Separazione e divorzio di coppie con figli adolescenti

La famiglia è uno dei valori fondamentali della società in cui viviamo in quanto rappresenta il “luogo” ideale dove poter esprimere pienamente i nostri bisogni ed i nostri desideri. La famiglia richiama idee di protezione e di cura, di supporto emozionale ed affettivo ed aspettative di condivisione di valori ma anche di regole e doveri. Infatti, la famiglia è caratterizzata da elementi sia normativi che affettivi e, in questo particolare periodo storico, il legame che contraddistingue il nucleo familiare è in prevalenza del secondo tipo.

Affinché funzioni nel migliore dei modi, quello che viene considerato il “sistema famiglia” deve poter promuovere il benessere e la crescita degli elementi che lo compongono facendo fronte ai cambiamenti al suo interno ed agli stimoli esterni che, a volte, possono minarne la stabilità. In tal senso molto dipende dal grado di adattamento ed alla compatibilità tra gli elementi che compongono il nucleo familiare, ma anche da quello che c’è tra la famiglia stessa ed i sistemi sociali che la circondano.

È evidente, quindi, come ci si possa trovare di fronte a svariate tipologie di famiglia, distinte dal grado di coesione e adattabilità e dalla capacità di utilizzare la comunicazione, sia al loro interno che verso l’esterno.

Possiamo parlare di “famiglia con funzionamento adeguato” quando il legame familiare viene visto come un processo in divenire nel quale i membri interni ed i loro legami con l’esterno sono in continua evoluzione e proprio per questo motivo devono essere riconosciuti (Scabini, 1995). Tutto questo avviene quando nella famiglia gli equilibri sono mantenuti, quindi, quando ci troviamo di fronte una coppia genitoriale salda e relazioni interne bilanciate.

Necessariamente diversa è la situazione che troviamo in una famiglia in cui i genitori hanno un rapporto conflittuale ed arrivano alla separazione. La fase della separazione è una delle fasi più delicate a cui la famiglia va incontro. Di per sé non rappresenterebbe un rischio di problematiche o malesseri successivi, ma tutto dipende da come questa viene affrontata, in particolar modo, dalla coppia ed in seconda battuta, ma non per importanza, dagli altri componenti della famiglia.

Nello specifico, proveremo a capire il punto di vista dei figli adolescenti.

Il punto di vista dei figli adolescenti

Quello dell’adolescenza è un periodo particolare, poiché l’individuo inizia ad arrivare ad una consapevolezza di sé e del mondo circostante che lo rende autonomo e responsabile, di conseguenza il cambiamento che avviene nelle relazioni con i genitori diventa punto cruciale nel processo di crescita e di individuazione, ma, allo stesso tempo, la famiglia rimane un riferimento importante.

È evidente come, nel caso di crisi della coppia genitoriale prima e di separazione della stessa poi, i vissuti dei figli adolescenti siano diversi da quelli di un bambino, poiché i primi arrivano a capire immediatamente la portata della crisi, dei litigi, con una visione che può essere più nitida di quella che hanno i genitori, coinvolti come sono nel conflitto. A differenza del bambino, l’adolescente non mette più in discussione il senso di sicurezza del sé, ossia non si assume le responsabilità della separazione, non vivendola più come abbandonica e non provando senso di colpa, fatto salvo per altri elementi relazionali più gravi.

Gli aspetti che vengono toccati sono quelli relativi al periodo stesso dell’adolescenza, ossia quelli che l’adolescente sta sperimentando in questa particolare fase della sua esistenza.

Come vive l’adolescente la separazione dei genitori?

Vediamo quali sono gli aspetti più importanti che l’adolescente sperimenta in questo ciclo della sua vita e dell’esistenza della sua famiglia. Il primo grande tema da affrontare è quello centrale, ossia quello del cambiamento.

La separazione dei genitori implica due grandi tipologie di cambiamento: da una parte quella “materiale”, quella che riguarda la casa, la scuola, la disponibilità economica, dall’altra quella “relazional-emotiva” che comprende la presenza o meno dei genitori nella vita quotidiana, il cambio di visione dacoppia di genitoriagenitori singoli”.

Per poter capire e metabolizzare il proprio cambiamento, quello legato al periodo adolescenziale, il minore avrebbe bisogno di un ambiente capace di rimandargli una situazione di continuità con il passato ed allo stesso tempo volta alla valorizzazione del futuro, ma questo difficilmente avviene durante la fase critica della separazione.

La coppia genitoriale è ora troppo impegnata a recuperare stabilità individuale all’interno della confusa dinamica della separazione stessa, tanto da non rendersi più conto delle problematiche che il figlio deve affrontare, quelle sue interiori e quelle dovute alla situazione che l’intero nucleo familiare sta vivendo e quindi dei suoi bisogni.

Ed ecco che l’adolescente potrà mettere in atto due tipi di reazione: una prima dove tenterebbe a non sovraccaricare oltre i genitori, negando o rimandando l’accoglimento di parti nuove di sé; la seconda canalizzando in maniera negativa la confusione ed i sentimenti contrastanti che ci sono in casa, andando così a sviluppare comportamenti reattivi o aggressivi.

Il processo di cambiamento richiede parallelamente, al suo interno, il processo identitario del “chi sono e cosa voglio”, riconoscimento dei propri vissuti ma anche dei propri desideri ed attitudini e sia l’adolescenza che la separazione sono momenti dell’esistenza nei quali questo meccanismo può incepparsi.

Sono gli adulti a fare da traino agli adolescenti durante il percorso di identificazione della propria identità, di conseguenza possono svolgere al meglio questo compito solo se consapevoli, in primis, di sé stessi e dei cambiamenti che loro devono affrontare come individui, in particolar modo, durante una fase così convulsa come quella della separazione.

Di grande importanza è un altro aspetto, ossia quello che riguarda il senso di responsabilità. È necessario che l’adolescente acquisisca senso di responsabilità delle proprie scelte rispetto all’altro. Durante la separazione dei genitori, ci si può trovare innanzi a diversi tipi di responsabilità che il figlio sviluppa nei confronti della situazione e dei genitori stessi. Ad esempio il figlio adolescente può sentirsi responsabile nei confronti del genitore che andrà a vivere fuori dal nucleo familiare rivisto, oppure dei fratelli e così via.

L’assumersi responsabilità, da parte di un individuo adolescente, deve avvenire per gradi e necessita di un affiancamento consapevole da parte degli adulti, che dovranno fungere da modello per i più giovani.

Può capitare che l’esperienza dolorosa, che vive il figlio durante la separazione dei genitori, possa scatenare vissuti di rabbia nei confronti del genitore che esce di casa, oppure di depressione per l’insostenibilità della situazione. In altre occasioni il figlio potrà tendere a sostituirsi alla figura genitoriale mancante, andando a consolare e sostenere l’altra, assumendosi, così, responsabilità da “adulto” che lo faranno sì crescere ma che lasceranno comunque un vuoto per quello che riguarda il bisogno fisiologico di avere una figura autorevole al suo fianco.

In ogni caso bisognerebbe lasciare che i figli si assumessero le responsabilità che sentono di riuscire a sostenere.

Strettamente legato al senso di responsabilità è il rapporto con le regole.

È chiaro che, seppur si tenda a lasciare che l’altro possa esprimersi liberamente per raggiungere la propria maturità, ci debbano essere regole (dettate dai genitori) atte a normare il percorso per il raggiungimento dei propri progetti e desideri, limiti che servono all’adolescente per capire il “quanto e il quando”, riconoscendo così in modo “controllato” sé stesso e le proprie ambizioni.

Nella coppia separata la situazione si complica per una serie di motivi, quali, ad esempio, l’assenza del padre nella quotidianità, figura che, nella maggior parte dei casi, viene vista come più autorevole e normativa rispetto a quella della madre più amorevole ed accudente, oppure il disaccordo della coppia genitoriale per quando riguarda le regole da dare ai figli, facendo così vivere agli stessi la frustrazione di due realtà distoniche.

Un altro aspetto molto importante e da non sottovalutare, che riguarda il periodo adolescenziale, è la confusione emotiva che l’adolescente vive in merito al riconoscimento delle proprie emozioni. Egli vive infatti in un perenne stato di sentimenti contrastanti quali la rabbia o la depressione, l’eccitazione e così via, emozioni che cerca al di fuori del proprio nucleo familiare ma che ha bisogno di esternare all’interno dello stesso, così da poter avere aiuto per contenere lo stato confusivo in cui viene a trovarsi.

Se i suoi vissuti, quelli che riporta in casa, non vengono decifrati e capiti, rischiano di trasformarsi in un sovraccarico emotivo che esplode in un conflitto emozionale tra genitori e figli.

Tutto ciò può essere amplificato ed aggravato da una situazione di crisi della coppia genitoriale o ancora in una coppia separata dove gli equilibri sono fragili e gli adulti faticano a regolare la propria esperienza emozionale non riuscendo, o riuscendoci male, a far fronte a quella dei figli.

Quali sono i disagi che vive il figlio adolescente?

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È da tener ben presente che, quando due fasi così delicate, come il periodo adolescenziale, da una parte, e la separazione dei genitori, dall’altra, vanno a coincidere e quindi a sovrapporsi, le forze in gioco, per far sì che possa andare verso un accrescimento della consapevolezza personale, saranno molteplici e le competenze diventeranno prettamente di tipo emotivo e relazionale.

Non sempre però le figure genitoriali di riferimento riescono a mettere in campo forze ulteriori, poiché debbono già far fronte alla delicata situazione in cui si trovano a causa della separazione, quindi possono comparire nei figli adolescenti determinati disagi (non sempre del tutto ascrivibili, in toto, alla separazione) i cui segnali non sono mai da sottovalutare.

Primo tra tutti è quello relativo alle difficoltà che possono emergere nell’ambito scolastico. Quando l’adolescente non presenta il giusto investimento personale nei confronti dell’impegno scolastico, è evidente che stia dando un forte segnale, una richiesta di attenzione che non bisogna ignorare poiché può sottendere a seri disagi.

Altro segnale da non sottovalutare può arrivare dagli sbalzi d’umore, caratteristici sì dell’età evolutiva, ma che se protratti per fasi molto lunghe (ad esempio l’alternanza di depressione o di aggressività) possono essere sintomo di disagio psicologico.

Le fasi depressive, caratterizzate da apatia, tristezza, tendenza ad isolarsi, sono meno riconosciute dal genitore poiché meno “disturbanti”, ma altrettanto pericolose per il corretto sviluppo psicofisico dell’adolescente.

Al contrario le fasi aggressive vengono spesso sopravvalutate perché molto evidenti ed “ingombranti”, non capendo che il conflitto è fisiologico ed eventuali eccessi di ira o rabbia possono essere placati dando al ragazzo la possibilità di riconoscere di aver esagerato, aiutandolo così ad autocalmarsi e a scusarsi per il comportamento tenuto.

Vi sono poi altri tipi di comportamento messi in atto dagli adolescenti, volti ad attirare l’attenzione dei genitori, e questi sono comportamenti tipicamente antisociali, nello specifico atti vandalici, fughe di casa, piccoli furti, liti con il gruppo dei pari o atti di bullismo, che, alcune volte, si accompagnano all’uso di sostanze stupefacenti e a quello di alcool, sostanze utilizzate per una “fuga dalla realtà”, per allontanare, anche se solo momentaneamente, emozioni negative e vissuti di difficile gestione.

Vi è una differenza di genere: infatti, i comportamenti sopra descritti appartengono in prevalenza ai maschi, mentre le femmine tendono ad esprimere il loro disagio, la loro sofferenza, con una modalità legata all’emotività.

Quindi, la separazione dei genitori è da considerarsi un problema oppure no?

È sicuramente più logorante e deleterio per la salute psichica del minore vivere in un contesto familiare all’apparenza unito ma molto conflittuale, rispetto a vivere in una famiglia con genitori separati che hanno raggiunto un buon grado di stabilità ed armonia. Infatti, per il minore è molto più importante la qualità delle relazioni tra i membri della famiglia, più che la separazione in sé. (Cigoli, 1997). Nelle famiglie ad alto livello conflittuale si è osservato come la coesione, l’impegno emotivo, gli scambi comunicativi, siano molto scostanti e superficiali mentre, al contrario, quelle con più basso livello di conflitto coniugale siano più aperte alla relazione e all’interazione.

Dalla separazione dei genitori il figlio può trovare possibilità di crescita ed aumento delle proprie risorse personali, che lo potranno aiutare ad affrontare future problematiche di vita. La capacità di elaborare questa dolorosa e difficile esperienza potrà rafforzare la tolleranza delle sofferenze che la vita, inevitabilmente, riserva (resilienza).

Inoltre l’integrazione di nuove figure, siano essi adulti o minori, all’interno della rimodellata costellazione familiare, può aumentare le capacità relazionali, rendendo più duttili verso le nuove esperienze, dimostrando di essere in grado di integrare in maniera efficace e funzionale nuove parti di sé in relazione con gli altri.

Andando quindi ad analizzare quali siano i fattori che possano determinare una maggiore o minore problematicità legata alla separazione coniugale, i più importanti sono, in primis, la visione di famiglia che l’adolescente fa sua durante la fase critica, la qualità della relazione instaurata dai genitori dopo la separazione e la presenza o meno di relazioni stabili e regolari tra i genitori (presi singolarmente) ed i figli e, infine, la rete relazionale familiare allargata (parenti, nuovi partner, amici) la quale deve essere consistente e funzionale per poter essere efficace.

Notevole peso avranno anche le risorse personali degli adolescenti stessi (resilienza) ed il contesto sociale e culturale in cui essi sono inseriti.

Daniela Meistro Prandi

Tratto dalla Tesi di fine Master (edizione 2015/2017) di Daniela Meistro Prandi, “La mediazione familiare in coppie con figli adolescenti: la gestione del conflitto nel conflitto.”
Fonti:
SCABINI E. “Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo di legami e trasformazioni sociali”, Bollati Boringhieri, Torino (1995).

CIGOLI V., “L’albero della discendenza. Clinica dei corpi familiari” (1997).

Undicesimo appuntamento di Note di mediazione:”La libertà” di Giorgio Gaber

Nell’undicesimo appuntamento della rubrica Note di Mediazione, traendo ispirazione dalla canzone di Giorgio GaberLa libertà” e dal 25 aprile, giorno in cui si festeggia la Liberazione, si constata come la parola “libertà” possa trovare una sua naturale collocazione, anche, nella mediazione dei conflitti e come questa sia, invece, stridente con la proposta di legge, che era stata avanzata, nella quale si proponeva di rendere obbligatorio tale istituto in un percorso di separazione o divorzio.

Distanziamento sociale per l’ odio politico

Suggerire un distanziamento sociale per evitare il contagio da odio politico non significa, sia chiaro, sostenere la necessità di mettere il bavaglio all’espressione di principi, valori, idee, programmi, opinioni, ecc. Si tratta, infatti, di un distanziamento sociale per l’odio politico e non per il dibattito politico, quindi non per le discussioni, i dissensi, né le critiche aspre, severe e senza sconti.

Espressioni di odio politico come modalità relazionali divenute “normale”

Il distanziamento sociale per l’ odio politico è riferito ad un insieme enorme di rapporti caratterizzati da aggressività e faziosità, da dogmatismo e ottusità, da pregiudizi e diffidenze: insomma da una dinamica in cui l’Altro, quello che non la pensa come noi, quello che consideriamo diverso da noi, è il Nemico. Non è un interlocutore con cui discutere, ma un’entità da delegittimare, screditandola e criminalizzandola. Non è un soggetto ma un qualcosa che abbiamo mentalmente de-umanizzato, da demonizzare ulteriormente, anche attraverso diffamazioni e calunnie. È un essere rappresentato e trattato come una realtà maligna, come un mostro di perversione e cattiveria. È descritto e raccontato come un essere diabolico che non sa far altro che cospirare, da quel doppiogiochista infido, bugiardo e traditore che appare ai nostri occhi e/o che vogliamo appaia agli occhi degli altri. E questi “altri” sono sia coloro che stanno già dalla nostra parte sia coloro che vogliamo guadagnare alla nostra causa.

Negli ultimi anni, questa tendenza del confronto politico a trasformarsi in conflitto ha vissuto una radicalizzazione e un’impennata esasperate ed esasperanti nella nostra società. Ogni asserzione o dichiarazione del concorrente politico e, talora, perfino dell’alleato, è fatta oggetto di interpretazioni e distorsioni all’insegna della delegittimazione o, peggio, della criminalizzazione. Lo spazio per la critica costruttiva è stato semplicemente annullato, venendo soppiantato dalla diffusione di rappresentazioni caricaturali del concorrente, da una sistematica manipolazione e strumentalizzazione di fatti e notizie, dalla produzione industriale di stimoli alla rabbia, al risentimento e alla paranoia [1]. E, purtroppo, questa dinamica relazionale non ha interessato soltanto il confronto tra gli esponenti politici nei luoghi nei quali costoro tipicamente si confrontano: vale a dire, i luoghi istituzionali (il Parlamento e le altre assemblee), gli studi televisivi e le piazze virtuali. Tale modalità aggressiva e squalificante di rapportarsi gli uni agli altri è diventata la normale interazione anche tra i non politici, tra le persone comuni [2].

È più facile comprare tonnellate di odio politico che chili di proposte, programmi e contenuti

Ma questa infezione non è arrivata dalla natura come quella del Coronavirus [3]. La diffusione di questa sorta di virus relazionale – se come tale vogliamo considerare l’odio politico – è stata il frutto di un felicissimo incontro tra domanda e offerta sul mercato politico.

Sul lato dell’offerta, non si può negare che vi sia stata  – e, malgrado la pandemia, che ci sia ancora – una deliberata e sistematica offerta di una comunicazione politica in cui l’ odio politico era il principale ingrediente: questa politica ultra-conflittuale, posta in essere con metodi sofisticati, costosi e di livello industriale, è stata condotta con enorme successo da non poche forze politiche, le quali, adattando noti e raccapriccianti esempi storici di manipolazione collettiva alle peculiarità della nostra epoca, hanno seminato una propaganda tutta tesa a stimolare rancore e rabbia. Cercando di fare credere al maggior numero possibile di persone di essere vittime innocenti e ingenue sia della cattiveria sopraffina e cospirativa di alcune entità spersonalizzate, sia dell’inguaribile perversione di alcuni leader, descrivendoli come se fossero stati gli unici o i maggiori colpevoli del disagio sociale, della crisi economica e di tutto ciò che procurava un vissuto di frustrazione, insicurezza e paura [4].

Sul lato della domanda, si potrebbe facilmente osservare che una rilevante maggioranza degli elettori italiani non ha resistito all’offerta sventolatagli sotto il naso e si è precipitata ad acquistare complotti, capri espiatori e altri artifici retorici deresponsabilizzanti, senza badare alla esorbitante entità del prezzo – economico, sociale, politico e umano – pagato. Del resto, è più facile vendere rabbia e intolleranza, veicolate con slogan facili da afferrare, che vendere programmi e proposte basate sulla complessità della realtà, quindi sulla necessità di ingaggiarsi in percorsi di conoscenza. È più agevole, per chi vende, mettere in commercio odio e timore, proiettandoli su bersagli ad hoc trasformati in una specie di beni di consumo, perché, per chi compra, è più semplice acquistare quei prodotti di facilissimo consumo. Mentre più impegnativo e faticoso è acquistare occasioni di investimento intellettuale, le quali costringono a leggere, informarsi, confrontarsi, studiare, mettersi in discussione, verificare le proprie e altrui responsabilità ed errori. In sintesi, è immensamente più facile commercializzare l’odio che indurre il prossimo a pensare.

Una perfetta intesa tra spacciatori di odio politico e consumatori

L’ odio politico si vende e si compra facilmente anche perché chi lo vende non lo definisce come tale; né chi lo compra lo riconosce come tale. Il venditore lo propone come il sacrosanto diritto ad essere indignati, offesi, arrabbiati e risentiti; chi compra l’odio politico acquista anche, se già non ne è adeguatamente fornito di suo,  alcuni di quelli che Bandura, analizzando il bullismo, chiamava i meccanismi di disimpegno morale. In sostanza, si tratta di quei meccanismi mentali che consentono di non avere problemi di coscienza, sentendosi e pensandosi vittime di comportamenti ingiusti commessi da coloro contro i quali si rivolgono disprezzo e odio e si esercita la violenza. Così, si crea una perfetta intesa tra lo spacciatore di odio politico e il suo consumatore, i quali, infatti, mai, neppure per un momento, si sentono in colpa per la violenza dei loro comportamenti pubblici.

Ciò rende l’interruzione di questa dinamica decisamente difficile, quasi una missione impossibile. Perché chiunque la focalizzi viene visto come un nemico, come un membro della cospirazione, intento a collaborare al complotto.

Invece di gestire il conflitto ne siamo gestiti

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Però, l’ odio politico non è un’esclusiva degli iscritti o militanti di destra, di centro o di sinistra, di questa o di quella forza politica: è stato assunto o è penetrato nella pressoché totalità delle forze politiche, giovandosi di una fertilità di fondo (risalente a decenni di storia politica all’insegna della squalificazione dell’avversario). Sprizzare l’ odio politico è divenuto, quindi, un modo comune di esprimere il proprio parere su questo o quell’argomento di rilevanza pubblica. Non si argomentano le proprie opinioni, né ci si sforza di capire di capire le ragioni dell’altro. Anzi, spesso neppure ci si degna di considerare l’argomento di cui l’interlocutore sta parlando. Non leggiamo o non ascoltiamo il contenuto proposto dall’altro, reagiamo solo all’emozione che associamo alla persona che propone quel parere o suggerimento. In altri termini, i nostri stati d’animo nel partecipare o nel seguire il dibattito sono quelli governati dalla dinamica del conflitto più parossistico.

Ci troviamo, così, a vivere il presente e a guardare al futuro con sentimenti e pensieri latamente paranoici, i quali non ci permettono di avvicinarci alla comprensione della realtà, ma ci fanno reagire, un po’ come il cane di Pavlov, a certi particolari stimoli, all’apparire dei quali siamo stati condizionati a schiumare rabbia.

La spirale autodistruttiva dell’ odio politico

Ora, se questa condizione è estremamente funzionale a sistema politici illiberali e autoritari, in quelli democratici, invece, essa è decisamente disfunzionale e autodistruttiva. I sistemi democratico-liberali, infatti, funzionano ed evitano il collasso, se c’è la condivisione da parte di tutti gli attori politici di alcuni comuni principi di base e soprattutto se c’è una minima reciproca legittimazione. Quest’ultima, naturalmente, non esclude il conflitto, ma esclude da parte di un soggetto politico la rappresentazione come Nemico Pubblico Numero Uno di coloro che hanno una visione, una proposta o una sensibilità politica diversa: un simile atteggiamento, infatti, è logicamente prodromico a tentazioni, e perfino a tentativi, di svolte autoritarie [5]. La trasformazione dell’interlocutore in un essere minaccioso, infatti, lo delegittima e lo squalifica dal gioco, autorizzando il soggetto delegittimante a proporsi e ad essere considerato come il solo attore legittimato a stare sulla scena politica. È una tendenza che abbiamo già visto tante volte in Italia, ma forse mai con una tale radicata diffusione. È una febbre insidiosa, potenzialmente letale per la libertà e la democrazia, la cui temperatura può essere misurata in tanti modi e con tanti termometri. Uno di questi è quello che rileva quanto nelle piazze – oggi soprattutto in quelle virtuali – si arriva a detestare, come se fosse il peggiore dei nemici, non soltanto l’appartenente allo schieramento politico concorrente, ma anche chi, appartenendo al nostro, ogni tanto, osa rompere gli schemi conflittuali e, guardando oltre il reticolato, dice:

«Forse il nostro avversario questa volta ha detto una cosa su cui può valere la pena discutere».

Chi si azzarda a compiere un tale gesto nel migliore dei casi viene accusato di buonismo o di correttezza politica, che sono ormai considerati due delitti gravi (ne avevamo parlato all’interno di questa rubrica in alcuni post, tra cui La politica della scorrettezza politica).

La misura privata del distanziamento sociale per l’ odio politico

Per contrastare il diffondersi della pandemia un elevato numero di governi, a partire dal nostro, hanno fatto ricorso alla misura del distanziamento sociale, con diversi livelli di severità. L’efficacia di tali provvedimenti, almeno negli stati democratici, è assicurata in larghissima parte dall’adesione della gran parte dei cittadini. Se i cittadini in massa si rifiutassero di osservare tali vincoli, questi in un baleno diverrebbero lettera morta. Di fatto, quello a cui stiamo assistendo è una condizione di auto-isolamento, che, ovviamente, è allo stesso tempo individuale e collettivo. Ed è frutto di una collettiva e individuale assunzione di responsabilità.

Ebbene, la proposta di un distanziamento sociale per l’ odio politico si colloca su questo registro. Non come invito a tenere un comportamento di censura da indirizzare agli altri, ma come atteggiamento interno, individuale – anzi, decisamente personale -, ma non per questo nascosto. La presa di distanza, in altri termini, andrebbe declinata in primo luogo dentro di sé: attivata coscientemente una risposa intimamente espulsiva ogni volta che ci si imbatte in un articolo, una dichiarazione, un commento, un post, ecc. schiumanti di rabbia e tesi stimolare l’ odio politico all’indirizzo di qualcuno, si tratta poi di prendere le distanze in termini relazionali dall’ hater, magari spiegandogliene il perché. Non occorrerebbero, infatti, poi, molte parole, basterebbe dirgli o scrivergli che quel violento modo di comunicare non ci piace, che ci interessano le discussioni sui temi e non gli attacchi ad personam.

I politicanti-spacciatori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni

Se vogliamo davvero che i nostri rappresentanti politici tentino di affrontare con intelligenza lungimirante la sfida immensa rappresentata dalla pandemia e dai suoi effetti, occorre aiutarli e motivarli a compiere questo notevolissimo sforzo e sostenerli nell’essere all’altezza di quel compito. Il che presuppone che anche noi si sia all’altezza della sfida, nei più contenuti limiti delle nostre possibilità. Perché è vero che in un sistema democratico-liberale sta agli eletti discutere e decidere, ma non si può scordare che gli eletti sono il nostro specchio: ci piaccia ammetterlo oppure no, ci rappresentano anche nel senso ci riflettono (visto che, tra l’altro, non arrivano da Marte e che siamo noi ad averli votati senza che nessuno ci costringesse a farlo con una pistola alla tempia o minacciandoci di spedirci in carcere o al confino). Certo non passeranno mai di moda le citatissime parole di De Gasperi:

«i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni».

Ma, non possiamo scordarci che c’è un doppio legame tra rappresentanti e rappresentati: se questi ultimi non sanno o non vogliono pensare alle prossime generazioni, anzi se non sono disposti a pensare ma preferiscono comprare odio e spargerlo in giro, difficilmente stimoleranno i politici che li rappresentano a volgere il pensiero alle prossime generazioni. Detto a mo’ di slogan:

«i politicanti-venditori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni e ai sondaggi, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni».

Alberto Quattrocolo

[1] Forse anche noi di Me.Dia.Re. siamo rimasti intrappolati in tale situazione, senza riuscire a divincolarci. In questa rubrica, infatti, dal suo apparire e per un certo periodo, direi fino al 2018, sono stati pubblicati molti post sul tema della conflittualità in ambito politico e della sua possibile gestione, poi abbiamo riposta carta e penna nel cassetto, limitandoci ad un paio di articoli. Perché? Per mancanza di tempo, per scarsità di riscontri e per altre svariate ragioni, incluso, e probabilmente per primo, il fatto che dall’inizio del 2018 si è passati da un’elezione all’altra: prima le politiche del marzo 2018, poi le europee, poi le regionali, poi di nuovo le regionali…  E, pensavamo, non sarebbe stato “carino” continuare a scrivere post che, come gran parte di quelli dedicati al tema del nazionalrazzismo, finivano con l’essere di fatto una sorta di presa di posizione nelle competizioni elettorali. Oggi, però, francamente, quello scrupolo è diventato obsoleto.

[2] All’inizio di un post del 26 gennaio 2017 avevamo ricordato che nel messaggio agli italiani del 31/12/2016 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella  aveva proposto la seguente riflessione: «Internet è stata, e continua a essere, una grande rivoluzione democratica, che va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi». Queste parole chiudevano il suo commento preoccupato circa l’impiego dell’«odio come strumento di lotta politica». Oggi, oltre tre anni dopo, l’odio come strumento di lotta è ancor più capillarmente diffuso e intensamente potenziato di quanto non fosse allora. Più di quanto accadesse prima, la violenza verbale – aspetto intrinseco dell’inesorabile escalation del conflitto politico e manifestazione comportamentale dell’ odio politico – dilaga sui social, essendo diventata un modo “normale” di esprimersi e relazionarsi con chi ha un punto di vista diverso.

[3] Tre anni fa, il 19 aprile del 2017 avevamo pubblicato un post sulla violenza verbale nella rete come crescente modalità di partecipare al dibattito politico: C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza)

[4] Così si sono condotte capillari e martellanti campagne d’odio contro bersagli ben precisi: gli immigrati e coloro che sono favorevoli al riconoscimento e al rispetto della loro vita e della loro dignità umana; alcune categorie sociali e professionali, come i politici di lungo corso, i sociologi, gli storici, gli economisti, i politologi, i virologi, gli epidemiologi, gli assistenti sociali, ecc.; alcuni gruppi di enti, come le organizzazioni non governative (ONG), le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le imprese bancarie, le aziende farmaceutiche; le istituzioni appartenenti, o comunque ricondotte dal pensiero comune, all’Unione Europea; alcuni leader di altri Paesi come Macron e la Merkel; alcuni leader nostrani, e qui l’elenco è lungo e va almeno dalla B, di Laura Boldrini alla R di Matteo Renzi; il Papa; George Soros…

[5] Il 13 marzo 2017 era stato pubblicato un post intitolato Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?

La mediazione tra Eros e Thanatos durante la pandemia

Riducendo in pillole la teoria conflitto tra Eros e Thanatos, proposta da Sigmund Freud nel suo saggio, di 100 anni fa, “Al di là del principio di piacere” (Jenseits des Lustprinzips), nell’animo umano e nella natura ci sarebbero le pulsioni di morte, identificate sotto il nome comune di Thanatos, e le pulsioni di vita, indicate con il nome di Eros, che inglobano le pulsioni sessuali e sono alla base dei comportamenti, umani e non, mirati alla conservazione e allo sviluppo della vita. Sicché il termine Eros sarebbe riferibile a tutte le pulsioni costruttive e vivificanti, mentre Thanatos, cioè la pulsione di morte, rappresenterebbe la tendenza umana verso l’aggressività, la stagnazione e la distruzione. In altre parole, Thanatos sarebbe la tendenza di ogni essere vivente a ritornare al suo stato inorganico originario [1].

In questo periodo, il richiamo, più in termini di suggestione che di chiave interpretativa, al conflitto tra Eros e Thanatos può aiutare a soffermarsi sulle lacerazioni, sulle contraddizioni e sui paradossi che viviamo da due mesi. E può offrire uno spunto per osservare quelle ricadute conflittuali – non solo interne a ciascuno di noi, ma anche interpersonali e, forse, perfino quelle collettive – che paiono sortire dal groviglio di istanze contrastanti nel quale il COVID 19 ci ha avviluppato.

Il conflitto tra Eros e Thanatos come conflitto tra Sanità e Coronavirus e contro la strumentalizzazione dello spirito di servizio degli operatori della Sanità

C’è, infatti, un palese conflitto tra la vita (Eros) e la morte (Thanatos) disputato nei termini di lotta tra salute e malattia, tra sanità e COVID 19, e che si combatte sul fronte nel quale agiscono – e troppo spesso si ammalano o addirittura muoiono – i professionisti della sanità e coloro che svolgono attività definite essenziali. Ebbene, costoro impegnati ad arginare il dilagare della morte, si trovano coinvolti anche in un altro, sovrastante e sottostante, conflitto, che rischierebbe di essere sotterraneo se non fosse che è stato smascherato. Infatti, si può dire che è stato svelato nel momenti in cui quei lavoratori hanno preso posizione esplicitando che non ci stanno a sentirsi definire eroi: cioè, dal momento che il loro agire è riconducibile a quel che Giovanni Falcone, con sublime semplicità, spiegò essere la sua principale motivazione, il semplice “spirito di servizio”, non ci stanno ad essere lusingati, incensati e blanditi, così da poter essere strumentalizzati e sfruttati, oggi, e magari sacrificati e azzittiti, domani; in altri termini, non ci stanno ad essere de-umanizzati, ridotti ad un’etichetta, ad un simbolo astratto; tanto più che non occorre essere discepoli di Freud per sapere che all’idealizzazione infantile può seguire a brevissimo giro una non meno puerile – e spesso programmata – demonizzazione. Insomma, a questo riguardo, c’è un altro conflitto, presente, che si connette ad una conflittualità preesistente (quella da decenni dilagante in ambito sanitario e, segnatamente, sul piano del contenzioso per responsabilità professionale e delle aggressioni ai danni degli operatori) e ne annuncia una futura, assai probabile, dove sotto peculiari vesti Eros e Thanatos si fronteggiano paurosamente.

Il conflitto tra Eros e Thanatos riguardo all’indecifrabilità del futuro

Il conflitto tra Eros e Thanatos, cioè tra l’istinto di vita e quello di morte, però, è anche quello tra, da un lato, la possibilità di ciascuno di noi di pensare e pensarsi nel futuro, quindi di immaginarlo, anche con slanci idealizzanti, e dall’altro, la difficoltà, se non l’impossibilità, di farlo. Quella che viviamo tutti, infatti, in un certo senso, è una sorta di esperienza di morte: come (mettendo da parte l’elemento della fede) nessuno sa con certezza se c’è un Aldilà e, se c’è, com’è, così ora viviamo una simile indicibilità sull’Aldiquà, ossia un’impossibilità di prefigurare nitidamente il poi, gli scenari venturi della nostra esistenza. Come sarà la nostra vita tra un mese, tra sei mesi, tra un anno? Nessuno è in grado di dirlo con ragionevole sicurezza. Cioè, non con quel livello di affidabile approssimazione di cui eravamo capaci prima. Ad esempio, non sappiamo dire con certezza se ci sarà un post-Coronavirus, inteso come completo ripristino della situazione anteriore, o se l’emergenza sia destinata a diventare, in qualche modo, un nuovo sistema, una consuetudine: insomma, una nuova realtà destinata a soppiantare la precedente, finché quest’ultima non sbiadirà nelle dimensioni di un nostalgico ricordo.

Il miscuglio di paure in quel conflitto tra Eros e Thanatos  che è la dialettica tra Lockdown e diffusione del Coronavirus

Per contenere la diffusione del Coronavirus e ridurre le probabilità in favore del dominio dell’epidemia, infatti, abbiamo dovuto chiudere e rinchiuderci, interrompere e serrare, insomma fermarci. E ci è toccato arrestare anche le nostre pulsioni di vita (Eros) ad andare, ad uscire, a muoverci, a fare, a lavorare… Ci è toccato bloccare la nostra tendenza al movimento, che è, per definizione, la vita, la nostra innata propensione a non fermarci, per evitare di essere bloccati per l’eternità, cioè per non cadere nelle fauci di quella morte (Thanatos) rappresentata dal Coronavirus.

Pertanto, c’è anche uno scontro tra le vitali ragioni dell’economia – che, per ciascuno di noi, nel concreto, hanno nomi diversi (impiego, impresa, lavoro, reddito, scuola, affitto, ecc.), ma che, comunque, rinviano al vivere o al sopravvivere – e quelle della salute, che per noi è ancor più preliminarmente vitale: dato che non si può andare a lavorare, né si può consumare, se si è malati, moribondi o morti.

Il distanziamento fisico come comportamento mortifero di prevenzione della morte

Il punto è che tanti fondamentali diritti (e doveri) sono sospesi perché ci è vietato di assecondare ed esprimere il nostro essere animali sociali, se non entro i limiti e le modalità consentite dalla tecnologia.

Il divieto di abbracciarsi, baciarsi, stringersi la mano, ecc., però, pone in ancor maggiore risalto il fatto che viviamo una specie di cortocircuito nelle nostre pulsioni di vita: è come se il nostro istinto di vita, per non essere meramente teorico e per non tradursi in condotte potenzialmente attuative di un istinto di morte, dovesse sottomettersi – parzialmente, ma in misura rilevantissima – proprio a Thanatos. In breve, seguendo Eros, cioè l’istinto di sopravvivenza, dobbiamo avere negli ambiti più importanti dell’esistenza, dei comportamenti che, di per sé, sono etichettabili come deprimenti e depressivi. Quindi dobbiamo avere delle condotte riconducibili al regno di Thanatos, almeno astrattamente, secondo quanto abbiamo immagazzinato nel nostro immaginario consueto, nei nostri schemi tradizionali.

Dai rapporti impediti a quelli imposti

Peraltro, sarebbe bene anche riconoscere, senza patetiche strizzatine d’occhio né superficiali sottovalutazioni, che questo vincolo del “distanziamento fisico” dà luogo anche all’impossibilità per moltissime persone di avere relazioni e rapporti sessuali, con tutti i significati e i risvolti personali, affettivi ed emotivi che ne conseguono. Ma l’obbligo di restare a casa costringe anche ad un ininterrotto stare insieme. Così, anche a chi non si è ammalato o non ha subito dei lutti, anche a chi non vive in un locale di pochi metri quadri con altri quattro o più famigliari, anche a chi non ha perso il lavoro o non sta vedendo squagliare tutto quel che ha investito nella propria impresa, insomma anche a chi non ha patito l’urto violento del Coovid-19, è diventato spettacolarmente evidente il disagio derivante dal distanziamento fisico: stare rinchiusi per giorni, per settimane e per mesi non ha alcuna parentela con il concetto di intervallo, di ricreazione o di vacanza. Anzi, è una notevole fonte di stress anche perché sottopone ad una tensione considerevole i rapporti e i legami tra le persone.

La difficile mediazione del conflitto tra Eros e Thanatos

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Questo conflitto tra Eros e Thanatos così bizzarro, in cui le esigenze e le attitudini vitali sembrano avere un risvolto mortale, mentre quelle tipicamente mortifere hanno una valenza precauzionale, in parte, può spiegare perché non è così facile riuscire a restare tutti insieme, uniti e solidali, di fronte alla comune minaccia del COVID 19.

In conclusione, forse, oggi ancor più di ieri potremmo legittimarci a riconoscere quanto il complicato intreccio conflittuale tra Eros e Thanatos sia capace di contagiarci. In astratto, infatti, è facile ammettere che Eros e Thanatos non possono che coesistere; com’è scontato, in teoria, pensare che la vita presuppone la morte e viceversa. Ma quando si passa dalla speculazione astratta al quotidiano, ai problemi pratici, ai bisogni e alle esigenze fondamentali delle persone e di intere popolazioni, ci si misura con l’aspra concretezza di questa realtà; e non è detto che si riesca a conservare in primo piano quelle consapevolezze, né che si riesca ad attenuare il nostro dolore, la nostra rabbia o il nostro sgomento.

Sul piano individuale, allora, può non essere una cattiva idea autorizzarsi a chiedere aiuto, sapendo che accanto a svariate forme di aiuto (molte delle quali offerte gratuitamente), come quelle costituite, ad esempio, dai servizi di sostegno psicologico, c’è anche la mediazione familiare e dei conflitti in famiglia[2]

Sul piano collettivo, poi, la mediazione, non come pratica operativa professionale ma come competenza, attitudine e paradigma, specie se fondata sull’ascolto e sull’apertura al riconoscimento dell’altro, può aiutare a prevenire il rischio che questo confuso e confondente conflitto tra Eros e Thanatos oscuri il fatto che tendenzialmente tutti si rappresentano come schierati dalla parte di Eros, non certo da quella di Thanatos, e che dia luogo a pericolosissime degenerazioni: ad esempio, producendo schieramenti contrapposti, creando fazioni, scatenando l’odio tra chi sostiene l’idea di una rapida riapertura, “perché ha paura della morte per fame”, da un lato,  e chi, invece, ritiene meglio proseguire il Lockdown, “perché ha paura della morte per Coronavirus”, dall’altro, portando entrambe le “scuole di pensiero” ad essere oggetto di delegittimazioni e de-umanizzazioni e ad accusarsi reciprocamente di “essere dalla parte di Thanatos, cioè della morte”.

Alberto Quattrocolo

[1] In quell’opera del 1920, Freud proponeva il conflitto tra Eros e Thanatos come conflitto psicologico, mutuando tali termini dalla filosofia empedoclea, secondo la quale vi sarebbe un dissidio cosmico fra il principio di Amore (o Amicizia) e quello di Odio (o Discordia). Scrisse, infatti, Freud che la «dottrina di Empedocle» è così prossima «alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un’unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. […] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»

[2] I servizi di mediazione dei conflitti (tra i quali non si può non segnalare il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione e Sostegno Educativo, offerto da Me.Dia.Re. e dalla Cooperativa Il Ricino con il supporto fondamentale della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “Insieme andrà tutto bene”) cercano, infatti, di accogliere e riconoscere la nostra umanità e di aiutarci a gestire le nostre relazioni conflittuali, che siano o meno legate a questa “versione 2020” del conflitto tra Eros e Thanatos.

 

Ventiduesima puntata di Conflitti in corso

Nella ventiduesima puntata di Conflitti in corso, si tenta di rispondere alla domanda

«cosa può fare e che utilità può avere la mediazione dei conflitti in questa situazione di pandemia?».

Oltre a ricordare il notevole volume di richieste di appuntamento al servizio gratuito, online e telefonico, di Ascolto e Mediazione e Sostegno Educativo (che Me.Dia.Re svolge con la partnership della Cooperativa Il Ricino e con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “Insieme andrà tutto bene”), si cerca di fornire una risposta a quell’interrogativo, soffermando l’attenzione sulla complessità di implicazioni, anche di natura conflittuale, dell’epidemia da Covid-19. Ci sono, quindi, conflitti che si sviluppano all’interno di ciascuno di noi, così come nelle nostre relazioni interpersonali, a partire da quelle famigliari, e nel dibattito pubblico. E, tra gli altri, emergono anche i conflitti all’interno e all’esterno delle mura domestiche riguardanti le difficoltà di contenimento, riconoscimento, accettazione e condivisione degli stati di malessere e di angoscia, propri e altrui, inclusi, e forse in primo luogo, quelli derivanti dal lockdown.

Decimo appuntamento di Note di mediazione: “E un giorno” di Francesco Guccini

Nel decimo appuntamento della rubrica Note di Mediazione, partendo da due suggestioni, quali il brano di Francesco GucciniE un giorno“, canzone in cui il cantautore descrive il rapporto “conflittuale” tra la figlia Teresa, che ormai “non è più bambina”, e loro, i genitori, e una telefonata ricevuta da un’amica dell’autrice del video, mamma di un figlio adolescente, si tocca il tema della gestione del conflitto in una famiglia con figli adolescenti. Conflitto, questo, che molte volte, diventa un vero e proprio “conflitto nel conflitto”, tra adolescente e figure normative di riferimento e tra i genitori stessi, una sorta di “tutti contro tutti“, insomma. Situazione, resa ancora più complicata dalle norme restrittive del momento, che amplificano ulteriormente i sentimenti negativi legati al conflitto stesso.

Nono appuntamento di Note di mediazione: “Cambia-menti” di Vasco Rossi

Nel nono appuntamento con la Rubrica Note di Mediazione, traendo ispirazione dal brano di VascoCambia-Menti“, si pone l’accento sui cambiamenti con i quali, tutti noi, volenti o nolenti, ci stiamo confrontando, in questo particolare momento storico, nella nostra vita. Cambiamenti che vanno da quelli in ambito lavorativo, alla gestione dei figli, del quotidiano, cambiamenti di vita, insomma. Rapportandolo alla mediazione familiare e alla mediazione dei conflitti, andremo a vedere come il cambiamento, che molte volte sta alla base del conflitto in sé, sia principale elemento di paura, ma che se viene elaborato, durante il percorso, attraverso il riconoscimento dei sentimenti ad esso legato, può essere letto in chiave di opportunità positiva.

Intervista a Francesca Olivero

Diamo la parola a Francesca Olivero, in questo ottavo video della rubrica Interviste ad ex corsisti. Francesca Olivero, educatrice professionale, spiegando le ragioni per cui decise di formarsi alla mediazione familiare  – seguì l’XI edizione (novembre 2017 – maggio 2018) del corso di Mediazione familiare  e di Mediazione Penale dell’Associazione Me.Dia.Re. -, si sofferma anche sugli elementi di convergenza tra il ruolo dell’educatore e quello del mediatore, in particolare rispetto alle dimensioni dell’ascolto, del riconoscimento dell’altro, dell’individuazione dei confini e della sospensione del giudizio. Inoltre, spiega le motivazioni e gli obiettivi di ALEA (qui il link al sito), una nuova realtà, messa in piedi con altri tre ex corsisti (tra i quali Luca Pugliese, la cui intervista è qui), che offre mediazione familiare e molto altro ancora

Ottavo appuntamento di Note di mediazione: “C’è tempo” di Ivano Fossati

Nell’ottavo appuntamento con la rubrica  Note di Mediazione, viene posta attenzione sul tema del “Tempo”. Prendendo spunto dal brano del 2003 di Ivano FossatiC’è tempo“, si mette in relazione la percezione dello scorrere del tempo, in questo particolare momento storico, tempo che viene descritto come “sospeso”, con la concezione e l’importanza del tempo nei percorsi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, durante i quali, il riuscire a stare nel “Qui e Ora“, assume un ruolo di particolare importanza.