Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione

Lo psichiatra Bessel Van Der Kolk sostenne che, di fronte a certe situazioni di natura minacciosa, come quelle conflittuali, si verifica una sorta di “sequestro emozionale” o “amygdala hijack”. In particolare, nell’amigdala, cioè quella parte del nostro cervello in cui si attivano risposte istintive ed emozionali a certi stimoli, scatta l’allarme e si ha il rilascio di adrenalina e cortisolo. In altri termini, l’organismo si predispone a reagire, irrigidendo i muscoli, tendendo i nervi e alterando la pressione e la circolazione sanguigna, tanto che ci accorgiamo che, in quelle circostanze il collo e la mandibola si tendono, abbiamo una certa sensazione di calore diffuso, anche a livello lombare, mentre sentiamo il sangue affluire alle guance.

Il “sequestro emozionale” durante il conflitto

Ma, mantenendo per un attimo in vigore, un’impropria distinzione tra corpo e mente, la reazione dell’amigdala, si fa sentire anche al livello di quest’ultima, procurando, appunto, il suddetto “sequestro emozionale”.

Tale sequestro agisce sulle nostre facoltà intellettuali, incidendo, ad esempio, in termini negativi sulla nostra memoria e sulla nostra capacità di organizzare i pensieri e la loro esposizione verbale.

Nelle situazioni conflittuali, in effetti, non è raro riscontrare come proprio ciò che ci servirebbe di più, ovvero una certa capacità nel verbalizzare argomenti, sentimenti e ragioni, diventa fallace o addirittura latitante. Quando, come suole dirsi, ci va il sangue alla testa, il nostro eloquio ne risente, diventiamo confusi e anche la nostra capacità di ordinare i ricordi zoppica. Accade che aggiungiamo dettagli imprecisi, ricordiamo fatti o particolari diversi da quelli accaduti, rammentiamo male le esatte parole dette da altri.

L’esplosione del conflitto, dunque, incide sulla nostra capacità di impiegare al meglio la nostra intelligenza. Ma ad essere toccata è anche una particolare forma di intelligenza, la cosiddetta “intelligenza emotiva”.

L’intelligenza emotiva di Goleman

Nel 1995  Daniel Goleman, nel proporre la sua teoria dell’intelligenza emotiva, specificò che essa non va confusa con il QI (quoziente intellettivo) e che, a differenza di quello, ha una maggiore attinenza con il latino intelligere, cioè, “intŭs legĕre”, capire le cose che stanno dentro, sotto, oltre, la superficie. Secondo la sua teoria, l’intelligenza emotiva, che va intesa come la capacità di rilevare le proprie emozioni, di gestirle, di motivarsi, di riconoscere le emozioni altrui e di dare luogo a rapporti interpersonali di qualità, si fonda su cinque pilastri:

L’intelligenza emotiva si basa su cinque pilastri: la self awareness, che è la capacità di essere consapevoli di ciò che si prova, cioè dei proprio sentimenti e delle proprie emozioni; la self regulation, che consiste nella capacità di gestire sentimenti ed emozioni; la motivation, la quale va intesa come attitudine ad assumere comportamenti e atteggiamenti conformi alla propria autonoma volontà e non alle aspettative o alle indicazioni di altri o ai condizionamenti di particolari situazioni; l’empathy, vale a dire la capacità di sentire e riconoscere emozioni e sentimenti altrui; la socialization, che, può essere considerata la capacità di declinare, in pratica, le suddette quattro disposizioni nelle situazioni di tipo sociale.

Gli effetti del conflitto sull’intelligenza emotiva

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Una condizione conflittuale particolarmente accesa tra due o più persone, è esperienza comune, vede intaccate le capacità cognitive ed emotive dei suoi protagonisti. Sul primo registro, capita frequentemente di realizzare in seguito, se ci si prende la briga di ripassare certi passaggi degli scontri, di avere detto cose che, in altri momenti non si sarebbero dette e neppure pensate; ci si accorge, poi, di aver svolto ragionamenti dalla logica stiracchiata, di avere proposto argomenti traballanti e avanzato prove tutt’altro che conclusive a supporto delle proprie tesi urlate, delle proprie dimostrazioni, in realtà non così compiutamente dimostrate, delle proprie convinzioni, aventi, in effetti, non pochi risvolti dogmatici. Sul piano emotivo, ci si avvede di avere perso il controllo sulle proprie reazioni emotive, di essersi scaldati troppo. O, magari, di aver perso l’uso della parola, di essere rimasti ammutoliti, congelati (nel 18° appuntamento di Note di mediazione, Daniela Meistro Prandi si è soffermata sugli aspetti e sui risvolti dell’emozione della paura nella mediazione dei conflitti e nel 19° video ha preso in considerazione la rabbia).

Com’è noto, l’escalation conflittuale si palesa su molteplici registri personali e interpersonali (si potrebbe dire, intra-psichici e inter-psichici), tra di loro collegati. Ed è a tale livello che, se vogliamo utilizzare a fini descrittivi le suggestioni provenienti dai contributi di David GolemanBessel Van Der Kolk, che la nostra intelligenza emotiva subisce degli effetti e si verifica il sopra citato sequestro emozionale.

Il sequestro emozionale e la de-umanizzazione dell’altro.

Nella progressione del conflitto, infatti, accade che l’altro cessa di essere una persona con la quale si interloquisce per diventare un nemico: da soggetto umano in carne e ossa, dotato di pensieri, interessi, sensibilità e sentimenti, diventa qualcosa di assai poco concreto. Diventa un nemico. Ai nostri occhi e alle nostre orecchie, assume forme e suoni più o meno mostruosi: è l’entità che ci infligge sofferenze evitabili, ingiustificate e crudeli; è l’essere che ci perseguita e cospira contro di noi; è la causa dei nostri disagi, guai e dolori. Non abbiamo più nulla da dirgli, se non rinfacciargli le sue colpe. Non ha più niente da dirci, perché ogni sua parola è un concentrato di falsità, un distillato di distorsioni. Non ha alcuna maggiore conoscenza da trasmetterci, poiché il suo rapporto con i fatti è contraddistinto dall’assenza o dalla manipolazione. Non può insegnarci nulla, perché è un concentrato di ottusità, allergica alla verità. Non ha nulla su cui farci riflettere, perché nella sua comunicazione la buona fede, la trasparenza e l’onestà non hanno mai fatto capolino. Non può commuoverci, perché, in realtà, la sua sofferenza ha la consistenza di una simulazione mal recitata, i suoi lamenti riguardano danni in realtà non sofferti e, in ogni caso, pienamente meritati, anzi cercati. Non abbiamo più nulla da aspettarci, se non un ulteriore, e più devastante, male, che presto o tardi la sua cattiveria ci infliggerà.

Il conflitto e il sequestro emozionale  delle capacità dell’intelligenza emotiva

Va da sé, a ben vedere, che, in tali circostanze, fatichiamo parecchio non soltanto a cogliere cognitivamente la prospettiva dell’altro ma anche, e ancor di più, a metterci emotivamente nei suoi panni. Il sequestro emozionale, infatti, come incide sulla nostra consapevolezza  e sulla nostra gestione delle emozioni e dei sentimenti che stiamo vivendo, così inibisce o annulla la capacità di sentire e riconoscere le emozioni del nemico. Del resto, in tali condizioni, i nostri comportamenti e atteggiamenti non sono il frutto di una nostra autonoma determinazione, ma sono il risultato del condizionamento operato dalla dinamica conflittuale.

Lo scioglimento del sequestro emozionale da parte della mediazione dei conflitti

Rispetto alla dinamica de-privativa, caotica e costrittiva del sequestro emozionale procurato dall’escalation del conflitto, la mediazione può fare qualcosa. Se declinata, infatti, con la dovuta attenzione agli aspetti emotivi e affettivi, la mediazione ha una notevole capacità di ripristinare le libertà che il sequestro emozionale ha sottratto alle persone coinvolte nel conflitto.

Il mediatore, infatti, come abbiamo tante volte ricordato in questa rubrica, Riflessioni, non si limita a udire, ma ascolta. Cioè, comunica ciò che ascolta, ciò che avverte, in termini emotivi, da coloro con i quali si relaziona. Il suo ascoltare, quindi, è un comunicare. Quando il mediatore dice ad un confliggente che “lo sente” arrabbiato (oppure angosciato, deluso, stanco, addolorato, triste…) agisce proprio a rinforzo della self awarness. E il graduale e progressivo ripristino di quella facoltà, che il conflitto aveva sequestrato nel confliggente, insomma, la sua riattivazione, grazie alla messa in pratica da parte del mediatore della propria capacità empatica, costituisce la premessa anche per la liberazione dell’empathy, della motivation e della  socialization.

Affinché tale capacità della mediazione di agire sul sequestro emozionale si verifichi, naturalmente, occorre che l’empatia del mediatore non sia condizionata dal fine conciliativo che eventualmente lo muove. Cioè, occorre che il mediatore (come abbiamo sostenuto nel post L’empatia non è una passeggiata) sappia accogliere e riconoscere anche emozioni e sentimenti pervasi di ostilità, di rigidità e di chiusura al dialogo e perfino al confronto.

Alberto Quattrocolo

 

Lo spazio per sentimenti ed emozioni nella mediazione familiare e nella mediazione civile e commerciale, secondo Cristel Jocollé

In questa trentatreesima puntata di Conflitti in corso torniamo ad intervistare Cristel Jocollé (l’avevamo già intervista nel 32° video e, nel 2019, sulla rubrica Interviste ad ex corsisti di Me.Dia.Re.) sulle diverse modalità di gestione del conflitto nella mediazione familiare e nella mediazione civile e commerciale. Assai opportunamente, Cristel pone in rilievo come tali eterogeneità tra i due tipi di mediazione sia riconducibile anche ad una differenza riguardante gli obiettivi e la stessa ratio sottesa ad essi. Per illustrare efficacemente tale aspetto Cristel Jocollé ricorre, infatti, alla narrazione di un caso da lei seguito di mediazione civile e commerciale in ambito successorio.

Il che consente di esplorare le diverse modalità e possibilità di dare accoglienza e riconoscimento alle emozioni e ai sentimenti degli attori del conflitto.

 

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Intervista a Cristel Jocollé: la mediazione familiare e la mediazione civile e commerciale

In questa trentaduesima puntata di Conflitti in corso intervistiamo Cristel Jocollé (l’avevamo già intervista qui, nel 2019, sulla rubrica Interviste ad ex corsisti di Me.Dia.Re.) su come si manifesti e sia gestito il conflitto nella mediazione civile e commerciale e nella mediazione familiare.

Le osservazioni proposte da Cristel, come ben si avverte ascoltandola, sono il frutto di corposa esperienza sviluppata in entrambi gli ambiti professionali.

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Trentunesima puntata di Conflitti in corso: il conflitto e l’intelligenza emotiva

Nella trentunesima puntata della rubrica Conflitti in corso rispondiamo ad una persona che si chiede e ci chiede:

«Com’è possibile che quel mio famigliare, che mi odia così tanto e che passa sui miei sentimenti come un carrarmato, sappia essere così umano, gentile, comprensivo e affettuoso con le altre persone? Come potrebbe la mediazione risolvere quest’assurdità?».

Nel video, riflettendo sullo spiazzamento, la delusione e la sensazione di tradimento crudele che l’autore della mail propone, ci si sofferma brevemente sull’intelligenza emotiva (in particolare, sulle cinque basi a fondamento di essa, secondo David Goleman: la self awarness, come consapevolezza delle proprie emozioni; la self regulation cioè la capacità di gestirle; la motivation, vale a dire la capacità di agire senza essere vincolati da qualcosa o da qualcuno; l’empathy, cioè la comprensione dei sentimenti altrui; la socialization, che è la capacità di impiegare le precedenti competenze nelle situazioni sociali), per svolgere qualche riflessioni su come essa possa essere condizionata dalla dinamica conflittuale e supportata da un percorso di mediazione. Soprattutto, una mediazione in cui l’ascolto del mediatore adempia proprio alla funzione di aiutare i confliggenti a dare forma di pensiero alle loro emozioni e ai loro sentimenti.

L’empatia non è una passeggiata

L’empatia non è una passeggiata tra prati in fiore o sul lungomare, se è declinata all’indirizzo di persone in conflitto. In tal caso, infatti, la passeggiata empatica non si svolge in piano, attraversando luoghi ridenti e luminosi, ma su percorsi ripidi, accidentati, cioè, in mezzo a pensieri, sentimenti e stati emotivi spesso ingombranti, dolorosi e angoscianti.

Sull’empatia sono d’accordo tutti

Non si contano i contributi che sono stati scritti a proposito dell’empatia nell’attività di mediazione. Anche in questa rubrica, Riflessioni, abbiamo pubblicato numerosi post sull’empatia, e non meno numerosi sono le pubblicazioni di cui sono stati autori membri dell’Associazione Me.Dia.Re. che si soffermano su tale aspetto: sostanzialmente tutte. Altrettanta attenzione all’importanza dell’empatia nell’attività di mediazione è riscontrabile nelle tesi dei nostri corsisti pubblicate nella Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare.

Del resto, non per caso i nostri servizi sono denominati e declinati come Servizi di Ascolto e Mediazione (familiare, penale, sanitaria, organizzativo-lavorativa…). Abbiamo affrontato questo tema già in altri post (ad esempio, Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?La mediazione come ascolto e confrontoL’ascolto empatico: un ingrediente irrinunciabile dei percorsi di mediazione dei conflittiSi fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazioneIl bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus) e non ci torniamo su.

Ma, in realtà, sostanzialmente tutte le scuole di pensiero e le relative metodologie nel campo della mediazione (da quella civile e commerciale a quella familiare, da quella penale a quella sociale o scolastica) condividono l’idea che l’empatia sia una risorsa fondamentale.

L’empatia, in effetti, è una risorsa nella vita di tutti i giorni; forse è quella capacità grazie alla quale non soltanto non ci sbraniamo l’uno con l’altro, ma soprattutto riusciamo a vivere in gruppi e a supportarci a vicenda.

Siamo tutti dotati di un’attitudine empatica di fondo, dunque, ma un conto è riuscire ad essere empatici con un conoscente, un amico, un partner, un famigliare, ecc., un altro è applicare tale disposizione per ragioni “di lavoro”, a beneficio di persone “che non abbiamo scelto”, e farlo con consapevolezza e determinazione. Non è che sia necessariamente una faccenda più difficile, è, però, un’altra cosa. Come ben sanno coloro che svolgono attività caratterizzate da un’importantissima componente relazionale (professionisti della salute, avvocati, assistenti sociali, educatori, insegnanti, ecc.).

L’empatia va comunicata

I mediatori, naturalmente, fanno parte di questa schiera di professionisti. Ne fanno parte a pieno titolo, perché tutti i loro “strumenti” e tutte le loro risorse sono di natura esclusivamente relazionale. E, come accade agli altri professionisti, anche ai mediatori diventa molto presto evidente che l’empatia non è una passeggiata.

Se medici e infermieri si misurano, in primo luogo, con emozioni e sentimenti profondi e, spesso, intensi (non raramente pesantissimi da sostenere), legati alla malattia e alle sue possibilità e modalità di cura, i mediatori familiari, penale, sociali, sanitari, ecc., si confrontano con stati d’animo legati al conflitto. Quelli che lo hanno generato o quelli che lo caratterizzano e influenzano nel suo sviluppo. Ed è per questo che i mediatori sperimentano prestissimo (auspicabilmente già e reiteratamente durante il loro percorso di formazione professionale) che l’empatia non è una passeggiata.

Ma l’empatia che dispiega il mediatore non è soltanto una dimensione interna, un comprendere la realtà emotiva e affettiva dei suoi interlocutori in conflitto tra di loro. Non basta che il mediatore familiare senta cosa provano i due genitori o che il mediatore penale riesca a riconoscere i vissuti della vittima e dell’autore del reato. Il mediatore non può limitarsi ad esercitare un’empatia silenziosa. Occorre anche che comunichi la propria comprensione e che tenga conto nel suo parlare con le parti, di ciò che ha avvertito in loro.

Ora, se per il mediatore non è troppo difficile sentire, definire e comunicare stati d’animo e sentimenti che sono in linea con possibilità di riconoscimento reciproco, di ripristino del dialogo o addirittura di immedesimazione vicendevole, quando, invece, si trova davanti i contrasti e i tormenti della contrapposizione, dell’ostilità, del risentimento, della sfiducia, la situazione si complica.

L’empatia è strettamente legata alla neutralità e alla sospensione del giudizio

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La situazione si complica per tanti motivi. Alcuni riguardano gli aspetti, per così dire, più palesemente contro-transferali: ad esempio, può risultare difficile essere equi-prossimi, internamente, per molte ragioni e una di queste può riguardare, magari, la più evidente indisponibilità di uno dei protagonisti del conflitto ad abbassare le armi. Può essere complicato, cioè, sentire i vissuti e le ragioni della parte che resta pervicacemente avversa ad ogni prospettiva di de-escalation.

Tuttavia è noto che il mediatore non soltanto sospende il giudizio su torti e ragioni, ma anche (almeno finché non si superi o non sia già stato superato il limite della violenza) quello sull’esistenza di quel conflitto. In altri termini, il mediatore non giudica male le parti per il fatto che sono in conflitto. E non dovrebbe giudicarle negativamente per il fatto che dal conflitto non vogliono o faticano ad uscire (si è affrontato questo aspetto in diversi post incluso questo: La mediazione familiare è laica)

Tale sospensione del giudizio nella pratica esperienziale è quanto mai ardua di raggiungere e conservare, ma, come spiega ogni buon formatore dotato di adeguata esperienza mediativa, è possibile non farsi condizionare da tali difficoltà nel relazionarsi con gli attori del conflitto, se si fa ricorso, appunto, all’empatia. Infatti, è fondamentalmente grazie a questa che riusciamo a porci con atteggiamento neutrale e a-valutativo: perché sentiamo sentimenti, emozioni e ragioni di tutti gli attori del conflitto.

L’empatia non è una passeggiata ma non è detto che sia un viaggio (dentro di sé) orribile o poco istruttivo

Per concludere, il mediatore dovrebbe, quindi, accogliere e riconoscere anche i sentimenti delle parti che paiono chiudere le porte a delle possibilità di mediazione. Il non farlo, infatti, significherebbe prestare a quelle persone un’attenzione selettiva, guidata soltanto dai propri obiettivi o desideri. E potrebbe creare una relazione ambigua tra il mediatore e le parti: una relazione, cioè, nella quale, queste ravvisano o sospettano che il mediatore abbia un atteggiamento di superiorità (morale, intellettuale, psicologica). Il ché sarebbe quanto mai deleterio.

Il mediatore, infatti, non è più saggio dei mediati, non ha una maggiore conoscenza delle cose della vita, e l’unica differenza che lo “avvantaggia” – fatta salva “la preparazione tecnica” – è che il conflitto che si trova a gestire non gli appartiene. Ed è ciò che gli consente di relazionarsi in modo empatico con gli attori del conflitto. A condizione, però, che il conflitto davvero non gli appartenga, cioè che non si senta in conflitto con il loro essere in conflitto 

Se questa eventualità dovesse darsi, allora, è bene realizzarlo. Empatizzare con se stessi, ascoltarsi, gestire quelle emozioni o quei sentimenti di rifiuto della conflittualità tra quei confliggenti e tornare a concentrarsi su di loro.

Alberto Quattrocolo

Trentesima puntata di Conflitti in corso: la mediazione familiare non è una guerra al conflitto

Dal momento che il mese di ottobre è dedicato alla Mediazione Familiare e che ci è pervenuta una mail di una donna la quale, fermamente intenzionata a separarsi, ci pone alcuni quesiti, è di nuovo questo il tema della trentesima puntata della rubrica Conflitti in corso (affrontato anche nella ventinovesima puntata).

In particolare, lo spunto è offerto dal quesito preoccupato che la signora ci ha posto:

«La mediazione familiare serve a far restare insieme chi vuole separarsi?».

Nel video, oltre a rispondere al contenuto letterale della domanda, spiegando che non è questa la funzione della mediazione familiare, ci si sofferma anche su un aspetto più implicito, sotteso a quell’interrogativo. In particolare, si chiarisce che la funzione della mediazione familiare non è quello di far cambiare idee, sentimenti, propositi, comportamenti o atteggiamenti, ma di facilitare la comunicazione tra i protagonisti del conflitto, cosicché ritrovino quella forza e quella capacità di trasmettere efficacemente i propri pensieri ed emozioni e di ricevere i messaggi della controparte, che la dinamica conflittuale molto spesso indebolisce o, addirittura, azzera.

Si ribadisce, quindi, nel video, non soltanto che i mediatori non danno torti e ragioni e non approvano o disapprovano il conflitto in sé, ma anche che la mediazione familiare non è una guerra al conflitto, bensì restituiscono ai suoi attori un po’ di quelle libertà e facoltà che la dittatura della dinamica conflittuale ha loro sottratto o inibito.

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La mediazione familiare è laica

Non sarebbe male sottolineare ad ogni occasione che la mediazione familiare è laica. Non sarebbe inutile farlo anche e soprattutto nell’attività di promozione.

Nello svolgere quest’ultima, infatti, solitamente si mettono in rilievo degli aspetti molto importanti: la mediazione familiare consente di gestire il conflitto con una spesa molto contenuta rispetto ai costi del contenzioso giudiziario; hai dei tempi assai più brevi del procedimento giurisdizionale; restituisce agli attori del conflitto il potere e la responsabilità di assumere delle decisioni su aspetti fondamentali della loro esistenza, anziché delegarli ad autorità terze; previene o contiene gli effetti lesivi sui figli di una conflittualità esasperata e permanente tra i genitori…

Ebbene, tutti questi elementi portati a supporto della promozione della mediazione familiare, per quanto veri, rischiano di lasciare sullo sfondo il loro intento relazionale di sciogliere dei blocchi. Quali? Be’, quelli della diffidenza e della paura degli attori del conflitto (di qualsiasi conflitto) nei confronti della prospettiva della mediazione. Una diffidenza, a ben guardare, che spesso si nutre del sospetto che essa possa non essere laica. Cioè, che intenda imporre alle parti in conflitto una qualche propria superiore norma morale. Ad esempio, quella per la quale il conflitto è sinonimo di Mal, mentre la pace, quindi l’accordo, è sinonimo di Bene.

Sono blocchi connessi all’irrigidimento delle contrapposizioni, all’escalation del conflitto, all’inclinazione dei suoi protagonisti a cercare una vittoria campale e definitiva nelle aule dei tribunali civili o, perfino, penali. Ma sono anche blocchi collegati alla convinzione di essere dalla parte giusta  – o, almeno, quella meno sbagliata – e di aver subito più torti di quanti ne sono stati inflitti. E, se parliamo di mediazione familiare, tra gli ostacoli alla ricezione della sua offerta, non bisogna nasconderselo, c’è spesso anche la convinzione di ciascun confliggente di essere un genitore decisamente più adeguato della controparte. Sicché, la proposta della mediazione familiare, vissuta come un iter teso a stabilire o a far rivivere una co-genitorialità, può suscitare un moto di rifiuto, proprio nella misura in cui è questa co-genitorialità prospettata a far paura e a suscitare rabbia e preoccupazione.

Insomma, i vantaggi della mediazione vengono posti in risalto da noi mediatori familiari, come avviene per altri tipi di mediazione (penso ad esempio a quella civile e commerciale), con l’obiettivo e con la speranza che i diretti interessati riconoscano come essa sia per loro più vantaggiosa della contrapposizione guerreggiata.Tuttavia, proprio alcuni di questi vantaggi, nei frequenti casi di conflittualità più profonda e risentita, possono essere avvertiti e intesi come elementi minacciosi.

C’è, quindi, una tensione di fondo, in moltissime situazioni, tra l’offerta della mediazione familiare e il conflitto che quella si propone di gestire.

Se e quando ciò accade, si è in presenza di un fatto insopprimibile e ineludibile, che può determinare un rifiuto dell’offerta mediativa, proprio nella misura in cui non si è raggiunti dal messaggio che la mediazione familiare è laica.

Perciò, è davvero un peccato che non si veicoli anche un altro messaggio, mentre la si promuove o la si propone. Un messaggio, in effetti, che risponde al senso profondo e ai presupposti di base della mediazione familiare. Di tutta la mediazione familiare, quale che sia la scuola di pensiero, la pratica applicativa, il modello teorico-operativo adottati.

La mediazione, infatti, in tutti i suoi eterogeni paradigmi, si fonda sul presupposto della a-valutatività.

Quest’ultima, quindi, come noi di Me.Dia.Re. abbiamo già osservato più volte in diverse pubblicazioni, in post pubblicati sulla rubrica Riflessioni del nostro sito (ad esempio, questo), e anche in molti video di Conflitti in corso, (come il 29°), non significa soltanto non giudicare chi ha torto e chi ha ragione, ma significa ancor prima non giudicare negativamente i confliggenti per il fatto che sono in conflitto. E ciò vale anche per i genitori.

In breve, e per concludere: la mediazione familiare è laica perché è a-valuativa ed è a-valuativa perché è laica.

La mediazione familiare è laica, infatti, se e in quanto si fa carico delle persone, non lasciandosi vincolare da un qualche principio di fede che cerca di imporre, sia pure con dolcezza, ai suoi fruitori; non è portatrice di una morale superiore. Pertanto, è anch’essa in qualche modo figlia di Emmanuel Kant, nel senso che anche per il mediatore familiare gli esseri umani con cui professionalmente interagisce sono un fine e non possono essere mai trattati come un mezzo. Neppure, per raggiungere un fine che è costituito da altri esseri umani, cioè i figli (vale a dire, il loro benessere, inteso come salvaguardia dagli effetti dannosi del conflitto nella coppia genitoriale).

Quindi, anche l’eventuale morale sottesa alla mediazione familiare (o, per meglio dire, la principale ragione della sua esistenza: prevenire e contenere la sofferenza dei figli dovuta alla conflittualità tra i genitori) dev’essere a misura d’uomo e non il contrario. Del resto, Gesù aveva chiarito che il sabato è fatto per gli uomini e non gli uomini per il sabato.

Alberto Quattrocolo

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Ventinovesima puntata di conflitti in corso: la mediazione familiare è a-valutativa

La ventinovesima puntata di Conflitti in corso è dedicata al mese (ottobre) e alla Giornata Nazionale della Mediazione Familiare (15 ottobre).

In particolare, con la speranza di contribuire a diffonderne la conoscenza, ci si sofferma su alcuni aspetti della mediazione familiare, forse non sufficientemente messi in rilievo nel promuoverla, e sulla possibile sussistenza di non-detti nella relazione tra chi veicola la proposta della mediazione e i suoi destinatari principali (i genitori in conflitto): non-detti che, forse, rallentano la diffusione di tale risorsa e inibiscono un maggiore ricorso ad essa.

Ad esempio, andrebbe probabilmente rafforzato uno dei presupposti fondamentali della mediazione: l’assenza di giudizio.

«La mediazione familiare è a-valuativa perché è laica, in quanto si fa carico delle persone e non è vincolata ad un principio di fede. E non è portatrice di una morale superiore. Cioè, è anch’essa, in qualche modo, figlia di Emmanuel Kant: anche per il mediatore familiare vale il criterio per il quale l’essere umano è un fine e non può essere mai trattato come un mezzo; quindi, la morale, semmai, dev’essere a misura d’uomo e non il contrario»

Allora,

«se la mediazione familiare è laica e, di conseguenza, a-valutativa, diciamolo forte e chiaro»: non soltanto non giudica chi ha torto e chi ha ragione, ma ancor prima non valuta negativamente i genitori confliggenti per il fatto che sono in conflitto.

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Intervista a Vittoria Nallo: la politica e il conflitto

In questo 28° video di Conflitti in corso, grazie alla disponibilità di Vittoria Nallo, che ha accettato di mettersi in gioco, affrontiamo il tema del conflitto in ambito politico. A differenza di quanto proposto in un’altra rubrica di questo sito, cioè Politica e Conflitto, questa volta non svolgiamo delle considerazioni collocandoci nella posizione dell’osservatore, ma ascoltiamo direttamente la voce di chi fa politica.

Vittoria Nallo, infatti, studentessa ventiduenne del Politecnico di Torino, fa politica. La fa, perché nella politica crede moltissimo. E ci crede anche in quanto studentessa di Architettura, come spiega nel video. Ma è in quanto Coordinatrice di un Comitato del partito Italia Viva che, nell’intervista, riflette sulle dinamiche conflittuali che caratterizzano i rapporti tra i partiti politici e tra i diversi elettorati, nonché sui modi di porsi delle forze politiche nei confronti dei cittadini: dall’adozione di una comunicazione a base di semplificazioni e slogan all’assunzione di strategie basate sulla delegittimazione dell’avversario che viene trattato come un nemico (“della libertà”, “della democrazia”, “della patria”, “della famiglia”, ” della civiltà”, “della fede”, “di ogni cittadino onesto e perbene”…) in modo tale da suscitare nell’elettorato un rifiuto indignato delle sue proposte e perfino della sua esistenza.

Nello svolgere queste considerazioni, Vittoria Nallo non difetta di onestà intellettuale, dal momento che non fa sconti neppure al suo partito e al leader e fondatore di questo. Anzi, una parte consistente del dialogo è proprio dedicata al rapporto con la figura di Matteo Renzi.

 

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