Il bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus

Con il dilagare dell’epidemia, in mezzo al dolore e alla morte, si sviluppano anche nuove relazioni conflittuali e, probabilmente va presentandosi anche un nuovo, o almeno un maggiore, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.

Qualcosa (di enorme) è cambiato

L’espressione “era del Coronavirus” si collega alla constatazione un po’ ovvia che verosimilmente l’umanità potrebbe trovarsi davanti ad un cambiamento, epocale, di portata globale e dalle implicazioni ancora per lo più imprevedibili, ma presumibilmente profonde. Appare plausibile ritenere che non soltanto le nostre vite individuali, ma le nostre società saranno solcate da questa cesura: prima e dopo il Coronavirus.

Questa pandemia sembra, infatti, dare luogo a qualcosa che segnerà il futuro in maniera ancora indecifrabile ma potente. Ci sarà, appunto, un prima e un dopo. Come, limitando lo sguardo al Novecento, ci fu un prima e un dopo la Prima Guerra Mondiale, un primo e un dopo la Grande Depressione del 1929, un prima e un dopo la Seconda Guerra Mondiale, un prima e un dopo la Shoah, un prima e un dopo le detonazioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki, un prima e un dopo la caduta del Muro di Berlino. Dopo ciascuna di queste svolte si è aperta una nuova epoca. Ad ogni svolta perdemmo alcune certezze e ne acquisimmo altre, prima impensate. Apprendemmo cose nuove, prima inesplorate, spesso atroci e terribili. Sotto certi profili, perdemmo una sorta d’innocenza, d’ingenuità o di ignoranza. Non è troppo audace pensare quindi che dopo il Coronavirus le cose non saranno più esattamente come prima, anche se non sappiamo ancora predire come saranno.

Ma per ora noi siamo ancora completamente avvolti dal presente e riguardo al futuro non abbiamo che un vissuto di incertezza, di preoccupazione, di inquietudine e di stentata pianificazione a breve termine. Se già la crisi economica del 2011 (ancor più di quella del 2008) ci aveva scaraventato nell’instabilità e nell’insicurezza, ancora più destabilizzante appare, al momento, l’era del Coronavirus, che ci proietta in un vortice di punti interrogativi e ci costringe alla conta (approssimativa) dei morti, degli ammalati e dei contagiati .

L’eccezionalità quotidiana

Tornando agli interrogativi sul presente, quindi, sappiamo tutti di trovarci in una situazione eccezionale. E tutti, o quasi, supponiamo che sia un’eccezionalità destinata a durare forse per mesi, forse per anni. Tutti, verosimilmente, in fondo, temiamo che sia un’eccezionalità suscettibile di diventare una nuova normalità.

Ma che si volga lo sguardo rivolto all’orizzonte o a pochi centimetri dal naso, ci tocca, comunque, fare i conti con le infinite implicazioni di quanto sta accadendo a noi e attorno a noi. E, a questo proposito, circoscrivendo l’orizzonte al campo relazionale è possibile intravvedere qualcosa di emergente sul piano della conflittualità. Qualcosa che, in termini un po’ superficiali e sbrigativi può definirsi, un bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus, che non è verosimilmente lo stesso di alcune settimane fa [1].

Non è detto che restare a casa sia uno spasso o un momento di ricreazione

Che questo supposto bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus possa non essere sovrapponibile a quello fino a ieri emerso, in verità, può collegarsi ad aspetti molto contingenti: ad esempio, i dissensi interni ad un nucleo famigliare circa la maggiore o la minore propensione, fin dall’inizio, a farsi delle illusioni circa la possibilità che le misure di distanziamento sociale potessero avere breve durata. Inoltre può legarsi alle diverse valutazioni interne ad un gruppo più o meno ampio di persone, circa l’eventualità che dal rispetto della regola di restare a casa possa derivare un prevalente risvolto positivo, sul piano soggettivo, per la vita della stragrande maggioranza dei cittadini.

A tal proposito, in termini generali, al di là delle frizioni interne alle famiglie relative ai modi di reagire ai divieti in corso, l’avverarsi dell’eventualità che il lato luminoso del restare chiusi in casa possa trionfare sugli altri aspetti, cioè quelli del disagio, ovviamente, dipende da una molteplicità di fattori. Ad esempio, il miglioramento  derivante dall’avere un maggior tempo per se stessi (per stare con i propri cari, per stare con se stessi, per leggere, per guardare dei bei film, eccetera) può prodursi quando si ha la possibilità di scegliere se e per quanto tempo prendersi questa licenza sabbatica e, soprattutto, quando ci sono davvero le condizioni che permettono di fare di necessità virtù, sfruttando l’isolamento per prendersi maggiormente cura di sé. Non è tanto facile, invece, che ciò accada quando si è costretti a restare a casa e, a maggior ragione, quando le condizioni sono ulteriormente limitanti e disagevoli.

Infatti, banalmente: non tutti vivono in mezzo ai prati o hanno almeno un giardino o un cortile in cui pendere una boccata d’aria; non tutti hanno un terrazzo o un balcone per prendere qualche raggio di sole; non tutti hanno un appartamento di tot metri quadri e di tot stanze, così da poter avere una minima privacy e, soprattutto, così da non intralciarsi di continuo; non tutti hanno la possibilità di una connessione ad internet e non tutti hanno un computer; non tutti hanno una casa; non tutti scoppiano di salute, anche se non sono ammalati di Coronavirus; non tutti sono immuni dalla depressione o da altre cause di sofferenza psicologica; non tutti finora hanno felicemente convissuto sotto lo stesso tetto; non tutti hanno la fortuna di non avere partner o famigliari violenti e maltrattanti.

In generale, poi, l’irruzione dell’emergenza epidemica nella nostra quotidianità ha assai più che sconvolto le nostre abitudini. È andata ad intaccare alcuni aspetti fondamentali della nostra vita. Ha limitato, restringendone vertiginosamente le possibilità di esercizio, i nostri principali diritti di libertà: quelli garantiti in tutte le democrazie degne di questo nome e che nel nostro Paese e nelle altre democrazie liberali, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, non erano più stata messe in discussione. Mi riferisco a diritti come le libertà di movimento, di circolazione, di riunione, di manifestare pubblicamente le proprie idee e la propria fede, di comprare e di vendere, d’impresa, tanto per citarne solo alcuni. Altro che aperitivi e aperi-cene!

Questo maledetto Coronavirus ci toglie i diritti fondamentali e perfino i “pre-diritti”

Ma questo maledetto virus ci toglie qualcosa di più, qualcosa che sta prima dei diritti, qualcosa che non ha neppure mai avuto bisogno di essere garantito da un’apposita norma: infatti, si tratta di qualcosa che non è descritto né garantito esplicitamente dalla nostra Costituzione, come non lo è dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (se non, forse, in qualche modo indiretto, nell’art.12). È probabilmente qualcosa di pre-giuridico, una sorta di “pre-diritto”: non mi riferisco al diritto alla vita, che è, invece, legalmente previsto; mi riferisco al “diritto” (tra virgolette) di dire ciao da vicino, di stringere una mano, di abbracciare o baciare, perfino di far visita o di accogliere nella propria casa le persone a cui si vuole bene. Figli, madri, padri, mariti e mogli, sorelle e fratelli, zii e nipoti, ecc., amici, sono costretti a restare separati, se non vivono sotto lo stesso tetto. L’epidemia ha posto un veto all’espressione della nostra natura di animali sociali, ha quasi annullato la possibilità delle più naturali manifestazioni affettive e ha fortemente condizionato la spontaneità nei rapporti umani.

Non possiamo neppure esercitare molti diritti-doveri, come quello di lavorare. Siamo costretti a restare in casa. E questo comportamento è l’adempimento di un dovere civico supremo. È il principale e prevalente modo in cui ciascuno di noi può dare attuazione ai propri doveri di solidarietà sociale, politica ed economica previsti dall’art. 2 della nostra Costituzione (ne abbiamo parlato nel post La campana della solidarietà sociale). Mentre chi il diritto-dovere di lavorare è tenuto ad esercitarlo ancora, lo fa a rischio della propria salute e di quella dei propri cari.

Non siamo in guerra, ma siamo immersi in un conflitto strano e in diversi conflitti intrecciati tra di loro

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Parliamoci chiaro: non è una guerra quella che stiamo vivendo. Le guerre sono quelle che si svolgono tutt’ora in troppi Paesi e che in queste settimane sono quasi del tutto sparite dai nostri notiziari. Come sono pressoché evaporate le notizie sulle condizioni di profughi e migranti, a partire dai bambini, dalle donne e dagli uomini vittime di una disumanità continentale imperdonabile nei campi di Moria e di Lesbo .

Però, guardando le cose dal vertice osservativo di chi, come questa Associazione, si occupa anche e soprattutto di mediazione e, in generale, di gestione dei conflitti, be’, sì, siamo in conflitto e siamo in una situazione potenzialmente generativa di nuovi conflitti e di acutizzazione di quelli preesistenti.

Si tratta di un conflitto strano, nel quale ad agire sono prevalentemente i lavoratori della sanità e quelli di pochi altri settori (cosiddetti essenziali). Per tutti gli altri c’è un’inazione che sembra immergerci in atmosfere di tensione impalpabile e sfibrante, di inquietudine passiva come quelle evocate nei racconti e nei romanzi di Joseph Conrad, come La linea d’ombra. Però, non mi risulta che sia mai stato scritto un racconto, un romanzo o una sceneggiatura esattamente sovrapponibile alla realtà di questa pandemia.

Come ha scritto Monica Checchin in un post che abbiamo pubblicato sulla rubrica Riflessioni, intitolato Conflitti virtuali e conflitti virtuosi, lo spiazzamento che ci procura questo conflitto è determinato anche dalla natura ambigua, ambivalente e contraddittoria delle sue implicazioni.

Questa minaccia, che espone tutti al pericolo e sfugge ad ogni possibile individuazione e controllo, ci obbliga ad interazioni solo a distanza e contemporaneamente ci pone, con sfacciato paradosso ed evidente contraddizione, nella costrizione di “convivenze forzate ventiquattr’ore su ventiquattro”. Cioè ci mette in condizioni che, se possono procurarci possibilità relazionali e di altra natura fino a poche settimane fa impedite o ridotte dai ritmi severi del tran-tran quotidiano, possono anche mettere a dura prova i nostri rapporti personali, inclusi quelli più consolidati.

In previsione della crescita di un maggiore bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus …

Da qui, dunque, l’impressione di un crescente, forse in larghissima misura ancora non consapevole, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus (e, quindi, l’offerta del Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione da parte dell’Associazione Me.Dia.Re.).

Perché, se alla crescente sensazione della presenza di una sorta di nemico tanto impercettibile quanto insidioso, aggiungiamo le ansie e le preoccupazioni per il presente e il futuro su aspetti fondamentali dell’esistenza (la salute fisica e mentale, i rapporti con i famigliari e con altre persone significative, il lavoro, il reddito, la scuola), si può facilmente comprendere come stress, paure e  frustrazioni possano dare luogo a nuove (anche solo nel senso di aggiuntive) difficoltà di condivisione e di supporto reciproco, traducendosi in fattori emotivi favorenti l’assunzione di atteggiamenti o condotte conflittuali.

Quindi, se la costrizione alla permanenza in casa può produrre l’innesco di problemi di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti (per fare un solo facile esempio, si pensi alla coppia che aveva deciso di separarsi), oppure di una slatentizzazione di quelle fino a quel momento controllate, non è meno probabile l’avverarsi di incomprensioni e tensioni anche tra famigliari, i quali, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, sviluppano rilevanti difficoltà di dialogo [2].

Ancora più Ascolto nella Mediazione

Anche sul fronte della gestione dei conflitti, perciò, la realtà impone un cambiamento. E questo cambiamento non riguarderà solo l’aspetto tecnologico, ma anche molti altri. Ad esempio, è facile prevedere che anche la metodologia subirà nella pratica degli aggiustamenti. Naturalmente, per quanto riguarda Me.Dia.Re., ciò non significa che rinunceremo al significato e al valore più profondo dell’approccio empatico, che mira a far sentire ascoltate e comprese, quindi non giudicate ma riconosciute, le persone. Significa, invece, che, probabilmente, dovremo sforzarci di procurare la percezione della vicinanza, a dispetto della separazione fisica, dell’empatia appunto, superando il limite di una compresenza solo virtuale. Insomma, dovremo continuare a svolgere appunto nella nuova realtà un’attività che sappia corrispondere davvero al bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.

In qualche modo, riuscire ad ascoltare empaticamente anche in tali mutate condizioni è una sfida. In verità, modesta, a ben vedere, se rapportata ad altre: cioè, non è neppure lontanamente confrontabile con quella affrontata dai professionisti della sanità, che da settimane si trovano, per così dire, a mani nude, a combattere contro il Coronavirus, dovendo gestire mille difficoltà, di ogni tipo, e dovendo sopportare costi personali incalcolabili, mentre si sforzano di garantire prossimità umana ai loro tanti, troppi, pazienti.

Alberto Quattrocolo

[1] Perciò, l’Associazione Me.Dia.Re., stando nel perimetro di ciò che le compete, ha attivato delle nuove forme gratuite di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, pensandole, per ora, come eccezionali, ma cominciando anche a pensare che sia un’eccezionalità di durata indefinita. Naturalmente l’eccezionalità non è collegata al carattere gratuito di tale servizio. Perché in questo fatto non c’è alcuna straordinarietà, né in generale, né rispetto alla tradizione dell’Associazione, che fin dai suoi albori, circa vent’anni fa, ha sempre erogato prevalentemente forme di sostegno gratuite. E lo fa ancora: il Servizio SOS CRISI, i servizi di giustizia riparativa e di mediazione penale, i servizi di ascolto e sostegno per le vittime di reato e per le donne vittime di violenza, i servizi di sostegno psicologico per minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati o non accompagnati e per richiedenti asilo e rifugiati adulti.

No, l’eccezionalità consiste nel duplice fatto che il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione si configura come:

  • un sostegno da remoto, cioè si declina mediante colloqui on line e/o telefonici;
  • un’attività di Ascolto e Gestione dei Conflitti e di supporto e facilitazione della comunicazione interpersonale per le persone e/o le famiglie che, anche a causa delle misure di distanziamento sociale, si trovino a vivere  delle difficoltà relazionali o delle condizioni di aperta conflittualità.

In altri termini, questo Servizio cerca di fronteggiare e – entro i limiti delle nostre possibilità e capacità – di anticipare la nuova realtà in cui tutti siamo immersi, rapportandosi ad alcuni dei bisogni emergenti da essa

[2] Infatti, tra le persone ascoltate finora nell’ambito del nuovo Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione abbiamo già riscontrato una ricca gamma di situazioni riconducibili a quelle sopra esemplificate e ad alcune altre ancora. In queste ultime due settimane, infatti, ci sono arrivate molte richieste esplicite di supporto per difficoltà relazionali e di convivenza, ed è stato un fatto inizialmente sorprendente e un po’ spiazzante per noi di Me.Dia.Re., che non ci eravamo mai sognati di erogare da remoto dei servizi di mediazione  (si trattasse di mediazione familiare, di mediazione penale, o di mediazione dei conflitti nei luoghi di lavoro, in ambito sanitario e in altri ambiti istituzionali, sociale e relazionali). Per carità, era capitato in alcune occasioni di ricorrere a Skype, per rimediare ad ostacoli insormontabili, ma si trattava di eccezioni rarissime, che confermavano la regola. La stessa che informava tutti gli altri servizi di supporto vittimologico e psicologico, tutte le attività di consulenza e di supervisione e tutti i corsi e tutte le formazioni.

 

Ventunesima puntata di Conflitti in corso

Nella ventunesima puntata di Conflitti in corso viene presentato il nuovo servizio gratuito di Me.Dia.Re., Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione. Un servizio gratuito di ascolto e facilitazione della comunicazione per le persone e le famiglie le cui criticità relazionali o i cui conflitti siano provocati o acuiti dalle implicazioni dell’epidemia in corso, come quelle costituite dalle misure restrittive della circolazione.

Infatti, la costrizione alla permanenza in casa può produrre, insieme a molte altre conseguenze, anche l’innesco di problemi di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti oppure di una slatentizzazione di quelle fino a poco tempo fa controllate. Del resto, possono prodursi incomprensioni e tensioni anche tra famigliari che, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, sviluppano rilevanti difficoltà di dialogo.

Per tutte queste situazioni e per altre caratterizzate da disagi personali e relazionali, Me.Dia.Re. propone un servizio gratuito di ascolto, prevenzione e gestione dei conflitti che si svolge da remoto, con colloqui online e telefonici (si veda qui la presentazione del servizio).

Settimo appuntamento di Note di mediazione: “Gli altri siamo noi” di Tozzi/Raf

Nel settimo appuntamento di Note di Mediazione viene toccato il tema della “caccia alla streghe ai giorni nostri”, facendo rifermento all’articolo “La Caccia alle Streghe” uscito sul sito di Me.Dia.Re. nella rubrica Riflessioni.
In questo scritto, si descrive un episodio di “caccia al cattivo“, postato su un social e scaturito dalla situazione esasperante che viviamo, in questo periodo di quarantena forzata.
Immediato il parallelismo con quanto avviene nei percorsi di mediazione dei conflitti, dove chi sta “dall’altra parte” viene molto spesso tacciato come “la strega da cacciare.”
La canzone che viene citata è “Gli altri siamo noi” di Tozzi/Raf, del 1991, a ricordare come i ruoli di cacciatore o di cacciato siano interscambiabili a seconda della situazione e del contesto che ci troviamo a vivere.

Intervista a Luca Pugliese

Nelle riflessioni svolte, in questo settimo video della rubrica Interviste ad ex corsisti, da Luca Pugliese, un educatore professionale – che ha seguito l’XI edizione (novembre 2017 – maggio 2018) del corso di Mediazione familiare  e di Mediazione Penale dell’Associazione Me.Dia.Re. -, affiorano con particolare evidenza non soltanto le sue esperienze in un ambito tanto delicato e complesso, ma anche la capacità di mettersi in discussione e la determinazione nel cercare di migliorare costantemente la qualità delle relazioni con i propri interlocutori. Particolarmente significativi in tal senso sono i passaggi in cui insiste sul tema dell’ascolto e sul valore aggiunto che, da questo punto di vista, gli ha procurato il percorso formativo sulla mediazione. Ma Luca Pugliese sviluppa anche sulla mediazione nelle famiglie con figli disabili (tema sul quale ha sviluppato la sua tesi, consultabile qui, nella rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare), andando a ragionare, nell’ultima parte dell’intervista, sulle criticità che si frappongono ad un più pieno sviluppo della mediazione. Il suo interesse per la tutela di bambini e adolescenti emerge inoltre dal progetto di mediazione in ambito scolastico che è in procinto di avviare.

La caccia alle streghe

“La caccia alle streghe è la ricerca di persone o di prove di stregoneria, spesso legate a superstizione o isteria di massa.
Storicamente in Europa e in America riguarda il periodo che va dal 1450 al 1750 e comprende l’era della Riforma protestante, della Controriforma e della Guerra dei trent’anni. ( …)  Metaforicamente con caccia alle streghe si intende un’indagine pubblica condotta per scoprire supposte attività sovversive.”
(Fonte:Wikipedia) [1].

In questi giorni difficili, nei quali sono state modificate le nostre abitudini quotidiane, ci è stato proibito il contatto umano, giorni nei quali l’unico modo per esternare il nostro disappunto, il nostro malessere, la nostra frustrazione, è l’utilizzo dei social, si osserva il ritorno prepotente del fenomeno che ho citato sopra e dal quale ho preso spunto per scrivere queste mie riflessioni, ossia il ritorno della Caccia alle streghe.


Ma chi sono queste streghe e chi sono i cacciatori?

Potenzialmente lo siamo tutti, perché, a mio avviso, sono due ruoli intercambiabili, in base alla posizione che ci troviamo ad occupare in un determinato momento e in uno specifico contesto.
Provo a spiegare meglio la mia osservazione.
Non più tardi di ieri, girovagando, senza meta precisa, su facebook, mi sono imbattuta in lungo post, nel quale l’autore descriveva, con minuzia di particolari, una scena che aveva visto dal balcone di casa, casa dove lo scrivente riteneva di essere “recluso”, poiché ligio alle regole imposte dall’ordinanza nazionale, mentre le persone che stava osservando se ne andavano, tranquillamente, a zonzo, noncuranti dei divieti, fatto poi salvo scoprire che questi ultimi erano in giro per motivi di necessità.
Bene, direte voi, favola a lieto fine …
No, dico io, non proprio.
Il “cacciatore di streghe” in questione non si è accontentato della spiegazione che “le streghe” gli hanno fornito (ebbene sì, le streghe si sono sentite in dovere di giustificare il loro pellegrinaggio sotto casa del cacciatore, poiché intimoriti dallo sguardo inquisitore di quest’ultimo!), ma ha messo il “carico da novanta” contestando il fatto che fossero in numero esagerato (due genitori  ed un figlio piccolo) rispetto alla “comprovata necessità” che stavano andando ad espletare.
Questa è solo una delle tante cose che sto leggendo in questi giorni, giorni dove la “reclusione forzata” incomincia a farsi sentire e dove il bisogno di tacciare l’altro di qualcosa, sta diventando abbastanza comune e non controllabile.
L’ho portato ad esempio, perché mi è balzato agli occhi, come in un attimo, si possa diventare (magari inconsapevolmente) giudici supremi, dove, in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo, il nostro ruolo di cittadini, che hanno come “unico” compito quello di attenersi alle regole dettate dallo Stato, si sovverta e diventi quello di “poliziotto di quartiere” pronto a bacchettare il prossimo che non rispetta, a differenza sua, le regole.

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Quello che mi sto chiedendo da giorni è: spetta davvero a noi quel ruolo?

Siamo davvero sicuri di poterci fregiare del marchio di “cacciatore” senza pensare che potremmo essere noi, a nostra volta, le streghe, cioè i cacciati?
Io stessa, nel momento in cui sto scrivendo queste righe, non starò, a mia volta, assumendo il ruolo di cacciatrice di streghe , verso coloro che cercano le loro streghe da cacciare?
Tutte domande, queste, che mi riportano con prepotenza al mio lavoro di mediatrice di conflitti.
A tal proposito, facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa succede se proviamo a fare un parallelismo con quelle che sono le dinamiche che, noi mediatori,  vediamo nei percorsi di ascolto e mediazione dei conflitti.

Il confliggente, la maggior parte delle volte, vede nell’altro il nemico, colui che gli sta rovinando la vita, la persona che sta dall’altra parte della barricata, il nemico da battere appunto e, in quanto tale, non degno di umana pietas, di essere accolto nei suoi bisogni e, tanto meno, di essere capito.
Ed è, esattamente, quello che emerge dai post come quello sopracitato, dove l’altro diventa, necessariamente, un nemico pericoloso, colui che, non attenendosi alle regole, diventa diverso da noi (che siamo, invece, ligi al dovere) e, pertanto, potenzialmente pericoloso per gli altri perché ipotetico “untore”.
Anche durante gli ascolti dell’utente, nei percorsi di mediazione dei conflitti, si attuano vere e proprie “caccia alle streghe”, la persona che sta dall’altra parte del conflitto, viene spersonalizzata e non viene vista come essere umano con bisogni, esigenze e sentimenti, ma come “la cosa” che mette in pericolo la nostra incolumità psico-fisica, che disallinea il nostro equilibrio e che, quindi, va fermata ad ogni costo.    
Il compito del mediatore è proprio quello di provare, attraverso l’ascolto empatico e non giudicante, ad accogliere e rispecchiare i sentimenti che vengono portati, così da permettere a chi li prova di “vederli” attraverso un terzo(il professionista, per l’appunto), con l’auspicabile speranza che egli  possa riconoscere l’altro come simile a se e non come soggetto deumanizzato.


Ma da dove passa il riconoscimento dell’altro?

Passa, anche, attraverso il dialogo ed è proprio uno dei compiti  del mediatore quello di provare a creare un ponte di congiunzione tra i confliggenti che non si parlano più o se lo fanno, di sicuro, non si capiscono perché non si stanno ascoltando, aiutandoli a riaprire la comunicazione; esattamente come sta succedendo in questo momento storico, che definirei apocalittico, nel quale, troppo spesso, leggiamo, sentiamo, guardiamo quello che l’altro sta facendo, ma non lo capiamo, non lo ascoltiamo non lo vediamo e lo percepiamo non per quello che è realmente, ma per quello che ci fa più comodo che sia.
Forse, traendo spunto dall’insegnamento che la mediazione dei conflitti ci può offrire, quello che mi sento di suggerire (a me stessa, in primis, come umana) è di provare a rispecchiarci nell’altro, sospendendo il giudizio e provando ad ascoltarlo come persona e non come “elemento di disturbo o pericolo”.

Per concludere, mi sovviene alla mente una famosa canzone di Umberto Tozzi e di Raf del 1991 “Gli altri siamo noi” e, considerando il comune sentore di questo periodo, mi sono permessa di cambiarne il titolo:

“Gli altri siamo noi, sì, ma loro un po’ meno…” 

Daniela Meistro Prandi  

[1] Sulla caccia alle streghe, soprattutto ma non solo su quella scatenatasi negli USA dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sono stati pubblicati molti post su questo sito, in particolare nelle rubriche Corsi e Ricorsi e Politica e Conflitto. In particolare: Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per nienteA cavallo della paranoiaLa fine della caccia alle streghe moderna: il maccartismoL’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»Robert Kennedy: «Non abbiamo bisogno di odio»La guerra in casa dei cambogiani e degli americani. Diversi post, parlando di singole personalità cinematografiche o di particolari film, hanno proposto dei contenuti sulle logiche e sulle ricadute della caccia alle streghe nella principale industria culturale e di intrattenimento, il cinema: L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America FirstLa vita spericolata di Sterling HaydenJohn Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante.Con te, Marlene DietrichRichard Widmark, il cattivo “buonista” di HollywoodPaul Newman, un uomo oggiJohn Wayne, il divo più amato e odiato di tutti i tempiQuel volto nella folla che rispecchia un’orribile realtàLa caccia ai capri espiatoriRicordando Sal Mineo: lassù qualcuno lo ama. Inoltre il tema è emerso, sempre nei post di Corsi e Ricorsi, nei post Darwin e la libertà d’insegnamento e 23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti. Su Politica e Conflitto se ne fa cenno nel post “L’ascolto politico” come possibile ponte tra la testa e la pancia dei cittadini e della politica.

Tesi di Fabiola Briganti: mediazione familiare, un lavoro di rete

La tesi di Fabiola Briganti di fine corso (Edizione XI Corso in Mediazione Familiare Novembre 2017 – Maggio 2019, dell’Associazione Me.Dia.Re.) non si limita a descrivere l’evoluzione della mediazione familiare, dalla sua nascita in aree Inglesi e Americane alla sua diffusione in Europa sino a giungere in Italia e diffondersi a macchia di leopardo nelle varie regioni, ma pone l’attenzione soprattutto sulla sua diffusione in Emilia Romagna per svolgere delle riflessioni sugli elementi di novità e sulle potenzialità di quel modello organizzativo, fondato sulla prospettiva delle connessioni all’interno della rete dei diversi servizi.

Ad oggi il servizio di Mediazione Familiare è diffuso in tutti i Centri per le famiglie della regione, ogni centro presenta oggi un servizio dedicato con uno o due operatori formati, uno spazio allestito ad hoc ed un budget finalizzato”.

Può cliccare qui chi è interessato a leggere la tesi di Mediazione Familiare di Fabiola Briganti.

Le altre tesi sulla mediazione familiare dei partecipanti ai corsi di Me.Dia.Re. si trovano nella pagina Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…

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Sesto appuntamento di Note di mediazione: le parole dette da Fabrizio De André in un concerto del ’98

Nel sesto appuntamento con la rubrica Note di Mediazione, facendosi guidare dall’onda emotiva del momento che tutti stiamo vivendo, viene proposto non un testo di canzone, come negli altri appuntamenti, ma un testo relativo ad un “parlato” fatto da Fabrizio De André, durante il concerto, del 14 febbraio 1998, presso il Teatro Brancaccio di Roma, del Tour “Anime Salve”. In questo spaccato, Fabrizio racconta del significato etimologico di “Anime Salve”, ossia “Spiriti Solitari“, che vuole essere una sorta di elogio alla solitudine. E’ proprio di questo sentimento che si parlerà nel video, di come questo sia comune e diffuso tra le persone che si trovano a vivere l’attuale periodo di isolamento sociale dovuto alle restrizioni messe in atto, per contenere la diffusione del Covid-19, e del parallelismo con i percorsi di ascolto e mediazione, nei quali, molte volte, il mediatore si trova a confrontarsi con la fatica ad esternarlo, per la paura del giudizio o di non essere capiti.

Conflitti virtuali e conflitti virtuosi

È ufficiale: viviamo oramai da giorni in un’atmosfera surreale. Quel futuro distopico di scenari apocalittici cui ci ha abituati la cinematografia mondiale pare essere entrato di forza, in maniera tanto improvvisa quanto subdola, nella nostra quotidianità, rivoluzionando le nostre abitudini e, perché no?, dando un duro colpo alle nostre, già poche, certezze.

Stiamo combattendo contro una minaccia che sfugge al nostro controllo; da un lato, non possiamo abbracciarci ed avere contatti ravvicinati; dall’altro lato, siamo costretti a convivenze forzate “0-24” che mettono a dura prova anche i rapporti più consolidati e forti.

Si sta insinuando, nei rapporti di tutti i giorni, già complicati, un nemico insidioso, perché invisibile, sul quale diventa difficile riversare la nostra rabbia, la nostra frustrazione e la nostra umana impotenza. E, dunque, la “valvola di sfogo” diventa il nostro PROSSIMO.

Insomma siamo “animali sociali”, ma anche – e di più – “animali conflittuali”. Non credo sia importante analizzare se ciò sia più un male che un bene. Credo più utile analizzare se si possa trasformare un conflitto in un “vantaggio”.

Trovo molto affascinante la lingua italiana; mi piacciono molto le parole… giocarci, in qualche misura stravolgerle e ricomporne in significato…

Le parole sono importanti

“Le parole sono importanti”, urlava esasperato Nanni Moretti nel bellissimo film “Palombella Rossa”. È vero: le parole sono importanti. Per questo è importante padroneggiarle.

Perché se è vero che “siamo responsabili di ciò che diciamo noi ma non di quello che capiscono gli altri” è altrettanto vero che un buon oratore/scrittore sa come indugiare per trarre gli altri in errore, conducendoli in un terreno conflittuale.

Mi è capitato di recente, nell’arco di una settimana, di ricevere per ben due volte due messaggi scritti (uno via e-mail ed un altro via Whatsapp) che si concludevano augurandomi “buona vita”

Faceva capolino, in maniera piuttosto evidente, tra le righe, un sottinteso e neppure troppo timido “vaff….”.

Debbo fare un mea culpa: non ho fatto nulla, nelle due occasioni, per evitarlo, avendo scelto di “abbracciare” le provocazioni che mi giungevano, forti, da quelle comunicazioni, e anzi intrattenendo con loro un improbabile fox trot (ammetto di non sapere ballare…).

Dunque, lo ammetto, ho scelto consapevolmente un registro di comunicazione volutamente provocatorio, avendo intercettato una buona dose di mala fede nelle comunicazioni suindicate.

Già che siamo in vena di confessioni, ammetto anche che i due interlocutori non rientravano tanto nelle mie grazie, di talchè li ho anche un pochettino “usati” per liberarmi della tensione maturata negli ultimi giorni; giorni nei quali ho dovuto riorganizzarmi il lavoro da casa…

Quale sarebbe stata l’alternativa? Beh, sicuramente avrei potuto utilizzare un “tono di scrittura” più accattivante, più complice, più ammiccante, arrivando, nella sostanza, ad esprimere lo stesso concetto, e dunque alla fine difendendo in egual misura le mie idee.

E forse mi sarei portata a casa un saluto più “urbano”.

Ma, oramai avevo deciso di sviscerare in tutta la sua potenza la mia insofferenza verso i miei due sfortunati interlocutori.

Siamo noi a decidere se i nostri conflitti restano virtuali, se diventano virtuosi o se arrivano al punto di non ritorno

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Qual è la morale di questo aneddoto? Potrebbe essere questa: anche ammettendo di essere provocati, il più delle volte siamo noi che decidiamo quale registro dare alla discussione. Siamo noi a decidere se il conflitto si manterrà su corde meramente virtuali, se si alzerà fino a diventare virtuoso o se, invece, si incupirà fino a giungere ad un punto di non ritorno.

E questa consapevolezza diventa importante, perché ci permette di scegliere. E la capacità di “scelta” è la nostra vera e unica libertà, che travalica i confini cui ci costringe questo difficile periodo.

Dunque…BUONA VITA A TUTTI (nel senso più letterale e virtuoso dell’espressione).

Monica Checchin

 

La campana della solidarietà sociale

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».

John Donne,
Da Meditazione XVII

Esistono dei rintocchi di campana che tutti sono chiamati ad ascoltare. Sono rintocchi di campana udendo i quali occorre destarsi e rispondere. E tale incombenza grava anche su coloro che sono imparziali e neutrali per professione.

Il mediatore non dà consigli quasi mai

In ogni percorso di mediazione familiare o di mediazione dei conflitti in altri contesti, in ogni percorso formativo per acquisire le competenze di mediatore familiare, penale o in altri ambiti, e in ogni corso sulla prevenzione e gestione dei conflitti, si ripete che il mediatore non dà consigli né propone esortazioni ad agire in un determinato modo, così da restare davvero completamente esterno al conflitto [1]

Il limite (ovvio) all’imparzialità del mediatore

Quest’estraneità al conflitto, quale fondamento dell’imparzialità del mediatore, però, non è inderogabile in modo assoluto.

Così, ad esempio, la mediazione familiare non è percorribile nei casi in cui quello interno della coppia non sia un rapporto conflittuale e basta, ma un rapporto – che lo si voglia o meno considerare conflittuale – caratterizzato da violenza (al tema abbiamo dedicato alcuni post nella rubrica Riflessioni e, in particolare, i seguenti: La mediazione familiare e la violenza e La mediazione familiare va sospesa nei casi di violenza psicologica). Perché, in tal caso, la vita, la sicurezza, l’integrità e la libertà della persona prevalgono sulla ratio soggiacente alla regola dell’imparzialità e della neutralità e quindi a quella del non dare consigli alle parti, nel predetto senso, appunto, di non prendere posizione rispetto al merito della questione.

Sono le situazioni nelle quali sull’aspetto professionale, e sulle sue regole e logiche sottostanti e sovrastanti, prende il sopravvento un’altra dimensione: l’appartenenza del mediatore ad una comunità, quella costituita dal consorzio umano.

Quella dell’emergenza da Coronavirus costituisce, senza dubbio, una situazione nella quale  sopra ogni altra istanza s’impone l’appartenenza al consorzio umano anche per i professionisti della mediazione, si tratti di mediatori familiari, penali o civili e commerciali, ecc.

Il che significa, in concreto, non soltanto che anch’essi sono tenuti a rispettare nella loro attività professionale i limiti e gli accorgimenti dettati dalle disposizioni normative vigenti nella particolare condizione di questo momento, ma che, al pari di altri professionisti, hanno la facoltà – viene voglia di dire: l’onere – di prendere posizione (e di farlo pubblicamente e non soltanto nell’ambito della loro attività al cospetto delle parti), cioè: di  associarsi alla raccomandazione di rispettare le misure normative adottate per prevenire l’estendersi del contagio.

I doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale

È quasi pleonastico ricordare che tutti noi, come cittadini, oltre ai diritti, abbiamo anche i doveri. Non per caso tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana ci sono quelli di cui all’art.2.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

Tocca a noi, quindi, a tutti noi, nessuno escluso, di essere artefici, in questa occasione dell’attuazione della Costituzione repubblicana. Cioè, ci tocca adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà che la Costituzione richiede a tutti noi. Non sollecita, ma richiede.

“Non mandare a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.”

In effetti, se non vogliamo essere affetti da imperdonabile e irreparabile ottusità autolesiva, questa volta ci tocca riconoscere quel che troppe volte non abbiamo voluto ammettere, cioè: citando e parafrasando spudoratamente John Donneogni morte d’uomo ci diminuisce, perché nessun essere umano è un’isola, perché ogni uomo è parte della terra, una parte del tutto. Quindi, dato che la morte di ciascun uomo ci diminuisce, visto che facciamo parte del genere umano, non chiediamoci per chi suona la campana. Questa volta, inequivocabilmente, suona per noi. E sta suonando.

D’altra parte, vale la pena sottolineare che il passo citato di John Donne è una meditazione compresa in un’opera intitolata “Devozioni per occasioni d’emergenza”.

Alberto Quattrocolo

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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[1] Perché? Per diverse ragioni di natura relazionale, connesse per lo più ai diversi risvolti delle dinamiche relazionali, inclusi quelli che rinviano al rischio di un suo coinvolgimento nel conflitto. Quindi, ad esempio, in sede formativa, si mette in guardia dalla possibilità che la proposta di un’esortazione, di un consiglio o di un suggerimento, comunicata ad una parte in conflitto equivalga a farla sentire giudicata negativamente, dato il rischio che ad essa, attraverso questa o quella indicazione, possa giungere anche un’implicita disapprovazione per la sua condotta. Sebbene i mediatori, quindi, non possano e non debbano dare consigli, né sbilanciarsi, prendendo posizione, ci sono situazioni nelle quali possono legittimarsi a derogare alla regola. Si tratta di situazioni particolari, fuori dall’ordinario. Situazioni, nelle quali sono in gioco temi o aspetti fondamentali della convivenza. Sono quelle situazioni nelle quali il mediatore si misura con il dato di fatto che Nessun uomo è un’isola e, in qualche misura, non può, e/o non deve, chiamarsi del tutto fuori dal conflitto che gli sta davanti. A questo proposito, sono diversi i post  della rubrica Politica e Conflitto nei quali abbiamo preso posizione rinunciando esplicitamente ad ogni pretesa di imparzialità, che, a nostro parere (sarebbe equivalsa a biasimevole indifferenza) rispetto a condotte e fenomeni che ritenevamo intesi a sgretolare le più basilari fondamenta della convivenza civile, sicché il presente post non costituisce di per sé una vera novità rispetto alla “politica” di Me.Dia.Re.