ragione o, più in generale, ad ottenere giustizia; oppure perché intimamente vogliono vendicarsi ma ci sono anche coloro che sono disposti a perdere pur di lottare per la difesa di un principio, così come si può essere disposti a tollerare costi, angosce e disagi pur di proteggere sé o altri dalla cattiveria o dalla doppiezza di cui si è convinti che sia traboccante la controparte…

Un’impostazione alternativa, che slega mediazioni e compromessi tra le parti e li pone all’interno della mente del mediatore tra giudizio e non-giudizio

In quell’articolo si accennava anche al fatto che normalmente mediazioni e compromessi sono intese come legate da una sorta di rapporto genitore-figlio: le prime, se funzionano, generano i secondi. Ma si può anche interpretare questa dinamica come qualcosa che si sviluppa ad un livello più profondo, meno visibile e meno scontato, nella mente del mediatore: si tratta di un rapporto tra aspetti mentali, emotivi e cognitivi, in cui la mediazione e il compromesso si scambiano di posto ed è il secondo (a sua volta, frutto di una mediazione introspettiva, interna alla mente del mediatore) a creare le condizioni per la prima. Il compromesso interno, che si svolge nella mente del mediatore, precede, secondo tale prospettiva, lo svolgimento dell’intervento professionale di mediazione, cioè di un percorso di incontri non giudicanti con gli attori del conflitto, cui il mediatore riconosce ad essi la libertà di essere come sono. Si tratta di una mediazione della dialettica interna al mediatore tra «quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino» e il rispetto per la sua libertà di essere come vuole. Un processo, quindi, che esita in un compromesso sempre interno alla sua mente e che lo prepara alla gestione del percorso di mediazione vera e propria con i confliggenti, accompagnandolo anche in ogni momento d’interazione con loro. Quindi, in tal caso, una serie di mediazioni e compromessi si sviluppano nell’animo del mediatore prima, durante e dopo gli incontri con le parti, con la funzione di consentirgli di acquisire e conservare un equilibrio, instabile e dinamico, che lo preservi dal tradurre i propri sentimenti e pensieri, eventualmente intrisi di disapprovazione in atteggiamenti e comportamenti avalutativi in presenza delle parti, consentendogli la più totale libertà di valutazione in loro assenza.

Alberto Quattrocolo

[1] Come abbiamo ricordato in un post a lui dedicato (Sakharov, un portavoce della coscienza per l’umanità, oggi come ieri), il padre della prima bomba H sovietica, nel 1953, divenuto poi riluttante coordinatore del team che fabbricò la “bomba dello Zar”, prima di diventare, sei anni dopo, esplicito sostenitore della necessità «di un riavvicinamento dei sistemi socialista e capitalista, che potrebbero eliminare o ridurre sostanzialmente» le più gravi minacce per la sopravvivenza dell’umanità, cioè

«estinzione termonucleare, catastrofe ecologica, carestia, un’esplosione incontrollata della popolazione, alienazione e distorsione dogmatica della nostra concezione della realtà». Le sue dichiarazioni sul raggiungimento attraverso mediazioni e compromessi di «una società democraticamente governata, democratica e pluralista, priva di intolleranza e dogmatismo, una società umanitaria che si preoccupi della Terra e del suo futuro».

Queste idee, infatti, che gli fruttarono il Nobel per la pace nel 1973, gli procurarono anche le ire del Partito: lettere firmate dai membri dell’Accademia Sovietica delle Scienze lo accusavano pesantemente sul piano politico, mentre sui giornali comparivano lettere fasulle di “persone semplici” che lo attaccavano come “traditore” e, man mano, che si rafforzava il suo impegno per la difesa dei diritti umani in ogni angolo della Terra, attraverso accordi internazionali e non con l’ingerenza nella vita di singoli Paesi, attraverso un approccio riformista globale e non rivoluzionario, cresceva l’insofferenza del Politburo nei suoi confronti, che arrivò a perseguitarlo in tutti i modi possibili, facendolo passare per il peggiore dei traditori.

[2] Perfino i governi che diedero vita alle dittature fasciste italiane e tedesche, in qualche misura, si fondarono su accordi tra parti e istituzioni politiche diverse: quello di Benito Mussolini sorse, sì, dopo la marcia su Roma, ma a seguito di un (deprecabile e invero evitabile) accordo (lo abbiamo ricordato qui), così come fu frutto di un compromesso quello nato, 11 anni dopo, in Germania con l’affidamento della carica di cancelliere del Reich ad Adolf Hitler (lo abbiamo ricordato nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione). D’altra parte anche il governo europeo maggiormente impegnato nel difendersi e contrastare Hitler e Mussolini, quello britannico, guidato dal conservatore Winston Churchill, si basò su un’intesa tra tutte le principali forze politiche, tanto che Clement Attlee (leader dei laburisti) ebbe perfino l’incarico di vice primo ministro. D’altra parte, se è vero che governi di unità nazionale ce n’erano già stati nella Prima Guerra Mondiale (prima quello di Herbert Henry Asquith e poi di David Lloyd George) e durante la Grande Depressione (con la guida di Ramsay MacDonald). Dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo a Benito Mussolini (25 luglio del 1943) e la firma dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, anche l’Italia conobbe, pur ancora occupata dalle truppe hitleriane nel Centro Nord, dove Mussolini aveva eretto la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), conobbe dei governi di unità nazionale (Badoglio II, Bonomi II, Bonomi III, Parri, De Gasperi I, De Gasperi II e De Gasperi III), costituiti con la collaborazione dei sei partiti antifascisti (DC, PCI, PSIUP, PLI; PDL; PdA) aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).  Nel secondo dopoguerra un altro governo italiano di unità nazionale fu il terzo guidato da Giulio Andreotti (detto anche il “governo della non sfiducia”, avendo la maggioranza grazie all’astensione del PCI di Enrico Berlinguer, in accordo col cosiddetto “compromesso storico”).

[3] Abbiamo ricordato in questo post le vicende e le discussioni che portarono all’approvazione del testo definitivo della nostra Costituzione e alla sua promulgazione il 27 dicembre del 1947, mentre al precedente referendum con cui gli italiani, il 2 giugno del 1946, a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla fine del coinvolgimento dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, votarono per la forma repubblicana, e contestualmente elessero i membri dell’Assemblea costituente, è stato dedicato questo post di Corsi e Ricorsi: Repubblica o monarchia?

[4] La legge introduttiva del divorzio fu approvata dalla Camera il primo dicembre del 1970 con i voti favorevoli di 319 deputati e i voti contrari di altri 286. Vale la pena tornare per sommi capi alla prima proposta di legge formulata che, prevedendo la possibilità di divorziare dopo cinque anni di separazione legale, sollevò resistenze diffuse, tanto che, attraverso mediazioni e compromessi, pur di non rinunciare all’introduzione del divorzio nel nostro Paese, questo come altri aspetti del testo originario furono emendati. Solo adesso si è arrivati ad una normativa che prevede il divorzio “breve” dopo sei mesi, in caso di accordo tra i coniugi, o un anno, in mancanza di accordo. Qualcosa di simile accadde circa otto anni dopo, con la legge che introdusse l’aborto (la legge n. 194 del 22 maggio del 1978): ci vollero, in effetti, sette anni prima di giungere all’approvazione di un testo legislativo. Sette anni di discussioni, dibattiti, scomuniche, conflitti, dubbi, ripensamenti. E aggiustamenti. In quel caso il compromesso che permise di far prevalere nel voto a scrutinio segreto i sì, seppur di poco (308 favorevoli e 275 contrari), fu l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i medici: una previsione assai discussa allora e tuttora, specie per l’inflazionato uso ostruzionistico che se ne fa. Anche la legge sulle unioni civili del 2016 fu frutto di un compromesso all’interno del PD e tra questo e il Nuovo Centro Destra: da una parte si rinunciò all’equiparazione delle unioni civili al matrimonio e alla stepchild adoption (cioè la possibilità per le coppie, in alcuni casi, di adottare il figlio biologico di uno dei due partner), dall’altra si recedette dalla propria posizione di rifiuto pressoché totale. In ogni caso, il governo dell’epoca, guidato da Matteo Renzi, decise di porre la fiducia in Parlamento e grazie alla divisione interna all’opposizione del centro destra, a seguito di quell’intesa, una parte di essa approvò la legge, come concordato con la maggioranza, portando a 369 i voti favorevoli e limitando a 193 quelli contrari.

[5] Si tratta della legge 300 del 20 maggio 1970, alla cui approvazione definitiva in aula il PCI decise di astenersi sebbene Bruno Trentin, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, sostenesse che i parlamentari comunisti avrebbero dovuto votare a favore e ricordasse al suo partito che la proposta originaria di uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori era stata avanzata da Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, sin dal 1952

Mediazione e compromesso

Mediazione e compromesso sono, si potrebbe dire con un po’ di esagerazione, ingredienti onnipresenti della nostra vita quotidiana a tutti i livelli. E con ciò il discorso potrebbe chiudersi subito qui, se non fosse che…

Mediazione e compromesso come virtù o come vizi?

… se non fosse che mediazione e compromesso non sono termini neutrali, per come risuonano alle orecchie delle singole persone. Le valenze e le implicazioni attribuite a mediazione e compromesso sono, infatti, quanto mai eterogenee.

Volendo schematizzare (e banalizzare), si potrebbero individuare due posizione estreme: da un lato, quelli favorevoli sempre, per principio, alla sequenza mediazione e compromesso nella misura in cui tale atteggiamento è ritenuto sinonimo di sincera disponibilità al dialogo, di moderazione, di senso pratico, di spiccata capacità di non essere schiavi di posizioni dogmatiche e di coscienza di non avere il monopolio della ragione e della verità; sul fronte opposto si stagliano quelli contrari sempre, anch’essi per principio, al binomio mediazione e compromesso e sono propensi ad attribuirgli significati oscuri , o almeno opachi, dal momento che con il nemico non si tratta, si combatte, perché sui principi e sui valori non si può transigere, il farlo significa per loro, in realtà, non averli o infischiarsene, insomma… essere delle banderuole!

Mediazione e compromesso come sinonimo di maturità e di capacità di dialogo

I primi includono anche coloro che, avendo vissuto conflitti durissimi, tanto dolorosi quanto inutilmente costosi, hanno concluso che era il caso di imparare la lezione, di riconoscere che nessuno ha la verità in tasca, che l’ottusità è una cattiva consigliera e che occorre sempre negoziare fino all’ultimo istante, e anche oltre, pur di non sopportare, e pur di non infliggere ad altri, sofferenze così importanti. Così, molti leader politici e milioni di cittadini, all’indomani della Grande Guerra (poi destinata a diventare la prima delle due guerre mondiali), pur registrando con angoscia l’affermarsi di partiti ultranazionalisti in Europa, consideravano indispensabile trattare e negoziare anche con i più prepotenti di questi, pur di evitare il ripetersi di un bagno di sangue come quello del conflitto mondiale da poco attraversato.

Mediazione e compromesso come segnale di debolezza, di mancanza di valori e perfino di intelligenza con il nemico

Tra i secondi figurano quelli che ritengono di essersi fidati una volta di troppo, di essere stati troppo cedevoli e di averci rimesso in maniera pressoché irrecuperabile; quelli che hanno visto traditi dei principi inderogabili in nome della retorica del dialogo, che sono stati testimoni di quanto danno possano fare la cedevolezza alla prepotenza e all’arroganza altrui e di quanto sia immorale e pericoloso non presidiare certi confini. Sono anche coloro che fanno propria la sentenza latina «si vis pacem, para bellum» («se vuoi la pace, prepara la guerra»), essendo convinti che, in ogni possibile situazione, per assicurare la pace occorra mostrare di essere determinati a difendersi e, magari anche ad attaccare preventivamente, così da scoraggiare gli altrui propositi aggressivi.

Il conflitto tra favorevoli e contrari all’opzione mediazione e compromesso

La contrapposizione tra favorevoli e contrari al binomio mediazione e compromesso può verificarsi all’interno dei più disparati gruppi impegnati in una contesa con uno o più altri soggetti. La dialettica tra sostenitori della linea dura (i falchi) e quelli propensi alla trattativa (le colombe), infatti, può verificarsi all’interno delle famiglie non meno che nelle équipe di lavoro, nelle associazioni sindacali e in quelle datoriali. E in tali casi, accade spesso qualcosa di simile a quanto si sviluppa in analoghe dialettiche di tipo politico. Le colombe, che rinfacciano ai falchi di comportarsi da irresponsabili, vengono a loro volta accusate da questi ultimi di non essere disposti a battersi per la causa e addirittura di simpatizzare, sotto sotto, con il nemico, sicché replicano a tale infamante insinuazione con l’accusa ai sostenitori dell’intransigenza di voler dare supporto alle tesi della fazione guerrafondaia a discapito di quella più moderata, anch’essa presente nel gruppo avverso [1].

A seconda delle circostanze, mediazione e compromesso o rifiuto del dialogo e conflitto

Naturalmente ci sono coloro che, posti di fronte alla prospettiva del binomio mediazione e compromesso, scelgono una terza opzione e rispondono con un prudente «dipende». Sono le persone che, se ulteriormente sollecitate a chiarire, aggiungono che non sono fanatici né del dialogo a tutti i costi né della contrapposizione in ogni circostanza. Ritengono, ad esempio, che, sì, si può e si deve scendere a patti con Tizio (magari con tanti Tizi), ma che non si deve mai farlo con Caio [2].

Più in generale, va considerato che le persone, tendenzialmente, non sono blocchi monolitici, ma esseri ricchi di sfaccettature, la cui condotta e i cui atteggiamenti mentali variano in relazione alle situazioni concrete che devono fronteggiare e ai beni (interessi, diritti, sentimenti, valori, ecc.) in gioco. Perciò, concretamente, ciascuno di noi può trovarsi ad assumere la posizione della colomba in una determinata vicenda e quella del falco rispetto ad un’altra questione.

Che rapporto c’è tra mediazione e compromesso?

Normalmente si pensa al compromesso come al risultato di una mediazione svoltasi tra persone con posizioni iniziali divergenti. Si parla di mediazione sia nel caso in cui vi sia stato un soggetto terzo, imparziale, che ha organizzato e gestito gli incontri tra le parti, che nelle situazioni in cui queste si siano confrontate senza l’aiuto di una figura neutrale.

In ogni caso, il compromesso è considerato il frutto di una mediazione riuscita, che si sia trattato o meno di un’attività mediativa svolta da un professionista incaricato di condurre le parti verso un accordo (il compromesso).

Il “rapporto genitoriale” tra mediazione e compromesso

Anche sul piano professionale, secondo molte impostazioni, mediazione e compromesso hanno questo rapporto: se la prima funziona, se è efficace, sorge il secondo. Cioè: da una mediazione riuscita nasce il compromesso. Una mediazione fallisce, invece, se da essa non discende il secondo.

Questa impostazione, per cui la madre è la mediazione e il compromesso è il figlio, appare centrale nell’istituto della mediazione civile e commerciale introdotto nel nostro ordinamento nel 2010 (con il decreto legislativo n. 28): infatti, quell’atto avente valore di legge definiva conciliazione l’accordo conseguito all’esito di una mediazione riuscita.

La stessa relazione genitore – figlio tra mediazione e compromesso, del resto, sussiste nella mediazione familiare (sorta ben prima del 2010), almeno stando alla descrizione di molte scuole di pensiero e a quella di altrettante impostazioni di pratica operativa presenti in tale ambito. Tanto che tale “rapporto genitoriale” tra mediazione e compromesso è ravvisabile anche nello Statuto dell’associazione professionale A.I.Me.F. (Associazione Italiana Mediatori Familiari), nel cui art. 14 (Definizioni) si legge:

«”Mediatore familiare”: terza persona imparziale, qualificata e con una formazione specifica che agisce in modo tale da incoraggiare e facilitare la risoluzione di una disputa tra due o più persone in un processo informale e non basato sul piano antagonista vincitore-perdente, il cui obiettivo è di aiutare le parti in lite a raggiungere un accordo direttamente negoziato, rispondente ai bisogni e agli interessi delle parti e di tutte le persone coinvolte nell’accordo»[3].

La mediazione familiare, quindi, è un’attività professionale volta a conseguire, in uno specifico ambito relazionale e giuridico («questioni familiari»), l’obiettivo di risolvere una lite mediante il raggiungimento di un accordo. Schematicamente, secondo quest’impostazione, abbiamo un mediatore familiare che con la sua azione di mediazione gestisce il conflitto e ne facilita la soluzione (l’estinzione) procurando il raggiungimento di un accordo (cioè, di un compromesso).

Le implicazioni derivanti dalla connessione tra attività di mediazione e compromesso

La rappresentazione della mediazione come processo volto a generare un compromesso, cioè come mezzo impiegato in vista di un fine specifico (l’accordo), ha delle implicazioni di un certo spessore su registri diversi.

Il mancato compromesso come sinonimo di fallimento della mediazione

Si è già fatto notare che, se la mediazione è considerata come un’attività avente come obiettivo la stipula di un accordo che palesa e sostanzia l’estinzione del conflitto, il mancato conseguimento di tale risultato finisce col denunciare il fallimento dell’attività mediativa svolta. Tale insuccesso può essere attribuito a responsabilità del mediatore oppure a oggettiva impossibilità di raggiungere una soluzione della lite a causa della rigidità ostinata delle parti. In termini un po’ frettolosi o brutali: il mancato compromesso deriverebbe da errori commessi dal mediatore nella conduzione della mediazione, e si tratterebbe di errori considerati come tali ex post, quindi non costituenti automaticamente segnali di inadeguatezza della sua prestazione; oppure il non raggiungimento dell’accordo deriverebbe da una precedente e preliminare errata valutazione nell’avvio del percorso di mediazione, allorché il professionista, sbagliando, aveva ritenuto che quei confliggenti potessero raggiungere un accordo (anche in tal caso quell’errore, si rivela come tale ex post, quindi non è detto che fosse evitabile).

Conflitti mediabili o non mediabili, cioè estinguibili o non estinguibili con un accordo

Su un altro registro, l’associazione tra mediazione e compromesso fa sì che i conflitti possano essere distinti in mediabili e non mediabili, a seconda che appaiano, ad un primo esame, suscettibili o meno di essere risolti e di dare luogo ad accordi. In virtù di tale discrimine l’opera del mediatore verrebbe erogata soltanto a favore delle persone protagoniste di conflitti considerati, in base ad un preliminare e necessariamente sommario, esame, presumibilmente mediabili, cioè aventi un’accettabile probabilità di estinguersi in un compromesso. A tale riguardo sono diversi i parametri individuati per una pre-definizione di mediabilità del conflitto. Ad esempio, nell’ambito della mediazione civile e commerciale, alcuni anni fa, a ridosso dell’entrata in vigore del sopra citato decreto legislativo e del correlato decreto attuativo, fu elaborato un vademecum della mediazione (a cura dell’avv. Debora Ravenna dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano – Gruppo Mediazione – con il patrocinio di Ordine degli Avvocati di Milano – Camera Arbitrale di Milano) nel quale si definivano le caratteristiche dei casi mediabili e di quelli non mediabili. Tra i primi rientravano le situazioni nelle quali è evidente che le parti sono disposte a farsi reciproche concessioni[4]. Tra i casi non mediabili risultavano esserci i seguenti: quando sono in gioco questioni di principio; quando le parti non sono interessate a mantenere un rapporto tra di loro; le situazioni nelle quali le parti non vogliono incontrarsi per cercare una soluzione, ma aspirano soltanto a “disfarsi” del problema, delegandone ad altri la soluzione; le situazioni in cui le parti chiedono “giustizia”, rivolgendosi direttamente ed unicamente al giudice per ottenere un risarcimento o per vedersi riconosciuta la ragione[5].

Risvolti operativi, potenzialmente discriminatori, dell’associazione mediazione e compromesso

Va precisato che, al di là dell’iscrizione teorica del caso concreto nella categoria dei mediabili o dei non mediabili, l’associazione tra mediazione e compromesso ha dei risvolti operativi che sono immediatamente connessi con quella discriminazione. Ad esempio, se la condizione per l’avvio del percorso di mediazione è la comparsa fin dall’inizio di tutte le persone in conflitto al cospetto del mediatore, per iniziare a pianificare le modalità di sviluppo della discussione, si sta già creando un meccanismo selettivo. Infatti, si sta creando un meccanismo di esclusione nei confronti di coloro che, per le più diverse ragioni, almeno inizialmente, non sono disposti a sedersi allo stesso tavolo cui si accomoda la controparte. O, se proprio lo fanno, non è per convinzione che accettano di sedersi allo stesso tavolo, ma per evitare di essere giudicati negativamente: una partecipazione, questa, quindi, assai distante dall’essere un’adesione volontaria, ma che è significativa della percezione da parte di tali soggetti di un messaggio giudicante (e pregiudizievole) nei loro confronti. Un pre-giudizio di rigidità, di paura del confronto, di intransigenza maleducata, di brutto carattere…

Il distanziamento delle persone in conflitto indisponibili ad un iter di mediazione e compromesso

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Implicitamente o esplicitamente, come già accennato, l’elenco delle caratteristiche che rendono un caso mediabile, ovvero non mediabile, costituisce anche una descrizione delle situazioni, e delle persone in esse coinvolte, preventivamente escluse dalla fruizione di un servizio di mediazione. In altri termini, una persona avrebbe un identikit incompatibile con tale risorsa professionale quando si sta battendo per affermare o per tutelare un principio, se si vuole sentire dare ragione, se è giunta ad un livello tale di delusione e amarezza da non essere interessata a continuare il rapporto con la controparte, nel caso in cui non si senta disposta, fin da subito, ad aderire ad un percorso in cui dovrà concedere qualcosa. Quindi, in estrema sintesi, se non si è inclini fin dall’inizio ad accettare l’idea di pervenire ad un compromesso con la controparte e se non si è disponibili ad assumere un atteggiamento collaborativo per conseguire tale obiettivo, allora la mediazione non fa per noi. In tal caso, possiamo portare la nostra rabbia, la nostra sofferenza, le nostre angosce e la nostra solitudine da un’altra parte (dove?), poiché la nostra indisponibilità iniziale alla prospettiva del compromesso (cioè all’accoppiata mediazione e compromesso) ci renderebbe inidonei a tale tipo di supporto.

L’associazione mediazione e compromesso come risorsa professionale rivolta soprattutto ai protagonisti di conflitti blandi o di non-conflitti

Questa casistica di casi mediabili e non mediabili, cioè di vicende in cui astrattamente mediazione e compromesso appaiono, fin dall’inizio, potersi plausibilmente produrre entrambi, ha delle conseguenze, che non andrebbero trascurate, sulla diffusione della mediazione e sull’accesso spontaneo ad essa.

Un parco clienti di nicchia

Se consideriamo l’aspetto commerciale (indipendentemente dal fatto che il servizio di mediazione offerto sia a pagamento o gratuito), è naturale che sorga il dubbio circa la possibilità che l’offerta di una mediazione (volontaria o obbligatoria) finalizzata a produrre un accordo possa avere un grande mercato. Infatti, è possibile che non susciti particolare entusiasmo una vetrina in cui sia esposta l’accoppiata mediazione e compromesso presso quei protagonisti di conflitti che non sono fin dal principio palesemente disponibili a farsi reciproche concessioni, che ritengono di essere indiscutibilmente dalla parte della ragione, che si stanno battendo per affermare un principio e che non sono dichiaratamente interessati a mantenere un buon rapporto con la controparte.

Il rischio di un servizio di mediazione come supporto professionale per chi ne ha meno bisogno

Il possibile parco clienti, cioè, appare piuttosto limitato, quasi di nicchia, essendovi il rischio che, con una definizione delle condizioni di mediabilità rigidamente intesa e, soprattutto, con la prospettazione di un percorso di mediazione come finalisticamente inteso alla conclusione di un accordo, vengano in realtà delineate implicitamente come mediabili, ossia conciliabili, delle situazioni che, concretamente parlando, non sono (fortemente) conflittuali e di qualificare come non mediabili proprio le relazioni conflittuali. L’effetto paradossale è che la declinazione di un’offerta mediativa trovi interessamento da parte di coloro che ritengono di aver bisogno di una facilitazione della comunicazione nella negoziazione che hanno già avviato o che intendono iniziare, ma non presso coloro che, immersi nelle dinamiche conflittuali, considerano con ripugnanza la prospettiva di giungere ad un compromesso con il nemico. E, oggi come ieri, costoro non costituiscono una sparuta minoranza. Più verosimilmente compongono una rigogliosa maggioranza.

La liberazione della mediazione dalla finalità (e dall’aspettativa) del compromesso

Un altro modo di intendere la mediazione – un modo, invero, al momento in molti ambiti non così diffuso, come, invece, lo sono quei modelli che la interpretano come un processo finalizzato all’estinzione del conflitto e alla sua trasformazione in un accordo (formale o informale, esplicito o implicito) – è quello di delinearla in termini teorici, e di applicarla nella pratica operativa e di promuoverla, non ponendo in evidenza l’aspetto dell’accordo, ma la sua componente più interna, troppo spesso sottorappresentata dai diversi studi professionali e dalle diverse scuole teoriche: l’ascolto.

La mediazione come, in primo luogo, spazio d’ascolto

L’ascolto svolto dal mediatore secondo questa impostazione (che è iscrivibile nel cosiddetto filone “umanistico” e che è definita “Ascolto e Mediazione”) non serve soltanto a comprendere i termini delle questioni dibattute, ma ha una valenza decisamente più ampia[6]. L’ascolto, infatti, è un mezzo e, contemporaneamente, un fine. Più precisamente: il suo obiettivo è far sentire la persona accolta. Il che significa, in primo luogo, offrirle uno spazio e un tempo di ascolto tutto per sé (colloqui individuali, vengono chiamati “tecnicamente”), in cui possa narrare la propria versione, la propria verità, e sentirsi ascoltata: ascoltata, non giudicata e neppure interpretata; compresa, non consigliata, né approvata o disapprovata. Quindi, in un percorso di mediazione l’obiettivo dell’ascolto è quello di offrire ai confliggenti ciò che il conflitto ad essi tipicamente toglie: di nuovo, l’ascolto (l’ascolto da parte dell’altro, l’ascolto dell’altro e l’ascolto di sé stessi)[7]. Sicché, tale mediazione non è declinata e promossa sottolineando eventuali risvolti conciliativi, ma specificando che è rivolta anche a coloro che, protagonisti di un conflitto, non si sentono riconosciuti e compresi dalla controparte e, magari, neppure da coloro che gli stanno più vicino, coloro che si sentono vittime di un’ingiustizia… Insomma, coloro che stanno soffrendo. Che stanno soffrendo e che non sono disposte a pensare di conciliarsi con il loro nemico, magari neppure a ipotizzare di poter dialogare con quella/e persona/e che così profondamene detestano e/o temono.

L’ascolto come reintegrazione

Non si può trascurare il fatto che i conflitti tra le persone e tra i gruppi molto spesso sorgono dalla sensazione di non essere riconosciuti e che, comunque, con la loro progressione (l’escalation), inducono i loro attori a riconoscersi sempre meno, spingendoli a sviluppare rappresentazioni reciproche monodimensionali, spesso spregiative, all’insegna della spersonalizzazione e finanche della de-umanizzazione, con ciò impedendo ogni possibilità di ascolto reciproco e svuotando lo strumento della parola di ogni possibilità espressiva autentica e profonda. Perciò, quando i mediatori riescono a far sentire gli attori del conflitto riconosciuti nella loro tridimensionalità, riconosciuti come esseri umani e non solo come parti di un conflitto, allora riducono di molto il vuoto, l’isolamento, che tante volte il conflitto crea negli individui, nelle famiglie, nei gruppi, nelle comunità e nelle organizzazioni. Da questo riconoscimento operato dal mediatore nei confronti delle singole parti può derivare (e, in effetti, di fatto, per lo più deriva) un allentamento della tensione e della de-umanizzazione reciproca tra i confliggenti, mentre correlativamente si sviluppa un confronto all’insegna di una maggiore consapevolezza circa i propri e altrui sentimenti, emozioni, pensieri, motivazioni e aspettative.

Un approccio pragmatico basato sulle caratteristiche più problematiche dei conflitti

Quanto sopra scritto a proposito dell’ascolto può risuonare vagamente idealistico, ma in realtà è quanto mai lontano da tale tipo di risvolto. Se la funzione della mediazione è quella di tentare di gestire i conflitti, allora, occorre che, nella pratica, essa tenga conto anche (se non soprattutto) delle caratteristiche di questi che li rendono davvero poco gestibili. Il che presuppone la consapevolezza che spessissimo la parola mediazione tiene lontani coloro che, pur soffrendo parecchio, non sono disposti a mediare il loro conflitto, ritenendo che ciò equivalga ad accettare un compromesso al ribasso, e quindi che implichi una futura resa, cioè una prossima sconfitta, in quanto mediazione e compromesso sono vissuti come sinonimo di rinuncia alle proprie ragioni, come sacrificio dei propri diritti e interessi, come tradimento dei propri valori e come repressione di un basilare senso e bisogno di giustizia. Per tale ragione veicolare l’idea della mediazione, e poi concretamente svolgerla, in primo luogo come servizio di ascolto assolve una funzione duplice: la prima, e più ovvia, non è quella di indurre con l’inganno ad accedere alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma è dare un luogo e un tempo di accoglienza anche a chi ha quel genere di sentimento, di pensiero e di atteggiamento; la seconda è prevenire ed evitare il frequente rischio che, nella pratica operativa, il mediatore sia vissuto dalle parti come un soggetto deputato a svolgere un’azione di contrasto alle loro istanze conflittuali. In breve, si tratta di evitare che la mediazione sia vissuta come una sorta di conflitto al loro conflitto e, quindi, a loro stessi[8].

Alberto Quattrocolo

 

[1] Nel mondo anglosassone, e con particolare rilevanza negli Stati Uniti, coloro che si espressero a favore dell’accordo di Monaco furono accusati di cecità politica, di ostinato rifiuto di guardare in faccia la realtà (la natura ingiusta di quel patto e la facilmente profetizzabile slealtà di Hitler) e di subalternità alla tracotanza del Terzo Reich. L’espressione utilizzata per condannare la decisione britannica e francese di accordarsi con la Germania nazista fu appeasement.Tale termine tornò diverse altre volte ad essere impiegato per esprimere disapprovazione rispetto a negoziazioni ufficiali e ufficiose e tentativi diplomatici di mediazione e compromesso volti a prevenire o ad evitare la traduzione di crisi tra gli stati in aperti conflitti bellici: così anche la politica adottata dal presidente John F. Kennedy nei confronti dell’URSS e di Cuba fu censurata dai cosiddetti “falchi” come una politica di appeasement (con ciò creandogli un certo imbarazzo per il ricordo favore espresso a suo tempo, dal padre, Jospeh Patrick Kennedy, ambasciatore statunitense a Londra, per l’accordo di Monaco). La reazione di Kennedy alle esortazioni da parte dei suoi consiglieri militari a rapportarsi con intransigente durezza nei confronti di Chruščёv era, privatamente, non meno rabbiosa. Appena un anno prima, ad esempio, si era sfogato con il suo consigliere politico e amico Kenneth O’Donnell dicendo:

«Quei pezzi grossi delle forze armate hanno un unico, grande vantaggio: se li ascoltiamo e facciamo quello che dicono loro, dopo nessuno di noi potrà più dirgli da vivo che avevano torto» .

Con tali parole il presidente degli Stati Uniti, il 19 ottobre 1962, nel bel mezzo dei tredici giorni della crisi dovuta alla scoperta dell’installazione di missili sovietici con testate nucleari a Cuba puntate sul territorio statunitense (una crisi, quella, durante la quale l’umanità intera trattenne il fiato temendo che da un momento all’altro potesse prodursi una guerra nucleare tra le due super-potenze con esiti catastrofici per tutti gli abitanti del nostro pianeta), commentò l’esortazione ricevuta dal generale Curtis Le May di ordinare un massiccio bombardamento aereo dell’isola. «Se non reagiamo qui a Cuba la nostra credibilità verrà sacrificata», aveva affermato Le May. «Quale crede che sarebbe la loro [dell’Unione Sovietica] reazione», aveva chiesto Kennedy. Nessuna, era stata la risposta di Le May, il quale aveva sostenuto che il blocco solo navale dell’isola e le altre iniziative politiche prospettate dal presidente avrebbero portato «dritto alla guerra…». «In altre parole, lei in questo momento è in un bruttissimo guaio», aveva aggiunto il capo dell’aviazione. «Come ha detto?», aveva chiesto interdetto JFK. «Lei è in un bruttissimo guaio», aveva ribadito Le May. Il presidente gli aveva rivolto un’occhiata gelida e un sorriso altrettanto glaciale, dicendogli: «Forse non se n’è accorto, ma c’è dentro anche lei». Dopo la riunione, John Kennedy, arrabbiatissimo e ancora incredulo, riferendo al suo amico e consigliere politico Kenneth O’Donnell la convinzione del generale Le May che i sovietici non avrebbero reagito al bombardamento americano di Cuba, pronunciò le parole sopra citate (JFK. Una Vita incompiuta, di Robert Dallek, 2004 Arnoldo Mondatori, Milano).

[2] Tra questi, tanto per fare due esempi della cruenta storia del Novecento, possono essere considerati coloro che il 10 ottobre del 1963 salutarono con approvazione e una buona dose di sollievo la firma del trattato tra Stati Uniti e Regno Unito, da un alto, e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dall’altro, sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (cioè, di quelli condotti fuori dal sottosuolo), ma ritenevano, invece, che, quasi esattamente 15 anni, prima avesse avuto ragione da vendere Winston Churchill nel giudicare un errore il tentativo condotto a Monaco di Baviera, dal primo ministro britannico, Neville Chamberlain, nonché del primo ministro francese Daladier e del capo del governo Benito Mussolini (ma questi già all’epoca in diverse cancellerie era considerato poco più di un dittatore di carta pesta di uno stato di second’ordine e, di fatto, un portavoce del Führer), di trattare con Adolf Hitler, perché ritenevano perverse sotto ogni profilo le sue pretese sulla Cecoslovacchia (all’epoca l’unico stato democratico ad oriente della Francia), del tutto inverosimili le sue promesse di non avere alcuna intenzione di estendere ulteriormente i domini tedeschi a spese di quella e di altre nazioni e sommamente immorale fargli delle concessioni sulla pelle di milioni di persone e di uno stato sovrano e democratico, i cui rappresentanti erano stati esclusi dal tavolo della mediazione. Erano coloro che, anche a decenni di distanza, si riconoscevano, dunque, nel discorso svolto da Winston Churchill, il 5 ottobre del 1938, cioè cinque giorni dopo la firma dell’accordo di Monaco, nel quale, davanti alla Camera dei Comuni, aveva affermato che il suo primo ministro e compagno di partito Chamberlain non aveva garantito la pace per le future generazioni né aveva assicurato, come andava sostenendo, la fine di un incubo, bensì l’inizio:

«Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra».

[3] Il testo dell’art.14 prosegue così:

«L’accordo raggiunto dovrà essere volontario, mutuamente accettabile e durevole. Il mediatore si applicherà affinché l’autorità decisionale resti alle parti. Il ruolo del mediatore familiare comporta fra l’altro il compito di assistere le parti nell’identificare le questioni, di incoraggiare la loro abilità nel risolvere i problemi ed esplorare accordi alternativi, sorvegliandone la correttezza legale, ma in autonomia dal circuito giuridico e nel rispetto della confidenzialità.

“Mediazione Familiare”: indica la mediazione di questioni familiari, includendovi rapporti tra persone sposate e non (conviventi more uxorio, genitori non coniugati), con lo scopo di facilitare la soluzione di liti riguardanti questioni relazionali e/o organizzative concrete, prima, durante e/o dopo il passaggio in giudicato di sentenze relative tra l’altro a: dissoluzione del rapporto coniugale; divisione delle proprietà comuni; assegno di mantenimento al coniuge debole o gli alimenti; responsabilità genitoriale esclusiva o condivisa (potestà genitoriale); residenza principale dei figli; visite ai minori da parte del genitore non affidatario, che implicano la considerazione di fattori emotivo-relazionali, con implicazioni legali, economiche e fiscali. La mediazione familiare richiede un periodo di sospensione delle cause eventualmente in atto».

[4] Altri casi mediabili sarebbero: le cause in cui le parti hanno interesse a mantenere (buoni) rapporti (come le vicende conflittuali tra condomini, quelle inerenti relazioni familiari o rapporti d’affari, ecc); cause che le parti intendono risolvere velocemente, essendo per esse più importante chiudere la questione che ottenere il giusto o il massimo); le cause nelle quali le parti vogliono evitare il procedimento giurisdizionale (ad esempio per considerazioni correlate a questioni di buon nome o di apparenza); le vicende nelle quali le parti ritengono che il giudizio non soddisferebbe appieno i loro reali interessi; le parti avrebbero difficoltà ad adempiere l’onere probatorio in sede di giudizio; su casi analoghi vi è una giurisprudenza controversa che rende imprevedibile l’esito; un risultato negativo in sede giudiziaria potrebbe portare alla proliferazione di cause analoghe (di filoni) intentate contro una delle parti; rispetto al prosieguo del contenzioso giudiziario il rischio d’impresa è considerato troppo alto; una o entrambe le parti sono interessate alla riservatezza; i costi e/o i tempi del giudizio sono considerati eccessivi; nessuna delle parti ha una posizione forte in fatto o in diritto; sussistono rilevanti aspetti emotivi dei quali si ha la consapevolezza cui non sarebbe attribuito adeguato rilievo nella causa; la negoziazione tra avvocati si è bloccata, ma le parti sanno che un terzo potrebbe sbloccarla.

[5] Tra gli altri casi non mediabili rientrerebbero: le situazioni nelle quali una delle parti è palesemente in mala fede; quei contenziosi finalizzati ad ottenere un precedente giurisprudenziale; quelle vicende nelle quali la “storia” delle persone è caratterizzata da episodi di violenza, tossicodipendenza, alcolismo, malattia mentale.

[6] Questa impostazione è più compiutamente descritta in Alberto Quattrocolo, Maurizio D’Alessandro, Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli srl, Milano, 2021

[7] Si vedano al riguardo anche molti altri articoli della rubrica Riflessioni, tra i quali: Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione; L’empatia non è un passeggiata

[8] A tale riguardo si può anche leggere: La mediazione familiare è laica