1937, omicidio dei fratelli Rosselli

Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo, la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare.
(Carlo Rosselli, in “Antifascismo perché”,1925)

Il 9 giugno 1937 i fratelli Carlo e Nello Rosselli, intellettuali e attivisti antifascisti, vengono assassinati a Bagnoles-de-l’Orne, una località nel nord della Francia; Carlo è in esilio da tempo, Nello lo aveva da poco raggiunto viaggiando con un regolare passaporto, probabilmente concessogli dalle autorità italiane col preciso fine di pedinarlo per localizzare il fratello.

All’epoca, l’Italia ha da poco celebrato la fondazione dell’Impero e Vittorio Emanuele III si fregia del titolo di Re d’Italia e imperatore d’Etiopia, ma il potere reale si concentra nelle mani del Duce. Si intensificano i controlli sugli antifascisti e sui comunisti in Italia, mentre degli oppositori già espatriati si occupa il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, genero di Mussolini. È verosimile, secondo le ricostruzioni degli storici, che l’ordine di eliminare i fratelli Rosselli sia partito dal Duce stesso, per essere eseguito, con il tramite di Ciano e del servizio segreto italiano, da militanti dell’organizzazione eversiva dell’estrema destra francese “La Cagoule”, in cambio di una partita di armi dall’Italia. Tuttavia, i retroscena dell’omicidio sono ancora in parte avvolti nel mistero; è noto che i cagoulards (dal nome del cappuccio che ne travisava il volto durante le azioni) avessero appoggi e coperture sia a livello internazionale, sia all’interno dalle élite militari, istituzionali ed economiche francesi, e molti militanti confluirono poi nel regime di Vichy: al di là delle condanne di alcuni degli esecutori materiali avvenute nel dopoguerra, ancora oggi non esiste una verità giudiziaria in merito ai mandanti del delitto Rosselli.

I due fratelli nascono, alla fine dell’Ottocento, in un’agiata famiglia di origini ebraiche e solidi ideali repubblicani (un loro parente ospitò l’esule Mazzini negli ultimi mesi di vita); trasferitisi da Roma a Firenze, entrano in contatto con l’ambiente socialista. Dopo la Grande Guerra, Carlo si laurea in scienze politiche e in legge, Nello in storia, approfondendo, nei rispettivi ambiti di studio, la loro visione politica; frequentano gruppi di intellettuali di varia estrazione, tra cui Gobetti e i giovani de “La Rivoluzione Liberale”, Luigi Einaudi, Loria, e prendono parte all’attività del Circolo di Cultura fiorentina, promosso da Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi.

Carlo e Nello Rosselli prima ancora che antifascisti sono anticonformisti: esercitano una critica radicale del reale che affonda le radici nell’essenza stessa della cultura umanistica, e segnatamente in quella storica. La cultura come mezzo per comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista: “Prima di agire – ha scritto Calamandrei – bisognava capire”, nell’ottica gramsciana di stare “fuori dalla storia”, cioè di non pensare che tutto ciò che esiste è naturale che esista.

Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, i due fratelli promuovono quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che animano il Circolo di Cultura fino a quando, il 31 dicembre del ’24,

Una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza santa Trinità furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo.

Dieci anni più tardi, Nello farà parte di un altro circolo, informale ma straordinariamente importante; in questo gruppo che, tra il 1935 e lo scoppio della guerra, lasciava ogni domenica la Firenze fascista per cercare nel paesaggio e nei monumenti dell’Italia centrale un nuovo Risorgimento c’erano Calamandrei, Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, talvolta Benedetto Croce, Adolfo Omodeo e in qualche occasione Leone Ginzburg: il vertice della cultura italiana, il meglio dell’Italia antifascista. Fu un’esperienza profondissima, e profondamente politica.

Nel ’25 i fratelli fondano, con Salvemini ed Ernesto Rossi, il bollettino clandestino “Non Mollare”, pubblicando diversi memoriali sul delitto Matteotti che suscitano scalpore in tutta Italia; casa Rosselli é devastata dai fascisti, Carlo é aggredito dagli squadristi e in seguito costretto a lasciare l’insegnamento.

Dopo l’attentato a Mussolini e il giro di vite segnato dall’arresto di Gramsci e dalla fine di ogni parvenza di democrazia, Carlo diviene punto di riferimento per la fuoriuscita degli oppositori del regime più in vista. Organizza assieme a Sandro Pertini e Ferruccio Parri una rocambolesca fuga in motoscafo da Savona alla Corsica per Filippo Turati, anziano leader del partito socialista; al suo rientro in Italia, assieme a Parri è arrestato e confinato a Ustica, poi a Lipari, dove dovrebbe scontare cinque anni di isolamento. Anche Nello è in quegli anni condannato al confino a Ustica e Ponza.

Nel ‘29 Carlo, assieme a Nitti e Lussu, fugge da Lipari ed emigra in Francia. Quì pubblica il suo manifesto teorico “Socialismo liberale” e organizza l’opposizione al fascismo, scrive articoli di denuncia e predispone operazioni spettacolari come il lancio su Milano, da un aereo partito dal Canton Ticino, di 15.000 volantini inneggianti all’insurrezione e al ricordo dei moti del ‘48.

In “Socialismo liberale” Carlo Rosselli propone una sintesi tra le idee di uguaglianza del socialismo e i principi della democrazia liberale. Secondo il suo pensiero, sviluppato negli anni di attivismo, studio e confronto con i compagni e i maggiori intellettuali dell’epoca, il socialismo avrebbe dovuto rifiutare il marxismo e l’esperienza illiberale sovietica, assorbendo invece le idee e i principi del liberalismo, mentre quest’ultimo avrebbe dovuto trovare il suo sviluppo sul piano della libertà di opinione e di organizzazione politica, abbandonando invece quei principi economici che conducono all’ineguaglianza delle condizioni materiali e allo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.

Nel novembre ‘29, a Parigi, Carlo Rosselli, Emilio Lussu e i fuoriusciti riuniti attorno alla figura di Gaetano Salvemini fondano l’organizzazione “Giustizia e Libertà”, che vuole essere “l’anima della rivoluzione liberatrice di domani”: un movimento rivoluzionario libertario e democratico che riunisce in Italia e all’estero coloro che non sono comunisti, avversano i gruppi dirigenti liberali e la sinistra aventiniana e vogliono combattere il regime fascista per creare una società libera e civile. È Salvemini a stendere la bozza di statuto. I costituenti hanno storie politiche diverse, liberali, repubblicani, socialisti, uniti dal motto “Insorgere! Risorgere!”. Dal movimento prenderà vita il Partito d’Azione, uno dei più importanti raggruppamenti politici antifascisti durante la Resistenza e negli anni subito successivi alla fine della guerra.

A partire dal ’34, il cambiamento della politica di Rosselli e l’avvicinamento all’area comunista producono il progressivo allontanamento da GL di elementi come Salvemini, Caffi, Tarchiani e, per ragioni diverse, dello stesso Lussu. Per Rosselli è importante l’unità proletaria, “una necessità indeclinabile”, e per abbattere il fascismo propone di unire proletariato e borghesia in una coalizione liberalsocialista: “Il socialismo è lo sviluppo del principio di libertà […], è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente.”. E la libertà, che è autoconquista, deve essere difesa da ogni tentativo di soppressione.

Allo scoppio della guerra civile spagnola, nel ‘36, Carlo Rosselli raccoglie fondi e armi per la resistenza e si reca in Spagna, dove comprende bene che quella che si combatte è una battaglia di rilevanza internazionale. Alla testa di una colonna di esuli antifascisti (anarchici, giellisti, socialisti e comunisti), è sicuro che questa esperienza conduca alla certezza di poter vincere anche in patria: “Oggi in Spagna, domani in Italia”.

Ferito, torna in Francia, ma a Guadalajara, nel marzo ‘37, il battaglione Garibaldi che ha contribuito a formare sconfigge i fascisti italiani e la notizia fa il giro del mondo. Carlo non si accontenta della vittoria militare. Nella sproporzione delle forze tra Mussolini e i suoi oppositori, ha ben chiara l’importanza di assestare colpi all’immagine del regime fascista: contribuisce dunque a diffondere le interviste dei soldati italiani sconfitti e catturati, nelle quali coloro che Mussolini spacciava per valorosi volontari si mostrano per quello che sono: contadini poveri, ignoranti di tutto, demotivati, finiti in Spagna per quattro soldi o addirittura con l’inganno. È forse questo attacco all’immagine del regime che spinge Mussolini a commissionare l’omicidio.

Ai funerali parigini di Carlo e Nello Rosselli presenziano duecentomila persone; le salme saranno in seguito traslate in Italia per essere seppellite sotto l’epitaffio, scritto da Calamandrei, “Giustizia e libertà: per questo morirono, per questo vivono”.

La profonda attualità del pensiero dei fratelli Rosselli si ritrova nel metodo critico, che permette di esercitare compiutamente la sovranità di cittadini, nello spirito dell’articolo 1 della Costituzione: non si esercita, questa sovranità, senza consapevolezza culturale. È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. Ed è appunto per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere “lo sviluppo della cultura e la ricerca”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; A. Ventura, “Fratelli Rosselli, ottanta anni fa l’omicidio fascista per annichilire la speranza di giustizia e libertà”, https://left.it; “80 anni fa furono uccisi Carlo e Nello Rosselli”, www.ilpost.it; E. Scalfari, “L’eredità politica dei fratelli Rosselli vive ancora negli ideali di Giustizia e libertà”, www.repubblica.it; T. Montanari, “In morte dei fratelli Rosselli”, www.libertaegiustizia.it; Biografie – Carlo Rosselli http://www.storiaxxisecolo.it

Nasce il Telefono Azzurro

34 anni fa (8 giugno 1987), il professor Ernesto Caffo, all’epoca professore associato di Neuropsichiatria Infantile all’Università degli Studi di Modena, fonda una delle associazioni più famose d’Italia.

L’associazione nasce sulla base di un’esigenza prioritaria: poter dare alle richieste di aiuto dei bambini un punto di ascolto e di accesso.

Telefono Azzurro nasce quindi con due anni d’anticipo rispetto alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, quell’accordo che delinea gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell’infanzia (evento ricordato ogni anno il 20 novembre, data della firma, con la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza).

Poco più di tre anni dopo la fondazione, l’importante opera svolta dall’associazione viene riconosciuta, da parte dell’allora Presidente della Repubblica Cossiga, con il decreto che la erige ad Ente Morale.

Il numero 1.96.96, aperto sempre nel 1990, fu la prima linea gratuita dedicata ai minori di 14 anni. Oggi è accessibile a tutti gli utenti, 365 giorni all’anno, 24h al giorno: adulti, famiglie, insegnanti ed educatori possono a loro volta segnalare, infatti,  le situazioni di disagio con cui vengono in contatto.

Il Centro Nazionale di Ascolto di Telefono Azzurro è oggi un call center con 30 linee telefoniche, 40 operatori specializzati e centinaia di volontari. Deve infatti gestire, dal febbraio 2003, anche il Servizio Emergenza Infanzia 114, frutto dell’accordo tra i Ministeri di Comunicazioni, Pari Opportunità e Lavoro e Politiche Sociali. Inoltre, in seguito alla firma di un Protocollo di Intesa con il Ministero dell’Interno, avvenuto nel maggio 2009, Telefono Azzurro risponde anche al numero 116.000, linea diretta europea per i bambini scomparsi.

Quanto ai numeri, sembra che oggi il bisogno sia particolarmente elevato. Il numero di bambini che scompaiono ogni anno nel mondo si aggira intorno al milione, mentre, in Italia, si perde le tracce di un bambino ogni settimana. La cosa più sconcertante è che solo il 18% viene ritrovato. Ci sono poi le chiamate per casi di abuso e violenza, che nel 2018 sono state oltre 4mila.

Dopo trent’anni, il compito di Telefono Azzurro è ben lungi dall’essere terminato.

Alessio Gaggero

Gli amici del 6 giugno

Gli amici del 6 giugno erano coloro che, quel giorno del 1944, sbarcarono in Normandia. Gli amici del 6 giugno ’44 erano le decine di migliaia di uomini che, sbarcando sulle coste atlantiche francesi, aprivano la via ad altre centinaia di migliaia per liberare, prima la Francia e, poi, il resto d’Europa, soprattutto, quella occidentale, dall’occupazione delle armate di Hitler. Quegli amici del 6 giugno erano persone canadesi, australiane, belghe, cecoslovacche, francesi, greche, olandesi, neozelandesi, norvegesi e polacche, britanniche e americane, che i popoli oppressi da quattro-cinque anni di nazifascismo attendevano spasmodicamente.

Anna Frank aveva appreso via radio, nascosta nel suo nascondiglio ad Amsterdam, la notizia dello sbarco degli alleati nelle coste della Francia settentrionale. Suo papà, Otto Frank, appese una cartina geografica su una parete del loro Alloggio Segreto, cosicché potessero seguire l’avanzata delle truppe alleate. Anna scrisse nel suo Diario:

«Si starà avvicinando la tanto anelata liberazione […] Oh, Kitty, la cosa più bella dell’invasione è che ho la sensazione che siano in arrivo degli amici».

Chi e quanti erano gli amici del 6 giugno ‘44?

Gli amici del 6 giugno di Anna Frank

Coloro che Anna e Otto Frank consideravano amici in arrivo dall’Inghilterra erano oltre centocinquantamila persone. Soldati. Molti di leva, altri volontari. Alcuni alla prima esperienza sotto il fuoco nemico, altri già veterani sopravvissuti ad altre battaglie. Credevano tutti nell’habeas corpus, nella divisione dei poteri, nelle libertà fondamentali, nell’uguaglianza …? Quei 150.000 erano tutti unanimemente motivati a ridare agli europei la libertà e la giustizia? In altri termini, sapevano contro chi e per che cosa combattevano?

Forse no, forse non tutti. Probabilmente vi erano tra questi soldati dei razzisti e degli antisemiti. Insomma, non tutti quei 156.000 uomini, verosimilmente, erano, nel loro cuore, esattamente come Anna Frank e suo padre li immaginavano.

Tuttavia fu il sacrificio di quei 7.884 uomini, che vennero uccisi o furono feriti sulle spiagge dello sbarco, di quei 3.799, che subirono un’analoga sorte dopo essersi lanciati con il paracadute o essere atterrati sugli alianti nell’entroterra, e delle decine di migliaia che misero in gioco la loro vita – e la loro psiche, immergendosi in un’esperienza orrenda -, a dare un contributo fondamentale per liberare l’Europa dal dominio più brutale, sanguinario e disumano mai conosciuto. Ma per raggiungere quest’obiettivo, per porre termine alla guerra, occorsero ancora altri 11 mesi e milioni di morti, militari e civili. 

Anna Frank e la sua famiglia furono tra questi ultimi. Scoperti e arrestati dalla Gestapo il 4 agosto del 1944, vennero internati e, il 2 settembre, durante l’appello, furono selezionati per il trasporto ad Auschwitz. Solo il papà di Anna Frank sopravvisse.

 

6 giugno 1944, il D-Day

Il 6 giugno ’44 è ricordato come il “D-Day“, recuperando il nome in codice dell’operazione. In realtà, la D maiuscola di “D-Day” significa semplicemente “giorno”, il giorno stabilito per una missione. Il codice “D-Day”, in effetti, era un’espressione generica con la quale s’indicava l’inizio di una particolare manovra. Prima del 1944 era già stato usato diverse volte. Dopo il 6 giugno del 1944 l’espressione D-Day divenne sinonimo  di Sbarco in Normandia.  Il segretissimo nome in codice dell’operazione, però, era “Overlord“.

L’espressione D-Day è stata anche interpretata come “Decision Day” (giorno della decisione) oppure come “Deliverance Day” (giorno della liberazione). In ogni caso fu sulle spiagge della Normandia che la maggior parte degli amici del 6 giugno 1944 sbarcarono, all’alba, mentre un’altra parte di essi si era paracadutata o era atterrata a bordo di silenziosi alianti nell’entroterra, al buio, alcune ore prima.

Degli oltre centocinquantamila amici del 6 giugno ’44 persone, infatti, 130.000 erano saliti sui mezzi da sbarco, mentre altri 20.000 erano a bordo di aerei e alianti. Si trattava – e ancora è – della più grande e complessa operazione di sbarco mai compiuta.

L’inizio del giorno più lungo

Il feldmaresciallo Erwin Rommel, perlustrando le strutture difensive tedesche sulla costa francese, predisposte per far fallire lo sbarco che si sapeva sarebbe avvenuto in qualche punto di quel litorale, predisse che quello sarebbe stato il giorno più lungo. Era sulla battigia, affermava Rommel, che si sarebbe determinato il successo o il fallimento della temuta invasione del continente europeo da parte degli alleati. Infatti, confidò al suo aiutante di campo Helmuth Lang:

«Credete a me, Lang! Le prime ventiquattr’ore dopo lo sbarco, saranno decisive. […] per gli alleati come per i tedeschi si tratterà del giorno più lungo».

Ma gli amici del 6 giugno ’44, gli amici di Anna Frank, non si presentarono subito sulle coste. La loro prima apparizione fu un po’ più in là e il loro giorno più lungo iniziò molto prima dell’alba. I primi amici del 6 giugno arrivarono dal cielo poco dopo la mezzanotte, a bordo di 9.200 aerei alleati, che avevano lasciato gli aeroporti britannici, per dirigersi sulla Bretagna. Inoltre due bombardieri della RAF, dopo aver sganciato il loro carico di bombe, proseguirono verso l’entroterra, dove paracadutarono 200 piccoli paracadutisti che, quando toccarono il suolo spararono all’impazzata. Erano stati soprannominati “Ruebens” ed erano manichini di gomma, addobbati con paracadute e petardi per simulare il fuoco di armi leggere

Diversioni, segreti, trucchi e inganni degli alleati e della resistenza francese

Si trattava di un diversivo finalizzato a far affluire i tedeschi nell’entroterra, lontano, quindi, dalle zone in cui i veri paracadutisti sarebbero entrati in azione. L’espediente funzionò. Permettendo alle unità di paracadutisti francesi di atterrare senza essere sorpresi dai soldati tedeschi che da 4 anni avevano invaso la loro terra. Quei paracadutisti dovevano unirsi agli uomini e alle donne della resistenza bretone. Costoro, infatti, immediatamente diedero esecuzione al piano Violet, cioè all’interruzione di linee telefoniche e cavi sotterranei e alla distruzione di ripetitori e centraline, nonché ad altri sabotaggi, col fine di impedire comunicazioni e collegamenti tra le truppe dislocate nella regione interessata dallo sbarco e quelle presenti in altre aree, nonché con Berlino. Anche le forze aeree americane e britanniche, decollando dalle basi inglesi, ben prima del 6 giugno, avevano svolto un intenso programma di bombardamento delle linee di comunicazione francesi, colpendo soprattutto i nodi ferroviari e i ponti, per intralciare i movimenti dei tedeschi in vista del D-Day [1].

Gli amici del 6 giugno che arrivarono con la pioggia

Tuttavia gli alleati non avevano trascurato di bombardare tutta la costa settentrionale della Francia, per evitare che i tedeschi indovinassero il vero luogo prescelto per lo sbarco. E la scelta della Normandia non era stata, ovviamente, casuale: la regione del Pas de Calais era stata scartata perché, nonostante avesse le spiagge più adatte, fosse molto vicina alle coste inglesi e rappresentasse un più diretto accesso alla Germania, era, proprio per questi motivi, il punto di sbarco più prevedibile. Qui, infatti, l’alto comando tedesco si aspettava che lo sbarco sarebbe avvenuto. E a consolidare tale convinzione aveva provveduto in precedenza l’intelligence britannica.

Un contributo determinante per l’esito di questa battaglia, che salvò l’Europa, cambiando definitivamente il corso della guerra nel vecchio continente, fu dato anche dalle condizioni metereologiche. Lo sbarco era stato pianificato per il giorno precedente, ma il 5 giugno una vasta perturbazione aveva indotto gli alleati a rinviare lo sbarco. Però il servizio metereologico inglese segnalò un breve miglioramento per il giorno successivo. I tedeschi, convinti che mai gli alleati avrebbero tentato lo sbarco con condizioni meteo così avverse e il mare così mosso, furono, quindi, colti di sorpresa [2].

Lo sbarco del 6 giugno 1944

Il 6 giugno del ’44, come detto, i primi a toccare il suolo francese, quando ancora era notte fonda, erano stati i paracadutisti. Decine di paracadutisti però atterrarono morti, uccisi, mentre galleggiavano in aria, dal fuoco nemico [3]. All’alba, dopo un imponente bombardamento navale della costa, da 4.266 navi di ogni specie (di cui 700 da guerra), la più grande armata marittima della Storia, si staccarono i mezzi da sbarco, giovandosi della copertura della flotta aerea, che compì 10.743 missioni aeree sulla Normandia, sganciandovi 12.000 tonnellate di bombe [4]. Molti mezzi da sbarco, però, saltarono in aria, urtando le mine tedesche affisse sui pali piantati nel fondale sabbioso. Coloro che scendevano dai mezzi, e riuscivano a non affogare o ad essere falciati dai tedeschi, appena balzati in acqua avevano a che fare, sulla battigia, con campi minati e cavalli di Frisia, e soprattutto con il fuoco delle postazioni tedesche. I soldati del Terzo Reich, infatti, facevano fuoco da bunker e da casematte con mitragliatrici e mortai, sebbene i ricognitori della RAF segnalassero le loro posizioni alle navi, affinché li bombardassero.

Il sangue degli amici del 6 giugno e dei civili

Il peggiore massacro fu quello sofferto dalle truppe americane che sbarcarono sulla spiaggia Omaha (che venne soprannominata bloody Omaha), dove contro le divisioni alleate sparavano incessantemente le batterie di cannoni collocate a ridosso della costa. Qui, in poco tempo più di 1.000 uomini erano stati già fatti a pezzi dalle difese tedesche e quelli che erano riusciti ad attraversare incolumi la spiaggia, continuavano ad essere esposti al fuoco nemico, avendo, per giunta, nell’80% dei casi, armi e munizioni inutilizzabili, a causa dell’acqua e della sabbia, nonostante le custodie stagne in dotazione e l’utilizzo dei profilattici a protezione delle canne dei fucili. Anche se sulle altre spiagge la situazione fu meno sanguinosa, entro le 20:30 del 6 giugno 4.400 soldati alleati persero la vita, sostanzialmente un morto ogni 11 secondi. E di questi più di 2 mila nella sola Omaha. Quasi 8.000 alleati restarono uccisi, cioè uno ogni 6 secondi. Numerosissimi furono anche i civili francesi uccisi dalle bombe alleate, dato che interi villaggi vennero distrutti. Del resto anche la battaglia per la conquista di Caen provocò un massacro di civili, non tanto dissimile da quello del bombardamento di Montecassino. Complessivamente furono un po’ minori le perdite dei tedeschi, anche se persero la battaglia. Del resto, gli errori di comunicazione tra le forze alleate provocarono numerose vittime del fuoco amico. Inoltre, fin da quel primo giorno della liberazione iniziarono le violenze, gratuite, perpetrate verso civili (soprattutto donne) accusati di collaborazionismo. E a queste vanno aggiunte, pare, le violenze sessuali compiute da alcuni soldati alleati [5].

«Le notizie non potrebbero essere migliori» (Adolf Hitler)

Nonostante lo sconvolgimento generale, Adolf Hitler, mentre sbarcavano gli amici del 6 giugno, si mostrò ottimista e fiducioso: nella prima riunione al suo quartier generale, verso la tarda mattinata, disse al feldmaresciallo Wilhelm Keitel che: «Le notizie non potrebbero essere migliori»

Il Führer pensava che con l’inizio della grande battaglia si fosse avverata la possibilità per le sue armate di un confronto diretto e vittorioso con il grosso delle forze anglo-americane. Disse, infatti:

«Finché erano in Gran Bretagna non potevamo arrivare fino a loro. Ora li abbiamo a portata di mano e possiamo distruggerl

Soltanto il 10 giugno Hitler e i suoi generali compresero appieno l’imponenza delle forze alleate che stavano insinuandosi in Francia e la difficile situazione in cui veniva a trovarsi la Wehrmacht.

Non meno sconcertante era la versione diffusa dai giornali dell’Italia settentrionale, laddove Mussolini e la sua truculenta Repubblica di Salò, persistevano in una grottesca propaganda, tanto tronfia quanto fasulla.

Alberto Quattrocolo

[1] L’opera del controspionaggio britannico fu così efficace nel depistare gli agenti tedeschi, convincendoli che quella in Normandia fosse una colossale operazione diversiva, che lo stesso Hitler, ancora il 9 giugno, era convinto che il teatro principale delle operazioni doveva aprirsi a Pas de Calais. Hitler, infatti, credette veritieri i messaggi inviati dalla celebre spia Arabel (“Garbo” per i britannici) e, di conseguenza, la potente 15ª Armata fu mantenuta a Calais, anziché essere inviata in appoggio alla 7ª Armata nel settore normanno. Inoltre, lungo i 50 chilometri di costa normanna interessati dallo sbarco, ogni unità costiera tedesca combatté in totale isolamento, proprio per l’interruzione delle linee telefoniche provocata dal sabotaggio dei partigiani francesi e poi dai bombardamenti aeronavali. Così né i comandanti sul campo, né lo stato maggiore del LXXXIV Corpo d’armata, né i vertici di Berlino poterono avere una visione complessiva della battaglia.

[2] Ciò comportò l’assenza dai rispettivi posti di comando di diversi comandanti, compresi il feldmaresciallo Rommel (che si era recato in Germania per festeggiare il compleanno della moglie) e il colonnello generale Dollmann (che, come altri, si trovava a Rennes per un’esercitazione di guerra)

[3] Del resto, anche i lanci non furono perfettamente centrati sugli obiettivi. Così molti atterrarono nel luogo sbagliato. Tanto che dei primi 600 lanci, solo 160 raggiunsero gli obiettivi prefissati.

[4] La vittoriosa esecuzione dell’operazione Overlord fu dovuta anche all’incontrastato dominio dei cieli da parte dell’aviazione alleata, che permise la devastazione delle reti ferroviaria e stradale e assicurò un supporto tattico, intralciando l’afflusso di rinforzi tedeschi in Normandia.

[5]  Secondo il criminologo statunitense Robert Lilly, in base agli archivi dell’esercito Usa, sarebbero state compiute oltre 3 mila violenze sessuali.

Robert Kennedy: «Non abbiamo bisogno di odio»

Robert Kennedy la sera del 5 giugno 1968, nella sala da ballo dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, stava incontrando i suoi sostenitori, per festeggiare la vittoria elettorale conseguita nelle primarie della California e del Sud Dakota, quando fu colpito a morte da dei proiettili.

«E gli altri? Come stanno gli altri?».

Furono queste le ultime parole pronunciate da Robert Kennedy. E in quella parole, dette mentre la vita gli scivolava via, c’era l’uomo che era sempre stato e l’uomo che era diventato. L’uomo che folle entusiaste ascoltavano ai suoi comizi, spesso improvvisati, perché ne sentivano la tensione morale, ne riconoscevano la ferma e indistruttibile determinazione a porre fine alla guerra in Vietnam, e a rimuovere le tante ingiustizie economiche e sociali che affliggevano milioni di persone.

«Come stanno gli altri?» era stato il quesito che aveva imparato a porsi, a sentire e ad anteporre ad ogni altra considerazione o istanza, dopo i dolori e i lutti che aveva vissuto. E non erano pochi.

 

L’infanzia e la giovinezza di Robert Kennedy tra privilegi e dolori

Nato il 20 novembre 1925, in una famiglia appartenente all’élite, Robert Francis Kennedy era cresciuto in una condizione di agio, di opportunità e di prosperità da privilegiati, ma attraversata da sofferenze. Il padre, il petroliere e imprenditore cinematografico, nonché politico e diplomatico, Joseph Patrick Kennedy, e la madre, Rose Fitzgerald, si proponevano di fare dei i loro 9 figli e figlie dei combattenti, anzi preferibilmente dei vincenti, ma non si può dire che eccedessero in manifestazioni affettive [1]. Settimo dei nove fratelli (cinque ragazze e quattro ragazzi), Robert (Bobby) aveva imparato da subito che la ricchezza non esentava dal dolore, ad esempio quello di sua sorella Rosemary [2]. All’età di 19 anni Robert Kennedy aveva vissuto il dolore di perdere un fratello. Joe Jr. (quello che secondo i programmi del padre avrebbe dovuto fare carriera politica fino a diventare presidente), il primogenito, di dieci anni più vecchio, era stato uno dei milioni di esseri umani spazzati via dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale. Secondo i voleri del patriarca, toccava al secondogenito, John Fitzgerald Kennedy, intraprendere la carriera politica puntando alla vetta più alta. Il compito di Bobby era quello di aiutare il suo fratello maggiore nell’impresa.

Robert Kennedy e suo fratello John

Il 6 giugno del 1952, 16 anni esatti prima di essere assassinato, si era messo alla guida della campagna elettorale del fratello John (che tutti chiamavano Jack), di nove anni più anziano di lui, per la carica di senatore del Massachusetts [3].

Se durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza il rapporto tra John e Robert Kennedy era stato parzialmente messo in ombra da quello del primo con Joe Jr., dopo la guerra, i due si erano fortemente avvicinati. Il loro rapporto era evoluto in un legame di affetto profondissimo e di lealtà totale. Si amavano e si capivano, pur essendo molto diversi [4].

Bobby, di corporatura più minuta, non aveva lo stesso fascino magnetico del fratello. Era un cattolico osservante, si era sposato molto presto, nel ’50, con Ethel Skakel, ed era tutt’altro che un donnaiolo (ebbe 11 figli). Aveva un carattere decisamente più introverso di Jack. Era così determinato nell’azione da essere paragonato ad un carro armato e, quando si impegnava in qualche impresa, diventava inesorabile. Molti lo consideravano arrogante e aggressivo. E, in effetti, in non pochi casi, non aveva saputo, a differenza del fratello, temperare la propria passione ideale o la propria tenacia con l’empatia verso gli altri, collaboratori o colleghi che fossero. Né aveva alcun riguardo verso quegli avversari che non stimava. Spesso li viveva come nemici e diventava implacabile.

Al fianco di Jack fino alla Casa Bianca

Nel dicembre 1952, su sollecitazione del padre, il senatore Repubblicano Joseph P.  McCarthy, impegnato nella sua isterica e demagogica caccia alle streghe anticomunista, lo nominò consulente del Subcomitato permanente del Senato per le investigazioni [5]. Robert Kennedy riuscì a non compromettersi troppo, evitando di essere associato all’anticomunismo isterico di McCarthy (ne abbiamo parlato, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post A cavallo della paranoia). E quando la stella del senatore repubblicano tramontò (si veda questo post), Robert Kennedy si mise in luce per la sua instancabile tenacia come primo consulente giuridico della Commissione antiracket, guidata da John L. McClellan. In particolare, nella sua lotta contro la mafia, Bobby, fu accanto al fratello John, nel Comitato senatoriale contro il racket, nel colpire senza riguardi Jimmy Hoffa, il capo corrotto del più potente sindacato americano. Lo affrontò così duramente da suscitare in costui un odio viscerale e un risentimento intramontabile.

Nel ‘59 Jack decise di correre per la Casa Bianca e Bobby ebbe l’incarico di manager della sua campagna. Vi adempì instancabilmente e con pugno di ferro, e l’8 novembre del 1960 John F. Kennedy, sconfiggendo di misura il candidato repubblicano Richard M. Nixon, divenne il 35° Presidente degli Stati Uniti (lo abbiamo ricordato nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni») [6]. Il fratello lo nominò Attorney general (l’equivalente del nostro Ministro della Giustizia), e in tale veste Robert Kennedy non si risparmiò nel perseguire i traffici illegali e i delitti della mafia, ma il suo ruolo andava ben oltre [7]. Jack, infatti, si fidava ciecamente di Bobby ed era ricambiato dalla sua fedeltà assoluta [8].

Dopo la crisi dei missili di Cuba, il Primo Ministro inglese, Harold Macmillan, affermò: «il modo con il quale Bobby e suo fratello hanno giocato le loro carte è stato assolutamente magistrale».

«D’improvviso gli era stato tolto tutto».

Venerdì 22 novembre 1963, all’ora di pranzo, Robert Kennedy ricevette una telefonata dal direttore dell’F.B.I., J. Edgar Hoover. «Ho una notizia per lei», gli disse Hoover, senza alcuna emozione. «Hanno sparato al presidente». Bobby ne fu schiantato. Nessuno tra i Kennedy soffrì più intensamente di lui. La notte di quel 22 novembre 1963 Robert Kennedy, nella camera da letto che 100 anni prima era stata occupata da Abraham Lincoln alla Casa Bianca, singhiozzava: «Perché, Dio?… Gli innocenti soffrono… Com’è possibile e come può Dio essere giusto?». Da quel momento un velo di tristezza offuscò il suo sguardo, senza sparire più. Lemoyne Billings, amico d’infanzia dei fratelli Kennedy, disse che Bobby si era dedicato in maniera così totale alla carriera del fratello che la sua morte lo aveva lasciato stordito: « Non sapeva neppure dove si trovava…D’improvviso gli era stato tolto tutto» [9].

Il biografo Evan Thomas jr sostiene che Bobby a parole accettò l’ipotesi dell’attentatore solitario, fornita dal rapporto ufficiale del governo, ma non smise mai di pensare che l’assassino potesse essere stato opera della CIA, di Sam Giancana, di Jimmy Hoffa (della mafia), di Fidel Castro o degli esuli cubani anti-castristi. E tre giorni prima di essere assassinato disse: «Mi rendo ora pienamente conto che solo i poteri della Presidenza riveleranno i segreti della morte di mio fratello».

Liberato dall’ombra del fratello

Nel 1964 venne eletto senatore per lo Stato di New York e quattro anni dopo decise di proporsi come candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Il 6 giugno 1968, poco prima di essere ammazzato, Robert Kennedy si confidò con il capo della sua campagna nelle primarie per le presidenziali, Kenneth O’Donnell, A questo suo caro amico di vecchia data ed ex assistente politico di John Kennedy alla Casa Bianca disse:

 «Sai, per la prima volta sento di essermi liberato dell’ombra di mio fratello: sento di avercela fatta da solo».

Gli era occorso un bel po’ di tempo e parecchio dolore il riuscirci. Non era tipo da arrendersi, però, Robert Kennedy. E,  sebbene fosse stato quasi completamente distrutto dall’omicidio di suo fratello a Dallas, iniziò a camminare da solo. Aveva “studiato” all’ombra di Jack e continuò a studiare, mettendosi radicalmente in discussione. E, anche nel suo rivedere le precedenti posizioni, fece ricorso alla sua risorsa inesauribile di tenacia. In particolare, il dolore e l’esperienza fecero sì che la sua mente diventasse una porta aperta alle novità e che quella corazza di aggressività trattenuta si sciogliesse, liberando quella capacità empatica che fin lì aveva riservato solo alla cerchia dei famigliari e degli amici più intimi. E cominciò ad andare a cercare la gente che soffriva, quelli che la società lasciava indietro a languire e quelli che discriminava.

Così, pur appartenendo, in virtù della propria carica, del censo, dello status e della cultura, all’élite più ristretta, divenne capace di sintonizzarsi con la sofferenza degli emarginati. E decise di schierarsi apertamente con il popolo: non per aizzarlo contro le istituzioni, ma per indurre queste ultime ad ascoltarne i bisogni. Adottò, quindi, anche un approccio più diretto rispetto a quello di John Kennedy alle ingiustizie sociali e alla discriminazione razziale [10].

Il coraggio di Robert F. Kennedy di cambiare idea

Era stato un sostenitore dell’intervento militare americano in Vietnam, contagiato anche lui dalla mentalità della Guerra  Fredda. Ma la trasformazione che lo stava interessando gli diede anche il coraggio di dichiarare apertamente che aveva cambiato idea e di prendere posizione contro la guerra in Vietnam, allineandosi a chi come Martin Luther King e Muhammad Alì vi si opponeva fermamente e sostenendo la necessità di un ritiro americano:

«Siamo come il Dio del Vecchio Testamento? Possiamo decidere a Washington quali città, quali villaggi, quali capanne saranno distrutti in Vietnam? Abbiamo l’autorità di uccidere decine e decine di migliaia di persone?».

Quest’atteggiamento, che lo aiutò anche a comprendere la contestazione giovanile, gli permise di entrare in contatto emotivo e intellettuale con quanto andava maturando in quegli anni, negli Stati Uniti e nel resto del mondo [11]. Questa sintonia trovò una mirabile sintesi nel citatissimo discorso sul PIL. Il quale, disse Robert Kennedy, misura «napalm, missili e testate nucleari», ma «non comprende la salute delle famiglie o la bellezza della poesia […] Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Anche il suo originario e monolitico anticomunismo mutò:

«Opporsi al comunismo non significa imitare la sua dittatura, ma estendere le libertà individuali», disse all’Università di Capetown, Sudafrica, il 6 giugno 1966, esattamente due anni prima di morire, «In ogni nazione ci sono persone che etichetterebbero come comunista chiunque minacci i loro privilegi. Ma posso dirvi, da ciò che ho visto viaggiando in tutte le parti del mondo, che riformare non è comunismo. E che la negazione della libertà, in nome di qualsiasi cosa, può solo rafforzare lo stesso comunismo che sostiene di combattere».

Parlare non alla pancia ma alla coscienza della gente

Guardava avanti Robert Kennedy, volgendosi a temi che allora erano quasi del tutto assenti dal dibattito politico, come la tutela dell’ambiente:

«Il carburante che ci dà l’elettricità, la benzina che fa marciare automobili, taxi e autobus, i due chili di cenere e di spazzatura che ognuno di noi getta ogni giorno nella città, e perfino i rifiuti buttati negli inceneritori dei nostri appartamenti, tutte queste cose si scaricano nell’aria che respiriamo».

Riconoscendo la necessità di una politica diversa, sinceramente e correttamente vicina alle persone, Robert Kennedy si guardava dal parlare alla loro pancia: preferiva parlare alla loro coscienza.  E lo fece anche la sera dell’assassinio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968 (l’abbiamo ricordato nel post Martin Luther King: sono un uomo!). Bobby si trovava ad Indianapolis, nello stato dell’Indiana, per la sua campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti. Quella sera era previsto che parlasse ad un comizio in un ghetto nero di Indianapolis. Accolse la rabbia, ma non la alimentò, né la sfruttò. Ascoltò il dolore, ma non lo strumentalizzò. Parlò al cuore e alla testa degli abitanti di quel ghetto [12].

L’appello di Robert Kennedy alla compassione e all’amore

«Signore e signori», disse Robert Kennedy a quel migliaio di persone scioccate e brucianti di dolore e rabbia, «questa sera sono qui per parlare un paio di minuti soltanto. Perché… Ho una notizia molto triste per voi […]. Martin Luther King ha dedicato la sua vita alla causa dell’amore e della giustizia per tutti gli esseri umani, ed è morto proprio a causa di questo suo impegno[…]».

«Può certo esserci amarezza, odio, e desiderio di vendetta tra le persone di colore che si trovano tra voi, viste le prove che ci sono dei bianchi tra i responsabili dell’assassinio», proseguì Bobby. «Possiamo scegliere di muoverci in questa direzione come nazione, in una ulteriore polarizzazione, dividendoci neri con neri, bianchi con bianchi, pieni di odio gli uni verso gli altri. O possiamo invece fare uno sforzo per capire, come ha fatto Martin Luther King, e sostituire a questa violenza, a questa macchia di sangue che si è allargata a tutto il Paese, un tentativo di comprendere attraverso la compassione e l’amore».

«Non abbiamo bisogno di odio»

La compassione e l’amore per Robert Kennedy dovevano essere la guida per tutti. Per i politici come per la gente comune. Aveva assimilato fino in fondo la lezione di Martin Luther King e la propose quella sera agli abitanti del ghetto di Indianapolis.

«A quelli di voi che sono tentati di lasciarsi andare all’odio e alla sfiducia verso i bianchi per l’ingiustizia di quello che è accaduto, posso soltanto dire che provo i loro stessi sentimenti in fondo al mio cuore. Ho avuto anch’io qualcuno della mia famiglia ucciso, anche se da un uomo bianco come lui. Ma dobbiamo fare uno sforzo negli Stati Uniti, dobbiamo fare uno sforzo per comprendere, per superare questi momenti difficili. […]. Non abbiamo certo bisogno di divisioni negli Stati Uniti, non abbiamo bisogno di odio, né di violenza o anarchia. Abbiamo invece bisogno di amore e saggezza, compassione gli uni verso gli altri, e di un sentimento di giustizia verso tutti coloro che ancora soffrono nel nostro paese, siano essi bianchi o neri […]. Non siamo ancora, purtroppo, alla fine della violenza, dell’anarchia e del disordine. […]. Dedichiamoci a perseguire quello che i greci scrissero tanti anni fa: domare la natura selvaggia dell’uomo e rendere gentile la vita in questo nostro mondo. Dedichiamoci a questo, e diciamo tutti una preghiera per il nostro paese e per la nostra gente. Grazie».

Quella sera esplosero rivolte sanguinose in moltissime città, grandi e piccole degli Stati Uniti, ma non ad Indianapolis.

«Quelli che vivono con noi sono nostri fratelli»

Robert Kennedy aveva letto, meditato e ascoltato. Aveva ascoltato se stesso e aveva ascoltato gli altri. Aveva rivisto gli errori che aveva commesso, insieme al fratello o senza di lui. Ed erano tanti. Li aveva riconosciuti e aveva imparato. Aveva imparato che un errore, grave, commesso da lui e da Jack quando erano alla Casa Bianca era consistito nell’aver troppo spesso anteposto il pragmatismo all’idealismo. Ciò lo portò a rivolgersi quindi non soltanto alle sofferenze del popolo e alle loro paure, ma alla loro mente e alla loro disponibilità alla compassione e alla solidarietà, al loro bisogno di dare e ricevere amore.

«Solo un uomo attaccato alle cose terrene può ancora aggrapparsi alla buia ed avvelenante superstizione secondo cui il suo mondo è delimitato dalla collina più vicina, il suo universo finisce alla rive del fiume, la sua comune umanità è racchiusa nello stretto circolo di quelli che condividono con lui città, vedute e colore della pelle». Pronunciò queste parole nel citato discorso del 6 giugno ’66. Esse si collegavano a quelle di un altro non meno noto discorso a proposito della violenza (in nota c’è il testo integrale [13]). 

«Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un’abitazione comune ma non da un impegno comune. Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza. La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità, conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono. Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore».

«Fai sempre ciò che temi di fare».

Nella sera tra il 5 giugno e il 6 giugno 1968, dopo il discorso di saluto, mentre Robert Kennedy veniva fatto allontanare dall’hotel attraverso un passaggio delle cucine, a mezzanotte e un quarto vennero esplosi dei colpi di pistola contro di lui sotto gli occhi dei reporter e dei teleoperatori che lo seguivano. Cinque persone fra i presenti vennero ferite. E ad esse pensò subito Bobby prima di perdere conoscenza. «E gli altri? Come stanno gli altri?».

Il presunto assassino, immediatamente arrestato, era Sirhan B. Sirhan, di origine giordana. Subito sorsero notevoli dubbi sulla dinamica dell’omicidio e sulle sue motivazioni. Dubbi che ancora permangono [14]. Robert Kennedy morì al Good Samaritan Hospital, all’alba del 6 giugno. Aveva 42 anni.

La sua salma fu portata da Los Angeles a New York, poi in treno a Washington. Più di un milione di americani attesero il passaggio del convoglio lungo i binari.

Al funerale suo fratello Edward Moore Kennedy (Teddy), di sette anni più giovane, l’unico ancora vivo dei quattro fratelli maschi, citò alcune parole di Bobby. Parole dure e vere, allora come, purtroppo, adesso:

«C’è discriminazione in questo mondo. C’è schiavitù, fame e uccisioni. Vi sono governi che opprimono i loro popoli e ovunque la ricchezza viene sperperata negli armamenti. Questi sono mali diversi, ma sono opera comune dell’uomo. Essi riflettono l’imperfezione dell’umana giustizia, l’inadeguatezza dell’umana pietà, la nostra mancanza di sensibilità verso la sofferenza dei nostri simili»

Dopo il funerale ad Arlington, dove venne sepolto accanto a suo fratello John, l’astronauta John Glenn, amico di famiglia, riportò a casa i più piccoli dei 10 figli di Bobby (l’undicesima, Rory Elizabeth Katherine nacque qualche mese dopo la morte di Bobby). Dopo averli messi a letto, Glenn entrò nello studio di Robert Kennedy e vide sulla scrivania un poema di Ralph Waldo Emerson. Nella pagina lasciata aperta Bobby aveva sottolineato una frase: «Fai sempre ciò che temi di fare».

 

Alberto Quattrocolo

[1] Per i loro figli, soprattutto per i 4 maschi, l’avere successo, il riuscire a vincere, era sinonimo di essere meritevoli d’amore. Un amore, però, che ricevevano con manifestazioni rare e molto sobrie. La madre, Rose Fitzgerald, infatti, scoraggiava ogni manifestazione emotiva o affettiva e ogni contatto personale.

[2] Terzogenita, nata nel 1918, aveva patito un deficit di ossigeno durante il parto, sicché la madre le aveva riservato un attenzione e un affetto incondizionati e, pur aiutando i fratellini ad essere sempre dolci e premurosi con lei, era stata con loro «molto fredda, molto distante da tutto», come spiegò Charles Spalding, un amico del la famiglia Kennedy.

[3] Laureatosi a Harvard nel 1948, Robert Kennedy dopo una breve esperienza nella Marina, alla fine del ‘51, aveva  iniziato a lavorare come legale nella sezione di sicurezza interna della divisione criminale del Dipartimento della Giustizia, che investigava su sospetti agenti sovietici. Poco dopo, però, nel febbraio 1952, era stato trasferito alla Corte federale per il distretto orientale di New York, per indagare sui casi di frode. Il 6 giugno 1952 era dimesso e aveva assunto il ruolo di guida della campagna elettorale del fratello John, impegnato nella competizione per il seggio di senatore del Massachusetts.

[4] John, tormentato da sempre da una salute instabile e da forti dolori fisici, aveva visto la morte in faccia, sia per le malattie, che durante la guerra, e, come il padre, era un donnaiolo compulsivo di “successo”, aiutato da una straordinaria carica di fascino malinconico e di sex appeal. Inoltre, la sua intelligenza riflessiva ma vivace insieme ad un fortissimo senso dell’umorismo e ad una non comune capacità di mettersi nei panni degli altri, gli impedivano di insuperbirsi o di assumere atteggiamenti arroganti. Era un’idealista, John, sì, ma spesso si lasciava guidare da un pragmatismo che lo portavano a contraddire i propri valori.

[5] Nel febbraio 1954, fu nominato primo consulente per la minoranza democratica, e 11 mesi dopo, nel gennaio 1955, quando i Democratici riconquistarono la maggioranza, ne divenne primo consulente. Bobby mantenne una posizione di secondo piano nelle audizioni del 1954 in cui McCarthy attaccò l’esercito, accusandolo di essere un ricettacolo di comunisti sovversivi. Queste baggianate, finalmente riconosciute come tali dai cittadini americani, quando vennero trasmesse per televisione, determinarono la disgrazia del senatore, ma non compromisero l’immagine di Robert Kennedy.  Il quale, del resto, fu tra i promotori della mozione di censura che pose termine alla generata politica di McCarthy.

[6] Pochi giorni dopo la vittoria, Jacqueline, la moglie di Jack, scrisse un biglietto al cognato: «A Bobby che ha reso possibile l’impossibile e ha messo in gioco tutte le nostre vite»

[7] «Bobby Kennedy non va al gabinetto se non scappa a Jack Kennedy», diceva, il vicepresidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson.

[8] Dalla fallimentare e disastrosa invasione della Baia dei Porci (l’abbiamo ricordata nel post La Baia dei Porci, quando la logica del conflitto porta alla catastrofe), alle compromettenti relazioni sentimentali di Jack, dalla collaborazione con Martin Luther King, alla crisi per l’installazione di missili sovietici a Cuba, c’era sempre Bobby a consigliare qualche, o addirittura la, soluzione.

[9] Nelle settimane e nei mesi seguenti Robert Kennedy cominciò a leggere Eschilo, Euripide, Erodoto e Sofocle e le opere degli esistenzialisti, soprattutto Albert Camus, per cercare un senso al dolore e alle sofferenze che segnano l’esistenza umana. Quelle letture gli furono utili e lo aiutarono a resistere e a reagire.

[10] «Dobbiamo riconoscere l’assoluta uguaglianza di tutte le persone… Dobbiamo farlo non perché sia economicamente vantaggioso, per quanto lo sia; non perché così vogliono le leggi di Dio e dell’uomo, sebbene lo impongano… Dobbiamo farlo per un’unica e fondamentale ragione: perché è la cosa giusta da fare…».

[11] Riguardo alla contestazione giovanile disse: « Il primo compito di chi governa non è di condannare o castigare o deplorare, bensì di cercare il motivo della delusione e dell’alienazione, la ragione della protesta e del dissenso, magari per trarne qualche utile lezione».
[12] I consiglieri gli suggerirono di cancellare il comizio, ma Bobby rifiutò. Salito sul palco davanti a un migliaio di neri, «Lo sanno?» chiese. «Fino a un certo punto – mormorò un organizzatore – lasciamo fare a lei».  E Robert F. Kennedy parlò, facendolo a modo suo.

[13] «Oggi non è giornata per fare politica. Mi sono riservato questa occasione come unico impegno di oggi per parlare brevemente con voi della minaccia insensata della violenza in America che macchia ancora la nostra nazione e la vita di tutti noi. Non è la preoccupazione di una sola razza. Le vittime della violenza sono neri e bianchi, ricchi e poveri, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti. Prima di ogni altra cosa erano esseri umani a cui altri esseri umani volevano bene e di cui avevano bisogno. Nessuno, in qualsiasi posto viva e qualsiasi cosa faccia, può essere certo di chi sarà il prossimo a soffrire per un insensato atto di sangue. Eppure la violenza continua, continua, continua in questo nostro Paese. Perché? Che cosa ha mai ottenuto la violenza? Che cosa ha mai creato? Quando un americano toglie la vita ad un altro americano, sia se viene fatto in nome della legge o contro la legge, da un uomo o da una banda, a sangue freddo o in preda al furore, in un attacco di violenza o in risposta alla violenza, quando strappiamo il tessuto della vita che l’altro ha faticosamente e goffamente creato per sé e per i propri figli, quando lo facciamo, l’intera nazione è degradata. Eppure sembra che tolleriamo un crescente livello di violenza che ignora l’umanità che ci accomuna e le nostre pretese di civiltà. Troppo spesso rendiamo onore alla spavalderia, alla prepotenza e a chi esercita la forza. Troppo spesso scusiamo coloro che costruiscono la propria vita sui sogni infranti di altri esseri umani. Ma è una cosa chiara, la violenza genera violenza, la repressione genera rappresaglia e soltanto la pulizia di tutta la nostra società potrà estirpare questo male dalla nostra anima. Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un’abitazione comune ma non da un impegno comune. Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza. La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità, conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono. Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore».

[14]  Sirhan Sirhan avea sparato frontalmente a Robert Kennedy, ma l’autopsia eseguita dal dottor Noguchi rivelò che c’era un foro d’entrata del proiettile dietro l’orecchio destro. E in effetti, una foto scattata subito dopo la sparatoria rivelava una ptosi palpebrale tipica di una lesione cerebrale. Le conclusioni di Noguchi, tuttavia, furono completamente ignorate, suscitando il sospetto che il colpo mortale fosse stato sparato in realtà da un membro dello staff di Kennedy, mentre il vero ruolo di Sirhan Sirhan sarebbe stato quello di distrarre i presenti, permettendo al vero assassino di colpire e farla franca. I sospetti su di una cospirazione crebbero durante le indagini e il processo. Migliaia di foto e reperti andarono distrutti, inoltre una registrazione audio, realizzata involontariamente da un reporter polacco ha rivelato recentemente che i colpi sparati erano stati 13, ma il revolver di Sirhan aveva solo 8 proiettili, e che 2 erano esplosi a 120 ms l’uno dall’altro, mentre con l’arma di Sirhan il tempo minimo fra un colpo e l’altro era di 360 ms.

1913, la suffragetta Emily Davison è ferita mortalmente nell’incidente di Epsom

Il 4 giugno del 1913 tutta l’Inghilterra che conta si recò a Epsom, alle porte di Londra, per il Derby, la corsa dei cavalli che richiamava la nobiltà e la ricca borghesia dell’epoca, in una parata di vestiti all’ultimo grido, cappellini con ardite composizioni floreali, livree tirate a lucido; tra il pubblico c’era anche il re, Giorgio V. La corsa ebbe inizio, i concorrenti lanciati al galoppo; in uno dei punti nevralgici del percorso, a un passo dalle ringhiere di protezione, una donna si gettò all’improvviso verso il cavallo del re per tentare di afferrarne le briglie. L’urto, immortalato dalle immagini d’epoca, fu tanto imprevisto quanto spettacolare.

La donna era Emily Davison, una suffragetta, come si diceva allora con malcelato disprezzo; riportò una frattura cranica e varie lesioni interne, e morì pochi giorni dopo.

Subito dopo l’incidente, re Giorgio V si interessò alla sorte del cavallo e del fantino – usciti quasi incolumi dallo scontro – e manifestò grande disappunto per la giornata di festa rovinata dal gesto della Davison. La regina inviò un telegramma al fantino, augurandogli di rimettersi al più presto da “un triste incidente causato dal comportamento deplorevole di una donna lunatica e terribile”. Il fantino rimase invece sconvolto dall’evento e, a distanza di anni, rese un pubblico omaggio alla vittima.

 

La Women’s Social and Political Union (WSPU), il movimento radicale impegnato nella lotta per l’uguaglianza in cui Emily Davison militava, fece di lei un’icona. Il settimanale “The Suffragette” uscì con una copertina celebrativa che la raffigurava come un angelo alato e riportava la famosa citazione del Vangelo di Giovanni che fu poi incisa anche sulla sua tomba:

nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici.

Sulla lapide fu inciso anche il motto della WSPU: “Atti, non parole”.

Cinquantamila persone, uomini e donne, borghesi e proletari, seguirono i funerali di Emily a Londra, e altre centinaia le resero omaggio lungo il percorso del treno che ne riportò le spoglie al paese natale.

A lungo l’opinione pubblica britannica si è divisa sulla sua figura, anche a causa dell’atteggiamento della stampa e dell’establishment, che l’hanno descritta per molto tempo come una squilibrata e una fanatica. Chi voleva screditarla ha sempre affermato che la quarantunenne originaria del Northumberland aveva scelto d’immolarsi per la causa, trasformandosi in un’antesignana delle odierne donne-kamikaze. Ma le persone a lei più vicine, e soprattutto le sue compagne di lotta, hanno sempre sostenuto con decisione che volesse soltanto attaccare la bandiera viola, bianco e verde del movimento delle suffragette alle briglie del cavallo del re, per farla sventolare fino al vicino traguardo. Questa ipotesi è stata recentemente confermata da una sofisticata analisi digitale delle immagini dei cinegiornali d’epoca e da una nuova ricerca storica basata sul materiale inedito contenuto in un archivio privato, che mostra che Emily si era già procurata un biglietto per il treno che doveva riportarla a Londra, e aveva programmato di recarsi a Parigi in visita alla sorella e al nipotino appena nato.

Nata nel 1872, Emily riuscì con grande determinazione a concludere il percorso di studi in lingua e letteratura inglese, in un’epoca che escludeva il genere femminile dall’istruzione superiore. In seguito, non potendo laurearsi né insegnare all’interno dell’università in quanto donna, divenne docente presso scuole private e poi istitutrice presso una ricca famiglia nel Berkshire. Nonostante conducesse un discreto tenore di vita, si sentì perennemente insoddisfatta della propria condizione, non tollerando la disuguaglianza di opportunità che intercorreva tra i due generi. Perciò nel 1906 decise di iscriversi alla WSPU, che all’epoca incentrava le sue battaglie attorno al tema dell’affermazione del suffragio femminile.

Il suo curriculum di attivista fu impressionante. Scrisse circa duecento lettere, molte delle quali pubblicate, a oltre cinquanta giornali, per illustrare con toni e argomentazioni non violente le posizioni della WSPU, le cui pratiche radicali di protesta suscitavano nell’opinione pubblica un misto di simpatia e distanza. Partecipò a numerose azioni eclatanti, lanciando pietre, infrangendo finestre, facendo esplodere cassette delle lettere, compiendo irruzioni in luoghi o eventi riservati agli uomini; provocò l’incendio, dannoso ma senza vittime, della nuova casa del Cancelliere David Lloyd George; in occasione del censimento del 1911, si nascose in un armadio del Palazzo di Westminster in modo da poter legittimamente indicare sul modulo che la sua residenza, quella notte, era stata la Camera dei Comuni, vietata alle donne.

Fu arrestata in nove occasioni, ogni volta intraprendendo uno sciopero della fame, pratica comune tra le militanti del WSPU per dare visibilità alle vessazioni patite ad opera di un sistema che si ostinava a non riconoscere la dignità delle loro battaglie; i funzionari delle carceri ricorrevano alla violentissima pratica dell’alimentazione forzata: Emily la subì 49 volte, riportando lesioni ai nervi facciali e ai denti, e la definì come una tortura barbara, indescrivibile, “il cui orrore mi perseguiterà per tutta la vita”.

 

In vita e dopo la morte, come tutte le attiviste, fu vilipesa, insultata ed esposta al pubblico ludibrio a mezzo stampa o dai sostenitori dell’ordine costituito, istituzionali e non. Oltre ai giornali, alla legge e agli arresti, le donne in lotta si trovavano spesso ad affrontare ritorsioni sul posto di lavoro e l’allontanamento, minacciato o agito, dai figli minori, a volta con la complicità di mariti pavidi o schierati, come è documentato nel film “Suffragette”, di Sarah Gavron (2015).

Dopo la morte della Davison, la battaglia per il riconoscimento del diritto di voto femminile nel Regno Unito proseguì in varie forme, fuori e, in minima parte, dentro le istituzioni; le strategie radicali di Emmeline Pankhurst, fondatrice e discussa leader carismatica della WSPU, comportarono scissioni nel movimento. Con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, fu deciso di sospendere ogni azione, in nome della coesione nazionale contro il nemico esterno; la scelta fu premiata al termine del conflitto con il contentino della concessione del diritto di voto alle sole donne sposate di età superiore ai 30 anni, per arrivare a un vero suffragio universale e paritario con il Representation of the People (Equal Franchise) Act del 1928.

Nel 1991, il deputato laburista Tony Benn collocò di nascosto una targa per commemorare Emily Davison nella cappella di St Mary Undercroft alla House of Parliament: “Questo è il modesto tributo a una grande donna che si è dedicata ad una grande causa, che non ha vissuto abbastanza per vederla realizzata, ma che ha avuto un ruolo importante nel renderla possibile.”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.facebook.com/cannibaliere;  R. Michelucci, “Londra riabilita la suffragetta”, www.avvenire.it; D. Barbieri, “8 giugno 1913: muore Emily Wilding Davison”, http://www.labottegadelbarbieri.org; http://emilydavisonproject.org; C. Geymonat, “4 giugno 1913 – L’eroico sacrificio di Emily Davison”, https://riforma.it

3 giugno 2017, Piazza San Carlo, Torino

Il 3 giugno 2017 fu una serata di terrore e sangue a Torino e a Londra. A Torino, il  terrore vissuto e il sangue versato furono dovuti ad un falso allarme, che fece pensare a molte delle persone presenti in Piazza San Carlo che fosse in corso un attacco terroristico. Un vero attentato si verificò, invece, sul London Bridge e nel Borough Market, a Londra, quella sera.

La sera di sabato 3 giugno 2017, a Torino, in Piazza San Carlo, veniva trasmessa su maxischermo la partita finale di Champion League, tra Juventus e Real Madrid, giocata a Cardiff. Verso le 22.15, quando l’incontro era terminato da pochi minuti, tra le 40.000 persone accalcate nella piazza, si scatenò il panico. Si disse che un certo rumore improvviso scambiato per l’esplosione di una bomba aveva atterrito alcuni, inducendoli a a correre e a spingere. In pochi minuti fu il caos. La paura di essere schiacciati e il diffondersi della voce che da qualche parte fosse in corso un attacco terroristico, si propagarono come una corrente invisibile nella folla dei tifosi.

In realtà, tra la gente, secondo quanto stabilito il 17 maggio 2019, da Maria Francesca Abenavoli, Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino, un gruppo di ragazzini, avendo spruzzato dello spray al peperoncino per rubare, avrebbe provocato il panico tra gli spettatori. In primo grado, in virtù di tale ricostruzione, sono stati condannati, per omicidio preterintenzionale, lesioni, rapina e furto, Sohaib Boumadaghen, Hamza Belghazi, Mohammed Machmachi e Es Sahibi Aymene. Ai primi tre sono stati inflitti 10 anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione, al terzo 10 anni, 3 mesi e 24 giorni. Il  tribunale nei prossimi mesi dovrà decidere anche sulle accuse formulate dalla Procura, per le carenze nella gestione dell’evento del 3 giugno 2017, a carico di 15 persone imputate per disastro, lesioni e omicidio colposo. Tra costoro vi sono la sindaca Chiara Appendino e l’ex questore Angelo Sanna.

Si parla di omicidio – colposo, nell’imputazione per i responsabili della gestione dell’evento, e preterintenzionale, nelle condanne citate -, poiché gli esiti di quella collettiva esplosione di paura furono, oltre al ferimento di 1.692 persone, anche due morti: quella di Erika Pioletti e quella di Marisa Amato. Una terza persona morrà tre anni dopo: Anthony Bucci, 50 anni, di San Marino, infatti, è morto il 31 gennaio all’ospedale di Monza, dopo aver subito anche l’amputazione di un piede (era un paziente diabetico e non è mai più riuscito a tornare a camminare normalmente, sicché, muovendo poco gli arti, i vasi sanguigni si erano calcificati e nell’ottobre 2018 i medici avevano dovuto amputargli un piede). Tra i quasi 1.700 feriti ci fu anche un bambino, Kelvin, di sette anni. Il piccolo, per fortuna, venne messo in salvo da due ragazzi, Mohammad Guyele e Federico Rappazzo, come riportò La Stampa.

Quella stessa sera del 3 giugno 2017, meno di un’ora dopo il caos scoppiato a Torino – cioè, alle 23.08 secondo l’ora italiana -, veniva realizzato un vero atto di terrorismo, a Londra. Erano trascorsi poco più di due mesi dall’attentato a Westminster e solo due settimane da quello commesso a Manchester. A Londra, sette persone venivano uccise e 48 ferite, di cui alcune in modo particolarmente grave.

Sulla rubrica Politica e Conflitto abbiamo già dedicato un post a questo evento del 3 giugno 2017. In esso avevamo scritto che le persone, spaventate e scioccate, tra quelle presenti quella sera in Piazza San Carlo, certamente non erano state vittime di uno specifico atto terroristico, come lo erano state, invece, quelle coinvolte nell’attacco quasi contestualmente commesso a Londra, ma potevano considerarsi vittime del clima di paura volutamente creato dal terrorismo. Cioè, quegli spettatori della partita di Champions League erano stati vittime, oltre che di quanto verrà stabilito definitivamente dall’autorità giudiziaria rispetto ai processi sopra citati, anche di un’attività terroristica. Un’attività svolta su scala internazionale che era riuscita a trasformare quegli spettatori in una folla atterrita e, perciò, pericolosissima.

A ridosso dell’evento, anche Vincenzo Villari, primario di psichiatria alle Molinette, intervistato da La Stampa, alla domanda se vi fosse stata psicosi da terrorismo, egli aveva risposto: «L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di diffondere la paura. Anche in situazioni come quella di sabato sera, che non c’entrano con gli attentati. E quando questa dinamica si sviluppa tra migliaia di persone, l’effetto si moltiplica e la folla è difficile da organizzare».

La vittimizzazione subita da chi visse l’orribile notte di Piazza San Carlo non fu, quindi, una condizione di “vittimizzazione potenziale”. Infatti, tale termine si riferisce alla reazione emotiva e comportamentale di chi teme che prima o poi un crimine possa essere commesso a suo danno, essendo stato sensibilizzato dall’esposizione alla notizia circa uno o più episodi delittuosi. Mentre il 3 giugno 2017, non si è temuto che un giorno potesse accadere un attentato, ma si è pensato che fosse proprio in corso, in quell’esatto momento. E la convinzione, o anche solo il sospetto, che fosse in esecuzione un attacco terroristico ha prodotto una vittimizzazione effettiva.

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Nel post Le vittime di Piazza San Carlo, si era spiegato che tra i Servizi gratuiti che l’Associazione Me.Dia.Re. eroga a Torino, vi sono anche quelli di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato, doloso e colposo, e per le persone affettivamente legate alle vittime, e che all’interno di tale attività erano state ascoltate alcune delle persone presenti in quella piazza, nei giorni e nelle settimane successivi al 3 giugno 2017.

Quella descritta dalla persone ascoltate era stata un’esperienza da incubo. Nel post citato avevamo scritto «Non soltanto la sensazione di essere premuti e soffocati dalla calca, già antecedente alle 22,15, e poi il terrore […]. Una sensazione nauseante e violentissima di irrealtà e, contemporaneamente di urto brutale contro l’assurdo che diventa realtà. Uno stordente  sovvertimento di ogni senso comune, di ogni logica. Uno smarrimento di ogni riferimento. Una disperata ricerca di appigli fisici, per non essere schiacciati al suolo, cosparso di vetri, o sulle transenne, o per non perdere compagni, amiche o familiari le cui dita scivolavano via dalla stretta della mano […] Il tentativo di capire cosa stesse accadendo, utilizzando le categorie disponibili per interpretare gli stimoli fisici ricevuti. Così, il rumore di circa 80 mila piedi sull’acciottolato, a chi era finito per terra, in alcuni casi, aveva fatto pensare ad un treno, ad altri ad un cingolato che stava percorrendo la piazza. Perché nessuno prima di allora aveva mai messo l’orecchio al suolo per sentire il rumore di tante migliaia di piedi che pestano e corrono, mentre il suono del treno o quello di un mezzo con i cingoli era conosciuto, e a quelle cose si era pensato. Nel primo caso restando dentro un limbo trasognato, nel secondo, quello del cingolato, convincendosi che davvero c’erano i terroristi in piazza. E subito il pensiero era andato alla strage del 14 luglio 2016 a Nizza […]. Mentre ad altri, e tra questi chi aveva fatto l’esperienza diretta del G8 di Genova del 2001, molti dei suoni avvertiti e delle cose viste hanno fatto pensare ad un golpe». Si sapeva che si rischiava di morire e c’era anche la sensazione di poter fare del male o, addirittura, di poter dare la morte ad altri. E questo aspetto si collegava ad un altro vissuto, sviluppatosi in alcuni già pochi minuti dopo, in alcuni altri a distanza di alcune ore: una brutta sensazione vergogna. Per costoro l’aver cercato  di salvare se stessi e i propri cari, l’essere stati dominati dal “mors tua, vita mea”, il ricordare di aver spinto e lottato, o il non riuscire a ricordarlo, furono motivo di vergogna, e non solo di senso di colpa. E la vergogna è assai difficile sia da sostenere che da condividere, essendo più scomoda ed ingombrante, sotto certi aspetti, del mero senso di colpa. Questo sentimento doloroso, di per sé, può, in generale, avere anche qualcosa di eroico. Mentre, in alcuni tra gli spettatori della partita del 3 giugno 2017, costituiva un motivo di vergogna e non di senso di colpa l’aver reagito alla paura, dandole corso, venendo così meno al dovere (morale, sociale?) di restare freddi e controllati, di avere coraggio. Per costoro, costituiva un’aggravante il fatto beffardo che, in realtà, non fosse accaduto nulla di ciò che in tanti in piazza pensavano fosse successo: non c’era stato nessun attacco terroristico.

Nonostante questo dato di realtà, sarebbe bene ricordare che quella sera del 3 giugno 2017 gli spettatori di Piazza San Carlo, furono vittime di una violenza. E occorre ricordare che l’esserlo senza venire riconosciuti come tali può avere conseguenze lesive importantissime. Si pensi, ad esempio, alla donna vittima di violenza in famiglia che, da degli interlocutori da cui vorrebbe essere compresa e creduta, sente sminuiti i maltrattamenti cui è sottoposta. Oppure si pensi a quei richiedenti asilo che, sebbene abbiano patito torture e violenze atroci, non vengono creduti. Anche per coloro che vissero l’incubo del 3 giugno 2017 in piazza San Carlo il non considerare la violenza vissuta equivarrebbe a negare loro la legittimità della sofferenza provata. Chi visse quell’evento, in pochi minuti, perse molte cose importanti, difficili da spiegare e da recuperare e reintegrare. Sarebbe bene non pensare ad esse come a vittime di rango inferiore rispetto ad altre. Sarebbe bene non privare queste persone del rispetto umano e civile dovuto ad esse come a tutte le altre vittime di violenza. Perché, come ricordammo altrove, le vittime sono tutte uguali e nessuna è più uguale di un’altra.

Alberto Quattrocolo

Repubblica o monarchia?

Domenica 2 e lunedì 3 giugno 1946, gli italiani andarono a votare per la repubblica o per la monarchia. Dovevano esprimersi, infatti, nel referendum indetto per determinare la forma di Stato da dare all’Italia. Era appena finita la Seconda Guerra Mondiale e con esso l’incubo ultraventennale del fascismo. Si tornava a votare e lo si faceva per scegliere il proprio futuro, quello delle successive generazioni e l’avvenire del Paese.

Era la prima volta che in Italia, in una consultazione politica nazionale, avevano diritto di votare anche le donne. E lo esercitarono questo diritto: andarono ai seggi circa 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini. L’astensionismo fu bassissimo dato che votò l’89,08% degli allora 28.005.449 aventi diritto al voto.

La Corte di Cassazione il 10 giugno 1946, proclamò i risultati: 12.717.923 cittadini erano stati favorevoli alla repubblica (54,3%), mentre 10.719.284 cittadini avevano votato per la monarchia (45,7%).

Referendum istituzionale ed elezioni dei membri dell’Assemblea Costituente

Come si arrivò a questa svolta decisiva per il nostro Paese lo abbiamo ricordato, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Il referendum più importante nella storia d’Italia.

Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, successivo di quasi un anno alla Liberazione del Paese (quel 25 aprile del ’45 che abbiamo ricordato qui), modificò ed integrò il decreto n. 151 del 25 giugno 1944, col quale si  stabiliva che, alla fine della guerra, mediante suffragio universale diretto e segreto, si sarebbe eletta un’Assemblea Costituente, per scegliere la nuova forma di Stato e per preparare la nuova Carta Costituzionale. Fu il decreto del 16 marzo ‘46, infatti, ad affidare ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Inoltre essa stabilì che, qualora la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata a favore della repubblica, l’Assemblea Costituente, come primo atto, avrebbe eletto il Capo Provvisorio dello Stato. Il 16 marzo 1946 il principe Umberto, quindi, aveva firmato un decreto in virtù del quale, come previsto dall’accordo del 1944, la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente.

In tal modo, le forze politiche antifasciste, avevano deciso di affidare al popolo italiano la scelta tra monarchia e repubblica, mediante referendum e, per la prima volta nella storia d’Italia, assegnavano agli elettori il compito di selezionare gli autori della carta costituzionale. Si poneva termine alla tradizione delle costituzioni, ottocentesche, octroyeés, cioè concesse dal re “per grazia di Dio”.

L’esito del referendum

Dall’analisi del voto referendario risultò che il fronte repubblicano aveva prevalso nell’Italia Centro-settentrionale, venendo sconfitto, invece, nel Sud e nelle Isole. Infatti, al nord, il 66,2% aveva votato per la repubblica. Al sud, invece, la monarchia aveva ottenuto il 63,8% dei votanti al referendum.

In particolare, da Nord a Sud, nelle maggiori città il voto era stato il seguente: avevano votato per la forma repubblicana dello Stato, ad Aosta il 63,5%, a Torino il 59,9%, a Milano il 68%, a Genova il 69%, a Trento l’85%, a Udine il 63%,a Venezia il 61,5%. a Bologna l’80,5%, a Firenze il 71,6%, ad Ancona il 70,1%, a Perugia il 66,7, a Roma il 49%, all’Aquila il 46,8%, a Napoli il 21,1%, a Cagliari il 39,1%, a Potenza il 40,6%, a Bari il 38,5%, a Catanzaro il 39,7% e a Palermo il 39%.

Il 2 giugno 1946, oltre a votare per determinare la forma dello Stato, le cittadine e i cittadini italiani erano chiamati anche ad eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova Costituzione.

I deputati da eleggere come membri dell’Assemblea Costituente erano 556. Ed ottennero un successo completo quelli dei partiti che si erano espressi per la scelta repubblicana (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista di Unità Proletaria, Partito Repubblicano e Partito d’Azione). A costoro complessivamente  andò poco più dell’80% dei voti. Una percentuale, quindi nettamente più elevata di quella dei voti espressi a favore della Repubblica nella consultazione referendaria, che erano, appunto, il 54,3%. Le liste monarchico-liberali si fermarono invece al 10%, anche se nel referendum per la monarchia aveva votato il 45,7% degli italiani. Il Fronte dell’Uomo Qualunque, che aveva mantenuto una posizione agnostica, aveva ottenuto 30 eletti, grazie al voto del 5,3%.

La composizione politica dell’Assemblea Costituente

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I candidati maggiormente votati erano stati quelli della DC con il 35,2%, che aveva assicurato 207 seggi. Il secondo partito era stato il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, che con il 20,7% dei voti aveva potuto insediare 115 membri. Il Partito Comunista Italiano era arrivato terzo con il voto del 18,9% degli elettori, corrispondente a 104 seggi. L’Unione Democratica Nazionale, che ottenne il 6,8%, pari a 41 seggi, era una coalizione elettorale, d’ispirazione liberale, costituita proprio per quelle elezioni e formata dal Partito Liberale Italiano (PLI), cioè da liberali conservatori, e dal Partito Democratico del Lavoro (PDL), vale a dire da demo-laburisti. Dopo il Fronte dell’Uomo Qualunque, di cui si è detto, c’era il
Partito Repubblicano Italiano, che aveva convinto il 4,4% dell’elettorato, procurandosi 23 seggi, seguito dal Blocco Nazionale della Libertà. D’ispirazione conservatrice e monarchica, questa lista, costituita anch’essa in occasione delle elezioni per l’Assemblea Costituente, da Partito Democratico Italiano, Concentrazione Nazionale Democratica Liberale e Centro Democratico ebbe 637 328 voti (pari al 2,77%) e 16 seggi, ma prima che fossero conclusi i lavori della Costituente, i suoi membri si divisero tra il Partito Liberale Italiano, il Fronte dell’Uomo Qualunque e il nascente Partito Nazionale Monarchico. Il Partito d’Azione, fondato clandestinamente nel 1942, durante la guerra partigiana era stato così attivo nell’organizzazione delle formazioni partigiane, come le brigate Giustizia e Libertà, da fornire un contributo che, numericamente, erano seconde soltanto a quelle “garibaldine”, riconducibili al Partito Comunista. Tuttavia, il 2 giugno del ’46 il Partito d’Azione, anche a causa delle forti divergenze ideologiche al proprio interno, sintetizzabili nella divisione tra liberal-democratici e filo-socialisti, conquistò appena l’1,4%, cioè 7 seggi. Altri 13 seggi andarono ad altre liste minori.

Come ha ricordato Silvia Boverini nel post dedicato alla promulgazione della Costituzione, all’interno dell’Assemblea, proprio mentre «si andava frantumando l’alleanza antinazista e antifascista e si andavano preparando gli anni della futura guerra fredda, i maggiori partiti italiani, che pure facevano ideologicamente riferimento a blocchi contrapposti, riuscirono a trovare un compromesso alto tra le ispirazioni culturali cattolica, liberale e socialista».

Il 27 dicembre 1947 venne promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la Costituzione della Repubblica italiana, che era stata approvata dall’Assemblea Costituente pochi giorni prima. Sarebbe entrata in vigore il 1º gennaio 1948.

Alberto Quattrocolo

Quel volto nella folla che rispecchia un’orribile realtà

Il comune comune volto nella folla è quello di uno squattrinato e sconosciuto cantante folk, che vive di espedienti nella provincia depressa dell’Arkansas degli anni Cinquanta. Un tipo rozzo e furbo, violento e ubriacone, ma dotato di una particolare, e quasi inconsapevole, capacità affabulatoria.

Questo volto nella folla appartiene a Larry Rhodes. Rinchiuso in una sordida galera, per ubriachezza molesta, viene ribattezzato Lonesome (Solitario) Rhodes dalla giornalista che lo ha “scoperto”, Marcia Jeffries.  Costei, nipote del proprietario della stazione radio KGRK, che si autodefinisce la voce del nord-est dell’Arkansas, mette un microfono davanti alla bocca delle persone che incontra, per strada, nei bar o in galera, chiedendo loro di dire qualcosa, qualsiasi cosa, o magari di cantare una canzone. Poi manda in onda le loro voci, nella trasmissione Un volto nella folla. Un programma sulla gente comune e rivolto alla gente comune.

Inizia così Un volto nella folla, il film “al vetriolo”, uscito il 1° giugno del 1957, diretto da Elia Kazan e da lui co-prodotto con Budd Schulberg, autore del racconto-soggetto e sceneggiatore della pellicola – come già lo era stato del pluripremiato, e controverso, maggior successo di Kazan, Fronte del porto (1953).

Un volto nella folla non è semplicemente un durissimo atto d’accusa e un angosciato grido d’allerta sulle possibilità di fabbricazione del consenso popolare acquisito dai media. Certamente, Elia Kazan, già nel 1957, con questo duro e polemico film, splendidamente fotografato in bianco e nero da Harry Stradling, illustrava il potere subdolo della radio e della televisione di trasformare un qualunque volto nella folla in un divo capace di stregare le masse e di manipolare l’opinione pubblica. Ma, soprattutto, Kazan svelava la faccia degenerata del populismo, smontando i miti dell’infallibilità popolare, della sanità morale e dell’infallibile saggezza di giudizio della gente comune.

Oltre la denuncia del potere manipolatorio dei media

La parabola del protagonista, dall’anonimato fino alle vette dell’adorazione divistica, prima come star radiofonica e, poi, televisiva, illustra con sorprendente attualità il potere conferito dall’uso strategico dei media, a chi sa servirsene cinicamente, come  Larry “Losenome” Rhodes. Costui sa istintivamente come far breccia nel cuore degli spettatori. Sa che il trucco è quello di far di tutto per essere considerato uno di loro. Ed essi, infatti, come tale lo vivono, visto che Lonesome usa il mezzo radiofonico e televisivo per dire loro esattamente ciò che vogliono sentirsi dire, magari, talvolta, segnalando, strumentalmente, qualche ingiustizia. Ma, anche in tal caso, sempre oscillando tra istanze eterogenee e contraddittorie, in modo tale da assecondare i sentimenti di insicurezza e di frustrazione e il bisogno insoddisfatto di considerazione e di approvazione che sente circolare nel suo pubblico. Soprattutto, ribadendo sistematicamente le proprie origini campagnole, ostentando la propria appartenenza al consorzio della “gente comune”, egli sfrutta il fisiologico bisogno di riconoscimento e il naturale desiderio di riscatto dei cittadini, per sedurli e spingerli a prendere per oro colato tutto quello che gli propone. Riesce, quindi, far comprare da milioni di persone le improbabili pillole Vitajex (dei falsi integratori alimentari), e a garantire l’elezione ad un opaco, inconsistente e retrogrado, senatore di destra, candidatosi alla presidenza degli Stati Uniti. «La farò amare, la farò amare da tutti!», lo rassicura.

«Guardate la gente di provincia: il sale della terra! Il cuore dell’America!»

Lonesole Rhodes, infatti, sa come prendere la gente. Prima stimola l’approvazione della parte femminile del pubblico, denunciando bonariamente il maschilismo di chi non vuole riconosce le fatiche delle casalinghe americane. Poi compiace il maschilismo di chi sente messo in pericolo il ruolo tradizionalmente sottomesso della donna. Ma, sempre e invariabilmente, lusinga il pubblico, specialmente quella parte, la maggioranza, alla quale si rivolge.

«Guardateli!», esclama, ad un certo punto, in un guizzo di esaltato istrionismo manipolativo «Guardate la gente di provincia: il sale della terra! Il cuore dell’America!» Per poi aggiungere con esultante narcisismo: «E amano me!».

Rhodes, in effetti, non crede in nulla e in nessuno. Non ha valori, non ha principi, non ha punti di riferimento morali, ancor prima che politici. Del tutto privo di ideali, conosce benissimo quali corde popolari far vibrare e considera la politica niente di più che una forma di spettacolo o un prodotto da pubblicizzare per i consumatori. Ai quali indirizza continuamente messaggi di adulazione, venendo ripagato da applausi adulatori. Così: prima, mette davanti alle telecamere una donna che ha perso la casa, un’afro-americana, derogando ad un inviolabile tabù della società razzista dell’epoca, per sollecitare, con notevole successo, una colletta che le permetta di avere una casa, così da accarezzare il bisogno di ciascuno di saper essere solidale; poi, però, sostiene nella marcia verso la presidenza un politico ultra-reazionario e razzista, decisamente contrario ad ogni politica di sostegno per emarginati e disoccupati.

«Il popolo vuole slogan da detersivi. Trovate pubblicitarie, barzellette, belle donne!»

Sullo stesso tema di Un volto nella folla si era già soffermato, in realtà, Frank Capra con Arriva John Doe (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, nel post La profezia di John Doe) e nello Stato dell’Unione (di cui abbiamo parlato nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First). Ma in entrambi questi due film di Capra il tema era affrontato secondo la poetica del regista italo-americano, nell’ambito della quale l’amarezza della critica, la forza dell’allarme o della denuncia, trovavano un contrappeso nella sua fiducia nella saggezza della gente comune e nella sua onestà di fondo. Un’onestà, quella dei protagonisti dei film di Capra, che le lusinghe del successo, le sollecitazioni narcisistiche della fama, da un lato, e gli intrallazzi e gli artifici del potere, dall’altro, potevano solo momentaneamente offuscare. Nel caso del film di Kazan, invece, non c’è alcun posto per questa fiducia cieca. Anzi, il tono è quello di una desolata e amarissima, rappresentazione di un’innocenza popolare mai esistita.

Come dice l’industriale, “il generale”, che vuole convincere il senatore Fuller ad avvalersi di Rhodes come testimonial di punta nella sua campagna per le elezioni presidenziali:

«Senatore devo essere franco, le tue interviste alla TV sono state catastrofi. Il popolo vuole slogan da detersivi. Trovate pubblicitarie, barzellette, belle donne!».

Fuller, razzista e segregazionista, intimorito dall’aggressività di Solitario Rhodes obietta che la politica consiste nello spiegare le proprie idee. Rhodes sbotta: «Balle! La politica è la gente!». E risolve, così, la debole riluttanza di Fuller a farsi supportare da questo esuberante imbonitore.

Il fascino, patetico e ripugnante del volto nella folla

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Solitario Rhodes, idolo delle masse e scatenato opinion maker, al servizio dei peggiori esponenti della politica nazionale, è, quindi, il peggiore volto nella folla a cui si possa pensare, secondo parametri etici e morali. Ma la sua assenza di scrupoli, la sua superficialità, il disperato bisogno di essere adorato e l’angosciante incapacità di amare, sono proposte da Kazan come qualcosa di grottescamente rappresentativo. Qualcosa di terribilmente comune. Donnaiolo compulsivo, Solitario, è un narcisista egocentrico ed egoista. Uno che sente di esistere soltanto se qualcuno lo ammira irrazionalmente. Uno che non sa chi è davvero. Rhodes confonde la propria identità con l’immagine artefatta di Sè che cerca di spacciare alle anonime masse del pubblico. Un’immagine artificialmente costruita a tavolino, ma a partire da qualità naturali, che però sono frustrazioni, ansie, vizi e debolezze comuni: il bisogno di sentirsi apprezzati, l’egoismo inconfessato, la paura di conoscere se stessi, la propensione a reprimere l’angoscia del vuoto e della propria irrilevanza con l’auto-inganno…

Un volto nella folla e la caccia alle streghe

Kazan e Schulberg non volevano solo proporre il ritratto di un personaggio disgustoso. Nel mostrare il vero volto di chi, conoscendo il valore del pensiero di massa, sa di poter confidare nell’ignoranza del pubblico e nella sua scarsa memoria, per accumulare o recuperare facili consensi, essi offrivano un ritratto impietoso dell’americano medio. Cioè, di quei milioni di loro concittadini che, con la loro superficiale approvazione, avevano consentito l’affermarsi della caccia alle streghe e avevano portato al successo un personaggio deprecabilmente superficiale e inguaribilmente fasullo come il repubblicano Joseph McCarthy (ne abbiamo parlato nel post A cavallo della paranoia). Entrambi, com’è noto, avevano ceduto alle pressioni della Commissione d’indagine per le attività anti-americane, denunciando ad essa amici e colleghi di idee comuniste o sospettabili di averne (come fece anche Sterling Hayden, di cui abbiamo ricordato la vita nel post La vita spericolata di Sterling Hayden). Ma non per questo erano diventati sostenitori del maccartismo. E Un volto nella folla può tranquillamente essere visto anche attraverso questa lente interpretativa. Non va scordato, infatti, che il popolo americano aveva seguito McCarthy quando senza uno straccio di prova denunciava la presenza di sovversivi, cioè di comunisti, noti ai vertici del governo, prima, tra i funzionari governativi, poi, nell’esercito e, infine, tra i pastori protestanti. Il senatore democratico Lyndon B. Johnson, leader della maggioranza al Senato, disse al Segretario di Stato, il repubblicano Robert Baker: 

«McCarthy è il senatore più balordo che ci sia. Non sa neppure allacciarsi le sue stramaledette scarpe: Ma adesso è sulla cresta dell’onda, ha spaventato a morte la gente, facendole credere che un qualche comunista la strangolerà nel sonno. E chiunque decida di attaccarlo prima che questa febbre cali… be’, non si gareggia con una puzzola a chi piscia più lontano».

Quell’insuccesso di pubblico di Un volto nella folla che sembra confermarne la validità

Il film di Elia Kazan, in teoria, avrebbe potuto ottenere un buon successo. Alcuni anni, Tutti gli uomini del re (1949, di Robert Rossen), altra denuncia della demagogia populista, ispirata alla vita di Huey Long, un politico degli anni Trenta, aveva ottenuto l’Oscar come miglior film, inoltre ne aveva procurato uno al suo protagonista, Broderick Crawford e un altro a Mercedes McCambridge, come miglior attrice non protagonista, riscuotendo anche un notevole successo di pubblico e di critica. Anche Un volto nella folla poteva contare sulle prestazioni di un cast azzeccatissimo. Ad interpretare il cantautore spostato, Larry Rhodes fu l’esordiente Andy Griffith. Costui – che nella vita vera era anche un cantante gospel – non risparmiò un grammo di energia per far vivere sullo schermo l’oscena e scatenata forza della natura che il suo personaggio sprigiona. Marcia Jeffries, la giornalista, era interpretata da un’attrice molto apprezzata, Patricia Neal. Di questo difficile e complesso personaggio, Patricia Neal, con sensibile autenticità, riuscì ad esprimere il groviglio conflittuale di sentimenti contraddittori che prova verso Larry Rhodes. Un’altalena tra attrazione irresistibile e repulsione morale. Oltre alla Neal, nel cast c’erano anche: Walter Matthau, precisissimo nel dar voce all’impotenza dell’intellettuale che, pur riconoscendo il marcio di Rhodes, non riesce a smascherarlo; Anthony Franciosa, perfetto nel dare sfumature credibili ad un personaggio gretto, scaltro, servile, arrogante e rapidissimo nel salire sul carro del vincitore e nell’abbandonarlo quando perde consensi. Inoltre esordiva una giovanissima, incantevole e già assai efficace Lee Remick.

Ciononostante, Un volto nella folla non ottenne il successo commerciale sperato. Kazan disse che era il film “più americano” tra quelli che aveva girato. Intendeva che era quello che sentiva essere più speculare dell’America. Probabilmente, è il film più politico tra quelli da lui girati. Per quest’opera, comunque, valgono considerazioni simili a quelle svolte per un altro film, La caccia (1966, di Arthur Penn), ricordato su Corsi e Ricorsi (si veda il post La caccia ai capri espiatori): continua ad essere lo specchio di qualcosa di orribilmente vero non soltanto negli USA, e in particolare negli Stati del Sud, ma in tutto quello che normalmente viene chiamato l’Occidente. Italia inclusa.

Del resto suonano ancora oggi alquanto disturbanti le parole con cui Lonesome Rhodes confida a Marcia ciò che pensa delle sue folle di adoranti sostenitori:

«Tutto il Paese è un po’ il mio gregge di pecore. Manovali, operai, casalinghe, contadini, invalidi, impiegati: tutta gente che deve saltare quando qualcuno le fa un fischio. Non lo sanno ancora, ma diventeranno tutti “i figli di Fuller”. Sono miei!  E’ gente che è fatta come me. Solo che sono più cretini di me. Ed io devo pensare per loro!».

Alberto Quattrocolo