Tesi di Maria Rosanna Camarda: Conflitto e mediazione familiare nella coppia che vive la malattia

La tesi presentata da Maria Rosanna Camarda alla fine del corso (Edizione XIII del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2018, dell’Associazione Me.Dia.Re.) è un’esplorazione partecipe e sentita della possibilità, attraverso l’attività di mediazione familiare (e, soprattutto, attraverso l’ascolto in quella declinato), di gestire il conflitto tra i coniugi in presenza di una condizione di malattia, in particolare di malattia cronica.

Il conflitto nasce perché ci sentiamo minacciati nei confini della nostra identità ed ognuno ha una risposta propria al conflitto e al modo di affrontarlo. La persona sente l’altro, partner o familiare o persona con la quale si sia generato un conflitto, come nemico. Davanti all’altro ci si mette in una posizione di battaglia perché si è avuto la possibilità di costruire l’altro come nemico: la spersonalizzazione dell’altro visto non più come persona ma come colui che ci sta complicando la vita e colui al quale si vuole infliggere lo stesso male. In un conflitto sia l’uno che l’altro si sentono buoni e vedono l’altro come il cattivo. Questo concetto regge fin tanto che l’altro è vissuto e visto come diverso da sé stessi ma inizia a vacillare quando il nemico si svuota della sua armatura e fa intravedere la persona, uguale nella sofferenza, una persona che sta male e che ha la necessità di risolvere la sua guerra. Il conflitto si anima di aspetti emotivi, di irrazionalità, di non detti, di caos, di solitudine, di non comprensione, di lunghi anni di saturazione dell’impossibile, del non essere riconosciuti, di tutte quelle parti del profondo dell’anima sconosciute anche a noi stessi, delle fragilità umane che hanno messo una maschera per sopravvivere, della parte più selvaggia ed oscura della nostra anima, quella che ci fa più paura e che spesso vediamo nell’altro in un gioco di specchiamento.”.

Rosanna, però, non si limita a ragionare sul conflitto in generale, ma si proietta “in un contesto dove la sofferenza diventa quotidianità” e in particolare, “nella coppia che sta affrontando la malattia”. E la sua tesi, che non ha la pretesa di voler dare risposte definitive, si conclude con il tentativo “di creare un pensiero progettuale in cui l’ascolto dell’altro diventa occasione di guardare alla malattia come ad una possibilità per la coppia e la famiglia di riprendere in mano le fila della propria vita”.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Maria Rosanna Camarda

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Tesi di Federica Di Monaco: La centralità della persona e dei conflitti nella mediazione familiare

L’obiettivo della tesi presentata da Federica Di Monaco, alla fine del corso (Edizione XIII del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2018, dell’Associazione Me.Dia.Re.), deriva anche dalla sua esperienza di assistente sociale, che le ha permesso di confrontarsi con le persone in carne e ossa e di rilevare come il loro ascolto sia di importanza imprescindibile.

Nel servizio sociale ogni progetto viene infatti costruito in base alle esigenze delle persone coinvolte e strutturato partendo proprio dal background e dalle loro esperienze personali. Se però per l’assistente sociale non è necessario scindere il ruolo dell’individuo dalla persona stessa, nella mediazione è d’importanza cardine che si guardi (e, soprattutto, che si ascolti) alla persona in tutta la sua complessità, facendole acquisire centralità e respingendo eventuali ruoli imposti. (…).

Ma, come dimostra Federica, quest’attenzione alla persona, che si traduce nel porsi l’obiettivo fondamentale di farla sentire riconosciuta, appunto, in tutta la sua complessità, implica che anche il mediatore, si legittimi “la possibilità di mettersi in gioco come individuo composito”.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Federica Di Monaco

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Tristezza (“per favore, vai via”)

Pressoché impossibile non conoscere, o non avere mai sentito, almeno una volta, questa canzone cantata da Ornella Vanoni.
Come anche impossibile non avere mai sentito o pronunciato i seguenti “modi di dire”:

“Su con il morale”
“Non essere triste”
“Non piangere, solo i deboli piangono”
“Non voglio vederti triste”

Sono, infatti,  solo un piccolo esempio di frasi che ci sentiamo dire o che noi stessi diciamo ad altri, quando il sentimento della tristezza prende il sopravvento.
Nella nostra società, il parlare di tristezza o il fare discorsi “tristi” è, molto spesso, additato e tacciato come sintomo di debolezza e, quasi istintivamente, la prima cosa che facciamo, quando vediamo qualcuno triste, è cercare di confortarlo, di fare in modo che possa allontanare da sé quell’emozione, come se il provare tristezza fosse sempre deprecabile, sbagliato e deleterio per sé e per gli altri.
Generalmente, questa emozione ci coglie impreparati e facciamo fatica a comprendere la sua funzione  di traghettarci da uno stato emotivo all’altro.
L’errore più comune che tutti, o quasi, facciamo, è quello di vedere la tristezza e la felicità come due emozioni contrapposte, molto distanti nel loro modo di essere vissute e quindi manifestate.

Tristezza ed empatia

In uno studio condotto da Paul Zak, neuro-economista americano,  venne dimostrato che la tristezza, il dolore e la felicità arrivano dalle stesse aree emotive.
Secondo questo studio, si arrivò ad affermare che il cervello, quando si trova in uno stato di “tristezza emotiva”, produce determinate reazioni neurochimiche.
Ai partecipanti a quell’esperimento fu chiesto di guardare un video dove si parlava della storia di un ragazzo malato di cancro: la cosa singolare  fu che i partecipanti, che si immedesimavano nella storia e che, quindi, provavano tristezza, oltre al cortisolo che è definito come “l’ormone dello stress”, producevano anche ossitocina, ossia un ormone prodotto dalla neuroipofisi, conosciuto anche come “ormone dell’amore” e, più erano alti i livelli di ossitocina, che erano stati innescati dalla visione del filmato, e più coloro che avevano partecipato all’esperimento erano disposti a fare donazioni.
Lasciando da parte le implicazioni di questo esperimento in ambito di marketing pubblicitario, appare evidente come un aumento di questo ormone possa renderci più generosi e, quindi, maggiormente aperti e fiduciosi verso il prossimo e, considerato che quando si prova tristezza vi sia anche la produzione dello stesso, si può facilmente arrivare alla conclusione che questa emozione possa essere favorente le relazioni e l’empatia.
Chi ha visto il film della Disney “INSIDE OUT”, si ricorderà certamente la scena in cui il personaggio Tristezza seduto accanto a Bing Bong, l’elefante rosa amico immaginario di infanzia della protagonista umana della vicenda, non cerchi di consolarlo, di allontanare da lui il sentimento di dolore e di tristezza che sta provando, ma si metta in ascolto, empaticamente, “semplicemente” riconoscendogli lo stato emotivo di quel momento.
Atto, questo, capace di “risollevare” Bing Bong che, asciugate le lacrime, ricomincia la sua marcia.
Il ruolo del personaggio “tristezza” si rivelerà essenziale e strategico, all’interno dell’intero film, per la vicenda narrata, lasciando favorevolmente sorpresi gli spettatori.

Quale è la funzione che possiamo attribuire all’emozione della tristezza?

Durante l’analisi delle sette emozioni universali (si vedano il post Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione, pubblicato nella rubrica Riflessioni, e i video-post di Note di mediazione dedicati alla paura e alla rabbia), abbiamo potuto vedere come la paura ci serva poiché ci rende prudenti dinnanzi ai pericoli, la rabbia ci serva per fare fronte alle avversità, ma cosa possiamo dire al riguardo per quanto concerne la tristezza?
Possono essere molteplici le funzioni di questa emozione.
Come prima cosa, quando la proviamo, determinati atteggiamenti e caratteristiche tipiche del nostro volto e della nostra postura, ci aiutano a mandare un segnale in tal senso, a fare capire agli altri che qualcosa non va, attivando una vera e propria “richiesta di aiuto”.
La tristezza, inoltre, ci porta a contatto con la nostra intimità, ci fa scendere in profondità nel nostro “io”, aumentando la consapevolezza di ciò che ci circonda.
Questo sentimento, serve ad aumentare il nostro senso di realtà; un uomo incapace di provare tristezza e, quindi, di riconoscerla, rischia di essere “non umano”.
A volte, provare tristezza, può aiutarci a recuperare la calma dopo momenti di forte stress, autoproteggendoci e facendo da ponte tra sentimenti differenti, ma, pur sempre, correlati.

Quali sono i fattori scatenanti la tristezza?

Proviamo tristezza quando subiamo la perdita di qualcuno o di qualcosa che era importante per noi, quando subiamo un abbandono o, perché no, quando siamo costretti ad abbandonare una persona a noi cara o un luogo, quando perdiamo un’opportunità o la salute, oppure se proviamo empatia (qui entrano in gioco i  neuroni specchio di Rizzolati) per la sofferenza, la tristezza, di altre persone.
E’ comprensibile, quindi, come alla base dell’emozione della tristezza, vi sia il fattore scatenante, universale, della perdita.
Quando siamo tristi per una situazione che ci affligge, il nostro corpo reagisce abbassando, se non addirittura spegnendo, l’energia vitale.

La tristezza nella comunicazione non verbale

Ecco perché, il nostro corpo, come già accennato prima, invia segnali ben precisi riguardo al fatto che stiamo provando quel sentimento anziché un altro.

Infatti, nella comunicazione non verbale, è importante saper riconoscere le caratteristiche che riguardano la tristezza, anche in virtù della funzione di “richiesta d’aiuto” che esse svolgono.
Quando si è tristi, si tende a mantenere il corpo chino, con perdita del tono muscolare e le braccia (a penzoloni) in avanti; per quando riguarda le espressioni del viso, si manterrà lo sguardo verso il basso, le palpebre saranno rilasciate e i muscoli caratterizzanti* questa emozione, saranno gli angoli interni delle sopracciglia alzati  e gli angoli della bocca abbassati.
Si avrà, quasi certamente, un nodo alla gola, lacrime, respirazione rallentata, voce con tono più cupo e grave, velocità dell’eloquio rallentata, abbassamento del volume e della frequenza, voce tremante e singhiozzante (qualora vi sia anche il pianto); si faranno lunghe pause con ritmo rallentato e finale delle parole “smorzato”; si intercaleranno avverbi di giudizio negativi quali “purtroppo”, “che peccato.”
Anche la tristezza, come tutte le emozioni che proviamo, fa parte della nostra salute emotiva ed è attraverso l’equilibrio dinamico di questi sentimenti che passa il nostro benessere.
E’ un’emozione complessa, che ha due possibili strade davanti a sé: la prima volta ad ottenere un aiuto esterno, l’altra ci porta in un percorso di introspezione, funzionale a cercare protezione anche attraverso il recupero delle energie e, quindi, il riposo.

Il mediatore davanti alla tristezza

In virtù di quanto detto fino ad ora, come può il mediatore familiare o il mediatore dei conflitti in altri ambiti “gestire” un utente che in quel momento sta provando tristezza?

Il riconoscimento della tristezza da parte del mediatore

Non di rado, chi si siede davanti a noi mediatori, durante un colloquio, può provare emozioni forti attraverso la narrazione del proprio vissuto, tali da scaturire in pianto e, di quelle lacrime, molte volte l’utente stesso si vergogna, come se, in quel momento, ci mostrasse la sua parte “debole”.
Molte volte, questo capita quando viene fatta una restituzione da parte del professionista e viene riconosciuto uno stato d’animo che la persona prova sì in quel momento, ma che è stato stimolato da un ricordo legato ad una perdita, un abbandono, un dolore che si ripresenta ogni qual volta si vanno a toccare precise corde emotive.
Come sappiamo, il principale strumento di lavoro del mediatore è l’ascolto empatico (si vedano al riguardo moltissimi post della rubrica Riflessioni, tra i quali Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?, nonché molte delle tesi pubblicate sulla rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, tra le quali laTesi di Tiziana Petiti: L’ascolto attivo, il silenzio e il riconoscimento come elementi della mediazione familiare) e, per questo motivo, sarà pressoché impossibile che un’emozione così articolata, ma ben evidente, come la tristezza, non venga riconosciuta e rispecchiata dal professionista.
Accettando ed accogliendo la sua manifestazione emotiva, senza giudicarla e senza proporgli una soluzione, verrà meno la sensazione di disagio e di vergogna che la persona può provare nel condividerla.
Sarà, quindi, attraverso il suo riconoscimento che verrà assecondata la richiesta di aiuto esterno che ci viene fatta da chi la sta provando.
Lisa M.Schab sostiene che piangere è il modo naturale che il corpo possiede per liberare la tristezza, poiché gli ormoni dello stress vengono espulsi, proprio, attraverso le lacrime.
Va ricordato, però, che il pianto può manifestarsi anche quando si provano altri sentimenti, quali la rabbia, la gioia, la sorpresa.

La riformulazione, da parte del mediatore, della tristezza ascoltata

Si è parlato di un secondo modo di manifestare la tristezza, ossia l’introspezione e l’isolamento.
Questa strategia è funzionale al “risparmio energetico”, all’autoprotezione in vista di un recupero delle energie in attesa di essere “traghettati” verso un’altra emozione.
Quando il mediatore si trova davanti a questo secondo tipo di tristezza (a patto che la chiusura non sottenda a stati emotivi patologici come la depressione maggiore, che perdura nel tempo, stato dal quale non si riesce ad uscire e che nulla ha a che fare con il carattere passeggero della “tristezza sana”, o ad altre patologie psichiatriche, quali, ad esempio, il bipolarismo, che necessitano di essere attenzionate e valutate ulteriormente),  attraverso la tecnica del reframing, ossia la riformulazione di quanto viene detto dall’utente, può fare in modo che venga rispecchiato, in chiave dinamica e creativa, il vissuto portato dalla persona stessa, così che possa essere stimolata a riconsiderare l’evento scatenante e le sue conseguenze in maniera propositiva e non rimuginando sul dolore stesso in maniera statica e stagnante.
Sarà estremamente importante che il professionista riesca e mantenere il giusto “distacco” mentre  ascolta empaticamente l’utente, poiché il lasciarsi coinvolgere troppo e quindi scendere nello stato emotivo della persona ascoltata, sarebbe disfunzionale all’ascolto stesso, poiché si potrebbe correre il rischio di fare venire meno il principio della neutralità.

La tristezza è cosa seria, maneggiamola con cura!


Daniela Meistro Prandi

Fonti:
-“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia (2018)
-“Why your brain loves good storytelling”, in Harward Busines Review (2014), Paul J. Zak
– “The Bulimia Workbook for Teen”, Lisa M. Schab

*Per muscolo caratterizzante si intende un movimento muscolare caratteristico di quella precisa emozione, non riscontrabile in altre.

Diciannovesimo appuntamento di Note di mediazione: “Rabbia” di Samuel

Il diciannovesimo appuntamento di Note di Mediazione, affronta, una seconda emozione universale, ossia della Rabbia (nel diciottesimo si è affrontata la paura, prendendo spunto da “Niente paura” di Ligabue). Emozione, la rabbia, quasi sempre presente nella dinamica conflittuale, sia essa in ambito familiare, lavorativo, scolastico, sociale etc etc. Un tipico esempio di rabbia, si può trovare nella canzone di SamuelRabbia“, canzone del 2017, che narra di un conflitto di coppia e, nello specifico, di come si manifesta la rabbia, in tutto il suo percorso evolutivo. E’ facile quindi capire, come il mediatore dei conflitti, abbia a che fare, quasi quotidianamente, nel proprio lavoro, con questa emozione e quali siano le difficoltà per riuscire a gestirla nel migliore dei modi.

Tesi di Yuliza Gloria Fernandez: Nei meandri della mediazione familiare

La tesi presentata da Yuliza Gloria Fernandez alla fine del corso (Edizione XIII del Corso in Mediazione Familiare Novembre 2018, dell’Associazione Me.Dia.Re.), come anticipa il titolo, è un’esplorazione di alcuni meandri della mediazione familiare. E quest’esplorazione è svolta con strumenti piuttosto originali, che culminano con l’esame di alcuni episodi dell’Iliade e dell’Odissea, assimilabili a tentativi di mediazione e, quindi, ricondotti ai vari modelli teorico-operativi descritti. Ma oltre a “volare alto”, Yuliza Gloria Fernandez si avvicina anche alla dimensione pratica e concreta, intervistando tre mediatoriche induce a concentrarsi sugli aspetti più tipici e problematici del loro lavoro.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Yuliza Gloria Fernandez

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Tesi di Carola Giraudo: La mediazione familiare tra comunicazione verbale e non verbale

Nella tesi di fine corso (Edizione XIII del Corso in Mediazione Familiare, Novembre 2018, dell’Associazione Me.Dia.Re.), Carola Giraudo si sofferma su quello che definisce il principale compito del Mediatore:

“ri-umanizzare e ri-personalizzare le persone che si trovano coinvolte in un conflitto, grazie all’ascolto a-valutativo che porta ad una riconsiderazione dei propri comportamenti, pensieri e sentimenti”.

E, riguardo all’ascolto, spiega:

ridà fiducia alla parola, in quanto nella mediazione c’è qualcuno che comprende ciò che diciamo e cerchiamo di trasmettere. Quest’ultimo può aiutarci a comunicare, veicolando a coloro con il quale siamo in conflitto quei determinati significati che ci stanno a cuore“.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Carola Giraudo.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione

Pare che la parola emozione sia un po’ inflazionata, io stessa ne abuso.
Provare quella emozione, rifuggire a quell’altra emozione, sei emozionato, è stato emozionante: sono solo alcuni esempi dei mille modi con cui, ogni giorno, ci riempiamo la bocca con questa parola.
Quanti di noi, possono dire di conoscere davvero il significato della parola “emozione”?
Di sicuro, non io.

Facendo una ricerca su Google, alla voce “Emozione” si trova:
“Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve.” In tal caso la fonte è, come al solito, Wikipedia.

Dal punto di vista neurologico

Priviamo a partire proprio da qui.
Secondo Darwin, nel celebre saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872), mettendo a confronto le modalità espressive corporee dell’uomo e dell’animale, arrivò alla conclusione che il linguaggio corporeo nell’uomo sia a base innata e per lo più geneticamente ereditato.

Nello specifico, facendo riferimento proprio alle emozioni, affermò che le espressioni facciali, quando si prova una data emozione, individuate sia nell’uomo che nell’animale, abbiano una valenza adattiva, esito dell’evoluzione filogenetica e che siano regolate da precisi processi e meccanismi nervosi.

Prendiamo ad esempio la capacità che ha un animale di riconoscere in un suo simile la rabbia, anziché la paura; abilità, questa, che gli può consentire di mettere in atto determinati comportamenti, atti a garantirgli la sopravvivenza.
Nel corso della selezione naturale, sono stati questi modelli comportamentali, divenuti stabili e mossi da automatismo, a diventare segnali stereotipati.
Allo stesso modo, anche l’uomo, ha elaborato un repertorio di segnali, derivanti da adattamenti filogenetici, capaci di regolare la coesistenza con i suoi simili.

Dal punto di vista neurologico, tra l’altro, esisterebbe nella specie umana la cosiddetta amigdala, la parte più antica del cervello, responsabile delle reazioni emotive (in particolare la paura) e degli istinti primordiali.
È qui che hanno origine le reazioni di comunicazione non verbale involontarie.

Quando riceviamo uno stimolo sensoriale, il talamo, una volta sottoposto lo stimolo all’amigdala, lo smista in frazioni di secondo anche all’area sottoposta allo stesso (visiva, linguistica, gestuale, ecc.) la quale valuterà l’adeguatezza della reazione dell’amigdala dandone consenso o innescando tentativi di inibizione (Giusti, Azzi, 2013).

La teoria neuro-culturale di Ekman

Parlando di emozioni, diviene impossibile non citare Paul Ekman – lo psicologo statunitense che ha trascorso l’intera carriera a studiare il comportamento non verbale, facendo esperimenti sulle espressioni facciali e sui movimenti del corpo, mostrando un crescente interesse per la psicologia sociale e gli studi transculturali in ottica evolutiva -, le cui ricerche si sono focalizzate, nel tempo, sullo studio delle emozioni, divenuto suo vero e principale interesse.

Egli confermò alcune intuizioni originali di Darwin circa la gestualità innata, passando molti anni a studiare le espressioni facciali dei membri di cinque culture completamente differenti. Appurò che ogni cultura adottava la medesima mimica facciale di base per esternare le emozioni; elemento, questo, che lo fece arrivare alla convinzione che dovesse trattarsi di una caratteristica innata.

Così, nel 1972, a cento anni dal saggio di Darwin citato prima,  elaborò la teoria neuro-culturale, secondo la quale le emozioni primarie si fondano su due fattori:
uno di natura neurale, in base al quale esiste un programma neuro-fisiologico innato, di natura genetica, specifico per ogni emozione, che garantisce l’invariabilità e l’universalità delle espressioni facciali associate a ciascuna emozione; un altro di natura culturale, per cui le risposte emozionali possono essere modificate in relazione alla variabilità culturale.
Partendo quindi dall’assunto che le emozioni siano universali, vediamo ora quali sono le sette principali.
In base agli studi di Ekman troviamo:

– La paura

– La rabbia

– La gioia

– La sorpresa

– Il disprezzo/disgusto

– La tristezza

La paura

Tutte emozioni queste, che giocano un ruolo fondamentale nella mediazione familiare e, in generale, nella mediazione dei conflitti.
Ma partiamo dalla prima che ho messo in elenco, la paura, provando a vedere come questa entri in gioco in ambito mediativo.
Possiamo considerarla una delle emozioni più importanti per l’essere umano e, insieme alla rabbia, rappresenta le basi per la nostra sopravvivenza.

Infatti, il sistema nervoso autonomo, quando ci troviamo in una situazione di pericolo, reagisce stimolato da una serie concatenata di ormoni e neurotrasmettitori, che si trasformano in comportamenti volti a difesa della nostra vita.

I 6 modi di reazione alla paura (Marks e Bracha)

Marks e Bracha, nel 2004, hanno individuato 6 modi di reazione, spesso involontaria, alla paura:

1- Freezing, congelamento (anticamente, con questa tecnica, ci si rendeva invisibili ai predatori)

2/3- Fight or Flight (attacco o fuga- Cannon, 1929)

4- Sottomissione

5- Fingersi morti (lo fanno molti animali che, in questo modo, provano a sfuggire a predatori abituati a cacciare la preda in movimento)

6- Lo svenimento

Per le paure che riguardano le relazioni sociali, appare evidente come, partendo da queste strategie basiche, si debbano individuare e metterne in atto di più evolute, riconoscendo ed essendo consapevoli di come quell’emozione ci faccia reagire.

L’ansia

Anche l’ansia è associata alla paura, ma non possiamo catalogarla come emozione.

I suoi effetti sono concentrati, maggiormente, nella zona toracica (i sintomi più comuni sono: oppressione al petto e al cuore) e possono creare incapacità di agire e sensazione di impotenza(quando si dice: essere bloccati dall’ansia)

Leggere la paura sul nostro viso

In base agli studi di Ekman, quando si prova l’emozione della paura, sul nostro viso appaiono movimenti involontari muscolari ben precisi; infatti,  vi è un innalzamento della parte interna ed esterna delle sopracciglia le quali si avvicinano tra di loro e gli angoli della bocca vengono tirati verso la mandibola.
Tutti segnali questi che possono aiutarci, in sede di colloquio a capire se la persona o le persone (ad esempio durante una seduta di mediazione e quindi di confronto tra le parti) stiano provando questa emozione.
Non tutti, però, si è in grado di leggere il non verbale e quindi di cogliere questi tratti caratteristici e, molte volte, anche se  si ha un po’ di dimestichezza con il linguaggio non verbale, per l’appunto, questi segnali non sono così evidenti.
Ad esempio, quando la paura è contenuta, perché non ci si sente in una reale situazione di pericolo, come quando ci troviamo, per la prima volta, davanti ad un mediatore.
Il fatto stesso di trovarsi davanti ad uno “sconosciuto” a raccontare i “fatti nostri” ci può fare provare una sensazione di imbarazzo, alla base della quale proviamo paura.
Paura di esternare i nostri sentimenti, paura del giudizio, paura di non essere compresi, paura di non stare facendo la cosa giusta e così via (possono essere molte le motivazioni che ci portano a provare questa emozione).
Di sicuro, in una situazione come quella descritta sopra, anche l’ansia (seppur non catalogata come emozione) gioca il suo ruolo e rende ancora più complessa l’identificazione dell’emozione primaria provata.
In ambito di mediazione penale, ad esempio, non di rado si può riprovare, nel raccontarla, la sensazione di paura, provata durante un atto di violenza subito (ma, perché no, anche agito) e, ad un osservatore attento, sicuramente non sfuggiranno i segnali che questa emozione attiva sul volto, perché non sono solo gli stimoli vissuti al momento a scatenate le reazioni nervose, ma anche i ricordi di situazioni vissute.

Come può il mediatore “maneggiare” questa emozione?

Partendo dalla consapevolezza che il mediatore dei conflitti utilizzi come strumento principale, per riconoscere ciò che la persona prova, l’ascolto empatico, nulla vieta che lo stesso, avendone le capacità acquisite con lo studio, possa utilizzare, anche, come strumento integrativo, quello del  riconoscimento del comportamento non verbale, leggendo i segnali legati a quel tipo di emozione.
Una volta riconosciuta l’emozione, non potrà far altro che “restituirla” a chi la sta provando, rispecchiandola e, di conseguenza, andando a nominarla.
Molte volte, il nominare un’emozione, rendendola quindi “tangibile”, in special modo un’emozione, a volte scomoda, come può essere quella della paura, può renderla meno spaventosa, più “maneggevole” appunto.
Un esempio ricorrente nell’ambito della mediazione familiare è il seguente.
In un rapporto disfunzionale, dove impera un alto grado di conflittualità, non è raro riconoscere l’emozione della paura legata alla prospettiva di uscire da quel tipo di situazione che, nonostante ci faccia stare male (tanto da averci fatto scegliere di rivolgerci ad un professionista esterno, quale il mediatore familiare) rappresenta la nostra zona confort, dentro la quale abbiamo delle certezze.
L’immaginarci al di fuori di quel tipo di relazione, quindi, ci spaventa, ci fa paura, anche perché, solitamente, quando iniziamo a vederci come singole unità e non più come coppia,  dobbiamo necessariamente reinventarci, pensandoci al di fuori di quella situazione di coppia che, nel caso di separazione, non esisterà più (si fa riferimento coppia sentimentale, poiché in caso di presenza di figli, è bene sottolineare come la coppia genitoriale esisterà sempre, seppur anch’essa modificata nel suo status quo).

“Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”

Anche in tal caso, il rispecchiamento/riconoscimento da parte del mediatore di tale emozione, può aiutare ad utilizzarla non più in chiave distruttiva, come se fosse un’azione (e una conseguenza) subita, ma in un’ottica di azione volta alla ricerca del cambiamento relazionale (agito, anziché subito).
Come è facile intuire, il mediatore dei conflitti non ha la bacchetta magica e non sarà necessariamente chiamato ad identificare l’emozione della paura allo scopo di “sconfiggerla”, ma il riconoscerla in chi la sta vivendo, con tutto il carico emotivo che si porta dietro, e il poterla, con gli strumenti che ha a disposizione, incasellare e, quindi, rendere più visibile e meno paurosa (solitamente le cose che non riusciamo a distinguere sono quelle che ci mettono più in difficoltà), potrà far sì che, anche un’emozione così importante, possa essere introiettata e quindi maneggiata con più facilità.
Recita così il ritornello di una canzone di Ligabue:

 Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così

Parafrasandolo, con un po’ di autoironia indirizzata verso il ruolo del mediatore così:

Niente paura, ci pensa la vita (e a volte il mediatore), mi han detto così!

Daniela Meistro Prandi
Fonti:
Wikipedia
“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia
“Giù la maschera” Paul Ekman, Wallace V. Friesen

Tesi di Valentina Sestu: Confronto tra il mediatore familiare e l’operatore d’ascolto

Nella tesi di fine corso di Valentina Sestu (Edizione IX del Corso in Mediazione Familiare, Novembre 2016 – Maggio 2018, dell’Associazione Me.Dia.Re.) si svolgono delle serie riflessioni sottese al tema della cura. Come osserva, Valentina, con l’applicazione della legge 4/2013, è tornata ad imporsi la questione relativa a cosa sia la cura e quali siano le professioni deputate a svolgerla. Se come psicologa e come educatrice, Valentina Sestu dichiara di essere intenta alla ricerca della “dedizione umana (più aderente al mondo delle arti)“, senza trascurare “l’applicazione degli aspetti diagnostici (connessi al mondo della scienza), intesi come mezzo, e non come fine“, come mediatrice familiare ritiene che in questa professione si ritrovino l’aspetto umanistico e “artistico”, che “riconduce l’interesse alla persona, nel qui e ora del suo sentire in un contesto neutro“.

“Vedo la professione del mediatore familiare come un’altra sfumatura di umanità; umanità intesa non come primo significato del termine, ossia come capacità di stare con gli altri e avere un approccio solidaristico, ma più come globalità del nostro essere “uomo per gli altri”. Uomo tramite le sensazioni del corpo, tramite le mentalizzazioni dello spirito e tramite le azioni concrete, che si possono realizzare ogni giorno.”

Su queste premesse la tesi sviluppa un interessante confronto tra l’attività del mediatore familiare e quella dell’operatore volontario di un centro di ascolto.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Valentina Sestu (che abbiamo anche intervistato per la rubrica Interviste ad ex corsisti).

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

 

Diciottesimo appuntamento Note di mediazione: “Niente paura” di Ligabue

Nel diciottesimo appuntamento della rubrica Note di Mediazione, prendendo spunto dalla canzone di LigabueNiente Paura“, si dà inizio a sette appuntamenti nei quali si rifletterà sulle sette emozioni universali, in particolare in relazione al loro significato, alla loro manifestazione nella comunicazione non verbale e al ruolo che giocano nella mediazione familiare e nella mediazione dei conflitti in diversi ambiti.