Quattordicesimo appuntamento di Note di mediazione: “Scrivimi, scrivimi” di Sergio Caputo

Nel quattordicesimo appuntamento con la rubrica Note di Mediazione, partendo dalla canzone “Scrivimi Scrivimi“, del 2018, di Sergio Caputo, canzone che parla di relazioni all’epoca dei social, si pone l’attenzione, più che sul testo della stessa, sul video che è stato ideato con un collage di video selfie inviati al cantautore da parte dei propri followers.

Infatti, è interessante soffermarsi sulla comunicazione non verbale fornita dai protagonisti del video e su come questa sia importante per chi, come il mediatore dei conflitti, lavora attraverso i colloqui. Dall’inizio dell’emergenza Covid-19 il mediatore dei conflitti ha dovuto modificare la propria modalità lavorativa, ricevendo gli utenti da remoto. Nel video, si mettono in luce le criticità relative a questo nuovo modo di lavorare, in special modo facendo riferimento alla parte di comunicazione non verbale.

Ventitreesima puntata di Conflitti in corso

In questa ventitreesima puntata della rubrica Conflitti in corso affiora ancora il tema del Coronavirus, osservato dal punto di vista del conflitto. Infatti, molti dei casi di conflittualità interna alle coppie e in generale alle famiglie che stiamo gestendo nel Servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione e anche le poche mail che sono arrivate per questa rubrica hanno sullo sfondo proprio l’epidemia da COVID 19. In particolare, emergono dei contrasti, dai risvolti anche molto concreti, specie in questa cosiddetta Fase 2, tra chi è poco incline ad avvalersi delle maggiori possibilità di movimento restituite alla nostra libertà e chi invece di tali estensioni vuole avvalersi. I primi accusano i secondi di imprudenza, di irresponsabilità, cioè di egoistica mancanza di coscienza sociale e civile. I secondi accusano i primi di essere paurosi, di essere allarmisti, di eccedere così tanto nella prudenza da provocare dei danni.

Pare che in ambito privato, familiare, si propongano contrapposizioni simili a quelle che vediamo in ambito pubblico.

Da un lato, c’è chi dice: “Forza e coraggio! Ripartiamo!”.Dall’altro, si ribatte:“Calma e prudenza! Aspettiamo!”.

Nel video ragioniamo sul fatto che entrambe le fazioni dichiarano di voler tutelare le ragioni della salute. Una parte si propone come la paladina della difesa dal carattere micidiale del contagio; l’altra parte si dichiara paladina delle ragioni della salute psicologica e relazionale, economica e sociale. Ma cos’è che entrambe le parti in lite spesso non si dicono? E soprattutto cos’è che non ascoltano e quali sentimenti ed emozioni non legittimano?

L’amore per la vita e l’angoscia di morte parrebbero collocarsi alla base delle prese di posizioni di entrambe le parti di molti di questi conflitti.

Distanziamento spaziale e distanziamento umano

Per quasi due mesi abbiamo osservato le norme sul cosiddetto distanziamento sociale, ma, da un certo punto di vista, sarebbe preferibile e piuttosto rassicurante se potessimo affermare che si è trattato di un distanziamento spaziale e non di un distanziamento umano.

Anche Dario Fortin (docente e ricercatore in Educazione professionale sociosanitaria presso l’Università di Trento) ha scritto il 30 aprile su Avvenire che «il distanziamento non è “sociale” ma solo fisico» e che bisogna tenerlo a mente.

Distanziamento spaziale e distanziamento umano non coincidono

La distinzione tra distanziamento spaziale e distanziamento sociale non è solo una questione di puntiglio terminologico. Fortin ha ricordato che la parola “sociale” «oggi si riferisce a un mondo concreto fatto di 5 milioni di volontari e di decine di migliaia di giovani in Servizio civile e di professionisti dedicati a prendersi cura delle persone». Tuttavia, poiché l’espressione “sociale” rinvia anche alla dimensione dei rapporti tra le persone,  il “distanziamento sociale” può evocare una sorta di distanziamento umano su larga scala. E, a sua volta, il distanziamento umano rimanda a qualcosa di inquietante: in quanto parente prossimo della de-umanizzazione dell’Altro e in quanto affine dell’odio, in effetti, il distanziamento umano non serve a prevenire contagi, anzi è un potente fattore di diffusione di altre patologie alquanto dannose. Come, del resto, abbiamo sperimentato da quando il distanziamento umano si è radicato nel nostro mondo: cioè, ben prima della comparsa del Coronavirus [1].

I dogmi del distanziamento umano

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Negli ultimi anni, infatti, il distanziamento umano su vasta scala aveva ottenuto notevole successo in un’ampia parte della società.

Il dogma della scorrettezza

Declinata dapprima come una sorta di ribellione liberatoria, la scorrettezza, spesso sfacciata, aveva contribuito potentemente a far avanzare il distanziamento umano, suscitando tanta di quella approvazione da imporsi come una nuova forma di correttezza politica e da riuscire a relegare la correttezza orginaria nell’angolino negletto dell’ipocrisia, marchiandola, per giunta, con l’etichetta di “sinistroide”. Quasi contestualmente la stessa violenza verbale era stata spacciata come capacità (e come dovere) di saper “parlare chiaro”, venendo così elevata al rango di franchezza e trascinandosi dietro lo sdoganamento dei peggiori disvalori. Tra i principali, naturalmente, rientrava a pieno titolo quello del razzismo, che era rimasto un dogma implicito, per una sorta di sopravvissuto, per quanto lacero e malconcio, senso del pudore, tanto che si era preferito travestirlo da patriottismo, e come tale venderlo al dettaglio, rendendo ovviamente l’antirazzismo il principale equivalente dell’antipatriottismo e perfino del tradimento.

Il dogma dell’antibuonismo

Erano state declassate a buonismo la solidarietà e l’empatia verso i cosiddetti soggetti vulnerabili, a partire dai rifugiati, richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale o umanitaria, e dagli immigrati in generale, i quali, nella versione antibuonista, ovviamente, perdevano ogni connotato di fragilità, e perfino di umanità. Il buonismo, quindi, era divenuto il peggiore dei tradimenti, secondo i dogmi del nuovo pensiero mainstream: infatti, per rendere rifugiati e richiedenti asilo degli esseri minacciosi e detestabili agli occhi della popolazione, era stato loro imposto, grazie ad un martellamento incessante, il nome spregiativo e calunnioso di clandestini, sicché chiunque fosse incline a riconoscerne e a rispettarne l’umanità, automaticamente era iscritto nella lista dei complici dell’illegalità [2]. Del resto non migliore trattamento era stato indirizzato alle persone senza fissa dimora (si veda, in questa rubrica, il post di Vera Barzizza La deumanizzazione delle persone senza fissa dimora) e a tutti coloro che erano colpiti dal disagio sociale, fossero essi vecchi o nuovi poveri. Infatti, non poteva di certo definirsi un atteggiamento solidale o altruistico, e men che meno empatico, quello largamente abusato di citare, strumentalizzandole, le sofferenze degli italiani in difficoltà al solo fine di sostenere il proprio rifiuto verso le più elementari politiche di accoglienza [3].

Il dogma del “Prima io” e la trasformazione dell’egoismo in virtù civile e politica

L’istanza egoistica del “Prima io” era stata fatto oggetto di un tentativo di elevazione al rango di legge naturale e di aurea regola morale, nel tentativo di celarne l’intrinseca disumanità, ricoprendola, appunto, con posticce nobilitazioni. Così, il “Prima noi” era proposto non soltanto nei termini di diritto sacrosanto a proteggersi se stessi, ma soprattutto come diritto-dovere di preservare i propri “simili” dalle supposte mire perverse, predatorie, parassitarie o colonizzanti dei “dissimili”.  Ma la lista dei “dissimili”, oggetto di incessanti campagne di de-umanizzazione, non si limitava alle persone straniere o di origine straniera, poiché vi figuravano  anche: le già citate persone senza fissa dimora, le persone appartenenti alle comunità Rom e Sinti, le persone e i movimenti LGBT, le persone e le associazioni favorevoli al mantenimento e all’applicazione della legge 194, quelle impegnate nella promozione delle pari opportunità e del contrasto alla violenza di genere, i lavoratori e i responsabili delle organizzazioni del Terzo Settore, l’A.N.P.I., la Caritas, Papa Francesco, Liliana Segre, Ilaria Cucchi, Greta Thunberg, Carola Rackete, George Soros

Il dogma del distanziamento dalla cultura e dalla scienza

Ma, se scrivere “restiamo umani” era diventato, per una parte consistente della politica e del suo elettorato, l’equivalente di un’eresia e di un lampante segno di anti-italianità, era perché prima si erano scavati abissi di distanziamento umano e sociale anche sul piano della cultura e della conoscenza, presupposti fondamentali della convivenza civile e della partecipazione alla cosa pubblica.

Il distanziamento dai fatti

Non si può non ricordare quanto le analisi (o la semplice esposizione) dei dati di fatto, da parte di persone dedite da decenni allo studio di determinate e complesse materie, venissero liquidate, davanti alle telecamere o sui social, da chi non possedeva un grammo di quelle competenze, con uscite sconcertanti come: «questo lo dice lei!». Perfino nei talk-show politici e nei telegiornali l’esame puntuale dei problemi era stato spesso derubricato a insopportabile tecnicismo, quasi che le spiegazioni dei fenomeni dibattuti, e l’esposizione dei fatti a fondamento di quelle spiegazioni, fossero considerate una sorta di arsenico per l’audience e un formidabile corrosivo per l’informazione [4].

Il distanziamento sociale dalla competenza

Più in generale, lo studio, l’approfondimento e la competenza erano stati declassati al livello di snobistici atteggiamenti elitari e condannati come sfoggi di privilegi immeritati: in un brevissimo arco temporale avevano subito una radicale svalutazione sia l’adozione di approcci complessi a problemi complessi sia l’adesione al principio di realtà – entrambi i quali presuppongono l’esatto contrario del distanziamento umano visto che richiedono quel minimo di riconoscimento reciproco indispensabile per dialogare e discutere capendo di che cosa si sta parlando.

Un New Deal per rendere compatibile il distanziamento spaziale con la vicinanza umana

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Venendo all’oggi, rispetto a questa intimidita e incerta Fase 2, in linea teorica, anche a causa dei disagi derivanti dal distanziamento spaziale cui siamo stati (e ancora in larghissima parte siamo) sottoposti, è possibile ipotizzare che lo sperimentare quotidianamente quanto abbiamo bisogno di vicinanza umana – e quanto sia vero che nessuno di noi si salva da solo – possa farci gradualmente abbassare mura e reticolati di ostilità e pregiudizio: quelle difese, cioè, dietro alle quali ci siamo fin qui illusi di poterci proteggere da quei nemici immaginari subdolamente prefabbricati a nostro uso e consumo.

Un New Deal per ridurre il distanziamento umano

In altri termini, se davvero c’è, in conseguenza della crisi complessiva innescata dal COVID 19, una piccola possibilità di riuscire ad accorciare un po’ il distanziamento umano, non ci si può illudere che ciò avvenga per magia. È plausibile ritenere, infatti, che occorra, ad esempio, “cambiare rotta verso un futuro di emancipazione sociale“, come viene sostenuto e spiegato in un recente documento del Forum Diseguaglianze e Diversità. Più in generale, appare improcrastinabile l’adozione di programmi politici capaci, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione, di

rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ciò, verosimilmente, non basterebbe a produrre come effetto (almeno non nel breve termine e forse neppure nel medio), il superamento del distanziamento umano radicatosi nelle nostre comunità, però toglierebbe molti appigli a coloro che ne hanno fatto, davvero con incredibile successo, la loro bandiera. Una bandiera che continuano a sventolare senza perdere troppa approvazione, neppure dopo due mesi di sottomissione collettiva ad un severo distanziamento spaziale [5].

Un New Deal culturale e relazionale

Il distanziamento umano, quindi, non sembra essere colmabile soltanto con politiche economico-sociali. Occorrono probabilmente anche politiche culturali e un più diretto aiuto alla riflessione e alla costruzione (o alla riparazione) dei legami sociali: in entrambi i casi si tratterebbe di offrire un aiuto a pensare. Ma, mentre il primo riguarda più direttamente il tentativo di contrastare l’impoverimento culturale, incluso l’analfabetismo funzionale, cercando, come suggeriva Don Milani in Lettera ad una professoressa, di trasmettere la voglia di apprendere, il secondo rinvia alla dinamica dei rapporti e dei legami sociali, la quale implica anche una riflessione sui propri vissuti. Un Nuovo Patto in tale ambito, dunque, non può tradursi nella costituzione di un nuovo ente – né nella creazione di un’applicazione o di un algoritmo – che si metta a pensare al posto delle persone. In altri termini, servirebbe avviare un Nuovo Corso che ci veda tutti – non soltanto, coloro che hanno responsabilità di governo e, in generale, responsabilità politiche – impegnati nel tentativo di ascoltare se stessi e gli altri sia con  con il cuore che  la testa, per cercare di sentire e di ragionare [6].

Un New Deal che dia alle emozioni un diritto di cittadinanza ma non i pieni poteri

Viviamo delle e con le nostre emozioni, certo, ma, in quanto esseri umani, abbiamo anche il dono di non subirle e basta, ma di saperle pensare. Abbiamo, cioè, la libertà e la responsabilità di essere padroni delle nostre menti: abbiamo la facoltà di non lasciarle in preda all’ansia, alla frustrazione e alla rabbia; abbiamo il diritto-dovere di non lasciarle in ostaggio all’odio, trasformandoci in burattini di coloro che, proprio con la manipolazione delle nostre emozioni, aspirano (e tante volte riescono) ad assumere il controllo politico della nostra comunità e delle nostre vite. Un New Deal di questo tipo, dunque, dovrebbe saper evitare il più proverbiale degli errori: rilevare la pagliuzza nell’occhio altrui senza scorgere la trave nel proprio. Quindi, a proposito di emozioni e di sentimenti cui dare riconoscimento e cittadinanza (ma anche contenimento, onde “non mandarle al governo”), se in cima alla lista si collocano la rabbia, la paura e l’odio, occorrerebbe anche l’accortezza di non farsi comandare sotterraneamente proprio da quei vissuti: neppure dall’odio indirizzato verso quelli che hanno diffuso e che ancora adesso, tutti i giorni, spingono verso il distanziamento umano.

Un New Deal permeato di Ascolto e Mediazione

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Ma, se è facile svolgere considerazioni come queste (ammesso che abbiano senso), difficilissimo è metterle in pratica. Perché? Perché è proprio quando abbiamo più bisogno di lucidità e di capacità analitiche che queste facoltà, tante volte, se ne vanno a spasso Allora, in una prospettiva di “New Deal relazionale“: da un lato, non sarebbe male moltiplicare e rendere accessibili alla cittadinanza anche quei servizi, inclusi quelli da remoto, che, offrendo ascolto e contenimento alle persone e ai loro vissuti più dolorosi e disturbanti, ne gestiscono i conflitti in ambito familiare, culturale, sociale, ecc. (nel suo piccolo, Me.Dia.Re., da quasi dieci anni, eroga gratuitamente il sostegno di SOS CRISI e, con l’emergenza Coronavirus, ha attivato il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione); dall’altro, come già sostenuto in un altro post, andrebbero stimolati progetti di Social Media Conflict Management, perché quel che accade in termini relazionali sui social probabilmente avrà un’importanza e un’influenza crescenti.

Un esempio vale più di mille parole

Nel corso del convegno alla base del post sopra ricordato era stato affermato:

Rispondiamo all’odio con un altro odio, che è frutto della paura e dell’angoscia che quell’odio ci suscita? Reagiamo con la violenza verbale alla violenza verbale? Demonizziamo chi comunica in modo violento, finendo così con il contribuire anche noi alla legittimazione culturale della violenza, mentre ci illudiamo di risolverla? Certo questa opzione esiste ed è la più largamente usata. È, però, una risposta conflittuale. E come tale viene vissuta dall’altro cui si indirizza la nostra risposta indignata, il quale, a guardarlo da vicino, non è tanto diverso da noi. Nel senso che, molto spesso, non si sente un aggressore ma un aggredito. Il suo è un meccanismo di auto-giustificazione? Può darsi, ma… e allora? Il fatto è che ci crede. Si sente una vittima non un carnefice. Resta, perciò, in campo un’altra opzione: quella della de-escalation, la quale, infatti, tenta proprio di disinnescare le premesse della violenza, a partire dalla de-umanizzazione, e tenta di restituire la capacità di pensare e di pensarsi.

Un New Deal relazionale, quindi, implica progetti ed iniziative, auspicabilmente sostenuti e promossi con politiche ad hoc, ma presuppone anche la declinazione di atteggiamenti quotidiani che, attraverso l’esempio, concorrano a rafforzare la capacità di pensare. E il più significativo, il più esemplare, degli esempi è quello offerto dai rappresentanti delle istituzioni (inclusi e per primi, i politici) e, in generale, da chi contribuisce alla creazione dell’opinione pubblica: quale prezioso contributo fornirebbero alla riduzione del distanziamento umano, pur in presenza del distanziamento spaziale, quelli convinti di non aver cavalcato le paure, di non aver alimentato rancori, di non aver sfruttato lo scontento, se ammettessero di aver anch’essi contribuito in modo formidabile alla propagazione dell’odio politico. E soprattutto, se smettessero di demonizzare i loro avversari politici sul piano personale (anziché discutere di contenuti), offendendo così, senza trarne il minimo vantaggio politico, anche i loro elettori. Un New Deal relazionale, basato sul rancore e sulla criminalizzazione dei seminatori di odio (politici, giornalisti, opinionisti, troll, ecc.), in fondo, finirebbe col negare se stesso e spaccherebbe ancor di più la nostra già divisa, sfiduciata e litigiosa comunità.

Alberto Quattrocolo

[1] Se è arduo negare che ci eravamo già rinchiusi in confini stretti, che escludevano l’Altro, spersonalizzandolo, e che eravamo ipernutriti di odio e paranoia, sembra che neppure con l’inizio e con la prosecuzione dell’epidemia abbiamo cambiato dieta: si pensi all’impressionante quantità di aggressioni verbali e fisiche, razziste, in danno, soprattutto, ma non solo, di persone di origine africana, mediorientale, asiatica, est-europea e latino-americana compiute prima del Coronavirus, e a quelle messe in atto, all’inizio dell’epidemia, in danno di persone cinesi e perfino di coloro che non lo erano ma venivano scambiate per tali. Oppure, si pensi alla violenza verbale indirizzata a Silvia Romano, finalmente liberata 18 mesi dopo essere stata rapita in Kenya o alla ministra Teresa Bellanova

[2] Contestualmente ha preso piede qualcosa di definibile come cattivismo, che, strettamente correlato non soltanto all’esaltazione di un egoismo sfrenato, ma anche al cinismo più esibito, alla dietrologia pregiudiziale e alla sfiducia generalizzato, è stato proposto come il più razionale e il più sano dei modi di guardare e di stare al mondo.

[3] Ad esempio, troppe volte, senza alcun ritegno, sono state sventolate le sofferenze dei terremotati di Amatrice a mo’ di giustificazione della propria indifferenza, o perfino del proprio compiacimento, per la morte dei migranti: di quelli annegati nel Mediterraneo o schiantati dalla sete e dal caldo o dalle violenze nel deserto; di quelli accoppati dalla denutrizione, dalle mostruose condizioni igieniche, dal disumano sovraffollamento, dalla crudeltà quotidiana, punteggiata da esecuzioni e torture da parte dei carcerieri nei lager libici.

[4] Sicché trasmissioni televisive, anche molto seguite, nominalmente deputate a “fare informazione”, tutto facevano tranne che informazione, a meno di voler considerare tale la messa in scena di battibecchi sfrontati e di altre performances sguaiatamente aggressive tra i partecipanti.

[5] Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al presumibilmente consistente plauso popolare riscosso dall’ottuso e suicida rifiuto della (peraltro moderatissima) proposta di rilasciare permessi di soggiorno temporanei ai lavoratori stranieri, appoggiata, oltre che dai sindacati, dall’associazione dei coltivatori diretti, consapevole del rischio tracollo per l’agricoltura, uno dei pochi settori non ancora devastati dagli effetti della pandemia.

[6] Circa tre anni fa su questa rubrica, Politica e Conflitto, si erano dedicati alcuni post al tema del rapporto della politica con la pancia della cittadinanza e più di uno al tema dell’ascolto politico. Ma, oggi, non è più possibile attribuire la funzione e l’onere dell’ascolto politico soltanto agli esponenti politici.

Tredicesimo appuntamento di Note di mediazione: “Nessuna conseguenza” di Fiorella Mannoia

Con l’inizio della, oramai, famosa “Fase2”, si sono allentate le misure di contenimento che ci hanno visti chiusi in casa per circa due mesi e, la maggior parte di noi ha potuto riassaporare la “libertà”, seppur dovendo continuare a mettere in atto comportamenti responsabili. Immancabilmente, il pensiero va a tutte quelle situazioni di violenza, che si consumano quotidianamente tra le mura domestiche e che, in molti casi, sono state acuite dalla convivenza forzata tra “vittima e carnefice”. La canzone di Fiorella Mannoia, del 2016, “Nessuna Conseguenza”, ci racconta di come la protagonista riesca ad uscire dal circolo della violenza psicologica, subita dal marito. Come si pone la mediazione dei conflitti, quella familiare in primis, quando si trova di fronte dei casi di violenza domestica? Quali sono i limiti con cui deve confrontarsi? Queste le domande alle quale abbiamo provato a dare risposta , in questo tredicesimo appuntamento di  Note di Mediazione.

Intervista a Monica Carta

L’avvocata Monica Carta, in questo video della rubrica  Interviste ad ex corsisti (seguì nel 2016, la IX Edizione del corso di Mediazione familiare e di Mediazione Penale dell’Associazione Me.Dia.Re.), a partire da dati biografici e personali, ci conduce a comprendere cosa l’ha spinta a intraprendere il percorso formativo sulla mediazione familiare. L’avvocata Carta riflette sul valore umano della mediazione, in particolare, nell’affrontare il trauma della separazione. La riflessione si concentra, poi, sulla concretezza dell’esperienza che ha vissuto nel corso di formazione, che le ha permesso di portare tali competenze all’interno dell’ambito professionale, costituendo una risorsa importante soprattutto in relazione alla delicatezza umana di determinate situazioni.

L’intervista si conclude con alcune riflessioni sulle possibilità offerte dalla mediazione nel ripristino del dialogo, valorizzandolo non come segno di debolezza, ma come elemento di forza; e quest’aspetto, precisa Monica, vale non solo per i protagonisti del conflitto ma anche per i professionisti, a partire dai loro avvocati, essendo in grado di procurare autentiche gratificazioni agli uni e agli altri. La mediazione, dunque, anziché essere una diminutio per le professioni, in particolare per quella legale, diventa un valore aggiunto nell’affrontare il conflitto.

 

Intervista a Micaela Linari

In questa intervista, Micaela Linari (seguì, nel 2016, la IX Edizione del corso di Mediazione familiare e di Mediazione Penale dell’Associazione Me.Dia.Re.) si sofferma sul percorso umano che l’ha portata a scegliere l’ambito della mediazione dei conflitti dopo la laurea in giurisprudenza. A partire dal valore e dal significato della Giustizia, si riflette sul fatto che, alla giustizia intesa come Istituzione, si aggiunge la mediazione, come opportunità di trovare un senso e una forma di “giustizia propria”, nella quale potersi riconoscere sul piano fattuale e sentirsi sul piano dei vissuti personali. Micaela sottolinea, poi, l’importanza dell’ascolto attivo nel percorso mediativo, come elemento che interessa non solo i confliggenti ma anche il mediatore, a livello sia personale che professionale. L’intervista con Micaela termina, infatti, con la narrazione del suo proprio percorso umano e professionale che l’ha portata a lasciare impiego, in un’azienda, e a lavorare in un studio legale in cui declinare le proprie competenze mediative.

Intervista a Mariella Russo

In questo nono video della rubrica Interviste ad ex corsisti, dialogando con Mariella Russo, laureata in giurisprudenza che ora opera in ambito mediativo (seguì, nel 2012-2013, la seconda Edizione corso di Mediazione familiare e di Mediazione Penale  dell’Associazione Me.Dia.Re.), si riflette sull’insufficienza della strada giudiziale nel rispondere ai bisogni più profondi dei protagonisti del contenzioso, ma si sottolineano anche le differenze tra la mediazione civile e commerciale e la mediazione in ambito sociale, familiare, penale etc. La conversazione si sposta poi sull’importanza della volontarietà delle parti nell’aderire al percorso mediativo e di scegliere autonomamente in quale modo il conflitto possa essere affrontato. Mariella si sofferma anche sul valore dell’ascolto attivo e sul maggior riconoscimento che meriterebbe la complementarietà dell’intervento mediativo rispetto ad altre professioni attraverso e, quindi, sull’importanza della cooperazione tra mediatori e altri professionisti.

Tu chiamale, se vuoi, Emozioni

La nostra collega Daniela Meistro Prandi, qualche giorno fa, ha postato sulla sua pagina Facebook una domanda; una domanda di una semplicità assolutamente disarmante nella sua complessità.

Ha chiesto agli amici di Facebook:

“Quali sono state e quali sono le emozioni, i sentimenti (positivi o negativi) che hanno caratterizzato questo periodo?”.

Le risposte sono state tutte interessanti e non scontate; il fattore più emozionante nel leggerle è stata la loro assoluta onestà e semplicità… Un po’ come se ognuno di coloro che hanno risposto (me inclusa) attendesse che qualcuno chiedesse loro, in sostanza, “come stai?”.

Nel percorso di Ascolto e Mediazione (sia esso di mediazione familiare o di mediazione in altro ambito) chiedere al confliggente “come stai?” – cosa che, in effetti, facciamo all’inizio di colloquio individuale e/o di seduta di mediazione vera e propria – è un po’ come abbracciarlo e financo come abbracciare il conflitto. Equivale, in fondo, a dire:

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“accomodati, qui potrai parlare liberamente, senza filtri, perché a noi interessa sapere cosa ti sta attraversando, per analizzarlo tutti insieme, in un rapporto paritario, senza necessità o ingombri di giudizio”.

“Come stai?” è una domanda che incontriamo tutti i giorni, nei nostri rapporti interpersonali Ed è una domanda alla quale spesso rispondiamo con un distratto e scontato “bene, grazie”. Ma racchiude tutto un mondo di sentimenti e stati d’animo a rischio di implosione.

Chiedere “come stai?”, in Mediazione, significa anche stringere un patto di lealtà con il confliggente.

Infatti, spesso, la risposta proposta nel primo incontro, cioè “Bene, grazie”, che è accompagnata spesso da una smorfia, a metà strada tra la diffidenza e la sorpresa, diventa, nel corso degli incontri successivi, più articolata e complessa, fino ad arrivare a manifestarsi in tanti sentimenti ed emozioni contrastanti.

E qui si apre la “fase 2” (!) dei mediatori, nei colloqui con i loro utenti: quella in cui si cerca di dare una forma ed un nome alle emozioni.

In qualche modo “legittimarle”, tutte… quelle c.d. “positive” e quelle c.d. “negative”.

La qual cosa non è facile, perché le emozioni non si trovano rinchiuse in cassetti a tenuta stagna; si trovano tutte in un unico contenitore – il confliggente, appunto – e premono per uscire.

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Spesso i nostri interlocutori arrivano con un cuore ed una mente in tumulto; ed il primo conflitto che devono affrontare è proprio quello tra quei loro, diversi e contrastanti sentimenti, che li accompagnano e li attraversano.

In questo senso possiamo immaginare un colloquio, che è, ad un tempo, individuale e collegiale: ci siamo noi mediatori, c’è il nostro interlocutore-confliggente e c’è “tutta l’allegra compagnia” di emozioni in libertà, che hanno accompagnato il confliggente (e che, in qualche modo, lo hanno indirizzato fino a noi).

Il mediatore, attraverso un ascolto empatico, riuscirà poco alla volta a lavorare in sinergia con il confliggente per dare insieme un nome alle sue varie componenti emotive.

Ed allora si darà il “benvenuto” alla Tristezza, alla Rabbia, alla Frustrazione, alla Malinconia…ma anche all’Allegria, alla Consapevolezza, all’Orgoglio… E, quando si arriverà a dare un nome a ciascuna delle emozioni e dei sentimenti che accompagnano il nostro confliggente, allora si scoprirà che queste emozioni, se conosciute, non fanno più paura, ma anzi ci saranno utili per affrontare al meglio il percorso di mediazione e arrivare a delle risposte e/o soluzioni.

[Personalmente ho risposto “Gratitudine”, alla domanda di Daniela, ma di questo parlerò un’altra volta].

Monica Checchin

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La deumanizzazione delle persone senza fissa dimora

In questo post si propongono delle riflessioni sulla de-umanizzazione in generale e, in particolare, sulla deumanizzazione di cui sono fatte oggetto le persone senza fissa dimora (ancora più in particolare, la deumanizzazione rivolta alle persone senza fissa dimora di Torino).

Non è un caso che la parola “persone” sia scritta in neretto. Perché l’auspicio è che l’attenzione sia rivolta al fatto che coloro che non hanno una dimora sono in primo luogo delle persone.

La situazione delle persone senza fissa dimora in Piemonte e a Torino

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In Piemonte le persone senza fissa dimora sono 2.259, di queste 1.729 vivono a Torino. In linea con il dato nazionale, l’84,5% delle persone senza dimora a Torino sono uomini, hanno un’età media di 46 anni, da circa due anni non possiedono un’abitazione stabile e, pertanto, vivono per la strada, in solitudine.

Le cause scatenanti la loro condizione sono le seguenti:

  • la separazione dal coniuge e/o dai figli,
  • la perdita dell’occupazione lavorativa.

La rete dei servizi mensa e di ospitalità notturna di Torino è tutt’altro che sguarnita ed è decisamente frequentata: ben l’81,9% delle persone senza fissa dimora ha pranzato almeno una volta presso la mensa e il 71,5% ha dormito in una struttura di accoglienza notturna.

La situazione delle persone senza fissa dimora si collega strettamente alla tematica della deumanizzazione, purtroppo: con questo termine, secondo Volpato, in psicologia sociale, si indica una strategia di delegittimazione tendente all’esclusione di individui singoli o di gruppi dall’umanità [1].

È una forma radicale di deprezzamento e ostracismo che, nel corso della storia, ha costantemente accompagnato conflitti e stermini.

Essa si avvale di strategie esplicite volte a negare apertamente l’umanità dell’altro, ed altresì di strategie sottili, le quali erodono in modo consapevole l’altrui partecipazione all’umanità, queste ultime presentano forme più variegabili e molteplici ed il loro successo dipende sia dal contesto sociale che dallo spirito culturale.

Le strategie esplicite della deumanizzazione

La deumanizzazione rappresenta la forma più estrema di pregiudizio e di discriminazione. Se ne individuano 5 forme diverse.

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Animalizzazione

Questo tipo di deumanizzazione nega ad individui e a gruppi le qualità che sanciscono la superiorità dell’uomo sugli altri esseri viventi. Gli individui assimilati agli animali sono percepiti come esseri irrazionali, immaturi, privi di cultua ed incapaci di autocontrollo. L’animalizzazione suscita in chi la subisce sentimenti di degradazione ed umiliazione, chi la agisce prova disprezzo e disgusto, cioè sentimenti ed emozioni frequentemente collegate alla percezione di animalità. (si pensi a Hitler che paragonava gli ebrei a topi e scarafaggi).

Demonizzazione

Le metafore sovraumane trasformano l’Altro in un demone, diavolo o strega, gli attribuiscono poteri magici, che ne accentuano la pericolosità e ne rendono possibile l’eliminazione. La genesi di tali rappresentazioni è nel concetto di “mostro”, colui che mostrano uno scarto dalle norme naturalistiche che regolano i rapporti tra specie animali e genere umano, scarto che può assumere la forma dell’eccesso, del difetto, della malformazione o dell’aggiunta aberrante di membra appartenenti a specie diverse. Così, durante il Medioevo, la demonizzazione servì a contenere la ribellione femminile, mediante la “Caccia alle streghe”.

Biologizzazione

Le metafore utilizzate dalla deumanizzazione mediante biologizzazione hanno conosciuto un ampio sviluppo del corso dell’800. Si tratta di metafore legate allo sviluppo delle malattie, alla protezione dell’igiene e alla purezza, tendenti a trasformare l’altro in microbo, virus, bacillo, morbo, pestilenza, tumore, sporcizia. Tale modalità ha sostituito la demonizzazione, allo scopo di produrre gli stessi effetti e risultati: cioè: suscitare paura e disgusto e rappresentare le persone-bersaglio come qualcosa da eliminare, da estirpare e purificare.

Meccanizzazione

Essa considera l’altro come un organismo meccanico, un automa, un robot, incapace di provare emozioni e di aprirsi agli altri. Gli individui rappresentati con questo tipo di metafora sono giudicati indifferenti, freddi, rigidi, privi di curiosità, immaginazione e profondità. In atre parole, gli individui sono considerati macchine, non suscitano affetto, compassione o empatia. A titolo esemplificativo, si può pensare ad alcuni risvolti del Taylorismo.

Oggettivazione

In questa forma di deumanizzazione l’individuo è considerato come un oggetto, uno strumento, una merce. Diverse riflessioni sull’oggettivizzazione sono state svolte da diversi autori:

– Kant usò questo termine per indicare la riduzione dell’essero umano a mero strumento sessuale, in Fondazione della metafisica e dei costumi;

– Marx utilizzò questo termine in relazione allo stato di alienazione del lavoro e del lavoratore all’interno del sistema capitalista, in Manoscritti economico-filosofici;

recentemente il termine è stato considerato dal Pensiero Femminista, in merito alla riduzione della figura femminile a mero oggetto sessuale, come si può leggere nella Teoria dell’oggettivazione sessuale di Fredrickson&Robert (1998).

La deumanizzazione per invisibilità nella nostra società

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Alla luce di quanto sopra descritto c’è da domandarsi se noi siamo immuni dall’adottare delle condotte deumanizzanti, o dal subirle.

La nostra società esercita quotidianamente una deumanizzazione per invisibilità, che si declina attraverso il silenzio, la disattenzione, la non curanza, nonché mediante il ricorso al dato statistico che annulla l’importanza dell’identità personale e sociale.

Tale forma di deumanizzazione si basa sulla collusione tra elementi di deumanizzazione esplicita, voluta dalle istituzioni, ed elementi di deumanizzazione sottile, che permettono alla società civile di distogliere lo sguardo: fa più o meno finta di non vedere, decide di nascondersi dietro il “così vanno le cose”, evitando di assumersi le proprie responsabilità di fronte alla deprivazione di umanità che colpisce i meno fortunati.

Le diverse forme di deumanizzazione delle persone senza fissa dimora

Il Dot. Aragona, in un suo breve scritto, riporta importanti considerazioni in merito alle reazioni di fronte alle persone senza fissa dimora, presenti nei propri punti di stazionamento (panchine, marciapiedi, portici).

“Ogni giorno, passiamo davanti ai cartoni su cui sono stese persone, avvolte di stracci per difendersi dal freddo…” [2].

Le reazioni di fronte alle persone senza fissa dimora

Le persone possono mettere in atto una deumanizzazione avente il carattere della biologizzazione, sognando di ergersi a tutori dell’ordine e di realizzare un ripristino di quel marciapiede una volta pulito e non occupato. La persona senza fissa dimora, quindi, viene considerata una malattia in carne e ossa, per la quale si rende necessaria la disinfezione e la purificazione.

Altre persone, appena incappano in un soggetto senza fissa dimora, provano un sentimento di paura e decidono di cambiare lato della strada, tale reazione scaturisce dal fatto che questa persona, che sta occupando il posto del marciapiede, posto pertanto non idoneo alla quotidianità di vita, oltre ad essere un soggetto sporco, puzzolente, vestito male, potrebbe anche mettere in atto, se io incappo in lui, un atteggiamento imprevedibile. L’autore, considera però, che il sentimento di paura in una situazione del genere, sarebbe da considerarsi normale e significativa, se a provarla fosse la persona occupante il marciapiede, la quale ha più probabilità di essere vittima di atti di violenza, essendo la parte più vulnerabile.

Un’altra reazione è l’indifferenza che permette di girarsi dall’altra parte o di proseguire dritto, come se sul quel marciapiede non ci fosse proprio nessuno.

Riprendendo l’ultima reazione descritta da Aragona, è bene essere consapevoli del fatto che sempre di più la nostra società presenta indifferenza al fenomeno descritto. Si è reso concreto, quindi, il pericolo di vivere e di pensare come “normale” la condizione di marginalizzazione sociale.

È talmente normale, dunque, che i nostri sentimenti appaiono come anestetizzati: non proviamo più nemmeno indignazione per il fatto che vi siano delle persone costrette a dormire per la strada, anzi, percepiamo quella situazione come se fosse una condizione naturale, se non addirittura una colpa di chi finisce per strada.

Queste righe sono un caldo invito a riflettere su come sia possibile rivolgere uno sguardo diverso al nostro quotidiano e, in particolare, a quelle persone che, oggi più che mai, sono lì sulle nostre strade familiari. È un invito a cogliere qualsasi loro dettaglio, anche il più minimo: una posizione, un gesto, uno sguardo…

Vera Barzizza

[di Vera Barzizza (assistente sociale, mediatrice familiare e penale e molto altro ancora!) abbiamo pubblicato, in questo sito, nella rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…, sia la tesi di mediazione familiare (che propone un confronto sul lavoro del servizio sociale e quello di mediazione familiare, concentrandosi sull’importanza dell’ascolto empatico nelle due professioni), sia la tesi di mediazione penale (centrata su “l’interfacciarsi con la violenza”). Inoltre, è possibile seguire la sua intervista inserita nella rubrica Interviste ad ex corsisti]

 

[1] C.Volpato, “Negare l’altro. La deumanizzazione e le sue forme”, in Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 2:311-328

[2] M.Aragona, “Torniamo umani”, disponibile online, formato pdf

Dodicesimo appuntamento di Note di mediazione: “Mi fido di te” di Jovanotti

Nel dodicesimo appuntamento con la rubrica Note di Mediazione, traendo ispirazione dalla canzone di Jovanotti del 2005 “Mi fido di te” e dalle suggestioni raccolte su Facebook, in un post relativo all’interpretazione della parola “fiducia”, si constata come la stessa sia alla base di un percorso di Ascolto e Mediazione dei Conflitti.