Intervista a Silvia Griglio: dentro una comunità mamma-bambino

La dottoressa Silvia Griglio, psicologa della Cooperativa Il Ricino (di tale cooperativa avevamo intervista anche la presidente, Federica Castellaro, sulla gestione dei conflitti in una cooperativa sociale e Antonella Pisegna, consigliera d’amministrazione, sulla delicata funzione dell’educatore), in questa intervista della rubrica Conflitti in corso, ci conduce all’interno di una realtà particolare, quella di una comunità mamma-bambino, dove sono accolti nuclei inviati dai Servizi Sociali a seguito di situazioni di pregiudizio per i minori e per le donne, tanto che un’alta percentuale di inserimenti è caratterizzata da invii prescritti dal Tribunale dei Minori. Spesso, infatti, si tratta di situazioni in cui le donne erano vittime di violenza e i loro figli vittime di violenza assistita, quando non anche di violenza diretta, oppure di abusi sessuali. Come spiega Silvia Griglio,

«in tali casi il tribunale decide di fare un inserimento di questo tipo più che altro perché sia valutata la capacità della madre di tutelare i figli. E questo crea già dei problemi nei vissuti di queste donne, perché, oltre ad essere vittima di un  maltrattamento anche molto grave perdurato anche molti anni, si trovano messe in discussione da parte del tribunale, che dice: “andiamo a capire se come e quanto si può aiutare questa donna ad essere più tutelante verso i propri figli”. In altri casi, si trattava di presunti abusi sessuali da parte del papà o di qualche altro parente nei confronti dei bambini. Poi vi sono altre condizioni di trascuratezza sempre nei confronti dei figli… Quindi, il conflitto all’interno della comunità è presente spessissimo. Le mamme, quando arrivano, non sempre hanno capito bene perché sono state mandate nella comunità e sono in conflitto col tribunale, con i servizi sociali e anche con le nostre educatrici che hanno certamente una funzione di supporto, ma che hanno anche il dovere di scrivere delle relazioni per l’autorità giudiziaria su quanto osservano. E naturalmente questo doppio ruolo dell’educatore è difficile da gestire, dal momento che si entra in un rapporto molto intimo, che è quello di una mamma con un bambino».

La situazione relazionale descritta da Silvia Griglio, pertanto, è particolarmente complessa e altrettanto ricca di potenziali risvolti conflittuali. E interessanti, sotto questo profilo, sono anche le sue considerazioni sulla funzione dell’educatore come figura che, attraverso l’esempio della propria condotta, dimostra come il conflitto non significhi necessariamente interruzione del rapporto e non sia sinonimo di violenza, specie se viene gestito in una prospettiva, costruttiva, di chiarificazione. Del resto, riflette, anche l’educatore può nella comunicazione dare luogo a dei “non-detti” e in tal caso, un valido strumento per rendersene conto è la supervisione svolta da chi ha una specifica competenza nella gestione dei conflitti.

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Intervista agli autori de “La versione di Jean”: Jean Diaconescu, Stella Iannitto e Manuela Cencetti

Abbiamo approfittato della disponibilità di Jean Diaconescu, Stella Iannitto e Manuela Cencetti, autori de “La versione di Jean”, per tornare ad occuparci di questo documentario in concorso al 38° Torino Film Festival (nella sezione ITALIANADOC) e dei diversi livelli di conflitto che quel film racconta. Nell’intervista, infatti, vengono approfonditi aspetti e risvolti emersi già nell’intervista a Manuela Cencetti, mentre ne emergono altri lì non affrontati: ad esempio, apprendiamo da Stella Iannitto com’è nato questo film, mentre Jean Diaconescu racconta com’è sorto e come si è sviluppato il suo rapporto con il Platz e con i suoi abitanti e spiega le ragioni che lo hanno spinto a documentare, filmando, quel che andava succedendo a partire dal 2013 nel cosiddetto “campo rom” di Lungo Stura Lazio, a Torino.

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Intervista ad Alessia Bobbio, mediatrice familiare ex corsista di Me.Dia.Re.

Alessia Bobbio, educatrice professionale, pedagogista con specializzazioni in disturbi specifici dell’apprendimento e difficoltà scolastiche e in Peer e Media Education, nonché Master Trainer Unplugged,  in questo 20° video di Interviste ad ex corsisti, con schietta franchezza, spiega di aver deciso di seguire il  Corso per diventare Mediatrice Familiare dell’Associazione Me.Dia.Re. (XII edizione, maggio 2018):

Molto spesso si rivolgevano (e ancora si rivolgono) a me delle famiglie con minori con problematiche relative agli apprendimenti, le quali avevano al loro interno delle dinamiche conflittuali, intra-genitoriali o intra-famigliari, di cui non avevano piena consapevolezza e di cui non realizzavano quanto quelle dinamiche potessero inficiare gli apprendimenti dei bambini. Quindi, mi trovavo a sentire parlare una lingua della quale non avevo il vocabolario. Riuscivo a capire che c’era qualcosa che andava oltre l’ambito educativo, pedagogico o didattico, ma mi mancavano degli strumenti. Da qui la necessità di formarmi per avere tali strumenti da impiegare in quell’ambito, ma non solo. Perché queste competenze, che riguardano la comunicazione, dovrebbero essere l’abc della nostra formazione umana. Penso che dovrebbe essere una delle materie scolastiche.

Ma Alessia Bobbio racconta anche delle sue esperienza come mediatrice familiare realizzate dalla conclusione del corso, rispetto alle quali osserva:

Devo ammettere che il metodo di Me.Dia.Re. funziona. Si focalizza molto sul vissuto, sul come sta la persona, sull’emotività e molto meno sui fatti. E risponde ad un forte bisogno di sentirsi ascoltati.

Infatti, Alessia Bobbio riflette anche su come nei conflitti familiari gestiti sia emerso un profondo e vasto bisogno di ascolto.

Quello che ne esce fuori è un gran bisogno di sentirsi ascoltati e di essere in relazione con qualcuno. A maggior ragione adesso che le persone sono stanche e affaticate e basta poco per accendere un conflitto, perché c’è bisogno di prendersela con qualcuno. Siccome non possiamo prendercela col virus, abbiamo bisogno di trovare un nemico: quello che non mette la mascherina davanti a noi in coda, nostro marito che non ha tirato lo sciacquone, l’insegnante che ha dato un brutto voto o ha scritto una nota a nostro figlio. Le persone sono molto più nervose. E, nel mio piccolo, cerco di offrire dei momenti di sfogo, cioè di ascolto.

 

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Intervista a Francesca Guido, mediatrice familiare ex corsista di Me.Dia.Re.

Ad avermi avvicinato alla mediazione familiare è stata anche la mia situazione personale, che in quel momento era di grande conflitto. Quindi, magari inconsciamente, ho cercato la strada per approcciare la situazione con risorse che in quel momento non avevo.

Sono queste alcune delle parole pronunciate dall’avv. Francesca Guido, per raccontare con particolare sincerità, in questa diciannovesimo video di Interviste ad ex corsisti, le ragioni per cui decise di seguire un corso per diventare Mediatore Familiare e Mediatore in ambito Penale, Lavorativo, Sanitario e Scolastico dell’Associazione Me.Dia.Re. (XI edizione, novembre 2017).  Ed è con la stessa sincerità e capacità di auto-osservazione critica che Francesca Guido riflette nel prosieguo dell’intervista, come quando, rispondendo alla domanda su quali maggiori conoscenze teoriche e pratiche le fossero derivate dal corso di formazione sulla mediazione familiare, afferma:

Soprattutto mi sono accorta di non sapere ascoltare. Quando è iniziato il corso pensavo di saperlo già fare. Poi mi sono accorta che non è così, che, spesso, quando ascoltavo una persona, non la stavo ascoltando davvero, perché stavo già pensando a che risposta le avrei dato, a cosa le avrei detto e se sarei riuscita ad essere convincente; oppure pensavo alla mia posizione e a come convincerla che avevo ragione io. Invece l’ascolto da impiegare nella mediazione, quello su cui si viene formati, è tutt’altra cosa: è un ascolto che accoglie, nel quale non c’è la necessità di essere performanti o di convincere il prossimo. Soprattutto, è un’accoglienza basata sulla mancanza di giudizio. Elemento, questo, che, mi sembra, permea assolutamente la nostra quotidianità. Siamo sempre pronti a tirare fuori dei giudizi dalle nostre tasche.

Ma non c’è soltanto l’introspezione nel raccontarsi di Francesca Guido, bensì anche una forte tensione ideale che anima i suoi progetti relativi alla mediazione e che emerge anche dalla sua narrazione del caso seguito durante il tirocinio di mediazione familiare.

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Intervista a Manuela Cencetti sul docufilm La versione di Jean

Il documentario La versione di Jean, presentato in concorso alla trentottesima edizione del Torino Film Festival è al centro del nostro 35° video della rubrica Conflitti in corso. Abbiamo, infatti, intervistato Manuela Cencetti che, con Jean Diaconescu e Stella Iannitto, è autrice del soggetto e della sceneggiatura e ha curato la regia del film. Un film che è anche un documentario di un conflitto, un conflitto tra una parte della società e delle sue istituzioni, la parte materialmente vincitrice, e un’altra parte di essa, quella sconfitta, che è costituita da persone considerate “indesiderabili” e de-umanizzate.

«La versione di Jean ci permette di sentire le voci e ci mostra gli sguardi di chi, da decenni, non è mai stato preso in considerazione, ma solamente minacciato, gestito e controllato come un oggetto. Persone assimilate costantemente ad un “problema”, che creano soltanto grane per i politici di turno e per l’opinione pubblica, da segregare in campi “legali” creati dalle stesse istituzioni o in insediamenti illegali, che devono restare ai margini, invisibili, perché se queste persone decidessero mai di mostrarsi o ancora peggio di resistere a queste pratiche di esclusione e segregazione spaziale e abitativa, di raccontare la propria versione delle cose, la repressione nei loro confronti sarebbe immediata, così come la loro cacciata».

La versione di Jean ci conduce, infatti, nella storia degli esseri umani che hanno vissuto in un enorme campo nella periferia nord di Torino. Questo spazio venne popolato da persone rom e povere, originarie della Romania, giunte a Torino a partire dalla fine degli anni ’90, le quali, benché prima vivessero in case o appartamenti, si erano ritrovate a vivere stabilmente, per decenni, in tale baraccopoli, essendo la costruzione di una baracca la sola forma di abitare possibile per chi è escluso dal mercato immobiliare. Tra il 2013 e il 2015 il cosiddetto “campo rom” di Lungo Stura Lazio, chiamato il “Platz” dai suoi abitanti, divenuto una delle baraccopoli più grandi dell’Europa occidentale, diventò l’oggetto dell’era degli sgomberi “dolci”: ad una piccola parte degli abitanti, considerati “meritevoli”, fu data la possibilità di vivere per qualche tempo (al massimo un anno e mezzo) in un appartamento, pagando solo una parte dell’affitto (una volta finiti i fondi, per la maggior parte dei “meritevoli” divennero insostenibili  le spese e gli affitti ai prezzi del marcato privato, sicché furono sfrattati, o lasciarono la casa, e cercarono rifugio in un altro campo); la maggior parte degli abitanti della baraccopoli, esclusi da subito dal progetto, furono costretti a rifugiarsi in altri campi e baraccopoli di Torino, in particolare negli insediamenti di corso Tazzoli e via Germagnano. Quest’ultima è stata oggetto di uno sgombero “non dolce” nell’agosto 2020, nel silenzio e nell’invisibilità più totali. Nel frattempo il campo “bonificato” Lungo Stura Lazio è divenuto una specie di inglorioso e squallido campo di battaglia. Dopo oltre quattro anni quell’area non è che un vasto spazio pieno di macerie, recintato con chilometri di jersey.

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Il rapporto tra il linguaggio e la verità nella seconda intervista a Maurizio D’Alessandro

Perché il linguaggio è così importante? Che rapporto c’è tra linguaggio e verità? Cosa ci insegna la filosofia riguardo al linguaggio come mezzo per accedere alla verità o per manipolarla e distorcerla? Cos’è la phronesis (traducibile come saggezza) e qual è il suo rapporto con la prassi e  l’applicazione? Cosa intendeva Gadamer sostenendo che «comprendere significa sempre applicare»?

Su questi temi si sofferma Maurizio D’Alessandro (mediatore familiare e penale, formatore, supervisore, nonché dottore di ricerca in filosofia e autore di diversi testi, di cui l’ultimo  è Ermeneutica, saggezza e filosofia pratica, Nuova Trauben, 2020), nella seconda intervista che proponiamo sulla rubrica Riflessioni (l’altra, la prima, è visibile qui).

 

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Intervista a Stefania Zerbetto, mediatrice familiare ex corsista di Me.Dia.Re.

In questo diciottesimo video di Interviste ad ex corsisti abbiamo parlato con Stefania Zerbetto, la quale – nello spiegare le ragioni per le quali si è avvicinata alla mediazione familiare e ha seguito la XI edizione del corso per diventare Mediatori Familiari e Mediatori in ambito Penale, Lavorativo, Sanitario e Scolastico dell’Associazione Me.Dia.Re. (novembre 2017) -, svolge un’analisi sulla spersonalizzazione insita nella gestione giudiziaria del conflitto familiare e sulla ri-personalizzazione, e ancor prima sulla ri-umanizzazione, che connota, invece, il percorso di mediazione.

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Intervista a Maurizio D’Alessandro: la filosofia di fronte all’avversione al pensiero scientifico

Intervistiamo Maurizio D’Alessandro, membro di Me.Dia.Re. fin dal 2005, mediatore familiare e penale, supervisore professionale A.I.Me.F., formatore, autore di diverse pubblicazioni sulla mediazione dei conflitti, ma anche dottore di ricerca in filosofia (e autore, in ambito filosofico, di diversi testi, tra cui, l’ultimo, è Ermeneutica, saggezza e filosofia pratica, Nuova TRauben, 2020), sul dibattito filosofico contemporaneo. In particolare, a partire dalla “alternativa tra Nietsche e Aristotele“, Maurizio D’Alessandro ci accompagna, attraverso Hans-Georg Gadamer e Rüdiger Bubner, ai concetti di phronesis (saggezza), ethos (cioè, usi, abitudini, da cui l’etica) e prassi.

Naturalmente, poiché ci occupiamo di conflitti, non ci si può sottrarre dal collegare queste riflessioni alla crescente insofferenza, per non dire, al rifiuto del pensiero scientifico.

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Verità e bugie nei conflitti ai tempi del COVID-19

In questo 34° video di Conflitti in corso commentiamo la mail di una persona che, raccontando del suo conflitto con un famigliare convivente, da egli definito “negazionista irrecuperabile” (in riferimento al COVID-19), si interroga sul come mai, nel litigare, si trovi anch’egli a non resistere alla tentazione di ricorrere ad esagerazioni di dati e fatti, e delle loro possibilità interpretative, e all’evitamento di argomenti ritenuti “scomodi”.

«Se io sono dalla parte della Verità più evidente e verificabile, perché mi trovo, anch’io, a mentire come fa quel bugiardo patologico, cospirazionista paranoico e ubriaco di bufale?»

Nel video ci soffermiamo quindi sulla difficile convivenza della verità, dell’obiettività e della sincerità, con il conflitto.