Il conflitto non ha genitori e il mediatore deve tenerne conto

Come la sconfitta, così il conflitto non ha genitori.

In tanti anni di lavoro nell’ambito della mediazione familiare e in altri ambiti (penale, sanitario, organizzativo-lavorativo, scolastico), sia nei Servizi che nella formazione, tra i diversi elementi ricorrenti dei tantissimi conflitti incontrati, ce n’è uno che riveste una certa rilevanza: raramente, per non dire mai, gli attori del conflitto, fintanto che questo è in corso e più o meno apertamente combattuto, si riconoscono anche come autori: ciascuna parte si auto-rappresenta e si descrive agli altri (terzi, alleati e nemici) come un soggetto costretto a subire il conflitto voluto dall’altro, dal nemico.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti pensano che è stato l’altra ad iniziare

Quando siamo coinvolti in un conflitto, all’interno della famiglia come in altri ambiti relazionali, siamo portati a pensarci, o cercare di convincerci, che non siamo stati noi ad aprire le ostilità. Che la colpa per l’avvio del conflitto è del nostro avversario-nemico. È stato lui ad iniziare. Il guerrafondaio, il rissoso è lui. Se, poi, per caso, non ci fosse possibile negare, a noi stessi e agli altri il fatto di essere stati proprio noi quelli che per primi hanno iniziato la lite, anche in tal caso, ci sentiremmo comunque non colpevoli dell’innesco del conflitto. Anche in questa situazione, siamo propensi a pensarci come coloro che non hanno azionato il conflitto, ma che hanno reagito ad un intollerabile comportamento provocatorio altrui.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti si percepiscono come coloro che lo subiscono ma non lo agiscono

Il conflitto non ha genitori, quindi, perché nessuno dei suo attori è disposto a ritenersene responsabile. Per tutte le parti coinvolte la dinamica conflittuale è una cosa che viene subita. Nessuno è propenso ad accorgersi e ad assumersi la responsabilità del proprio contributo all’innesco del conflitto e della sua progressione.

Ciascuno vive e mentalizza la propria condotta conflittuale, non come frutto di una decisione, di una scelta tra opzioni diverse, ma come una scelta obbligata. Il conflitto non ha genitori quindi anche nel senso che per ciascuno dei protagonisti il proprio comportamento conflittuale è inteso come semplicemente reattivo alle ingiustizie, alle provocazioni, agli attacchi e ai colpi (bassi) della controparte.

Il conflitto non ha genitori perché ciascun protagonista crede di reagire ad un’ingiustizia

Brian Muldoon, in The Heart of Conflict, riguardo ai protagonisti del conflitto scrisse: «Almeno uno di essi è convinto di aver subito un torto. Reagisce all’ingiustizia chiedendo giustizia: la convinzione di avere ragione dà fuoco alle polveri del conflitto». Il conflitto inizia e si sviluppa, sul piano emotivo (e affettivo), cognitivo e comportamentale, a partire da questa percezione di sé (e non è detto che sia scorretta) di essere vittime di  comportamenti ingiusti, ai quali non si può non reagire.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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La mediazione (familiare e non solo) di fronte al fatto che il conflitto non ha genitori

Chi si propone di gestire professionalmente un conflitto altrui deve fare i conti con l’orfanilità del conflitto. E non è un aspetto di poco conto, poiché la sua sottovalutazione può pregiudicare irrimediabilmente non soltanto l’andamento e l’esito del percorso, ma ancor di più e ancor prima, la relazione tra il mediatore e le parti.

La mediazione è a-valutativa

Un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore sanitario, ad esempio, non possono trascurare il fatto che le persone con cui si relazionano hanno una certa sensibilità (se si vuole, un’ipersensibilità) riguardo alla loro genitorialità del conflitto. Così, ad esempio, se si facesse loro presente che sono entrambe responsabili (cioè, genitori) che hanno generato, anche ammesso che proprio così stiano le cose, sarebbe elevatissimo il rischio di farle sentire giudicate. In particolare, si potrebbero sentire giudicate, dal mediatore, colpevoli del conflitto cui partecipano. Ciò potrebbe verificarsi anche il mediatore non avesse alcuna intenzione giudicante o colpevolizzante, ma fosse più semplicemente mosso dall’obiettivo di far loro presente che le loro azioni sono tali, cioè frutto di una decisione, e non sono delle reazioni inevitabili. Oppure, dall’obiettivo di far sì che essi assumano la responsabilità del loro conflitto, diventando consapevoli degli effetti distruttivi che ha su loro stessi e su eventuali altri (i figli, ad esempio, nel caso della mediazione familiare). Tuttavia, a prescindere dal tono e dalle parole usate dal mediatore e dai suoi obiettivi, in effetti, la percezione dei confliggenti di essere ritenuti genitori del loro conflitto, non sarebbe tanto infondata.

Il disagio di sentirsi giudicati colpevolmente conflittuali

Sentirsi considerati da altri, specie da un terzo importante quale è il mediatore, come gli autori del proprio conflitto può essere fonte di disagio. E può innescare una reazione emotiva all’insegna della sofferenza e della rabbia. I coniugi in conflitto (nel caso della mediazione familiare), la vittima e l’autore del reato (nel caso della mediazione penale), il paziente e il medico (nel caso della mediazione sanitaria), potrebbero pensare grosso modo: «non sono io il colpevole di questo disastro, lo è l’altro, che ha fatto quello che ha fatto». In breve potrebbero sentirsi oggetto di un giudizio ingiusto, in quanto errato e offensivo, e non riconosciuti nelle proprie motivazioni razionali ed emotivo-affettive.

La mediazione e la restituzione del governo del conflitto

Chi opera come mediatore applicando il modello Ascolto e Mediazione, consapevole che il carattere non giudicante della mediazione deve impregnare di sé ogni atto comunicativo, nel relazionarsi con le parti in conflitto, non tenta di smontare questa dinamica, non contrasta il fatto che il conflitto non ha genitori. Evita, cioè, di correre il rischio di aggiungere al conflitto che deve gestire un altro conflitto: quello tra sé e i confliggenti che lo vivono come colpevolizzante. Il che, però, non significa che questo mediatore sia indifferente al fatto che il conflitto non ha genitori. Ascoltando empaticamente le parti, cioè accogliendo e rispecchiando a ciascuna le sue emozioni e i suoi sentimenti, svolge anche, indirettamente, un’opera di ripristino dell’autogoverno del conflitto. In altri termini, consente a ciascun protagonista di uscire da una condizione di soggezione ad una dinamica conflittuale meramente subita. Aiuta, in altri termini, ad uscire dai corridoi stretti in cui si è rinchiusi dalla la logica inesorabile della azione-reazione. E, in tal modo, consente anche di sviluppare delle riflessioni autocritiche non contrassegnate dalla colpa, ma orientate al futuro.

Alberto Quattrocolo

Le due fosse del conflitto

Se vuoi vendicarti di qualcuno scava due fosse (massima attribuita in maniera probabilmente arbitraria a Confucio)

Quante volte accade di mettere in rilievo che nel conflitto convivono aspetti etero-distruttivi e aspetti auto-distruttivi? E quante volte capita anche di accorgersi che questi secondi aspetti non bastano a dissuadere i protagonisti del conflitto dal farsi una guerra senza esclusione di colpi o, comunque, da investire enormemente in esso. Si tratta di investimenti in termini di tempo, di energie, di denaro, e in termini emotivi e affettivi. Investimenti compiuti, e magari ripetuti con frequenza pressoché quotidiana, da ciascun protagonista, con il fine di acquisire o mantenere il controllo sulla conduzione del conflitto, sul suo sviluppo, così da pervenire alla soluzione più soddisfacente per sé.

Ma il proverbio parla di due fosse. Una per seppellire il nemico battuto e l’altra per sé, perché non sarà il nemico il solo ad aver bisogno di sepoltura. Ricorda, cioè, quel proverbio, che il controllo sul conflitto non ce l’ha nessuna delle parti. Ce l’ha il conflitto stesso. E le due fosse si scavano in contemporanea, forse senza neppure accorgersene.

Ma il proverbio pone in rilievo anche un’altra possibilità: che si sappia che si stanno scavando due fosse, di cui una per metterci dentro e ricoprire il nemico e l’altra per noi. Lo sappiamo e ci sta bene così. Lo accettiamo. Infatti, non è raro nell’esperienza di chi si occupa di mediazione familiare, di mediazione penale o di mediazione sanitaria (per fare solto tre esempi), di riscontrare come nelle parti in conflitto vi sia una certa lucida consapevolezza circa i costi di quel conflitto che rilanciano di continuo. Avvisate degli effetti auto-distruttivi delle loro scelte e delle loro azioni, non li hanno ignorati, ma accettati, con una determinazione assoluta che non ammette cedimenti né esitazioni.

Perché?

Perché, tante volte c’è in gioco qualcosa di così centrale e fondamentale che non vi è alcuna riluttanza a investire tutto quel che si ha (affettivamente, emotivamente, economicamente…) nel conflitto. Inoltre, è raro che le persone in conflitto pensino a se stesse come mosse da spirito vendicativo. Più spesso, si rappresentano come animate dal bisogno di ottenere soltanto ciò che è giusto.

Altre volte, può accadere che gli attori del conflitto ritengano che, in ogni caso, a prescindere da quale sarà l’esito delle ostilità, vi saranno due fosse da scavare: che si sia determinati a tentare di vincere o si sia disposti a lasciar perdere, che ci si arrenda o si combatta, si pensa che non cambierà nulla, perché quel quid, per loro vitale, è già in gioco e forse addirittura ha il destino segnato o è già irrecuperabilmente perduto.

In tali situazioni, un appello alle istanze auto-conservative degli attori del conflitto, un richiamo alla questione delle due fosse, può non sortire l’effetto di un contenimento dell’escalation. Anzi, il più delle volte si rivela una mossa sterile e perfino controproducente .

Il coniuge, che per le delusioni sofferte è giunto a detestate l’ex partner  e che vede in lui/lei un genitore totalmente inadeguato, potrebbe risultare sordo ad ogni richiamo a riflettere sul fatto che, con il proprio ostinato rancore, sta scavando due fosse – e, forse, anche più di due. Analogamente, per stare in ambito sanitario, possono non rispondere ad appelli accorati alla tutela del propri interessi il paziente, se persuaso di aver subito un danno per colpa della negligenza o dell’imperizia di chi lo ha curato, da un lato, e il professionista della salute, che si dichiara indisposto a cedere di un millimetro di fronte a chi lo accusa di essere responsabile moralmente, e non solo legalmente, di “malasanità”.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Pensando a queste situazioni e ai tanti casi gestiti, non si contano le volte in cui come mediatori ci si è trovati davanti  a persone alle quali la prospettiva di dover scavare due fosse non induceva esitazioni, quasi come se ci fosse stata un’accettazione permeata di orgoglio.

Per tale ragione, e per rispetto anche dei sentimenti e dei valori, dei principi e degli argomenti, che ciascun attore del conflitto nutre o coltiva in sé, nella prospettiva di Me.Dia.Re. la mediazione non è proposta come soluzione più economica o meno rischiosa per i propri interessi. Anzi, in tali casi, si spiega che il percorso di Ascolto e Mediazione può essere l’occasione per ottenere alcune soddisfazioni importanti, come quei riconoscimenti profondi dei vissuti di ingiustizia, che la giustizia formale non sempre può procurare, non essendo deputata a realizzare tale particolari compiti sul piano relazionale.

Alberto Quattrocolo