La violenza sui social e la mediazione dei conflitti: una proposta di Social Media Conflict Management

Il 15 ottobre del 2019 Enrico Mentana condivide sui social (cioè sulla sua pagina Facebook) un articolo di Openonline, scrivendo «Fatelo vedere a coloro a cui tenete, a cui volete bene, ma anche a chi dubita o non si fida. Dalla parte di Eva, contro l’invasione». L’appello al mondo di questa bambina curda, Eva, suona così: «Fermate questa guerra. Quando mi restituirete la mia infanzia?». Nel video, la bambina, intervistata da una tv curda, rivolge il proprio messaggio all’Unicef, all’Onu e a Trump.

Il post di Mentana ottiene 13.255T like, 5482 Condivisioni e 719 Commenti.

Le facce in gioco (non solo su Facebook)

Tra i commenti c’è quello di Alessandra Raggi:

DAL 2011 VI SIETE SVEGLIATI ORA SUL CAPITOLO FINALE.

La risposta di Enrico Mentana suona così:

Alessandra Raggi parli per lei, cialtrona.

La replica di Alessandra Raggi:

Enrico Mentana non me lo aspettavo da lei un commento del genere. Noi facciamo protesi ortopediche per tutti gli amputati in Siria. Non credo di essere una cialtrona.

Gli interventi che seguono sono di condanna senza appello per Mentana, salvo qualcuno che ne prende le difese, giustificandolo per il fatto che ha che fare con tanti commentatori ottusi.

La capacità infettiva della violenza verbale sui social

Qui non ci troviamo davanti a leoni da tastiera, con la bava alla bocca [1]. Enrico Mentana e Alessandra Raggi, giova ripeterlo, non sono due leoni da tastiera. Però, sono immersi in un clima intriso di violenza verbale. E da ciò, verosimilmente, è sorto l’equivoco. Il commento di A. Raggi, sembrerebbe, è stato interpretato da Mentana come diretto a lui e come offensivo. Quindi, è plausibile supporre che abbia reagito alla comunicazione di lei con un tono offensivo simile a quello percepito in quel commento. Sentendo attaccata ingiustamente l’immagine di sé, ha ribattuto sullo stesso registro, aggredendo l’immagine di sé della sua interlocutrice.

A nessuno di coloro che hanno proposto ulteriori commenti, neppure al sottoscritto, è venuto in mente di tentare un intervento che “salvasse la faccia” di entrambe le persone. Perché? Forse, perché, in fondo, avevamo altro da fare. Forse, però, anche perché siamo abituati a queste interazioni, essendo tutti immersi in una comunicazione connotata dall’assenza di considerazione per la sensibilità dell’altro. Ed è un’abitudine che ci impoverisce.

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La de-umanizzazione dell’altro nella comunicazione sui social

La comunicazione conflittuale sui social, infatti, è quasi sempre centrata non tanto sui contenuti ma sui risvolti relazionali (nei commenti al post di Mentana il contenuto da lui proposto – l’appello della bambina e l’invasione da parte della Turchia di Erdogan – quasi sparisce). E si tratta, in moltissimi casi, di relazioni di marca conflittuale e all’insegna dell’escalation più intensa. In questi scambi comunicativi, chi scrive tendenzialmente non pensa all’altro come ad un essere umano simile a sé. Ci si può chiedere se, avendocelo davanti in carne e ossa, gli si parlerebbe allo stesso modo. Può darsi anche di no, ma questa considerazione non è particolarmente rassicurante. Perché è facile rilevare come questa dinamica relazionale de-umanizzante, sviluppatasi sui social, possa trasferirsi dal piano della realtà virtuale a quello della realtà fisica. Come una sorta di educazione all’odio.

Legittimazione culturale e morale della violenza

Si può parlare al riguardo di legittimazione culturale e morale della violenza[2] Con tale espressione si intende evidenziare che più è diffusa e condivisa la rappresentazione di un gruppo di persone come soggetti sub-umani, più diventa moralmente lecito offenderli, aggredirli e finanche augurargli la sofferenza, gioire per la loro morte…. In ultimo, ammazzarli. Infatti, la de-umanizzazione mediatica priva quelle persone di una protezione rilevante: se rispetto ad un essere umano o ad un gruppo di esseri umani viene meno nella coscienza collettiva il principio dell’inviolabilità assoluta della loro persona, qualsiasi offesa verso di essi cessa di essere moralmente disapprovata, non venendo più considerata ingiusta, incivile, bestiale. Anzi, può addirittura diventare una condotta meritoria [3]

Ora questa dinamica però non è circoscrivibile al terreno partitico, o più estesamente politico, ma si sviluppa in ambiti relazionali e tematici diversi. E anche in questi abbiamo a che fare non con il conflitto e basta, ma con il conflitto violento, cioè con la violenza. Ora quali sono i meccanismi mentali nell’aggressore che la consentono/autorizzano prima, l’accompagnano durante la sua esecuzione e/o la giustificano ancora ex post?

Alcuni meccanismi mentali di auto-giustificazione della violenza

Mi limito a citarne alcuni:

  • “Nessun danno reale”: la persuasione che in realtà la condotta violenta non arrechi alcun vero effetto lesivo, quindi, non è violenta. Ad esempio, chi offende un’altra persona, si dice e dice ai suoi interlocutori: «Eh, capirai! Cosa gli avrò mai fatto di male?!». In questo ambito rientra l’espediente del confronto vantaggioso:
  • “La vittima non è una vittima”: l’aggressore incolpa la vittima di quel che gli è inflitto, perché, pensa, se lo merita. «Ma quale vittima! Ha avuto quel che si meritava! È colpa sua! La vittima sono io, in realtà!»
  • “Non ero consapevole”: l’aggressore agisce sulla spinta di emozioni molto forti, sulle quali non riflette, e ritiene che queste legittimino la violenza messa in atto. «Ero arrabbiato/esasperato/stanco/esausto/spaventato/indignato»
  • “La colpa è degli altri, è del sistema”: l’aggressore attribuisce ad altri (singoli, gruppi, organizzazioni, sistemi, ecc.) la responsabilità morale della sua condotta.

Istigatori e istigati alla violenza

Quest’ultimo meccanismo, quello dello scaricamento delle proprie responsabilità su altri, si lega ad un discorso più ampio. È troppo facile, infatti, dirsi e dire che gli unici colpevoli o responsabili sono i seminatori di odio e di violenza nel Web, magari pensando a quelli animati da precisi intenti politici. Non perché non ci siano, ma perché se la loro opera di istigazione funziona è perché ci sono molte persone che si lasciano istigare.

Ora facciamo un esempio un po’ datato. Il 15 aprile 2017, il quotidiano La Repubblica proponeva un’intervista ad un signore che aveva attaccato la presidente della Camera dei Deputati, commentando in termini offensivi e rilanciando su Facebook la falsa notizia (diffusa dal sito “Avanguardia nera”) secondo la quale la sorella di Laura Boldrini stava gestendo alcune cooperative che si occupavano di migranti e stava beneficiando di una pensione ottenuta a 35 anni. In realtà, la sorella di Laura Boldrini era morta da anni per una malattia. Si trattava, dunque, di una bufala. E il signore intervistato, il quale su Facebook aveva scritto che le persone citate nella news facevano schifo così come i loro elettori, si è scusato con Laura Boldrini, spiegando di aver creduto in buona fede alle veridicità del fatto. La rabbia provata, come già altre volte, ha detto, lo aveva indotto ad esprimere sul web il suo schifo.

«Scriverò a Facebook protestando per il fatto che fanno girare notizie false», aveva aggiunto. «Come facciamo noi che non abbiamo strumenti a distinguerle dalle vere? Devono dircelo loro, altrimenti per colpa di altri facciamo la figura dei cretini. Se non avrò rassicurazioni, mi cancellerò dal social. Non voglio che loro guadagnino i soldi della pubblicità a scapito anche della povera gente come me. Ma non finisce qui».

Da social ad anti-social

Infatti, non finisce lì: non finirà mai lì, finché cercheremo all’esterno colui che fa muovere le nostre dita sulla tastiera allo scopo di socializzare, agendole, le nostre emozioni.

Da simili dinamiche può derivare la tendenza, fin qui inarrestata, alla trasformazione della destinazione originaria dei social nella loro antitesi terminologica, in anti-social, cioè in cloaca dei peggiori modi comunicativi, in negazione ogni rilevanza alla relazione, al sociale. Se ciò è raccapricciante sul piano culturale, è anche preoccupante in termini di sicurezza e legalità. Mi riferisco, di nuovo, alla legittimazione culturale e morale della violenza.

Cosa può fare la mediazione dei conflitti?

Ora quali sono le possibilità per reagire a questa tendenza generale? Rispondiamo all’odio con un  odio frutto della paura, dell’angoscia, che quell’odio ci suscita? Reagiamo con la violenza verbale alla violenza verbale? Demonizziamo per replicare alla demonizzazione di chi comunica in modo violento e, facendolo, la diffonde, finendo così con il contribuire alla demonizzazione e alla legittimazione culturale della violenza?

La de-escalation

Certo questa opzione esiste ed è la più largamente usata. È una risposta conflittuale. Ma, occhio, ché l’altro cui si indirizza la nostra risposta indignata, non è tanto diverso da noi. Nel senso che, molto spesso, non si sente un aggressore ma un aggredito. Meccanismi di autogiustificazione? Può darsi, ma il fatto è che ci crede. Si sente una vittima non un carnefice[4].

Un’altra opzione a disposizione è la de-escalation, la quale, infatti, tenta proprio di disinnescare le premesse della violenza, a partire dalla de-umanizzazione, e tenta di ridare efficacia comunicativa alla parola.

La mediazione dei conflitti, quindi, che fa largamente ricorso alle tecniche di de-escalation, se fosse declinata anche sui social,adempirebbe anche ad una funzione culturale: riabituare a pensare, a leggere e a ragionare, anche sui social. In controtendenza con la propensione ad assecondare l’inclinazione a produrre solo pensieri brevi, facili facili, perché il limite massimo intellegibile dall’utente medio sarebbe una manciata di caratteri e il tempo limite di attenzione un minuto, dieci secondi e due primi. Scrivere e pensare in termini facili sui social induce a fare lo stesso in altri ambiti, e questo impoverimento è il terreno ideale su cui far crescere la mala pianta della violenza, che include l’intolleranza, l’emarginazione, la discriminazione. La violenza, infatti, sorge anche quando ci mancano le parole. E non è un’amica intima della democrazia, come non lo è il non-pensare.

Il Social Media Conflict Management

Come spiega anche Umberto Galimberti,

non si può formulare un pensiero se non si hanno le parole per farlo.

L’aggressione, però, è anche un modo di comunicare: un modo di comunicare svolto senza pensare, senza parole pensate.

Quindi, la necessità di una funzione di Social Media Conflict Management (per usare un’espressione altisonante) potrebbe iniziare ad essere ravvisata. Se accadesse, non sarebbe un fatto di poco rilievo. Anche, perché, per quanto ben intenzionati, non possono bastare gli appelli all’autoregolamentazione (come “ragazzi, diamoci tutti una calmata”). Sembra plausibili ritenere, quindi, che chi si occupa di mediazione familiare e di mediazione in altri ambiti caratterizzati da pregnanti risvolti relazionali – e quindi è propenso a concentrarsi su tali aspetti – debba considerare in maniera sempre più seria la possibilità di proporsi ad enti privati e pubblici, incluse le organizzazioni politiche come Social Media Conflict Manager.

Alberto Quattrocolo

Tratto dalla relazione di Alberto Quattrocolo  nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”

[1] Eppure ci sono anche questi e sono una parte rilevantissima di coloro che scrivono su Facebook e su Instagram. Non da sempre esistono, però. Si potrebbe pensare che siano apparsi sulla scena quando l’odio è stato sdoganato come sentimento nobile a discapito degli altri sentimenti e degli altri atteggiamenti relazionali, quelli all’insegna dell’amore, della tenerezza, dell’empatia, che, per gli odiatori, sono leciti se indirizzati verso soggetti neutrali (i gattini, i propri figli, nipoti, genitori, partner, ecc.), ma non verso soggetti che, in una prospettiva di conflittualità radicale, radicalizzata e diffusa, assurgono alla poco invidiabile posizione di soggetti divisivi. Ne cito un esempio che vale per tutti: gli stranieri. Occhio, non gli stranieri in generale, ma gli stranieri presenti in Italia, e non tutti gli stranieri, ma solo gli immigrati stranieri. Non è, questo, il solo esempio considerabile e, come è ovvio, si tratta di un tema che una certa area della politica ha fatto di tutto per renderlo divisivo. In effetti, se si fa un salto indietro nella memoria, si può facilmente rilevare come la violenza verbale sui social sia sorta, almeno nella sua dimensione più capillarmente estesa, proprio in ambito politico, su stimolo di precise organizzazioni politiche, che hanno cercato e trovato un modo per dare voce a rabbia, invidia, frustrazione, solitudine, ansia, amplificando tale voce nei toni e moltiplicandola all’infinito in una crescita esponenziale di cori: il più delle volte con incitazioni esplicite alla demonizzazione, quali condividi se sei indignato o vergogna! – Su tali aspetti ci si è soffermati in diversi post della rubrica dell’Associazione Me.Dia.Re. Politica e Conflitto

[2] Si è fatto riferimento, negli ultimi tre anni, più volte, a questo concetto in diversi post pubblicati sulla rubrica Politica e Conflitto e, in particolare, nei seguenti: Colpa della vittima?, Autorizzazione della violenza, La politica della scorrettezza politica, C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza), La criminalizzazione dell’avversario.

[3] Che le campagne d’odio funzionino, del resto, lo ha dimostrato alla grande il Terzo Reich, e non per caso, ancora oggi, il Manuale della Propaganda di Goebbels trova delle applicazioni quasi alla lettera.

[4] Ci si riferisce agli odiatori spontanei, non a quelli prezzolati, ovviamente, o a quelli che prima progettano e poi danno il via alla campagna d’odio: per costoro i meccanismi di auto-giustificazione possono essere altri, come il classico “il fine giustifica i mezzi”. In tal caso, il fine, da chi svolge la campagna d’odio, può essere considerato perfino altissimo e nobilissimo, tale insomma da giustificare ampiamente la radicale violenza morale che si appresta a pianificare e commettere.

 

Quindicesima puntata di Conflitti in corso

Nella quindicesima puntata di Conflitti in corso commentiamo la mail inviata da una persona per descriverci i rapporti interni alla propria famiglia come “una guerra di tutti contro tutti”: però, si tratta di una guerra, causata o almeno scatenata, dalle difficoltà economiche ed occupazionali che da molti anni stremano le energie di questa famiglia. Nel commento, recuperando anche l’esperienza quasi decennale del nostro Servizio gratuito SOS Crisi, riflettiamo su alcune dinamiche interne ai rapporti tra i membri che possono contribuire a spiegare come mai costoro, invece di far fronte comune al pericolo comune, possano arrivare ad isolarsi l’uno dall’altro, ad incolparsi vicendevolmente e perfino, come scritto nella mail, a “sbranarsi” l’un l’altro.

La mediazione e lo sviluppo delle comunità

La mediazione può essere uno strumento di promozione dello sviluppo locale di una comunità?

Per rispondere a questa domanda è necessario chiarire alcuni termini.

Mediazione? Quale mediazione?

In primo luogo quello di “mediazione”, visto che vi sono più modelli. Quello qui considerato è l’approccio “umanistico trasformativo”: un modello che pone particolare attenzione alle dinamiche relazionali che si sviluppano nel conflitto e alle emozioni sottese a tali dinamiche.

La prima sensazione sperimentata da chi è in conflitto è quella di perdere il controllo della situazione, che sfugge dalle mani. Le persone si sentono impotenti di fronte ad una dinamica che sembra svilupparsi in maniera completamente indipendente dalle loro intenzioni.

Con la mediazione umanistico trasformativa si tenta di mettere le parti nelle condizioni di ritrovare il controllo e di prendere delle decisioni non dettate dalla dinamica conflittuale. Acquisiscono, cioè, la capacità di incidere sulla situazione conflittuale grazie, al miglioramento complessivo della comunicazione

Il che significa poter sbloccare le situazioni e favorire il passaggio dalla dimensione statica, nella quale nessuno si muove più dalle posizioni assunte, ormai irrigidite, a una condizione in cui si è ristabilito il dialogo.

Questo passaggi sono resi possibili dall’ascolto: questa mediazione, infatti, offre alle parti in conflitto uno spazio e un tempo in cui le emozioni provate nel conflitto possono essere dette sentite e accolte e, quindi, ottenere riconoscimento. Il riconoscimento, da parte del mediatore, del vissuto delle parti, della sofferenza in esse provocata dalla situazione conflittuale, permette loro di uscire da una dimensione solipsistica, estremamente autoreferenziale, e di sviluppare un atteggiamento disponibile ad accogliere il punto di vista altrui e ad aprirsi.

In definitiva, l’ultimo aspetto importante di questo modello di mediazione, in un’ottica di comunità, è la sua capacità di ristabilire il contatto tra le persone, cioè di promuovere la rigenerazione dei legami tra le persone.

In che senso sviluppo di comunità?

Il secondo termine su cui soffermarsi è quello dello “sviluppo di comunità”, cioè quel particolare approccio allo sviluppo locale che mira a stimolare l’organizzazione degli attori locali e il loro impegno nella definizione di progetti orientati a migliorare la qualità della vita delle persone, attraverso la valorizzazione delle risorse locali. Quindi, l’aspetto chiave di questa particolare approccio alla promozione dello sviluppo di un territorio è l’attivazione delle risorse locali, cioè la capacità intrinseca a tali processi di portare le comunità a riconoscere le risorse presenti sul territorio. Possono essere risorse di tipo materiale e immateriale, quali, ad esempio, competenze e capacità.

Secondo alcuni autori esistono due strade per rispondere ai problemi di sviluppo di una comunità. La prima è quella di focalizzarsi sui bisogni e sulle debolezze. Quali sono i bisogni di una comunità? Quali sono i problemi della comunità e come possiamo risolverli? La seconda strada, invece, comincia col concentrarsi sulle risorse. Quali sono le risorse e come facciamo ad attivarle? Come facciamo a usarle per promuovere un processo di sviluppo?

La prima strada – quella focalizzata sui bisogni – rischia di ingigantire i problemi di una comunità e di produrre una situazione di stallo in cui questi problemi diventano talmente grandi che è impossibile affrontarli.  In tal caso le comunità diventano immobili, in attesa che un intervento dall’esterno arrivi per porre fine ai loro problemi. Ad esempio, una progettualità sviluppata dall’amministrazione comunale o da un investitore esterno, che arriva sul territorio e porta un certo sviluppo.

Sviluppo locale centrato sulle risorse asset-based

Al contrario quello che si definisce uno sviluppo locale centrato sulle risorse asset-based consiste nel promuovere iniziative basate sulla riattivazione delle risorse locali: spesso le comunità che  vivono in territori marginali fanno fatica a riconoscere se stesse come entità, come luogo pieno di risorse. In effetti, per diventare realmente tali ovviamente vanno riattivate e vanno collocate all’interno di una progettualità specifica: quindi lo sviluppo locale centrato sulle risorse parte anzitutto da un processo di ricognizione delle risorse presenti sul territorio per poi dare luogo ad un processo di attivazione delle stesse

Ciò implica la partecipazione della popolazione locale alla costruzione di progettualità in grado di incidere sulla qualità della vita, all’interno del proprio territorio.

Empowerment

Un terzo elemento chiave è quello delle empowerment.

Alcuni autori lo traducono come capacitazione, ossia il restituire alla persona e ai gruppi sociali la capacità di affrontare i problemi che le coinvolgono e di incidere sulle loro condizioni di vita. Empowerment significa, quindi, sentire di essere in grado di incidere e di avere anche la capacità organizzativa per farlo.

Zimmermann individua tre dimensioni del processo di empowerment: la dimensione individuale, la dimensione organizzativa e la dimensione di comunità.

La prima dimensione ha come oggetto l’individuo e si riferisce alle azioni tese a far sì che la persona sviluppi la capacità e la consapevolezza di poter agire nel contesto locale, per produrre dei cambiamenti nel proprio contesto di vita. La seconda dimensione riguarda la capacità delle persone di organizzarsi per sostenere delle progettualità e produrre dei cambiamenti. La dimensione di comunità riguarda, invece, la capacità della comunità in senso più ampio di organizzarsi, quindi rimanda sia ai rapporti tra le organizzazioni sia alla capacità della comunità di essere inclusiva e di coinvolgere tutti i gruppi sociali

Il termine di empowerment quindi racchiude significati che riguardano l’ambito psicologico – appunto, la capacità personale di sentirsi in grado di agire – ma anche aspetti politico-organizzativi – cioè, la capacità di leggere il contesto in cui ci si muove per individuare le risorse necessarie a intraprendere determinate progettualità.

Conflitto e sviluppo di comunità

Veniamo quindi al termine “conflitto”, che può essere un elemento positivo per lo sviluppo di un sistema sociale.

Il conflitto è necessario e fertile, ma non lo è più quando si trasforma in accanita battaglia tra nemici che tendono all’eliminazione dell’altro”.

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L’escalation del conflitto

Quindi il problema non è tanto la presenza di un conflitto, ma la possibilità di affrontarlo in modo costruttivo. È normale che nelle comunità vi siano dei conflitti, ma oltre ad essere inevitabile, può anche essere un’occasione di crescita e di confronto. Il punto, quindi, è trovare una modalità per gestirli, i conflitti.

Il che chiama in causa l’aspetto più problematico, che non è il conflitto in sé, ma quello dell’escalation, cioè, un processo di progressiva intensificazione della dinamica conflittuale fino a raggiungere livelli d’intensità e di violenza particolarmente acuti.

Come sappiamo l’escalation è un percorso a tappe in cui all’azione dell’uno corrisponde l’azione della controparte e più si percorrono queste tappe più è difficile tornare indietro. Percorrere una tappa significa infrangere una regola e percorrere un’altra tappa significa infrangerne un’altra, e più si prosegue su questa strada più si riducono le possibilità e le disponibilità a fare retromarcia.  Così gli attori del conflitto continuano a perpetuare questo comportamento fino al punto che i costi superano di gran lunga i benefici: si arriva a desiderare la distruzione dell’altro al costo della propria autodistruzione. In questo processo ci sono alcuni aspetti ricorrenti: uno è ad esempio la demonizzazione e disumanizzazione dell’altro. L’avversario perde i suoi connotati reali, le sue caratteristiche peculiari, cessa di essere un nostro amico, un nostro parente, un nostro vicino di casa… Cessa di essere addirittura un essere umano! E diventa il male in persona. Anzi, la personificazione di tutti i mali!

Un altro tratto caratteristico dell’escalation è il portare le parti ad arroccarsi, ad irrigidirsi su posizioni, che diventano non trattabili, in quanto sempre più autoreferenziali, cioè sempre più centrate su di un unico punto di vista. Ne deriva che gli attori sono sempre meno disponibili ad accogliere il punto di vista dell’altro.

L’escalation del conflitto all’interno delle comunità e la leadership basata sulla contrapposizione radicale

L’escalation del conflitto all’interno delle comunità è forse ancora più difficile da disinnescare di quello interpersonale, perché alle dinamiche che riguardano il rapporto tra le persone – le dinamiche interpersonali, strettamente intese – si sommano dinamiche di gruppo, legate ad esempio alla costruzione della leadership. Così, può comparire il tema del “non poter perdere la faccia”. Ad esempio, per il leader di un gruppo che abbia costruito la sua leadership sulla contrapposizione e su una particolare posizione all’interno di un conflitto diventa molto difficile trattare. Poniamo il caso di un comitato di cittadini che nasce per opporsi alla localizzazione su un’area dismessa, su un vuoto urbano, di un supermercato, sostenendo che su quell’area è assolutamente necessaria la realizzazione di un giardino, poiché il quartiere è particolarmente privo di aree verdi e, quindi, si ritiene che un supermercato non porti alcun beneficio alla comunità, mentre lo potrebbe portare invece la localizzazione di un giardino. Supponiamo che si instauri così un dialogo con le istituzioni e che il leader di questo comitato di cittadini costruisca attorno a sé un bel po’ di consenso anche attraverso una certa radicalizzazione delle proprie posizioni. Supponiamo ancora che dopo un bel po’ di tempo l’amministrazione comunale decida di accogliere in parte le richieste di questo comitato di cittadini, dicendo: «Bene abbiamo creato un nuovo progetto, in cui il supermercato non è più grande come prima, anzi è molto più piccolo, e accanto al supermercato abbiamo deciso di fare un’area verde. E ciò grazie anche agli oneri di urbanizzazione che derivano dall’ edificazione di questo supermercato». In tal caso, sebbene la posizione dell’amministrazione comunale sembri conciliativa e razionalmente accettabile, potrebbe essere difficile per il leader di quel comitato accogliere tale soluzione di compromesso, perché la sua leadership si è costruita sull’opposizione radicale alla localizzazione del supermercato. Quindi il rendere più morbida la propria posizione, comporterebbe per lui il perdere la faccia di fronte ai propri sostenitori.

La demonizzazione dell’altro gruppo sociale

Il secondo aspetto peculiare è il fatto che nei conflitti che riguardano le comunità il processo di disumanizzazione demonizzazione dell’altro si estende spesso all’intero gruppo sociale alimentando i pregiudizi e le differenze tra culture diverse. Ad esempio, il conflitto con il nostro vicino di casa, che magari è straniero e magari è anche di colore, diventa un conflitto che coinvolge tutta la comunità straniera e tutta la gente di colore. Immaginiamo all’interno di un condominio che un gruppo di bambini di origine straniera residenti all’interno del condominio faccia molto rumore, giocando a palla, di pomeriggio, e che ci sia un gruppo di anziani residenti infastiditi da questo rumore: è possibile che in virtù delle dinamiche del conflitto, il problema si sposti e non si sia più un problema legato al rumore, ma diventi un problema di tipo culturale.

Le narrazioni mediatiche che alimentano il conflitto

Accade poi che il conflitto venga alimentato da un certo tipo di narrazione che viene fatta sui giornali: una narrazione in negativo, così, viene utilizzata dalle parti in conflitto per addurre motivazioni alle proprie posizioni e amplificare rafforzare le proprie posizioni.

Anche per queste ragioni appare fondamentale agire su questi territori in un’ottica preventiva:  non tanto per evitare che si inneschino dei conflitti, ma per evitare che questi conflitti raggiungano livelli di escalation difficilmente controvertibili, cioè che si superi quella soglia del non ritorno.

La mediazione come strumento di un più articolato sviluppo di comunità

In conclusione, la mediazione può essere un elemento che integra e arricchisce un disegno più articolato di sviluppo di comunità, in quanto capace di migliorare il clima relazionale della comunità, così da valorizzarne le risorse e promuoverne l’empowerment.

Ma quale contributo può dare la mediazione dei conflitti all’interno di un più complessivo processo di sviluppo di comunità?

Anzitutto, il rafforzamento e il sostegno al processo del processo di empowerment.  La mediazione dei conflitti viene spesso associata alla promozione dell’empowerment personale, perché, è noto come in un processo di mediazione si possano produrre cambiamenti personali profondi. Ma se ci muoviamo nell’ottica di ridare alle persone la capacità di agire, quindi di capacitarsi e di riprendere la situazione in mano, la mediazione può essere d’aiuto. Tuttavia il contributo della mediazione può riguardare anche le altre due dimensioni del empowerment: rispetto a quella più legata all’aspetto organizzativo, un contributo della mediazione sta nella sua capacità di stabilire ponti tra gruppi, basati sull’ascolto sincero del punto di vista altrui; inoltre la mediazione è particolarmente utile per raggiungere i gruppi più marginali, che rischiano spesso di essere esclusi dai progetti di sviluppo.

In secondo luogo, il contributo della mediazione potrebbe essere quello di restituire un volto umano all’antagonista. Nel processo di mediazione il contatto con l’avversario induce a relativizzare i propri stereotipi, ad andare oltre alle credenze negative e ai pregiudizi associati a determinati i gruppi sociali. E ciò è particolarmente importante in contesti in cui spesso e volentieri l’altro appartiene ad un’altra cultura e ha un altro colore della pelle.

In terzo luogo, è interessante la capacità della mediazione di far giungere le persone a soluzioni innovative. E questo ha un suo rilievo se si parla di sviluppo di territori in cui la capacità di innovare e di immaginare percorsi alternativi appare di importanza fondamentale. Si tratta spesso di territori che faticosamente stanno cercando di ricostruire un’identità, attraverso anche l’individuazione di risorse ancora latenti, quindi la mediazione potrebbe facilitare e accompagnare il percorso di individuazione ed emersione di nuove risorse, grazie alla sua capacità di stabilire contatti tra le persone e di favorire la ricerca di soluzioni innovative a situazioni problematiche.

Uno spazio di Ascolto e Mediazione dei Conflitti all’interno di un quartiere periferico

Un’ultima riflessione, di tipo progettuale, riguarda sia la possibilità di attivare uno spazio di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, all’interno di un quartiere periferico, e sia le caratteristiche che, in base alle considerazioni fin qui svolte, tale spazio dovrebbe avere.

Tale spazio dovrebbe essere aperto ai cittadini e gestito da un’equipe esperta, capace di offrire alle persone un ascolto e una possibilità di mediazione, nei casi in cui lo ritengano necessario o opportuno. Ma dovrebbe essere anche uno spazio di progettazione in cui dare luogo ad esperienze di cittadinanza attiva. Quindi gli operatori dovrebbero, da un lato, avere il compito di accogliere e ascoltare, ma anche di favorire l’empowerment e di favorire l’attivazione delle comunità su progettualità concrete.

L’obiettivo sarebbe l’attivazione dei cittadini attraverso l’ascolto e la gestione delle situazioni conflittuali, ma anche la gestione dei temi che si producono nell’ambito di questi conflitti.

Sarebbe utile che un simile laboratorio organizzasse anche iniziative di carattere formativo che contribuiscano a diffondere un clima più consapevole rispetto alla mediazione e all’ascolto dell’altro e che formino dei volontari affinché assumano un ruolo di antenne sul conflitto nel territorio.

Sara Mela

Tratto dalla relazione di Sara Mela nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

I doveri di informazione del mediatore familiare

Il lavoro del mediatore familiare non è, ad oggi,  regolamentato da un albo professionale, ma tutti, o gran parte dei mediatori familiari, fanno parte di un’associazione specifica di categoria, nel nostro caso l’A.I.Me.F. (Associazione Italiana Mediatori Familiari).
Lo Statuto dell’A.Me.F., ricomprende il Codice Deontologico atto a regolamentare la condotta di ogni singolo associato.
Facendo riferimento al codice deontologico, in merito ai doveri di informazione di ogni associato, si deve porre, a mio avviso, particolare attenzione a tre articoli, il 14, il 18 e il 19.
Più nello specifico, all’Art. 14 troveremo la definizione di Mediatore Familiare e di Mediazione Familiare mentre all’Art. 18 si entra nel merito della condotta professionale  degli associati e, punto per punto, si toccano i temi importanti:

  • Finalità
  • Descrizione del processo di mediazione familiare
  • Confidenzialità con l’utente e della Privacy
  • Integrità e imparzialità
  • autodeterminazione delle parti
  • Competenza professionale
  • Responsabilità legale del mediatore.

Ma come viene tradotto tutto questo in termini di doveri di informazione?
Per uscire dal tecnicismo del Codice Deontologico, ho pensato di raccontarvi quello che succede nella nostra stanza di mediazione familiare, durante il primo colloquio informativo.
Il nostro primo colloquio, che noi chiamiamo conoscitivo, è gratuito, avviene di presenza e, siccome il nostro metodo prevede che si inizi con colloqui individuali, anche questo avviene separatamente (salvo rari casi, preventivamente concordati).
Di solito, è nostra abitudine, fissare i colloqui nella stessa giornata o a pochi giorni di distanza, affinché le persone coinvolte possano avere le stesse informazioni e quindi gli stessi strumenti in mano, sin dall’inizio.

Ma che cosa avviene al lato pratico durante questo primo incontro?
Come prima cosa, ci presentiamo, raccontiamo quale sia il nostro titolo di studio, quale sia stato il nostro percorso per diventare Mediatori Familiari e quale l’associazione di riferimento, a cui siamo iscritte, in modo tale che, qualora vi fossero dubbi in merito, sul sito dell’associazione (A.I.Me.F.) possano trovare tutte le informazioni relative agli associati e, più in generale, alle regole della mediazione.
Fatte queste doverose premesse, descriviamo lo strumento della Mediazione Familiare, entrando nel merito di quali siano le sue  finalità, su chi sia e cosa faccia il Mediatore Familiare.
Più nello specifico, spieghiamo all’utente quale sia il modello di mediazione che utilizziamo (nel nostro caso, Umanistico Trasformativo Motivazionale) e quale il nostro principale strumento di lavoro, ossia l’ascolto empatico.
Un aspetto sul quale, durante questo primo colloquio, poniamo particolare importanza è quello di specificare come la nostra figura professionale sia  terza, neutrale, imparziale e non giudicante, capace di rimanere equidistante dalle parti, sul fatto che  non proporremo soluzioni o daremo personali valutazioni in merito alla loro situazione,  ma che li aiuteremo ad arrivare ad un accordo, in ottica Win-Win, direttamente negoziato da loro stessi, volontario e che tenga sempre al centro il bene primario dei figli, qualora ve ne fossero.
Particolare attenzione viene data al tema della privacy poiché, la maggior parte delle volte, chi si rivolge a noi ha paura che le cose dette possano, in qualche modo, uscire dalla stanza della mediazione e, nel caso dei colloqui individuali, possano essere riferiti all’altra parte della coppia.
Proprio per questo motivo, è nostra abitudine ripetere (a volte anche nei colloqui successivi) che tutto quello che viene detto o scritto nella stanza della mediazione, rimarrà in quella stanza, che non verrà riportato nulla all’altro utente e che eventuali documenti forniti (vedi 740, perizie, atti etc) verranno trattati nella massima riservatezza e riconsegnati non appena finito il percorso, così come non relazioneremo al giudice in merito al contenuto degli incontri.
Come ultimo aspetto, ma non per questo meno importante, passiamo alla descrizione di come si svilupperà il percorso di mediazione familiare, ossia della durata dei colloqui, sia individuali che degli incontri di mediazione, specificando quale sarà il numero massimo  degli stessi (oltre il quale non si andrà, poiché non sarebbero più funzionali al percorso intrapreso) sottolineando, però, come  la mediazione familiare, a differenza di altri percorsi più rigidi e schematici, possa essere cucita addosso alla coppia e quindi plasmabile in base alle loro necessità.
Non bisogna, infatti, pensare ad un percorso a senso unico, con una fine ed un inizio prestabiliti, ma  ad uno strumento flessibile dal quale, pur iniziando con colloqui individuali ai quali potranno seguire incontri di mediazione, qualora ve ne fosse la necessità (da parte di entrambe o anche solo di un componente della coppia) si possa fare un passo indietro e tornare ai colloqui con il singolo utente, per poi prendere nuovamente in considerazione gli incontri di mediazione e così via.
In ultimo si parla di tariffe, di quanto costi il singolo incontro, le sedute di mediazione e, nel caso, si valuteranno insieme le possibili modalità di pagamento.
Lasciamo, infine, la parola all’utente per eventuali domande su dubbi e perplessità emerse.
Capita, a volte, nei colloqui successivi, di tornare su alcune cose non recepite o non chiarite nel primo colloquio conoscitivo.
Come si può vedere, in questo ipotetico primo colloquio informativo,  sono stati toccati tutti i punti relativi agli art. 14 e 18.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Come indicato all’inizio, tornando proprio agli articoli del Codice Deontologico, ritengo sia importante analizzare l’Art. 19. nello specifico il punto B, dove si regolamenta la Cooperazione del mediatore familiare con altri Professionisti.
Nello specifico l’art. 19 recita così :
“Ogni mediatore dovrebbe rispettare le relazioni tra il processo di mediazione e altre discipline professionali incluse quelle del Diritto, della Contabilità commerciale e fiscale, delle Scienze Sociali e della Salute Mentale e dovrebbe promuovere la cooperazione tra mediatori, servizi sociali e altri professionisti.”
In una supervisione fatta recentemente, con i colleghi di Me.Dia.Re. , in quasi tutti i casi analizzati , è emersa una componente comune, fonte di criticità, ossia quella dei limiti e confini del mediatore familiare e, di conseguenza, della mediazione familiare.
Si è dibattuto, nello specifico,  in merito alla consapevolezza che il mediatore debba avere riguardo al limite della mediazione stessa ogni qual volta ci si renda conto che il percorso mediativo non sia più funzionale al caso trattato, oppure quando vi sia la necessità di consigliare ad una delle parti o alla coppia un percorso con altri professionisti, informandoli  che questi percorsi possono anche camminare in parallelo con il percorso mediativo o come questo possa essere sospeso e ripreso in un secondo momento.
Insomma, come debba essere “doverosa” la capacità  di fare rete con altri professionisti, per il bene primario degli utenti.
Quando si ha la corretta informazione relativa al lavoro delle varie figure professionali che possono entrare in gioco in un percorso di separazione o di divorzio, e quindi tra i professionisti stessi (invii, collaborazioni etc), sicuramente il lavoro che viene fatto sulla coppia diventa più completo, sopratutto quando la collaborazione tra le varie figure professionali viene fatta a 360 gradi.

Leggendo il titolo del mio intervento che fa esplicito riferimento ai doveri di informazione del mediatore familiare, sono certa che, a molti di voi, sia venuto in mente il ddl 735, conosciuto da tutti come Disegno di Legge Pillon, dal nome di uno dei senatori, che come primo firmatario, lo ha proposto.
Non è mia intenzione soffermarmi a lungo su questo argomento, ma sento la necessità di spendere qualche parola a riguardo.
Sono sicura che, tutti noi, mediatori familiari e non, ci siamo interrogati, sulle reali conseguenze che l’eventuale ddl, una volta divenuto legge, avrebbe portato nell’ambito della mediazione familiare, soprattutto qualora fosse entrato in vigore senza apportare le modifiche proposte dalle associazioni di mediazione familiare.
Io credo che, “in una società sempre più arrabbiata“,  l’obbligatorietà di un percorso come quello della mediazione familiare (che pone le proprie basi sulla volontarietà di partecipazione e l’autodeterminazione da parte degli individui coinvolti) sia davvero un’arma a doppio taglio.
Da una parte avremmo una partecipazione più ampia ed una conoscenza maggiore dell’esistenza  della mediazione familiare, ma, dall’altra, avremmo una percentuale alta di “insuccessi” poiché il percorso non verrebbe visto come strumento utile per trovare un accordo condiviso al di fuori delle aule di tribunale e per il bene primario dei figli, ma come una mera imposizione di legge.
Credo, altresì, che qualora venisse ripescato e fossero adottate le modifiche proposte, un primo colloquio conoscitivo gratuito potrebbe, invece, essere utile per diffondere più capillarmente la conoscenza della mediazione familiare, che non ha ancora, come invece dovrebbe, un posto in prima fila nel delicato ambito delle separazioni e dei divorzi.
Siccome il ddl 735, con il cambio di governo, risulta al momento congelato, tutti questi costrutti mentali  lasciano il tempo che trovano, ma fanno,comunque, riflettere.
Chiudo il mio intervento con un proverbio cinese, che racchiude il mio pensiero in merito al futuro della mediazione familiare, in una società sempre più difficile:

“Solo quando tutti contribuiscono con la loro legna da ardere è possibile creare un grande fuoco.”

Daniela Meistro Prandi

Tratto dalla relazione di Daniela Meistro Prandi nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

 

Quattordicesima puntata di Conflitti in corso

Nella quattordicesima puntata di Conflitti in corso rispondendo alla mail di una professionista della sanità, un medico, che racconta di essere stata aggredita sul piano verbale e fisico, nella struttura di emergenza e urgenza in cui lavora, dal famigliare di un paziente, svolgiamo qualche riflessione sulla violenza contro gli operatori (tema sul quale da anni lavora svolgendo anche percorsi formativi nelle aziende sanitariecorsi la propria sede come ente provider ECM). In particolare, ne video ci si sofferma, da un alto, su quei meccanismi mentali che sostengono e accompagnano l’aggressione negando che la vittima sia tale, ma anzi colpevolizzandola e giudicandola come responsabile dell’azione cui è sottoposta, dall’altro, sui rischi che sia la stessa vittima, in seguito, a colpevolizzarsi (o ad essere colpevolizzata da altri) per la violenza subita. Un cenno infine viene proposto sull’eventuale praticabilità di un percorso di Ascolto e Mediazione in tali casi.

 

La libertà della mediazione, tra “prassi” e “tecnica”

Avevo pensato di proporvi una storia per iniziare, che, mi sembra, calzi a pennello. Questi tipi di storie sono, a mio parere, di grande interesse, tant’è che l’ho proposta come spunto di riflessione anche nell’ultima supervisione svolta, citando la figura di Ifigenia, in particolare, per come venne proposta da Euripide.

Oggi la riprendo brevemente nella “versione” di Eschilo, collocandola nella storia della famiglia di Agamennone, che, appunto, narrò Eschilo nell’Orestea.

Perché è una storia importante ancora oggi, per noi che ci occupiamo di mediazione dei conflitti e di mediazione familiare?

Vi leggo le parole con cui descrive le relazioni all’interno di questa famiglia Raffaele Cantarella:

 Eschilo suggerisce che la prospettiva da cui guardare le azioni umane è duplice, ambivalente. Agamennone ha sacrificato Ifigenia non per capriccio, bensì per obbedire ad un bisogno del suo esercito, potremmo dire la ragione di stato. Per Clitennestra queste motivazioni, pur se reali e oggettive, non valgono. Individua la colpa terribile del marito nell’assenza di pietas per la figlia innocente. Approcci opposti dunque, inconciliabili. La tragedia li porta in scena esasperandoli fino alle estreme conseguenze a beneficio della riflessione di chi assiste.

Parto da questo punto di vista, poiché, secondo me, il teatro greco è emblematico e ricco di spunti per leggere molte situazioni di conflitto. Ora, è vero che, per fortuna, come mediatori, non assistiamo a conflitti di questo tipo, ma simbolicamente questa è un’immagine incredibilmente potente ed efficace.

Abbiamo a che fare, dunque, con un genitore che sacrifica la propria figlia a beneficio del Paese in cui vive e per svolgere una guerra che è mossa da motivi di puro orgoglio. Con l’Agamennone siamo in una fase che potremmo dire di “diritto privato” o, meglio, di “diritto arcaico”. Ma c’è un’evoluzione in Eschilo, poiché questa storia si sviluppa in una trilogia che comprende anche le Coefore e le Eumenidi.

Se le Coefore erano semplicemente quelle donne troiane che, quando Agamennone venne ucciso da Clitennestra, portarono dei doni sulla sua tomba. Le Eumenidi erano meglio conosciute come le Erinni ed erano delle divinità che perseguitavano coloro che si erano macchiati di atti empi, immorali, contro la famiglia.

Diventa, allora, estremamente interessante in questa ultima tragedia della trilogia vedere come proprio nell’ultimissima parte ci sia l’istituzione da parte della dea Atena di un tribunale.

In questa trilogia, quindi, si segna il passaggio dal diritto privato, cioè da un diritto basato sulla forza e sulla vendetta, ad un diritto che si esercita all’interno della polis. La polis è la città. È la comunità in cui noi ci ritroviamo come individui, come cittadini. Quindi, quando come mediatori parliamo di politica, di ministri, di tribunali, dobbiamo considerare che in mezzo a quegli “oggetti”, apparentemente astratti, ci siamo anche noi. Perché anche noi siamo (in) quell’istituzione lì. Lo siamo come cittadini. Però, a me viene da dire che lo siamo anche come mediatori.

Era questo ciò a cui intendevo arrivare. Cioè, precisare che la mediazione non è una pratica che si realizza al di fuori delle istituzioni. La mediazione, attualmente, sempre di più si inserisce in questo quadro di insieme.

Ora, cosa ce ne facciamo della mediazione in quella che abbiamo definito una società sempre più arrabbiata?

La mediazione può avere questa funzione che è quella di prestare ascolto alla cittadinanza e porsi in qualche modo come intermediaria, come cinghia di trasmissione tra la cittadinanza e la politica. Fra la cittadinanza e l’istituzione. Perché è chiaro, da un punto di vista manualistico, ideale, che noi siamo l’istituzione, ma è anche vero che, in questo momento storico, non possiamo non notare che tra i cittadini e l’istituzione c’è una sorta di separazione (o almeno questa è la percezione che si ha).

Invece la mediazione, dal mio punto di vista, può avere un grandissimo ruolo, insieme a tante altre buone pratiche, affinché si rinsaldi il legame sociale.

A questo punto, mi sembra fondamentale pensare al concetto di obbligatorietà della mediazione. Un concetto, questo, che è stato molto dibattuto, soprattutto nell’ultimo anno prima della caduta del governo giallo-verde, a metà agosto.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Perché se la polis, la città, lo stato, è il luogo in cui il cittadino esercita la propria libertà, come può uno stato obbligare il cittadino a seguire, un percorso contro la propria stessa volontà? Sono rari i casi in cui lo stato è tenuto per la sicurezza di tutti a esercitare la propria forza.

Ma siamo sicuri che vogliamo che la mediazione diventi obbligatoria?

Alla fine di tutti gli interventi spero si apra un dibattito e credo che questa sia una delle cose che più interessanti: sentire anche le vostre voci.

Personalmente sono d’accordo con l’obbligatorietà del primo incontro informativo, ma credo che di questo si sia parlato in più occasioni anche in altre sedi. Se, invece, fosse l’intero percorso ad essere reso obbligatorio, allora la questione diventerebbe sempre più problematica. Infatti, in questo momento, come ricordava Isabella Buzzi, stiamo andando verso una società che è sempre più tecnicizzata, burocratizzata, e mi vien da dire che alla razionalità pratica vera e propria, si sostituisce una razionalità tecnico procedurale, la quale è così concentrata sui mezzi attraverso cui raggiungere i fini che non riflette sulla bontà dei fini stessi.

Quindi, capite che quando la razionalità politica, che è quella che dovrebbe riflettere sulla bontà dei fini, si affida solo e unicamente sulla correttezza delle procedure da seguire, diventa una razionalità francamente fallimentare. A questo punto, da mediatore, ma soprattutto da cittadino, mi chiedo, come società, stiamo andando nella giusta direzione?

Tratto dall’intervento di Maurizio D’Alessandro Obbligatorietà dell’intervento mediativo. La libertà tra “prassi” e “tecnica” nell’esperienza del progetto SOS CRISI nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

Tredicesima puntata di Conflitti in corso

Nella tredicesima puntata di Conflitti in corso, rispondiamo alla mail di una donna la quale racconta che durante le vacanze di Natale lei e il marito hanno deciso in maniera definitiva di separarsi e e che lo hanno comunicato ai loro bambini.

Nella mail la donna chiede:

«Se siamo d’accordo sul fatto di separarci, perché dovremmo fare una mediazione?».

Nel risponderle nel video precisiamo che la mediazione familiare non ha lo scopo di far restare unita una coppia intenzionata a sciogliersi. La mediazione familiare sorge per aiutare i protagonisti a gestire l’eventuale conflitto legato alla separazione.

Inoltre, nel commentare altri passaggi della mail, nel video si ricorda che, pur essendo sorta per tutelare i figli dagli effetti della relazione conflittuale tra i genitori, la mediazione familiare non è – e non va intesa – come una sorta di processo ai genitori, come se fossero messi sotto accusa per il solo fatto di essere in conflitto. La mediazione familiare è a-valutativa e neutrale non solo perché non giudica le posizioni delle parti e non si schiera con l’una o con l’altra, ma anche perché non giudica e non si schiera contro il loro essere in conflitto (su questi aspetti sono anche stati scritti alcuni post nella rubrica Riflessioni e in particolare La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto).

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Dodicesima puntata di Conflitti in corso

In questa dodicesima puntata di Conflitti in corso commentiamo la mail di un uomo che sta vivendo alcune difficoltà con il suo partner. In particolare, ci soffermiamo su due aspetti.

Uno è quello relativo al suo dubbio relativo al fatto che quello con il suo partner possa essere considerato un rapporto conflittuale e se possa quindi, in presenza di tale incertezza la mediazione possa essere d’aiuto.

L’altro aspetto riguarda il rilievo di come le tensioni all’interno della loro coppia che quest’uomo ha citato nella sua mail siano legate al diverso modo con il quale lui e il suo compagno reagiscono ai pregiudizi e alla violenza omofobica.

Su quest’ultimo aspetto, nel video, si propongono delle considerazioni relative al rischio che, volendo proteggere se stessi e le persone alle quali si vuole bene dalla sofferenza procurata dalla violenza e dalla cattiveria altri, si invii involontariamente un tacito messaggio di ridimensionamento e di svalutazione della gravità delle offese scagliate da quella parte del mondo che sceglie di odiare.

 

Undicesima puntata di Conflitti in corso

In questa undicesima puntata di Conflitti in corso commentiamo la mail di un uomo che, appena assunto, ha scoperto di dover gestire un conflitto che spacca in due l’intero gruppo dei volontari che è chiamato a coordinare.

Quest’uomo ci ha chiesto:

«Come mi suggerite di procedere visto che questi volontari sono tutti in gamba, tutti motivatissimi e convinti di ciò che fa l’organizzazione, ma anche convinti e determinati nel farsi la guerra tra di loro?».

Nel video consideriamo i rischi dell’estensione del conflitto. In particolare, quelli derivanti dalla possibilità che il coordinatore sia vissuto da entrambe le parti come alleato della controparte, o come contrapposto ad entrambe. Ma osserviamo anche alcune caratteristiche di questo conflitto, che ne segnalano un’escalation significativa: l’indisponibilità sostanziale al dialogo da parte delle due fazioni; la reciproca spersonalizzazione; la sfiducia e perfino la sospettosità con cui ciascuna parte interpreta atti e atteggiamenti della controparte; la tendenza di entrambe le parti ad attribuire la colpa dell’avvio del conflitto alla controparte; i tentativi di tutte e due le fazioni di trasformare il coordinatore in un proprio alleato.

Sulla base di queste osservazioni, nel video, si propongono delle ipotesi di approccio.

 

Decima puntata di Conflitti in corso

Nella decima puntata di Conflitti in corso commentiamo la mail di una donna, in lite con il marito, che ci chiede:

«A cosa serve mediare se non si ha alcuna intenzione di raggiungere un accordo?»

La risposta proposta nel video include anche alcune precisazioni sul modello di mediazione familiare proposto dall’Associazione Me.Dia.Re., il quale tiene conto anche della solitudine in cui spesso il conflitto confina coloro che ne sono protagonisti. Da ciò, deriva una possibile utilità della mediazione (vi abbiamo dedicato numerosi post sulla rubrica Riflessioni, tra cui questo)

In sintesi, l’opportunità della mediazione in situazioni come quelle descritte dall’autrice della mail commentata, può essere quella di trovare qualcuno – il mediatore – che, ascoltandoci individualmente, ci aiuta a ritrovare quelle parole che il conflitto, nel suo dispiegarsi in liti accese o in silenzi pesanti, spazza via, e che, poi, ci chiede se quanto emerso e comunicato a lui, vogliamo tentare di veicolarlo all’altra persona con cui siamo in conflitto, affinché questa, ad esempio, non possa continuare ad eludere la conoscenza del nostro punto di vista, delle nostre ragioni, dei nostri sentimenti. Se la cosa ci interessa, il mediatore offrirà lo stesso spazio di ascolto individuale alla nostra controparte e porrà anche a lei un analogo quesito. Se anche questa è interessata al confronto, allora si procede alla fase dell’incontro. E negli incontri di mediazione, la funzione del mediatori continua ad essere quella di facilitare la comunicazione, di ridare vigore comunicativo alle parole delle parti, di agevolare il confronto.