20 giugno 1940 l’attacco infame e fallimentare dell’Italia alla Francia

Quando Mussolini decise l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, al fianco del suo alleato cofirmatario del Patto d’Acciaio, la Germania di Adolf Hitler, dichiarando guerra alla Francia e alla Gran Bretagna (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato come si arrivò a questa infausta, irresponsabile, sanguinaria, autodistruttiva, criminale e vile decisione, nel post Solo alcune migliaia di morti), avrebbe potuto attaccare la prima in diversi altri punti, inclusi porti e siti strategici sul litorale nordafricano, ma il 20 giugno 1940 optò per uno sfondamento lungo il confine delle Alpi OccidentaliQuest’impervia catena montuosa si sviluppa, lungo un arco da nord a sud, dal monte Dolent al Mar Ligure. Un susseguirsi di cime elevate, che si abbassano un po’ man mano che la catena alpina si avvicina alla costa, inframmezzate da massicci come quello del Monte Bianco, la catena del Rutor e la Grande Sassière, il complesso Rocciamelone-Charbonnel, il monte Thabor, il Gruppo del Monviso, l’Argentera e il Clapier. Vi sono solo alcuni passi o colli transitabili (quelli del Piccolo San Bernardo, del Monginevro, del Moncenisio, della Maddalena e il colle di Tenda), collocati ad un’altezza media attorno ai 2000 metri, perciò spesso coperti di neve. Del resto l’altitudine media dei 515 km della linea delle Alpi Occidentali è piuttosto significativa, dai 2000 metri delle Alpi Marittime ai 3.000 metri delle Alpi Graie. I francesi avevano iniziato a fortificare il loro versante, sette anni dopo che Mussolini aveva preso il potere in Italia, nel 1929, iniziando quasi dalla costa e giovandosi del fatto che fosse argo circa 120 chilometri. Il governo Mussolini aveva dato il via alla fortificazione, soltanto alla fine degli anni Trenta, con una penalizzazione aggiuntiva rappresentata dal fatto che il versante italiano era di circa 40 chilometri, cioè decisamente più ristretto di quello francese.

Nonostante questi dati di fatto e nonostante l’altrettanto rocciosa realtà della superiorità delle truppe francesi, Mussolini il 20 giungo 1940 decise di mandare i soldati italiani all’attacco. Facendone morire un bel po’, rimediando una figura imbarazzante e senza neppure ottenere apprezzabili bottini territoriali. Ma la propaganda fascista stravolse la realtà, esultando per il vittorioso compimento di un’epica impresa.

L’impreparazione dell’esercito italiano

Le truppe italiane schierate al confine, quel 20 giugno 1940, cioè a dieci giorni dalla dichiarazione di guerra comunicata ai governi francese e inglese, erano palesemente impreparate da ogni punto di vista, ma Mussolini, nonostante gli avvertimenti dei vertici militari e di alcuni uomini del governo, non volle tenere in considerazione tale evidente verità. La guerra di aggressione condotta dal suo alleato tedesco in Europa collezionava successi spettacolari. I britannici erano stati costretti ad abbandonare quasi ovunque il teatro europeo e a ritirarsi in Inghilterra. Hitler aveva quasi del tutto abbattuto la Francia, e Mussolini si rodeva per l’invidia e si contorceva per l’angoscia di risultare, nel confronto con il collega dittatore, un condottiero di cartapesta. Inoltre, il duce temeva anche di perdere credibilità all’interno del Paese. Le vittorie di Hitler e la non belligeranza italiana svelavano anche agli occhi del più ingenui il carattere meramente propagandistico e ciarlatano della politica di potenza che egli aveva voluto condurre al di sopra delle capacità reali dell’Italia. Così, non volle prestare attenzione a chi timidamente gli faceva presente che, sul piano psicologico, andava considerato che la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era sorretta da alcun odio contro i vicini francesi. Inoltre, dei militari italiani, che non erano stati addestrati ad assaltare opere fortificate, né si erano messi alla prova con l’aviotrasporto, solo un terzo avrebbe potuto entrare in azione. Del resto, il duce era ben conscio della mancanza cronica di mezzi motorizzati, di indumenti adatti a il clima alpino, dei pali per i reticolati, di telefoni da campo e perfino di scarponi chiodati.

Il maldestro e vile tentativo di essere forti con i deboli

Mussolini, in realtà, faceva affidamento sul fatto che le forze armate francesi fossero ormai messe quasi del tutto al tappeto da quelle di Hitler. Se agli occhi del mondo l’aggressione italiana contro la Francia risultò un’infamia, dato che il 20 giugno 1940 l’esercito francese era stato ormai in pratica già sconfitto dai tedeschi, non miglior figura fu riportata sul piano dell’esito di quella miserabile manovra. Se, infatti, è vero che i servizi segreti italiani avevano correttamente valutato la minore consistenza numerica delle truppe francesi schierate sulle Alpi rispetto a quelle italiane, era anche vero che non apprezzarono adeguatamente il fatto che i soldati francesi erano tutt’altro che rassegnati alla sconfitta e che l’attacco italiano li avrebbe caricati di sdegno, disprezzo contro il nemico italiano e di indomito spirito combattivo. Inoltre i francesi avevano dalla loro parte un terreno montagnoso che favoriva la difesa e un solido sistema di fortificazioni dislocate lungo tutto il confine, sicché si riducevano assai le possibilità per gli italiani di trovare dei punti in cui penetrare quelle linee e riversarsi in pianura. A dispetto di ciò, il pomeriggio del 20 giugno Mussolini ordinò che l’offensiva italiana scattasse all’alba del giorno dopo e che 21 divisioni italiane attaccassero le 6 divisioni francesi schierate a difesa del territorio francese. Il 24 giugno, quello che fu in sostanza l’ultimo giorno di quella vasta battaglia, la linea difensiva francese era rimasta pressoché intatta, tanto che neppure lunga la prima linea avevano subito qualche danno.

La macabra conta delle vite sacrificate e le dimensioni della sconfitta italiana

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Dall’entrata in vigore dell’armistizio con la Francia, alle 00:35 di martedì 25 giugno 1940, cessato il fuoco lungo tutte l’arco alpino occidentale, la propaganda mussoliniana tentò, in maniera palesemente contraddittoria, da un lato, di spiegare al popolo italiano l’innegabile insuccesso dell’aggressione italiana con l’argomento che «i francesi avevano opposto agli italiani una resistenza più accanita di quella incontrata dai tedeschi sul fronte occidentale», dall’altro, ascrivendo al (fallimentare) attacco italiano il merito del crollo definitivo della Francia, che, in realtà, com’era evidente, era stato totalmente dovuto alle truppe di Hitler. La battaglia delle Alpi, iniziata il 20 giugno del 1940 e durata meno di una settimana, appena quattro giorni, fu, quindi, definita dalla propagando italiana una «splendida vittoria».

Non si poteva essere più spudoratamente menzogneri nel definire vittoriose le 20 divisioni italiane, che contro le sole 6 divisioni francesi, non erano riuscite a scalfirne le difese in nessun punto del fronte,

Del resto, quando la Francia si arrese alla Germania e, per volere di Hitler, anche all’Italia, i militari italiani che avevano perso la vita sul fronte delle Alpi Occidentali erano 631, mentre altri 616 risultavano dispersi. 2.631 erano stati feriti o avevano subito il congelamento, a causa del vestiario non consono alla temperatura di quelle montagne e delle calzature inadatte a nevai e ghiacciai. I 1.141 italiani che erano stati fatti prigionieri dai francesi, vennero liberati immediatamente dopo la firma dell’armistizio da parte del governo francese. Il governo italiano, però, non si preoccupò di restituire la libertà ai 155 prigionieri francesi che erano stati catturati dagli italiani. Costoro furono spediti nel campo di Fonte d’Amore. Nella fallita avanzata italiana ordinata da Mussolini il 20 giugno, i soldati dell’esercito francese uccisi dagli italiani erano stati in tutto venti, uno per ciascuno dei trenta italiani morti, mentre i dispersi erano un po’ meno di un quarto di quelli italiani, cioè 150. In tutto erano stati feriti 84 francesi, e anche in tal caso era uno a trentuno.

Alberto Quattrocolo

Coluche Président

Michel Gérard Joseph Colucci, notissimo con il nome d’arte di Coluche, morì in un incidente il 19 giugno del 1986. L’anno precedente Coluche aveva messo in allarme i partiti e la politica francese, candidandosi alle presidenziali, che egli, da tempo, nei suoi spettacoli aveva ribattezzato «le elezioni pestilenziali» [1].

«Dio ha detto: “Bisogna dividere in parti uguali”. I ricchi avranno il cibo, i poveri l’appetito», «Ci sono meno stranieri che razzisti in Francia», Coluche

Com’è noto, Coluche ritirò la propria candidatura, ma non smise il proprio impegno in ambito politico-sociale, dedicandosi o sostenendo diverse iniziative politiche e sociali contro il razzismo e contro la povertà. Tra le altre cose, l’anno prima della morte, nel 1985, fondò i Restos du cœur, un’associazione che raccoglie cibo, soldi e vestiti per i bisognosi e i senzatetto. L’anno dopo iniziò a promuovere l’associazione proponendo ad alcuni vip uno spettacolo di beneficenza, organizzato annualmente e trasmesso in tv. Anche in tal caso Coluche non risparmiava il suo spirito caustico:

«Vorrei rassicurare i popoli che muoiono di fame: qui mangiamo anche per voi», «Penso che i poveri siano indispensabili alla società. A condizione che lo rimangano».

Coluche destinò il ricavato dell’iniziativa 1,5 milioni di franchi, all’Abbé Pierre. Costui, presbitero cattolico, già membro della Resistenza francese contro l’occupazione nazista, durante la Seconda Guerra Mondiale, e per un breve periodo, nell’immediato dopoguerra, deputato nelle liste del Movimento Repubblicano Popolare, aveva fondato nel 1949 i Compagnons d’Emmaüs, un’organizzazione non governativa a sostegno dei poveri e dei rifugiati [2]. La spiegazione del suo avvicinamento a l’Abbé Pierre fu data facendo ricorso ad un verso di Jacques Brel: «Non erano della stessa sponda, ma cercavano lo stesso porto».

«L’antico povero», Coluche

Coluche era nato a Parigi, poco dopo che la capitale era stata liberata dagli Alleati, a seguito dello sbarco in Normandia (lo abbiamo ricordato su questa rubrica nel post Gli amici del 6 giugno), il 28 ottobre del 1944. Veniva da una famiglia decisamente povera. Era figlio di un immigrato italiano, della provincia di Frosinone, Honorio Colucci, imbianchino, e di una fioraia francese, Simone Bouyer, detta Monette. Crebbe nella banlieue di Montrouge, nel sud della città. Suo padre morì quando lui aveva appena tre anni. Quando raggiunse la celebrità e la ricchezza disse:

«Non sono un nuovo ricco, sono un antico povero».

Dopo aver abbandonato presto gli studi e cambiato parecchi lavori, Coluche divenne famoso a Parigi tra la fine degli anni Sessanta e i primi degli anni Settanta, con alcuni spettacoli di cabaret e soprattutto grazie alle sue performances a “Le Café de La Gare”, un locale di spettacoli da cui uscirono diversi celebri comici francesi. Adottò il nome d’arte di Coluche all’età di 26 anni, quando la sua carriera stava decollando. In quel periodo comparve in diversi programmi proponendo i suoi sketch, alcuni più originali, altri più corrivi, per lo più graffianti. Poi fece il debutto in ruoli minori al cinema [3]. Inoltre, riuscì ad ottenere degli incarichi di conduzione radiofonica. Il suo umorismo, però, era incompatibile con le norme scritte o implicite sui limiti entro i quali andava contenuta l’ironia. Certe battute – come: «Peggio di un sassolino nella scarpa è un granello di sabbia nel preservativo», «Per evitare di avere dei figli o delle figlie, fate l’amore con vostra cognata, avrete dei nipoti», «La medicina è un mestiere pericoloso. Quelli che non muoiono possono denunciarvi», «Qualora ti sentissi inutile e depresso, ricordati che un giorno sei stato lo spermatozoo più veloce di tutti» – erano considerate insopportabilmente scandalose. Ma soprattutto, creavano problemi quelle di stampo antipolitico:

«Non è complicato stare in politica. È sufficiente avere una buona coscienza, e per fare questo bisogna avere una cattiva memoria!»

«Se votare cambiasse qualcosa sarebbe vietato da tempo», Coluche

Spesso Coluche veniva cacciato dai programmi radio dopo poche puntate. Il suo umorismo piuttosto spinto, oltre che caustico, portava le emittenti a reagire con provvedimenti di sospensione. Ciononostante, questa sua libertà indomabile lo rendeva graditissimo al pubblico, che lo seguiva spanciandosi dalle risate anche quando i toni iconoclasti e provocatori si mescolavano ad una comicità surreale, ma non meno scomoda: «Guerra del 1914-‘18: un morto civile ogni dieci morti militari. Guerra del 1939-‘45: un civile morto per ogni militare. Guerra del Vietnam: cento morti civili per ogni militare. Arruolatevi! Per la prossima si salveranno solo i militari!».

Grazie al suo talento e alla sua inesauribile carica di energia, in relativamente poco tempo, negli anni Settanta, si impose uno dei comici più famosi di tutta la Francia. E, a quel punto, anche il cinema non tardò a valorizzarlo. Dopo aver preso parte a diversi film in ruoli defilati che lasciavano intravvedere appena le sue capacità di reggere un intero film sulle proprie spalle, Coluche s’impose anche su questo medium come star della comicità, grazie al campione d’incassi del 1976 L’ala o la coscia? (di Claude Zidi). Il film, con i suoi 5,8 milioni di spettatori, arrivò secondo, subito dopo Lo squalo (1975, di Steven Spielberg), nella classifica dei film più visti in Francia quell’anno [4].

«La metà degli uomini politici sono buoni a nulla. L’altra metà sono pronti a tutto», Coluche

«Mi rivolgo a quelli che hanno votato trent’anni a sinistra per niente. Perché, purtroppo, la sinistra non ha fatto nulla. Sono uno di quelli che avevano riposto molte speranze nella sinistra… Parlo anche a coloro che hanno votato la destra trent’anni per niente. Mi sapete citare una promessa mantenuta? Per trent’anni hanno votato per persone competenti e intelligenti che li prendevano per imbecilli. Oggi io propongo loro di votare per un imbecille. Per me. Di solito, votavano per niente. Scegliendo Coluche voteranno per uno che non è niente, se non un astensionista di professione».

Fu con queste parole che Coluche annunciò e spiegò la propria candidatura alle elezioni presidenziali francesi del 1981, il 30 ottobre del 1980 Théâtre du Gymnase di Parigi. Inizialmente furono in molti a pensare che si trattasse di uno scherzo, di una provocazione. Coluche, dopo la morte di Louis De Funés era il ormai il comico più famoso e amato di Francia e, quindi, anche tra i giornalisti gremiti nella sala, furono in molti a non prenderlo sul serio [5]. Forse a trarli in inganno circa la serietà delle sue intenzione fu il fatto che tempo addietro in un’intervista a Le Monde aveva “confidato” che stava pensando di presentarsi come candidat nul, così da indurre anche i più irriducibili astensionisti a recarsi alle urne, essendo certi che tanto non sarebbe ami stato eletto. Del resto neanche i giornalisti sfuggivano alle sue prese in giro: «I giornalisti non credono alle bugie degli uomini politici, ma le ripetono, peggio ancora!».

«È meglio votare per un coglione come me che votare per qualcuno che vi prende per un coglione», Coluche

La sua candidatura però venne prese sul serio da Gérard Nicoud, segretario del Cid-Unati, il sindacato dei piccoli commercianti e degli artigiani. Costui annunciò il suo sostegno a Coluche con la seguente battuta:

«Visto che la politica è ridicola, votiamo Coluche! Almeno lui è bravo davvero a far ridere».

Un po’ meno gradimento raccolse presso i sindacati dell’industria, visto che ad essi riservava osservazioni piuttosto graffianti: «Il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Il sindacalismo è l’opposto», «I sindacati sono stati fatti per dare ragione a della gente che ha torto».

In quel periodo di crisi, in cui la disoccupazione e l’inflazione galoppavano, il disagio in vasti strati della popolazione si faceva sempre più forte, così come aumentava il risentimento verso i maggiori partiti, in sindacati riuscivano ancora far scendere in piazza centinaia di migliaia di persone. Meno presa avevano invece i partiti. In particolare, era in crisi il maggiore referente politico dei conservatori e dei moderati. Il presidente Valéry Giscard d’Estaing stava vivendo una fine mandato alquanto tormentata. Sul piano economico-sociale c’era il dato angosciante costituito daIla crescita del numero dei disoccupati oltre “la quota psicologica” del milione e mezzo, che si associava a quello sull’inflazione, balzata oltre il 13%. Ma, oltre a ciò, mentre gli scioperi si moltiplicavano, il presidente doveva fronteggiare lo scandalo dei diamanti ricevuti dal dittatore centrafricano Bokassa (che si era autoproclamato Imperatore), diamanti che, secondo quanto risultava, erano stati rivenduti.

«Faccio gentilmente notare agli uomini politici che mi prendono per buffone che non sono io che ho cominciato», Coluche

Coluche non lesinava osservazioni graffianti sui modi con i quali politici e commentatori affrontavano la crisi economica («Sembra che la crisi renda i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Non vedo perché si debba considerare una crisi. È stato così sin da quando ero piccolo»), ma, su Radio Monte Carlo, proprio sull’affaire dei diamanti Coluche aveva sviluppato i suoi tormentoni, ottenendo un’audience incredibile. Dopo poche puntate, però, l’intervento diretto del principe di Montecarlo, azionista di maggioranza della radio monegasca, aveva fatto sì che Coluche venisse allontanato dai microfoni. Tale censura lo aveva indotto a tradurre in azione le intenzioni precedentemente rimuginate, grazie all’insistenza del suo caro amico e cineasta Romain Goupil. In fondo, sarebbero bastate appena 500 firme, gli fece presente, ricordandogli anche che, come candidato avrebbe avuto diritto di esprimere ciò in cui credeva senza vedersi allontanare dai microfoni. Aveva un diritto di tribuna che gli avrebbe permesso di dire ciò che, invece, se parlava come comico, veniva sanzionato dalla censura.

«I sondaggi servono perché le persone sappiano quello che pensano», Coluche

Grazie a slogan come «L’unico candidato che non ha bisogno di mentire» e «Prima di me la Francia era tagliata in due, dopo di me sarà piegata in quattro dal ridere», la sua candidatura venne accolta con entusiasmo da molti francesi, sorprendendo lo stesso Coluche. Sorsero comitati di sostegno e alcuni intellettuali famosi, tra cui lo psicanalista Félix Guattari, il sociologo Alain Tourain e il filosofo  Gilles Deleuze, e il mensile satirico Hara-kiri  si schierarono apertamente dalla sua parte [6]. Il Journal du Dimanche scrisse che aveva il sostegno del 16 per cento dei francesi. I sondaggi, infatti, a sorpresa cominciarono a darlo al 15-16%. Così, il 25 novembre fu chiesta l’apertura di un’indagine segreta ai suoi danni. In poche settimane fu redatto un documento, archiviato col numero 817 706, che costituiva un dossier completo su Coluche, la sua famiglia e le persone a lui più vicine. Molte informazioni parevano proprio raccolte per rinvenire elementi atti a screditarlo [7].

«La destra vende delle promesse e non le mantiene. La sinistra vende delle speranze e le infrange», Coluche

Intanto Coluche sul settimanale satirico Charlie Hebdo aveva presentato il suo manifesto:

«Mi appello agli sfaccendati, agli zozzoni, ai drogati, agli alcolizzati, ai froci, alle donne, ai parassiti, ai giovani, ai vecchi, agli artisti, agli avanzi di galera, alle lesbiche, ai garzoni, ai neri, ai pedoni, agli arabi, ai francesi, ai capelluti, ai buffoni, ai travestiti, ai vecchi comunisti, agli astensionisti convinti, a tutti quelli che non credono più nei politici, affinché votino per me, si iscrivano presso il loro municipio e propagandino la novità. TUTTI INSIEME PER FOTTERLI IN CULO CON COLUCHE, il solo candidato che non ha motivo di mentire» [8].

Evidentemente Coluche non era un uomo di destra, ma non poteva neppure essere considerato un comunista, poiché pronunciava battute come: «Cominciate pure la rivoluzione senza di noi. Preferiamo essere stupidi e vivi che morti e pieni di idee», «L’uomo più sfortunato della Terra è stato Yuri Gagarin: è partito dall’URSS, ha fatto diciassette volte il giro della Terra ed è ricaduto in URSS». Visto che tra i suoi collaboratori, però, c’erano due vecchi trozkisti, la polizia politica e i servizi segreti iniziarono a ipotizzare un complotto rosso, un’iniziativa d’ispirazione comunista tesa alla destabilizzazione. Era un abbaglio o, più probabilmente, un tentativo di delegittimazione. Anzi, tra i partiti più preoccupati da Coluche c’era proprio il Partito Comunista Francese [9].

«Non sono più candidato», Coluche

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È difficile dire con certezza se le pressioni e le minacce lo indussero a desistere (telefonate anonime, minacce di morte, pedinamenti e, poi, l’uccisione del suo braccio destro, René Gorlin, che sulle prime fece pensare ad un omicidio politico, ma poi si rivelò dovuto ad un movente passionale), o se le ragioni della sua rinuncia furono altre, ma resta il fatto che, pochi giorni prima del primo turno, ai primi d’aprile del 1981, Coluche convocò una seconda conferenza stampa per annunciare che si ritirava dalla campagna elettorale. In effetti, non si era dato la pena di raccogliere nemmeno le 500 firme. Annunciò il suo appoggio al socialista François Mitterrand, invitando a votare per lui. Mitterrand vinse al ballottaggio del 5 maggio 1981 contro Valéry Giscard d’Estaing, diventando il primo presidente socialista della Francia.

«Non sono più candidato», disse Coluche ai cronisti. «Volevo dare una rimescolata alla merda della politica, ma ora non sopporto più l’odore. Ho voluto divertire me stesso e gli altri in un periodo di così grande tristezza e gravità. La gente sarà delusa. E anch’io lo sono. Mi fermo perché non posso andare oltre. Signori politici di mestiere, ho messo il naso nel vostro buco di culo, non ho più interesse a lasciarvelo lì. Divertitevi senza di me».

«Sono capace del meglio e del peggio. Ma è nel peggio che do il meglio», Coluche

Coluche continuò a fare satira e a fare film. E virò anche con successo sul cinema drammatico. Nel 1984 Coluche ricevette, infatti, il Premio César come migliore attore per la sua interpretazione nel film Ciao amico. Interpretava un benzinaio, sulla quarantina, solitario e alcolista, che stringe amicizia con un giovane, a sua insaputa, piccolo spacciatore di droga (Richard Anconina), che viene ucciso e che egli vendica servendosi di una giovane emarginata. Nel 1985 interpretò la parte del capitano Oscar Pilli, nel non del tutto riuscito Scemo di guerra, tratto da Il deserto della Libia di Mario Tobino e diretto da un maestro del cinema italiano, Dino Risi. Coluche recitava al fianco di Beppe Grillo, che aveva il ruolo del tenente Marcello Lupi, di Fabio Testi, Bernard Blier e, in un ruolo minore, di Claudio Bisio.

Coluche morì il 19 giugno del 1986, in un incidente di moto: fu travolto da un camion. Non aveva ancora compiuto 42 anni.

Alberto Quattrocolo

[1] Quindici anni prima di lui, l’11 febbraio 1965, un altro comico e umorista francese aveva annunciato la sua candidatura alla carica di presidente della Repubblica francese. Il 72enne André Isaac, meglio conosciuto con il suo pseudonimo Pierre Dac, disse in una conferenza stampa-spettacolo che quel giorno nasceva il MOU (Mouvement Ondulatoire Unifié, “movimento ondulatorio unificato”) che lo avrebbe sostenuto nella campagna elettorale. Dac, ex cantante molto conosciuto in Francia, era stato una delle voci più famose di Radio Londra, le trasmissioni di BBC indirizzate all’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Dirigeva, inoltre, il periodico satirico L’Os à moëlle, da cui si mise ad annunciare le proposte surreali del suo programma elettorale, come una riforma fiscale in cui ciascuno avrebbe pagato le tasse del suo vicino di casa e la creazione di un territorio svizzero in ogni paese europeo. Pur essendo il presidente uscente Charles de Gaulle ampiamente favorito sul candidato della sinistra, François Mitterrand, a meno di due mesi dal voto, un consigliere di de Gaulle telefonò a Pierre Dac e gli chiese di ritirarsi. Per fedeltà al suo ex compagno della Resistenza, Dac annunciò il suo ritiro, dicendo che «se si candida Jean-Louis Tixier-Vignancour [ex membro del governo collaborazionista di Vichy e candidato per l’estrema destra], vuol dire che in giro c’è gente più matta di me».

[2] Fu a l’Abbé Pierre, quindi, che continuava ad essere un attivista instancabile contro le diseguaglianze, le discriminazioni e lo sfruttamento dei più poteri, tanto da essere tacciato di simpatie per l’estrema sinistra, che andò il sostegno di Coluche.

[3] Le sue prestazioni erano efficaci, ma l’attenzione dei produttori e dei registi non era ancora tale da farne un protagonista.

[4] Per Coluche la partecipazione alla realizzazione di quella pellicola costituiva un’impresa di non poco conto. Doveva misurare con l’insuperato beniamino del cinema comico francese, il mattatore assoluto Louis de Funès. Riuscire a non essere oscurati dalla vis comica di De Funés non era un affare semplice, ma non meno facile era evitare il rischio di una competizione infruttuosa. Coluche non soltanto riuscì ad essere all’altezza di quel vulcano della risata, cesellando con giusta misura il proprio personaggio, ma riuscì anche ad evitare l’innesco di rivalità e tensioni, piuttosto frequenti nei rapporti tra De Funès e i suoi partner cinematografici di maggior peso.

[5] Alcuni non scrissero niente. Tanto che apparvero solo delle brevi cronache del suo annuncio su Libération, Le Monde e Le Matin. Le Figaro non si soffermò sulla notizia fino al 18 novembre, dedicandovi appena qualche riga. Mentre il giornale comunista L’Humanite continuò ancora per qualche giorno ad ignorare la cosa.

[6] In quel periodo uscì Inspecteur La Bavure (di Claude Zidi) un suo film comico interpretato accanto a Gérard Depardieu, il cui successo confermò il suo seguito come attore.

[7] Veniva ad esempio ricordato che, da militare, «per colpa del suo carattere contestatario e refrattario alla disciplina, aveva rivolto gravi offese ai superiori e alcuni atti di insubordinazione gli erano costati 52 giorni di cella».

[8] Il sociologo Pierre Bourdieu definì quelle parole le più importanti per la Francia dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789

[9] Come ha raccontato Pierre Juquin, portavoce del partito dal 1979 all’84, il candidato comunista alle presidenziali, Georges Marchais, commissionò un sondaggio nella classe operaia. Il risultato fu choccante: gli operai gli preferivano Coluche. Marchais, che poi ottenne il 15,4% dei voti, decise di non confidare gli esiti di quella rivelazione nemmeno all’ufficio politico ristretto.

1984, la polizia inglese attacca i minatori in sciopero nella “battaglia di Orgreave”

Oh the iron will and the iron hand
in England’s green and pleasant land
no music for the shameful scene
that night they said it had even shocked the queen
well alas we’ve seen it all before
knights in armour, days for yore
the same old fears and the same old crimes
we haven’t changed since ancient times.
(“Iron hand”, Dire Straits, 1991. Dedicata ai minatori inglesi massacrati a Orgreave.)

Il 18 giugno 1984, nello Yorkshire scozzese, ebbe luogo quella che passerà alla storia come “la battaglia di Orgreave”, l’evento forse più drammatico nel corso del lungo sciopero dei minatori britannici contro le politiche economiche e sociali del governo Thatcher. In quel lunedì di giugno la percezione che gli inglesi avevano dei governanti, della polizia e del Paese cambiò per sempre. Fu una battaglia, parte di una guerra che sembrava mossa dal governo contro il suo stesso popolo.

Era un bel giorno d’estate e circa 5000 minatori, giunti lì a interrompere la fornitura di carbone raffinato alla cokerie, si erano radunati in un campo presso l’impianto della British Steel Corporation, quando migliaia di poliziotti arrivarono convergendo da tutte le parti della nazione. La cavalleria fu spedita alla carica e fece irruzione nel campo al gran galoppo. Il dispiegamento di forze dell’ordine, cani e cavalli non aveva precedenti. La polizia, in pieno assetto militare, assalì, arrestò, picchiò selvaggiamente  i minatori, per poi abbandonarsi alla devastazione di case e villaggi.

Un sacco di uomini si erano tolti le magliette e le avevano messe nelle loro tasche. E certamente questo non è il genere di cose che faresti quando stai organizzando un attacco a una forza di polizia seriamente equipaggiata – avevano i loro lunghi scudi, portavano caschi protettivi, manganelli. Non affronti polizia come quella con null’altro che un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Perciò abbastanza categoricamente affermo che non ci fu la minima intenzione da parte dei minatori di attaccare la polizia. Io stessa, con molti altri minatori, fui costretta a scappare e a trovare riparo.

Le foto delle violenze scioccarono il Paese, su tutte l’immagine che ritraeva un poliziotto a cavallo nell’atto di sferrare un colpo di manganello contro Lesley Boulton, autrice della testimonianza sopra riportata. Negli anni seguenti, 39 operai intentarono causa al ministero degli interni, vinsero e furono risarciti per le violenze subite. Molti anni dopo, il capo della polizia Alan Billings dichiarerà:

Non sappiamo con precisione cosa sia accaduto a Orgreave, perché sia stato necessario un simile dispiegamento di forze armate, né se fu coordinato dal governo. […] Uno di quei momenti, a mio avviso, in cui la polizia diviene quasi interamente uno strumento di Stato; uno di quei momenti che è meglio evitare.

A voler stilare un’ideale classifica delle lotte che più epicamente hanno segnato la storia e l’iconografia del movimento operaio internazionale, quella dei minatori inglesi del 1984-85 occupa a buon diritto una posizione di assoluto rispetto. È stato il più lungo sciopero di massa dell’Occidente dai tempi della Prima guerra mondiale: un anno esatto fra il marzo ’84 e quello dell’85. Fu una guerra di classe, combattuta su un campo di battaglia vasto quanto la Gran Bretagna: nelle brughiere di Scozia, Galles, Yorkshire e Kent si fronteggiarono 165.000 minatori e alcune decine di migliaia di poliziotti. Alla fine si conteranno 2 morti, 1750 feriti ufficiali, 11.312 arresti, 5.653 processi per direttissima, un migliaio di licenziamenti per rappresaglia.

La lotta ebbe inizio allorché, nel marzo ‘84, Ian Mc Gregor, presidente del NCB – l’ente pubblico del carbone, che gestiva l’industria estrattiva britannica pressoché completamente nazionalizzata e amministrava i 176 pozzi dove lavoravano 120.000 dei 183.000 occupati nel settore – diede il via al piano del governo Thatcher, annunciando la chiusura di 20 pozzi, con la perdita immediata di 20.000 posti di lavoro. Il NUM, diretto da Arthur Scargill – comunista, carismatico, eccezionale oratore – rispose dichiarando una settimana di sciopero. Poi le settimane diventarono due, tre, quattro; la Thatcher non cedette ma neppure i minatori: tre mesi, sei mesi, un anno.

Nei primi anni Ottanta il carbone era divenuto troppo costoso e i sindacati troppo potenti per chi, come la Thatcher, intendeva aprire una nuova era nei rapporti sociali del suo paese. Il negoziato non era un’opzione. Il sindacato dei minatori chiedeva una politica di sovvenzioni statali, Thatcher aveva una visione opposta. Era da poco al secondo mandato, aveva vinto nelle Falkland, e coi minatori, nucleo militante del sindacalismo britannico, aveva un conto in sospeso da quando, fra il ’72 e il ’74, li aveva visti sconfiggere il governo di Heath, suo mentore e primo ministro. “Maggie” aveva fatto tesoro di quella sconfitta, e quando partì all’attacco, il 1° marzo ‘84, aveva preparato con cura ogni mossa.

La reazione fu immediata e si propagò subito; in poche settimane tutti i pozzi del paese furono bloccati, eccetto nel Nottinghamshire, dove si costituì anche un sindacato giallo. I picchetti volavano da un sito all’altro, provando ad aggirare i presidi stradali di una polizia da stato di assedio. I lavoratori venivano pestati, arrestati, fotografati e identificati; i media si scatenarono, e ci fu una raccolta fondi per quanti volevano tornare al lavoro, giacché le famiglie avevano appena subito un taglio dei benefit di 15 sterline alla settimana.

La legislazione sugli scioperi fu modificata, limitando fortemente i comportamenti consentiti ed estendendo i poteri degli organi giudiziari e delle forze di polizia: i lavoratori in lotta vennero in sostanza equiparati dalla legge ai terroristi dell’IRA, cosa che suscitò gravi critiche anche all’estero.

Intorno alla lotta si coagulò tuttavia un imponente movimento di solidarietà; “Accendi alle sei”, era lo slogan della campagna che invitava ad accendere le lampadine tutti insieme alle sei in sostegno allo sciopero; in migliaia esibirono sul petto “I support Miners”, l’etichetta pro minatori; ovunque spuntarono i tavoli coi barattoli gialli della raccolta fondi; giovani, donne, studenti costituirono combattivi comitati di appoggio; ogni città si gemellò con una miniera; centinaia di volontari formarono “picchetti volanti” per presidiare i pozzi e impedire l’ingresso dei crumiri (assoldati dal governo e protetti dalla polizia); i negozianti di zona concessero credito e sconti.

Le donne furono molto attive, nel sostenere i compagni in lotta, organizzare mense per la distribuzione dei viveri e promuovere vaste manifestazioni appoggiate dal movimento femminile laburista e internazionale. Il movimento gay ospitò fra applausi scroscianti una delegazione di minatori alla parade di Londra di quell’anno. Portuali e ferrovieri rallentarono l’approvvigionamento delle acciaierie, snodo cruciale del conflitto; non si mobilitarono invece i camionisti e apparve latitante il Labour Party di Kinnock. Quando l’intero patrimonio del NUM, reo di sciopero “illegale”, venne posto sotto sequestro col preciso intento di logorare i lavoratori, affamandoli, Scargill chiese e ottenne la solidarietà dei sindacati internazionali.

Ma tutto questo non fu sufficiente. Dopo un anno senza paga, senza aver ottenuto niente, con il NUM irrimediabilmente sconfitto e migliaia di famiglie sul lastrico, nel marzo ‘85 Scargill fu costretto a dichiarare la fine dello sciopero.

In pochi anni quasi tutte le miniere del Regno Unito chiusero i cancelli, nel 2000 ne rimanevano solo 13, mentre il numero di addetti scendeva da 181.000 a 8.000, quasi tutti a gestione privata, col Regno Unito che importa oggi 40 milioni di tonnellate di carbone l’anno. Per la chiusura di 60 pozzi, il governo Thatcher spese 900 milioni di sterline l’anno, due volte e mezzo più delle sovvenzioni necessarie a mantenerli in vita.

Dietro la guerra senza quartiere contro i minatori non ci furono meri motivi economici, ma precise scelte politiche, sintetizzate nel Rapporto di Lord Ridley, braccio destro, ispiratore e “uomo nero” del governo britannico: l’obiettivo era lo smantellamento del Nemico Interno, vale a dire quel vasto settore pubblico e nazionalizzato che vantava sindacati molto forti, da realizzarsi “sopprimendo le aziende nazionalizzate che non garantiscono profitti (la siderurgia, le ferrovie, le acque, il gas, il carbone, coi relativi lavoratori e sindacati) e aprendo al capitale privato quelle che rendono”. Il Rapporto non tralasciò di fornire “indicazioni precise sulla necessità di ampliare le possibilità di intervento poliziesco e concedere ai tribunali poteri sufficienti a dichiarare illegale ogni efficace risposta di lotta”, e per stroncare i minatori fu messa in campo “una svolta autoritaria che conferì alla polizia un profilo analogo a quello di un’armata di occupazione”.

Come ricorda lo scrittore David Peace, “The Strike non fu il punto di svolta, ma L’Ultima Battaglia, l’ultima possibilità. Semplicemente fu l’idea di società e comunità opposta al “no society” della Thatcher, all’ognuno per sé. Lei aveva capito qual era la posta in gioco e per questo scelse consapevolmente la brutalità.”.

La Lady di Ferro aveva vinto, ma a quale prezzo. La società ne uscì a pezzi, la pace sociale saltata, intere aree del paese in rapido declino, famiglie sul lastrico; il tasso di disoccupazione toccò nei bacini carboniferi e metallurgici il 13%, mentre il rialzo dei tassi di interesse e delle imposte impedì al sistema creditizio di aiutare chi era in difficoltà. Il costo per l’economia fu di quasi 4 miliardi di sterline, il doppio del costo della guerra nelle Falkland.

Fu un evento tragico e violento, nel quale il governo di un Paese scagliò tutte le sue forze contro cittadini-lavoratori che pagavano le tasse e li distrusse. Ma il sacrificio di quella gente capace di resistere così a lungo per salvare la propria comunità e tutte le altre che vivevano solo di carbone è ancora oggi ricordato e celebrato come un esempio di solidarietà, di un modo diverso di vivere.

Scrive Salvo Leonardi, esperto di relazioni industriali:

Quando il 3 marzo 1985 la dirigenza del NUM delibera con 98 voti a 91 la fine dello sciopero, quei “musi neri”, ormai estenuati e a malincuore, decidono di tornare nei pozzi, accompagnati però dalle fanfare e dai gonfaloni sindacali. Entrano a testa alta, fieri di quel loro orgoglio operaio, consci di aver scritto comunque una pagina di storia. Nell’unica maniera che era stata loro concessa: quella di chi si oppone.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; https://loscrignodellapoliteia.wordpress.com; B. Greenwood (trad. it. di A. Fedele), “La battaglia di Orgreave”, http://www.unacitta.it; M. R. Calderoni, “Battaglia di Orgreave e quello sciopero lungo un anno”, http://web.rifondazione.it; S. Leonardi, “I minatori contro la Thatcher: storia di un’eroica sconfitta”, www.rassegna.it; “Margaret Thatcher: Lady di ferro – seconda parte.”, http://www.massacritica.eu; “Lo sciopero dei minatori britannici, che finì 30 anni fa”, www.ilpost.it; M. Imarisio, “Lo sciopero più lungo e i minatori sconfitti resi eterni dalla Thatcher”, www.corriere.it

9 morti di razzismo a Charleston

La Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, in South Carolina, non è solo una chiesa: è un simbolo. Un simbolo di speranza, di lotta per l’uguaglianza, di fede in un mondo più giusto. Però, è stata conosciuta nel mondo intero non per i suoi messaggi fratellanza, per quelle prediche ispirate e toccanti dei suoi pastori sull’amore verso il prossimo e sulle denuncia del razzismo come concentrato di odio, non per il suo impegno contro la schiavitù, prima, e contro la segregazione razziale, poi, nel Sud degli Stati Uniti. La Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston è stata nominata nei telegiornali, nei notiziari radio, nei giornali e nei siti on line il 17 giugno del 2015, per essere diventata un obiettivo di odio e violenza omicida. L’Odio e la violenza di un razzista che ha tolto la vita a nove persone che stavano pregando rivolgendosi a Gesù Cristo.

La lotta dell’African Methodist Episcopal Church di Charleston contro la schiavitù

Nel 1816, quando a Philadelphia era stata appena fondata la African Methodist Episcopal Church (Chiesa episcopale metodista africana), Morris Brown, un afro-americano, schiavo liberato, ordinato pastore di tale chiesa, tornò alla sua città di origine, Charleston, per aprire una parrocchia. Era la prima – e oggi è la più antica – chiesa per afroamericani negli Stati Uniti. Un luogo per pregare che i discendenti degli africani deportati in America dai trafficanti di schiavi, cresciuti assorbendo la religione dei loro padroni bianchi, aspettavano da tempo. In due anni, infatti, più di 4.000 persone, oltre tre quarti dei neri di Charleston appartenenti alla chiesa metodista, divennero fedeli di quella chiesa, facendola diventare la loro casa. Erano schiavi. Lavoravano nelle piantagioni, nei campi e nelle splendide case e ville dei loro padroni bianchi. E non possedevano nulla. Tutto ciò che usavano era del loro padrone. La chiesa di Morris Brown, invece, era loro, gli apparteneva. E nel giro di pochi anni divenne un centro di attivismo contro lo schiavitù. Nel 1822, infatti, Denmark Vesey, un carpentiere che aveva aiutato Brown ad erigere la chiesa, uno dei pochissimi neri liberati dal loro padrone, tentò di organizzare una rivolta di schiavi e ed ex schiavi per rubare delle armi impossessarsi di alcune navi per contrastare lo schiavismo. Il piano di Vesey, però, fu scoperto, ed egli, insieme agli altri leader della rivolta, venne ucciso insieme, mentre svariate decine di neri subirono la deportazione. Anche la chiesa di Morris Brown non sfuggì alla rappresaglia. L’edificio fu distrutto e i suoi membri vennero sparpagliati. L’accusa era di diffondere una “religione dei neri” che aveva fomentato la rivolta degli schiavi. Per evitare che altri schiavi tentassero qualcosa di analogo, fu posto il divieto di fondare altre chiese neri indipendenti da quelle dei bianchi. Anche la popolazione di schiavi liberati di Charleston fu drasticamente ridotta. I fedeli, però, rimasero tali e cominciarono a radunarsi in segreto, ai margini delle piantagioni, nelle rimesse, ovunque riuscissero a farlo, senza destare sospetti.

L’ultracentenario impegno antirazzista dell’Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston

Avvenuta l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Abraham Lincoln, nel novembre del 1860, persuasi che il nuovo presidente avrebbe presto proclamato l’abolizione della schiavitù in tutto il territorio nazionale, sette Stati del Sud, guidati proprio dalla Carolina del Sud, nel febbraio del 1861, prima che Lincoln assumesse ufficialmente il suo incarico, decisero di separarsi, dall’Unione, cioè dagli Stati Uniti, e dettero vita agli Stati Confederati d’America. Le forze confederate in maniera incruenta presero subito il controllo di fortificazioni, dogane ed edifici pubblici e privati situati sui confini con gli Stati rimasti nell’Unione, ma alcuni forti rimasero in possesso di quest’ultima. Tra questi forti, oltre al Forte Monroe in Virginia e al Forte Pickens in Florida, ce n’era uno in in Carolina del Sud, Forte Sumter, accanto al porto di Charleston. Fu qui che, a seguito del bombardamento del forte da parte dell’artiglieria confederata, iniziò la Guerra di Secessione (detta anche Guerra Civile Americana o Guerra tra gli Stati). I fedeli della chiesa fondata da Brown, durante il conflitto continuarono a incontrarsi di nascosto fino al 1865, cioè fino a che, con la sconfitta del Sud schiavista da parte delle armate dell’Unione, ebbe termine la Guerra Civile e la schiavitù, nel frattempo abrogata da Lincoln, formalmente cessò. Allora uno dei figli di Denmark Vesey, Robert Vesey, costruì una nuova chiesa nei pressi di Fort Summer, proprio dove era iniziata la Guerra di Secessione, chiamandola Emanuel. La chiesa riconosciuta formalmente in quello stesso anno, il 1865, fu distrutta nel 1886 da un terremoto. L’edificio allora venne poi ricostruito ed è quello che esiste ancora oggi. Durante il 1900, la Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston accolse e sostenne dei leader del movimento per i diritti dei neri, che crebbe negli anni Cinquanta e Sessanta, come Booker T. Washington, Martin Luther King Jr. (abbiamo parlato di lui, su questa rubrica, nel post Martin Luther King: Sono un uomo!) e Roy Wilkins. Durante lo sciopero del 1969 per il riconoscimento dei sindacati, Coretta Scott King guidò i lavoratori neri dell’ospedale in una lunga marcia partita proprio dalla Emanuel AME.

Il reverendo Clementa Pinckney  della Emanuel AME di Charleston

Clementa Pinckney nacque, 4 anni dopo, il 30 luglio del 1973. A soli 13 anni sembrava già un predicatore prodigio della Emanuel AME. Pastore da quando aveva 18 anni, Clementa ne aveva pochi di più, quando fu indicato dalla rivista Ebony come uno dei 30 leader neri del futuro in America. Per lui essere cristiani significava agire, giorno per giorno, da cristiani. E con tale chiave di lettura interpretava la sua funzione di pastore della Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston.

«La vita presenta opportunità di servire gli altri», sosteneva. «Sono scelte difficili, a volte, ma che portano grandi risultati. Risultati più per gli altri che per noi stessi e questo è ciò che significa ‘servire’ il prossimo”».

Appena ventitreenne Clementa Pinckney fu eletto per la prima volta come deputato del Partito Democratico alla Camera del South Carolina. Era il più giovane afroamericano nella storia del parlamento del South Carolina. Tre anni dopo fu eletto al Senato del South Carolina. Negli anni seguenti restò costantemente attivo nelle battaglie anti-segregazioniste e antirazziste. Negli anni dieci del Duemila, Pinckney, preoccupato dall’impressionante escalation degli episodi di violenza letale delle forze dell’ordine contro afro-americani, si diede da fare per sensibilizzare i suoi connazionali. Quindi, non solo guidò la veglia per Walter Scott, il giovane nero che, disarmato, fu ucciso, a North Charleston, il 4 aprile del 2015, da un poliziotto bianco, ma si batté per l’approvazione di nuove leggi che obblighino le forze dell’ordine ad indossare delle videocamere in servizio.

La strage del 17 giugno 2015.

Due mesi e mezzo dopo l’omicidio di Walter Scott, il 17 giugno 2015, circa alle 21:05, Dylann Roof, un bianco ventunenne, entrò nella Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston e andò a sedersi vicino al reverendo Clementa Pinckney. La cosa non destò alcun interesse, poiché la Emanuel AME non è mai stata chiusa ai bianchi, neppure quando era la sola chiesa in cui i neri potessero entrare. Dylann Roof si inginocchiò e si mise a pregare. Poi rimase seduto per 45 minuti con gli altri fedeli e ascoltò la lettura della Bibbia. Quindi, si alzò estrasse dal marsupio una Glock calibro 45, acquistata ad aprile in un negozio, e fece fuoco. Uccise sei donne e tre uomini. Tra questi il reverendo Clementa PinckneyRoof fu bloccato a bordo della sua auto, fermo a un semaforo il giorno dopo a Shelby, nella Carolina del Nord. Era ancora armato, ma non oppose resistenza. Le sue vittime furono Cynthia Marie Graham Hurd (54 anni), Susie Jackson (87 anni), Ethel Lee Lance (70 anni), Depayne Middleton-Doctor (49 anni), Clementa C. Pinckney (41), Tywanza Sanders (26 anni), Daniel Simmons (74 anni), Sharonda Coleman-Singleton (45 anni), Myra Thompson (59 anni).

Dylann Roof, dal suo punto di vista stava dando, coerentemente, attuazione pratica alle sue idee. Stava combattendo la battaglia in cui credeva. Si potrebbe accostarlo, per la giovane età, a Nicholas Cruz, l’autore di un’altra strage, quella di cui abbiamo parlato sulla rubrica Corsi e Ricorsi, nel post 380 secondi e 17 vite in meno a Parkland. Cruz pianificava di uccidere messicani, persone gay e di colore, che egli odiava «semplicemente perché erano neri», così come le donne bianche che avevano relazioni interrazziali (“traditrici”). Cruz aveva anche espresso idee anti-immigrazione e antisemite, ma poi il giorno di San Valentino del 2018 aveva massacrato a caso quattordici studenti (di cui il più anziano aveva 18 anni) e tre insegnanti della Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida. Dylann Roof, invece, non colpì indiscriminatamente. Non era un pazzo, ma un suprematista biancoNon sono pazzi, ma razzisti pieni di odio i killer come Roof e gli altri che lo hanno preceduto e seguito: è questo il titolo di un post pubblicato nella rubrica Politica e Conflitto, dedicato alla strage, commessa il 15 marzo 2019, a Christchurch, in Nuova Zelanda, dove 49 delle persone intente a pregare in due moschee sono state massacrate in un attacco terroristico pianificato, inteso a colpire migranti e rifugiati.

«Devo farlo. Voi stuprate le nostre donne e state prendendo il sopravvento nel nostro Paese e dovete sparire».

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Uno dei killer di Christchurch, in un manifesto pubblicato online, “The great replacement”, aveva sostenuto essere in corso un «genocidio dei bianchi» e che, pertanto, egli era «costretto a combattere» chi cerca di «sostituire e soggiogare la mia gente e fare la guerra al mio popolo». Costoro davano un’applicazione sanguinaria alla fasulla tesi della sostituzione etnica, che include la spudorata balla complottista del cosiddetto Piano Kalergi. Ma sarebbe da ottusi pensare che essi e, prima di loro, l’autore del massacro di Charleston, fossero dei disturbati “lupi solitari”. Roof, come altri, prima di sparare vigliaccamente sulle loro vittime inermi, si nutrono di dosi massicce di odio e di razzismo che vengono loro somministrati, sempre più su vasta scala, da altri, da seminatori di odio professionisti, che usano sistematicamente tutti i mezzi possibili per spargere paura e per alimentare il disprezzo e l’ostilità verso l’Altro, criminalizzandolo e demonizzandolo. Insomma, per rappresentarlo come un soggetto subumano e pericoloso. Questa costante propaganda, una volta interiorizzata, permette a chi insulta e discrimina, offende e umilia, picchia e uccide l’Altro, non soltanto di non sentirsi in colpa per la propria violenza razzista, ma, anzi, di credersi dalla parte giusta e di convincersi che le sue vittime non solo tali, essendo in realtà meritevoli di essere colpite brutalmente. Non a caso l’autore della strage di Charleston del 2015, come poi gli autori della strage del 2019 in Nuova Zelanda, si sente un eroe che sta adempiendo al proprio dovere. Non diversamente da come si si rappresentavano Luca Traini o Anders Behring Breivik, l’autore della più grave strage (77 vittime) commessa in Norvegia dai tempi dell’occupazione nazista. Costui si definiva «salvatore del cristianesimo» e «il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950».

I sopravvissuti al massacro di Charleston riferirono che Dylann Roof, durante la sparatoria, si era fermato un momento per dire alle vittime:

«Devo farlo. Voi stuprate le nostre donne e state prendendo il sopravvento nel nostro Paese e dovete sparire». Poi aveva ripreso a sparare, urlando epiteti razziali.

Idee sovrapponibili a quelle Anders Behring Breivik, l’autore della più grave strage (77 vittime, la maggior parte dei quali ragazzi) commessa in Norvegia dai tempi dell’occupazione nazista, quella  del 22 luglio 2011, in Norvegia, o a quelle di Adam Lanza, che il 12 dicembre nel Connecticut uccise 26 esseri umani, di cui 20 bambini tra i sei e sette anni e a quelle di  Ali David Sonboly che il 22 luglio 2016 a Monaco di Baviera uccise 9 persone. Anders Behring Breivik  si definiva

«salvatore del cristianesimo» e «il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950».

In seguito, Dylann Roof ha confessato di aver commesso la strage nella speranza di scatenare una guerra razziale. La sua speranza non si è tradotta in realtà. La comunità locale, scossa dalla strage, rimase unita e promosse azioni che condussero alla rimozione della bandiera confederata dagli edifici pubblici in South Carolina, per la prima volta in 150 anni. Quel simbolo storico, già di per sé discutibile, era stato insanguinato da Roof, che con quella bandiera aveva posato fiero prima di compiere il massacro.

Nel giorno della strage il presidente Barack Obama denunciò l’eccessiva facilità con cui in America è consentito acquistare armi: «per troppo volte sono stato costretto a fare dichiarazioni di cordoglio come queste di oggi. Non accade con altrettanta frequenza in altri Paesi avanzati […] Perché soltanto negli Usa è così facile procurarsi le armi. Basta rinvii, dobbiamo intervenire sulla questione delle armi».

 

Alberto Quattrocolo

 

 

A Soweto inizia la fine dell’apartheid

Hector Petersen aveva 13 anni quando la sua vita fu stroncata da un proiettile della polizia. Stava correndo lontano dai propri aggressori, ma ebbe la sfortuna di trovarsi sulla linea di tiro di un agente. La foto del suo corpo tra le braccia di un uomo che cammina verso la fotocamera diventò il simbolo della rivolta di Soweto. L’apartheid aveva i giorni contati.

Una delle più grandi metropoli africane, nata come ghetto-dormitorio per i sudafricani di pelle nera: erano chiamati a lavorare per i bianchi e a servirli a Johannesburg e nelle miniere d’ oro del Rand, per poi ritirarsi al tramonto. Già all’epoca dei fatti era popolata da milioni di abitanti. Questa era Soweto.

I ragazzi della metropoli-ghetto, ansiosi come tutti i loro coetanei di sentirsi in sintonia col resto del mondo, non sopportavano l’idea di dover studiare in afrikaans, una lingua parlata da una minoranza bianca e per di più la lingua dei loro oppressori. Questi avevano infatti imposto, tramite un decreto governativo, a tutte le scuole per neri di utilizzare l’afrikaans come lingua paritetica all’inglese.

Gli studenti di Soweto, dunque, formarono un comitato d’azione, il Soweto Students’ Representative Council, per organizzare la protesta, indicendo una manifestazione di massa per il 16 giugno 1976. Migliaia di studenti e docenti neri uscirono dalle scuole e si diressero verso lo stadio di Orlando, formando un corteo esplicitamente non violento. I cartelli nelle prime file parlavano chiaro:

Non sparateci – non siamo armati

Dopo aver cambiato il percorso previsto, a causa delle barricate della polizia, i manifestanti si trovarono si trovarono la strada ulteriormente sbarrata. A quel punto, potevano solo andare avanti o tornare indietro. Alcuni sostengono che venne tenuto un comportamento esclusivamente non violento; secondo altri, iniziò un lancio di pietre contro le forze dell’ordine. Fatto sta che queste ultime iniziarono a sparare sulla folla, che si disperse, ma non abbastanza velocemente.

Le vittime come Hector Petersen furono sicuramente più di 23, come dichiarato dal Governo sudafricano. Le stime sono molto diverse, ma vanno da 200 a 600 morti, e fino a 1000 feriti, comprendendo anche gli scontri dei giorni successivi, a cui partecipò anche l’esercito.

Parlando di Soweto, è inevitabile evocare un altro massacro, avvenuto 16 anni prima: Sharpeville, di cui abbiamo parlato in questo articolo. In entrambi i casi, la gente tentava di reagire all’insopportabile sistema di divieti, costrizioni, regolamenti, che ingabbiava la vita collettiva in un reticolo di norme oppressive. Uguale la risposta: pronta, disumana, assoluta. Intesa a ristabilire immediatamente il dominio degli oppressori e il silenzio degli oppressi. Dunque, la violenza ebbe ragione della rivolta. Qualcosa, però, si era smosso.

Migliaia di ragazzi fuggirono oltreconfine per evitare l’arresto, fornendo così all’African National Congress, che languiva in una diaspora esangue, una nuova leva. Inoltre, i ghetti neri erano ormai delle vere e proprie metropoli, delle fucine di cultura, che forgiarono i propri capi carismatici: Steve Biko, di cui abbiamo già parlato, ne è un fulgido esempio.

Il percorso che portò alla fine dell’apartheid fu ancora lungo e sanguinoso, ma in quei giorni furono posate delle pietre fondamentali nella costruzione di un Sudafrica libero dalla discriminazione razziale.

 

Alessio Gaggero

Odio razziale e linciaggio a Duluth

Il Minnesota di 100 anni fa non era uno Stato caratterizzato dal razzismo e ancora meno dalla pratica del linciaggio.  Il Minneapolis Journal scrisse che quel linciaggio aveva sparso «una macchia sul nome del Minnesota» e che «l‘improvviso, ardente, odio razziale, che è la vergogna del Sud, può anche verificarsi, come ora impariamo con amarezza e umiliazione, nel Minnesota». 

Il Minnesota dalla prosperità alla crisi economico-occupazionale dopo la fine della Prima Guerra Mondiale

Dal Minnesota, il più settentrionale degli Stati degli Stati Uniti d’America, dopo l’Alaska, durante la Guerra di Secessione, erano partiti più di 20.000 uomini per combattere  tra le file dell’esercito dell’Unione contro le armate confederate, cioè contro il Sud schiavista. Dopo la fine della Guerra di Secessione, grazie all’espansione della ferrovia ed allo sfruttamento delle terre per la coltivazione estensiva di grano, sorse la necessità d’importare manodopera. Così, tra 1870 e 1890 arrivarono in questa regione moltissimi europei, soprattutto, ma non solo, scandinavi. Negli anni Ottanta e Novanta del 1800 il Minnesota aveva conosciuto un’altra notevole crescita economica, essendo divenuto il maggior produttore di minerale di ferro degli Stati Uniti. Questa tendenza economica espansiva si era ulteriormente impennata con l’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale, che avevo resa necessaria una maggiore estrazione di materie prime minerali e un maggiore fabbisogno di prodotti agricoli. Finita la guerra, l’11 novembre del 1918, per il Minnesota le cose cambiarono. La produzione, i consumi, i risparmi e l’occupazione iniziarono a calare.

L’immigrazione di braccianti afro-statunitensi dal Sud degli Stati Uniti

Già durante e la guerra, molti afro-statunitensi erano emigrati al Nord e nel Midwest, dagli Stati del Sud, dove era loro preclusa ogni possibilità di emancipazione e di miglioramento della penosa condizione in cui erano costretti. Cercavano lavoro. Cercavano un’opportunità di vita che fosse degna di questo nome. La popolazione prevalentemente bianca del Minnesota, poco per volta, però, iniziò a percepire i migranti neri del Sud come una forma di concorrenza pericolosa, una presenza che indeboliva la loro posizione negoziale con i datori di lavoro, specie rispetto alle questioni salariali. A ciò aveva dato un certo contributo la U.S. Steel (United States Steel Corporation), che non si faceva alcuno scrupolo nello sfruttare gli afro-statunitensi arrivati dal Sud, sottopagandoli. I lavoratori bianchi e neri non fecero, però, fronte comune per sventare questa classica manovra delle maggiori imprese. Iniziò, purtroppo, una guerra dei poveri contro i più poveri: cioè, dei lavoratori bianchi, per lo più immigrati di recente dall’Europa, che temevano di perdere il posto o di subire una riduzione della paga, contro gli  immigrati neri, appena o da poco tempo giunti dal sud degli Stati Uniti (laddove nell’arco di poche centinaia di anni erano stati deportati come schiavi dall’Africa). Nel Minnesota, quindi, come in altre aree del Nord e del Midwest degli States, nel 1919, il livello di violenza perpetrata contro gli afro-statunitensi subì una tale escalation che l’estate di quell’anno divenne nota come l’Estate Rossa (rosso-sangue). E le tensioni rimasero, anche quando le forze dell’ordine riuscirono a far cessare gli scontri. Ormai l’odio razziale si era radicato.

Dall’odio al linciaggio del 15 giugno 1920

In questo contesto, in uno Stato che si credeva fosse immune dall’odio razziale, in una comunità in cui il linciaggio dei neri non era mai stata una pratica corrente, si verificò, il 15 giugno del 1920, proprio il linciaggio di tre persone. Tre persone la cui sola “colpa” accertata era quella di essere afro-americani. Non potevano, infatti, essere ritenuti colpevoli di aver “rubato” lavoro nell’industria ad altri operai bianchi, visto che erano impiegati come manovali nel circo John Robinson, appena giunto a Duluth, una città del nord est del Minnesota, affacciata sul Lago Superiore, al confine con il Wisconsin. Non contavano, però, le prove a loro carico, non contava che non fossero stati giudicati e neppure formalmente incriminati. Neppure importava se il crimine per cui erano stati denunciati era stato realmente commesso. Erano neri, e per i bianchi di Duluth, e non solo per loro, i neri erano nemici. Nemici diabolici. Una campagna d’odio li aveva rappresentati come demoni, capaci di commettere le peggiori nefandezze. Perciò, quei tre erano colpevoli a prescindere. Sicché dare luogo al loro linciaggio per molti bianchi di Duluth, anzi del Minnesota o, meglio, di Stati del Nord e del Midwest, non significava compiere un delitto orribile, ma fare la cosa giusta. Una cosa di cui essere fieri. Non a caso, quel 15 giugno, il capo della polizia della città di fronte a Duluth, Superior, nel Wisconsin, dichiarò:

«Stiamo per cacciare tutti i negri di Superior».

In meno di dieci anni, in effetti, dopo il linciaggio del 15 giugno del 1920, pur crescendo la popolazione di Duluth, la percentuale degli afro-statunitensi diminuì di oltre il 16% rispetto alla percentuale del 1920. Migliaia di neri si trasferirono altrove, non pochi in California. Quasi nessuno tornò da dove era venuto, al Sud, perché laggiù il linciaggio era “la regola”.

La sera del 14 giugno

Nella tarda mattinata del 14 giugno 1920 il circo era arrivato a Duluth. Una festa giocosa si annunciava per i bambini e per i ragazzi e per i loro genitori. Uno spettacolo da non perdere, quello offerto da quel grande circo ambulante giunto via treno. Un’emozionata attesa si era diffusa in chi poteva spendere i centesimi per assistere allo spettacolo. Due adolescenti bianchi locali, Irene Tusken, una dattilografa di 19 anni, e James Sullivan, uno scaricatore di porto diciottenne, non avevano acquistato il biglietto, ma si erano intrufolati dietro il tendone per vedere i neri lavorare. E ce n’erano parecchi di manovali afro-statunitensi addetti ai più diversi lavori necessari a dare vita allo spettacolo. Più tardi  più tardi, quella notte, James Sullivan disse che lui e Irene Tusken erano stati aggrediti da cinque o sei lavoratori del circo e che la ragazza era stata violentata e derubata.

Sei arrestati per rapina e stupro

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Poco dopo l’alba del 15 giugno, il capo della polizia di Duluth, John Murphy, ricevette una chiamata dal padre di James Sullivan. Costui gli riferì quanto dettogli dal figlio: sei lavoratori neri del circo avevano violentato e derubato Irene Tusken. Sulla base di questa comunicazione e senza avere altre prove fisiche o testimoniali, John Murphy andò con i suoi agenti a fare irruzione nei vagoni del circo. I lavoratori neri furono svegliati e fatti scendere dalle loro carrozze. John Murphy fece disporre lungo i binari della ferrovia tutti i circa 150 manovali del circo (inservienti, camerieri dei servizi di ristorazione, scaricatori, ecc.) dicendo a Sullivan e Irene Tusken di identificare i loro aggressori. Furono, quindi, arrestati sei uomini neri, con l’accusa di stupro e rapina: Elias Clayton, Nate Green, Elmer Jackson, Isaac McGhie, John Thomas e Loney Williams. Poco dopo, Irene Tusken fu esaminata dal suo medico, il dottor David Graham, il quale non rilevò alcuna prova fisica che rivelasse la commissione di uno stupro o di un’aggressione violenta come quella narrata.

Il linciaggio del 15 giugno 1920

I cronisti di Duluth, appresa la notizia, si affrettarono a buttare giù degli articoli sulla presunta violenza sessuale, mentre si diffondeva in città la voce che Irene Tusken era morta a causa delle efferate violenze subite. Nel giro di poche ore, una folla, che venne stimata compresa tra le mille e le diecimila persone, si ammassò davanti alla prigione di Duluth. In breve, nella folla si rinforzò la decisione di irrompere nell’edificio e di impiccare gli accusati. La polizia, decisa a non usare le armi contro i propri concittadini, oppose una resistenza inconsistente. La folla intenzionata a compiere il linciaggio ebbe l’agio di dover mettere fuori gioco soltanto qualche agente che si opponeva a mani nude o con delle manichette antincendio. Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie furono sequestrati e sottoposti ad una farsa tragica, una parodia di processo, che durò pochi minuti. Ripeterono di essere innocenti, ma non vennero presi in considerazione. “Giudicati” colpevoli di stupro, non trovarono alcuna pietà, nonostante supplicassero di non essere assassinati. Portati all’incrocio tra la la Prima Strada e le Seconda Avenue East, vennero ferocemente picchiati e, a torso nudo, impiccati ad un lampione. Molti bianchi che non avevano potuto prendere parte attiva al linciaggio poterono sfogare il loro odio colpendo i cadaveri penzolanti. Formarono, poi, un cerchio intorno al lampione-capestro e messi in posa i corpi di Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie, si fecero fotografare. Alcuni dei  bianchi immortalati avevano volti impassibili, altri sorridevano, altri si scambiavano vicendevoli congratulazioni con amichevoli pacche sulle spalle. Non pochi bianchi allungavano il collo o piegavano il capo per entrare nella fotografia.

Il processo contro gli autori del linciaggio

I leader della comunità nera del Minnesota chiesero subito una punizione rapida e severa degli autori del linciaggio e dei loro complici. La NAACP (della quale abbiamo parlato anche, su questa rubrica, nel post Medgar Evers, una vita contro il razzismo e nel post Martin Luther King: Sono un uomo!), l’American Civil Liberties Union e la United Negro Improvement Association sollecitarono il governatore Joseph A. A. Burnquist e lo Stato a perseguire con vigore i colpevoli del linciaggio. Il giudice del distretto di Duluth, William Cant, convocò un’indagine del Grand Jury per il 17 giugno, cioè due giorni dopo il linciaggio. Ma identificare tutti i leader e gli istigatori di quel linciaggio non era una cosa semplicissima, non solo perché potevano non essere tutti compresi tra i soggetti fotografati, ma anche perché di testimonianze utili ne furono trovate poche. L’idea circolante anche in molti di coloro che non avevano partecipato al linciaggio o che lo avevano disapprovato era che occorresse essere solidali con gli autori di quel triplice omicidio, perché erano stati “preda di un raptus momentaneo” e, poverini, avevano ceduto al potere della folla. Nelle settimane successive, il Grand Jury incriminò 37 bianchi implicati nel linciaggio: venticinque per i disordini e dodici per omicidio di primo grado. Alcuni furono accusati di entrambi i reati. In conclusione, soltanto tre dei bianchi accusati di aver preso parte al linciaggio furono condannati – Louis Dondino, Carl Hammerberg e Gilbert Stephenson -, ma non per omicidio, bensì per aver provocato disordini. Scontarono meno di quindici mesi di carcere. Nessuno venne condannato per l’omicidio di Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie. Quando furono ammazzati, i primi due avevano 23 anni il terzo 20.

Il processo ai sopravvissuti al linciaggio

L’accusa per lo stupro di Irene Tusken, però, era rimasta. Anche se tre neri avevano subito un linciaggio a causa delle sue affermazioni infondate, era vero che nessuno era ancora stato processato in un tribunale per quel presunto crimine. La versione di Irene Tusken e James Sullivan coinvolgeva sei neri, e gli investigatori di Duluth erano decisi a ottenere altrettante condanne. Però, non sei ma sette neri, tutti operai del circo John Robinson, furono incriminati dal Gran Giurì per il reato di stupro. Il NAACP, allora, assunse tre avvocati neri – Frederick Barnett Jr., Charles W. Scrutchin e R. C. McCullough – per offrire a quei sette uomini una valida difesa in tribunale. Per cinque dei neri indagati, le accuse si rivelarono subito infondate. Gli altri due, Max Mason e William Miller, furono processati, invece, per stupro. William Miller, alla fine, fu assolto. Max Mason, invece, venne condannato a scontare da sette a trent’anni di prigione. Mason fece ricorso alla Corte suprema del Minnesota, che, però la respinse.  Nel 1921 fu rinchiuso nella Stillwater State Prison. Nel 1925 il Minnesota Parole Board, per rimediare in qualche modo ad una condanna pronunciata in un processo svolto in dispregio delle garanzie costituzionali, decise di concedere a Mason di uscire di prigione, ponendogli la condizione che lasciasse lo Stato.

Una legge contro il linciaggio

Lo shock per il linciaggio del 15 giugno 1920 aveva anche spinto la comunità nera del Minnesota a fare pressioni per l’emanazione di una legge contro il linciaggio. Nellie Francis, un’importante attivista nera di St. Paul, guidò con certo successo tale campagna, che portò il 21 aprile 1921, all’approvazione di una legge che prevedeva la rimozione degli agenti di polizia negligenti nel proteggere le persone in loro custodia da tentativi di linciaggio e il risarcimento dei danni a favore della persona linciata. Leggi anti linciaggio furono approvate in diversi altri Stati. Nonostante molti sforzi, però, una legge nazionale contro il linciaggio non è mai stata approvata.

Oggi, a Duluth, 3 statue di 2 metri d’altezza ricordano le tre vittime del linciaggio, Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie, nel frattempo completamente riabilitati da quell’infamante mai formalmente formulata accusa. All’inaugurazione, avvenuta nel 2003, partecipò anche il pronipote di uno dei più importanti leader del linciaggio:

«Era stato un segreto di famiglia di lunga data. E la sua vergogna, profondamente sepolta, è stata finalmente portata in superficie e disfatta. Noi non conosceremo mai i destini e l’eredità che questi uomini avrebbero scelto per sé stessi e lasciato ad altri se gli fosse stato concesso di vivere. Ma io so questo: la loro esistenza, per quanto breve e crudelmente interrotta, è sempre stata intrecciata col tessuto della mia vita. Mio figlio è cresciuto continuerà ad esserlo in un ambiente di tolleranza, comprensione e umiltà, ora con ancora più autenticità di prima».

Alberto Quattrocolo

1940: La Francia, colpita alle spalle dall’Italia di Mussolini, reagisce bombardando Genova e Savona

Nel giugno del 1940 l’Italia dichiarava guerra alla Francia. A Mussolini servivano “alcune migliaia di morti” per sedersi, di lì a pochi mesi – così assicurava – al tavolo del vincitore (lo abbiamo ricordato in questo post). Come sia andata, è noto a tutti: i morti furono centinaia di migliaia, i mesi quasi 60 e Mussolini finì come sappiamo.

La guerra per la popolazione civile comincia bruscamente, in Liguria, a Savona e Genova, alle 04,26 del 14 giugno, quando alcune esplosioni provenienti dai serbatoi combustibili di Vado Ligure, seguite due minuti dopo da altri boati provenienti dalle installazioni metallurgiche di Savona, danno la sveglia agli abitanti, mentre altri scoppi si sentono a levante, verso Genova.

Sono le granate provenienti dalla terza squadra navale francese, guidata dal Contrammiraglio Duplat: composta da 4 incrociatori, scortati da 11 caccia e 4 sommergibili, era partita dalla rada di Tolone la sera precedente; la copertura aerea è assicurata da 9 bombardieri. Come obiettivi ha le installazioni industriali di Vado Ligure, Savona e l’area industriale-portuale di Genova. La missione, ritorsione a un’incursione aerea italiana su Tolone, ha però anche motivazioni psicologiche: l’operazione è denominata “Alba di fuoco”, nota anche come battaglia di Genova.

La reazione italiana è pronta ma inefficace: sparano la batteria di Capo Vado e il treno armato posizionato ad Albisola, ma nessuno degli avversari viene colpito; i Mas italiani attaccano i cacciatorpediniere francesi con il lancio di sei siluri, che non causano danni, ma riescono a far ripiegare il nemico. Alle 4:48 l’attacco su Savona cessa.

Il secondo fronte dell’attacco francese colpisce il tratto di costa tra Arenzano e Sestri Ponente. Qui, da parte italiana, aprono il fuoco la Batteria Mameli e due pontoni armati; l’unica imbarcazione della Regia Marina a prendere parte alla difesa della città è la vecchia torpediniera Calatafimi, di scorta a una posamine nella zona: comandata dal tenente di vascello Giuseppe Brignole, si avvicina alla squadra francese protetta dalla foschia e lancia alcuni siluri, mostrando grande coraggio ma anche tutta l’inefficacia e vetustà della sua strumentazione bellica.

Allontanatesi indisturbate le navi francesi, incomincia la conta dei danni. Sugli insediamenti industriali di Vado Ligure si scorgono fiammate e colonne di fumo che si innalzano dai serbatoi; si riscontra, da successivo rapporto militare, che sono stati colpiti 7 edifici privati, lo stabilimento Monteponi, il gasometro con 1800 metri cubi di gas, lo stabilimento Agip dove un serbatoio da 15mila litri di nafta prende fuoco, lo stabilimento Carbon Fossili, l’ILVA e Fornicoke.

A Savona il bombardamento navale francese danneggia la stazione ferroviaria, il palazzo comunale, l’istituto nautico, le Distillerie Italiane, una trentina di appartamenti e fabbricati in diversi punti del centro città. Danni sparsi anche nelle zone di Albisola e Zinola, dove viene colpito pure il cimitero: cessate di uccidere i morti, scriverà più tardi Ungaretti.

La guerra mostra subito quello che sarà il suo volto: in prima linea non solo i militari ma anche le città e i civili. A Savona i morti sono 6 e 22 i feriti e, in numero minore, si contano vittime anche a Vado-Zinola e Genova, ma l’azione francese provoca importanti ripercussioni sul morale degli abitanti.

Il bilancio più pesante, quello su cui si sarebbe dovuto riflettere da parte dei vertici militari, è però quello strategico. La spedizione francese rende evidente la fragilità dell’apparato militare italiano: l’attacco delle motosiluranti senza esito, due siluri della Calatafimi che si inceppano nei tubi di lancio, il pontone armato che non può sparare perché accecato dal suo fumo, un pezzo della Mameli che va in avaria. Soprattutto si manifesta in modo drammatico l’incapacità dell’organizzazione militare a provvedere alla difesa delle città e dei loro abitanti: una flotta nemica poteva arrivare inavvertita e praticamente indisturbata fino davanti a Genova e ritirarsi altrettanto indisturbata grazie alla mancanza di ogni attività di ricognizione da parte dell’aviazione italiana, le grandi unità della Marina del tutto assenti, gli aerei che non riescono a intercettare le navi francesi nel viaggio di ritorno. Appariva evidente che l’Italia era stata portata in guerra con mezzi del tutto inadeguati rispetto alle velleità e alla reazione che si sarebbe scatenata.

Savona può così vantare il triste primato del primo bombardamento aeronavale sul suolo italiano nel corso della seconda guerra mondiale (il primo bombardamento aereo era già avvenuto su Torino l’11 giugno). L’area costiera ligure sarà ancora attaccata a più riprese, nel corso del conflitto: la strategia dei bombardamenti navali, prima francesi e poi britannici, del 1940-41 tornerà a concentrarsi sulla costa da Sestri Ponente a Voltri e nel savonese, estendendosi poi su Imperia, Finale Ligure, Varazze, Albenga, Genova e La Spezia. A essere colpita è la regione, più che una città in particolare: se infatti la città di Genova sostiene i danni più concentrati, tutta la Liguria subisce danni ingenti a causa della densità di complessi industriali dislocati lungo la costa, l’importanza dei suoi porti e la presenza della base navale di La Spezia.

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Sono state condotte analisi circa le diverse forme attraverso le quali, durante e dopo la seconda guerra mondiale, si è perpetuato presso la popolazione italiana il ricordo dell’esperienza dei bombardamenti. Si è rilevato come, sin dai primi tragici eventi del ’40-41, il coinvolgimento dei civili come “vittime collaterali” di operazioni belliche dirette contro impianti industriali e infrastrutture abbia iniziato a incrinare il consenso di cui godeva Mussolini, sebbene sia osservabile una lunga e imbarazzata rimozione, dall’elaborazione collettiva del lutto, in relazione ai bombardamenti alleati degli anni successivi, che uccisero vittime innocenti, colpevoli in quanto italiane, condannate a morte senza processo per i crimini del loro stato: nella narrazione del secondo dopoguerra, imperniata sull’idea di “guerra giusta”, le stragi di civili provocate dal bombardamento strategico americano e britannico saranno a lungo indicibili, e attribuite comunque alla responsabilità del regime fascista, che aveva portato l’Italia in guerra, come tuttora è possibile riscontrare in molte iscrizioni su monumenti o lapidi che commemorano i caduti.

Nella maggioranza dei casi, le istituzioni locali che si sono occupate di tramandare la memoria dei bombardamenti sono i comuni, da un punto di vista meno istituzionale e più emotivo.

In particolare, proprio a Savona, città medaglia d’oro al valore militare per il sacrificio compiuto dalla sua popolazione e medaglia d’oro al merito civile per l’attività partigiana svolta, appare significativo il riutilizzo di un monumento preesistente, esteso dal primo conflitto mondiale al secondo, per commemorare i caduti di tutte le guerre: denominata “Rintocchi e memorie”, l’opera include una campana, che ogni giorno, alle 18.00, batte 21 colpi, uno per ogni lettera dell’alfabeto italiano, mentre tutte le persone presenti in piazza e il traffico si fermano fin quando non è risuonato l’ultimo rintocco. Nella tradizione cittadina, è considerato un monumento alla pace.

 

Silvia Boverini

Fonti: www.it.wikipedia.org; C. Baldoli, “La memoria dei bombardamenti nelle regioni del Nord Italia”, http://www.treccani.it; L. Oliveri, “14 giugno 1940: la Marina Francese bombarda Genova e Savona”, http://uomini-in-guerra.blogspot.com; “14 giugno 1940, le prime bombe su Savona e Vado”, https://campionaridiparoleeumori.wordpress.com; www.ivg.it

Medgar Evers, una vita contro il razzismo

Medgar Evers non aveva ancora compiuto 38 anni, quel 12 giugno del 1963, quando una fucilata lo mise a tacere per sempre, colpendolo alla schiena, davanti a casa, mentre usciva dalla propria auto.

Chi lo assassinò non voleva più che parlasse, che lottasse, in modo non violento, per far cessare l’abominevole discriminazione razziale che imperversava negli Stati Uniti, soprattutto in quelli del Sud.

Medgar Wiley Evers era nato il 2 luglio 1925, a Decatur nel Mississippi, uno Stato in cui essere neri era un inferno. Significava essere non dei cittadini di serie B, ma dei non-cittadini, trattati come dei non-esseri umani Significava doversi rivolgere ai bianchi chiamandoli “Signore”, accettando di venire trattati da loro come bambini, quando erano ben disposti, o come cose o animali negli altri momenti. Significava non avere diritti, meno di quelli accordati ad un mulo. E come muli occorreva lavorare, venendo pagati con una retribuzione da muli.

Medgar Evers, come gli altri afro-americani del Sud, aveva assorbito dosi indigeribili di soprusi, di frustranti discriminazioni, di prepotenze e di emarginazione. E aveva reagito. Ma per il Ku Klux Klan reagire voleva dire morire, specie se si diventava uno stimolo per altri esseri umani discriminati per il colore della pelle o per la religione.

Volontario contro Hitler e Mussolini

Vent’anni prima di essere assassinato, nel 1943, l’appena diciottenne Medgar Evers e suo fratello Charlie si erano arruolati nell’esercito. Gli Stati Uniti erano entrati nella Seconda Guerra Mondiale contro l’impero nipponico, la Germania di Adolf Hitler e l’Italia di Benito Mussolini. Già nel gennaio del 1941, 11 mesi prima che, a seguito dell’attacco giapponese alla base di Pearl Harbour, gli USA entrassero nel conflitto, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt si era rivolto ai suoi cittadini esponendo quali dovessero essere, in un mondo ormai in guerra, le finalità che il loro Paese avrebbe dovuto perseguire a livello planetario. Era il discorso delle “Quattro libertà”: libertà di parola e di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale) e libertà dalla paura. Solo lalibertà di culto era concessa agli afro-americani, anche se la schiavitù era stata abolita ottant’anni prima, da Abraham Lincoln. Ciononostante, credendo in quei principi, Medgar Evers era andato volontario a combattere oltreoceano, per restituire le quattro libertà e l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, ai popoli sottomessi dalla mostruosa tirannia nazi-fascista. Dopo l’addestramento era stato trasferito in Inghilterra, dove, con milioni di altri soldati, aveva atteso che si compisse il grande balzo oltre la Manica per dare luogo alla liberazione dell’Europa, invasa dalla Germania. Avvenuto lo sbarco in Normandia (che abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Gli amici del 6 giugno), Medgar Evers aveva combattuto i tedeschi nella Francia occupata dalle truppe hitleriane. Per il servizio reso alla patria, era stato congedato con onore nel 1945, con il grado di sergente.

Volontario per i diritti civili dei neri d’America.

Nel 1948, si era iscritto alla Alcorn State University riuscendo a laurearsi nel ’52. Nel frattempo, la vigilia di Natale del 1951 aveva sposato Myrlie Beasley, con la quale si era trasferito a Mound Bayou. Qui Medgar Evers aveva conosciuto il Regional Council of Negro Leadership (RCNL), un’organizzazione finalizzata al riconoscimento dei diritti civili per gli afro-americani, basata sul criterio e sul metodo dell’auto-aiuto. L’adesione alla RCNL fu decisivo. Maturò un impegno politico che giorno dopo giorno divenne irriducibile. Infatti, dapprima partecipò all’organizzazione del boicottaggio delle stazioni di servizio in cui era negato ai neri l’accesso ai servizi igienici. Medgar Evers, in particolare, si occupò della distribuzione di adesivi con lo slogan “Non comprare la benzina dove non puoi utilizzare il bagno“. Quindi, tra il ’52 e il ’54, con suo fratello Charlie, prese parte alle conferenze annuali del RCNL. Poi, nel febbraio del 1954, la sua lotta fece un salto di qualità: quel mese, infatti, Medgar Evers fece richiesta di iscrizione alla Facoltà di legge dell’Università del Mississippi, sapendo che era preclusa agli studenti di colore. Così, quando la sua richiesta venne respinta, egli fece causa all’università. Il suo caso doveva andare a collegarsi ad altri simili, affinché la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) potesse servirsene nella campagna del 1954 contro la segregazione razziale, attraverso la sensibilizzazione dei cittadini dell’intera nazione sul livello di arretratezza culturale e morale del Sud. Con la sentenza del 17 maggio 1954, la Corte Suprema degli Stati Uniti diede ragione alla NAACP, riconoscendo l’incostituzionalità della segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Grazie al suo impegno in tale vicenda, il 24 novembre di quell’anno, Medgar Evers fu nominato primo segretario locale della NAACP.

Medgar Evers e l’omicidio di Emmett Till

Fu in tale veste che Medgar Evers, senza alcuna esitazione, si diede da fare per Emmett Till, un giovane nero di Chicago, trasferitosi nel Mississipi, che era stato rapito da due bianchi, intenzionati a punirlo per aver osato parlare con una ragazza bianca. Il 28 agosto del 1955, questo ragazzino di 14 anni, dopo essere stato torturato (gli cavarono perfino un occhio) venne assassinato a colpi di arma da fuoco, avvolto in un ferro spinato e gettato nel fiume. Il giorno prima Medgar Evers e un suo compagno, Amzie Moore, travestitisi da raccoglitori di cotone, andarono nei campi per ottenere delle informazioni utili a rintracciare quel quattordicenne venuto da Chicago.

Emmett Till fu sepolto il 6 settembre. Diciassette giorni dopo una giuria, composta da 12 uomini bianchi, assolse i due imputati, bianchi, a dispetto degli inconfutabili elementi probatori portati contro di essi. Il verdetto fu deciso in appena 67 minuti, anzi, di meno, visto che uno dei giurati spiegò che, per tirarla un po’ più lunga, così da far sembrare vera la discussione, avevano fatto una pausa per bersi una bibita.

John Kennedy, Medgar Evers e la lotta dei neri

Medgar Evers stava diventando un leader della lotta dei neri, anche se conosceva perfettamente i rischi cui si esponeva chi attirava su di sé l’attenzione dei razzisti più violenti. Ma il suo attivismo non conosceva cedimenti né soste. Partecipò, quindi, alla campagna di boicottaggio contro quei commercianti che vendevano i loro prodotti solo a clienti bianchi. Inoltre contribuì attivamente alla vittoriosa battaglia grazie alla quale, nel 1962, l’Università del Mississippi dovette ammettere tra i propri studenti, James Meredith  il primo studente di colore di quell’ateneo.

Da poco più di un anno era diventato presidente degli Stati Uniti il democratico John F. Kennedy (lo abbiamo ricordato nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»), ma ancora le cose non accennavano a cambiare. Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, JFK aveva affermato:

«la negazione dei diritti costituzionali ad alcuni dei nostri concittadini americani, a causa della razza – alle urne e altrove -, disturba la coscienza nazionale e ci sottopone alla critica dell’opinione pubblica mondiale, secondo cui la nostra democrazia non è all’altezza delle alte promesse rappresentate dalla nostra eredità».

Per quanto il presidente fosse consapevole del permanere di una condizione di intollerabile e criminale ingiustizia, l’attività della sua amministrazione non riusciva ad essere risolutiva. Pur avendo ottenuto il voto dei neri, infatti, per tutto il 1961 si era trovato a rinviare la promulgazione di una legislazione sui diritti civili, dato che i conservatori sudisti (democratici e repubblicani) controllavano di fatto l’assemblea congressuale. A Kennedy era toccato riconoscere che proporre una qualsiasi legge sui diritti civili nel 1961 sarebbe stato del tutto inutile, risolvendosi con un sicuro fallimento. In seguito arrivò a concludere:

«i sudisti sono senza speranza, non faranno mai riforme. Quelli del Sud in 100 anni non hanno fatto niente per l’integrazione e quando interviene uno da fuori gli dicono di togliersi di mezzo perché se ne occuperanno da soli, cosa che non fanno. È arrivato il momento di preoccuparsi meno della “sensibilità” dei sudisti».

Un’escalation di intimidazioni contro Medgar Evers fino all’assassinio

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La “sensibilità” dei sudisti pareva essere in quegli anni quanto mai “sensibile”. E quella sensibilità era tale da portarli ad agire con una certa aggressività. Anche contro Medgar Evers , la cui casa, infatti, fu colpita con una bottiglia molotov il 28 maggio del 1963. Poi, probabilmente, convinti che non avesse ancora deciso di smettere di urtare la loro tanto provata sensibilità, il 7 giugno tentarono di investirlo con un’auto, mentre era quasi giunto sulla porta dell’ufficio del NAACP.

Quattro giorni dopo, l’11 di giugno il presidente intervenne contro il governatore dell’Alabama, il democratico e segregazionista George Wallace, che aveva fatto serrare la porta d’ingresso dell’università dell’Alabama per impedire a due studenti afro-americani, Vivian Malone Jones e James Alexander Hood, di poterla frequentare. Quel giorno segnò un’indiscutibile vittoria di Kennedy, che riuscì a far comprendere agli americani come quella di Wallace non fosse nient’altro che una presa di posizione ostinata e ottusa.

Quella sera stessa Kennedy pronunciò lo storico discorso alla nazione sui diritti civili, che fu trasmesso in contemporanea alla televisione e alla radio nazionali. In esso spiegò che intendeva far approvare una legislazione sui diritti civili per assicurare un accesso paritario alle scuole pubbliche e ad altre strutture, una più equa amministrazione della giustizia e una maggior protezione del diritto di voto.

Il giorno dopo, il 12 giugno 1963, mentre rientrava in casa dopo aver partecipato ad una riunione con gli avvocati del NAACP, un colpo di fucile raggiunse Medgar Evers alla schiena. Morì in ospedale cinquanta minuti dopo.

Dieci giorni dopo, un bianco, Byron De la Beckwith, membro del Ku Klux Klan, fu arrestato per l’omicidio di Medgar Evers. Durante i processi che si tennero due giurie di soli bianchi non trovarono l’accordo e De la Beckwith non fu condannato. Solo nel 1994, cioè trent’anni dopo, De La Beckwith, ormai 74enne, venne nuovamente processato e, questa volta, condannato all’ergastolo. Morì in carcere nel 2001.
Alberto Quattrocolo

John Wayne, il divo più amato e odiato di tutti i tempi

John Wayne morì l’11 giugno del 1979. Aveva 72 anni, da poco compiuti. In cinquant’anni di carriera, aveva interpretato 170 film, di cui 153  da protagonista, diventando stata una delle più remunerative star di Hollywood. John Wayne, infatti, era certamente diventato uno dei maggiori divi cinematografici di tutti i tempi, tanto da essere collocato al 13° posto nella lista delle più grandi star della storia del cinema dall’American Film Institute. Ma per molti milioni di persone negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, John Wayne era anche qualcos’altro: una leggenda vivente e un simbolo. Un simbolo di forza, determinazione, coraggio, virilità, senso del dovere e del sacrificio, onore e integrità. E un simbolo di patriottismo. O, per meglio, dire, di “americanismo”. Un  simbolo, quindi, da amare o da odiare. Oppure da amare e odiare contemporaneamente. Come affermò Jean-Luc Godard, cogliendo le ragioni del fascino di Wayne:

«Come posso odiare John Wayne, perchè simpatizza per Goldwater, e poi amarlo teneramente, quando prende improvvisamente tra le braccia Nathalie Wood, negli ultimi minuti di Sentieri Selvaggi?».

«Ringrazio Dio ogni giorno di essere americano» (John Wayne)

Era l’America di provincia, piccolo-borghese, quella di cui John Wayne si ergeva a difensore. Quella con la bandiera a stelle strisce sventolante nel giardino e con qualche famigliare caduto o ferito in uno dei tanti conflitti combattuti dagli Stati Uniti, dal 1776 in poi. In effetti, era presso questo strato di popolazione, profondamente persuasa della santità del sistema di vita americano che John Wayne riscuoteva sempre un’approvazione incondizionata. Per questa parte di americani, John Wayne, oggi come quarant’anni fa, continua ad essere un mito inscalfibile. E anche se i suoi film avevano successo presso qualsiasi tipo di pubblico, in Europa, come in America o in Asia, per John Wayne era importante anche nelle sue pellicole meno politicamente schierate far trasparire la sua fierezza di essere americano.

«Ringrazio Dio ogni giorno di essere americano»

Molto probabilmente era assai sincero, e non meno convinto e convincente, quando si esprimeva in questi termini. Lo faceva, talvolta, credendo di interpretare il meglio della mentalità americana. Il modo di pensare degli abitanti West, anzi dei pionieri, per come la leggenda e il cinema li avevano rappresentati. Per come lo stesso John Wayne aveva contribuito a tramandarli. Ed egli, nato e cresciuto nell’Ovest, in quella cultura, reale o fittizia che fosse, si identificava totalmente. Alexander Walker in “Stardom” sostenne che John Wayne fu «il più perfetto esempio di divo che fosse riuscito a trasferire le sue idee politiche nei film e i suoi film nella propria immagine pubblica». E le sue idee erano quelle di un repubblicano incrollabilmente di destra. Un conservatore che si riteneva fedelissimo interprete dell’americanismo. In nome del quale aveva supportato energicamente la causa degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, non limitandosi ad interpretare un certo numero di film bellici, di schietta propaganda, ma anche western e film di ambientazione contemporanea, contenenti impliciti o espliciti rinvii alla lotta contro i regimi nazi-fascisti.

John Wayne tra idealismo repubblicano e caccia alle streghe

Già, dopo quasi un decennio di gavetta nei film, western e di avventura, di serie B e C,  prodotti a ritmi vertiginosi da piccole case cinematografiche, nel 1939, aveva interpretato Ombre Rosse (di John Ford). Questo western-capolavoro, grazie al quale il maestro della Settima Arte lo aveva trasformato in divo, era anche una trasparente metafora, idealizzante, dei valori democratici sottesi al New Deal, del presidente Franklin Delano Roosevelt e un preciso atto d’accusa contro l’egoismo isolazionista dominante nel Congresso degli Stati Uniti e nell’opinione pubblica. Inoltre, ben prima dell’entrata in guerra degli USA, John Wayne aveva interpretato un certo numero di pellicole apertamente schierate contro l’ideologia proposta da Hitler e Mussolini e scritti o diretti da autori di sinistra. Non si contano, poi, i film interpretati da John Wayne durante la guerra, diretti, prodotti o basati su sceneggiature di progressisti, liberal o di veri e propri iscritti al Partito Comunista Americano. Si trattava di opere che esprimevano una visione idealizzata degli USA, proponendo un’ideologia progressista e liberale, antifascista e antitotalitaria, di sincera ispirazione democratica. Tra questi autori-produttori, figuravano Stanley Roberts, Guy Endore, Edward Dmytryk, Jules Dassin, Samuel Ornitz, Margherite Roberts: tutti destinati ad essere perseguitati per le loro opinioni politiche di sinistra nella caccia alle streghe de dopoguerra. Intanto, nel ’44, John Wayne era stato tra i fondatori della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals MPAPAI (Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani). Composta da importanti personalità dell’industria cinematografica hollywoodiana (tra i quali Walt Disney, Leo McCarey e Sam Wood), cui aderirono, in seguito, sia celebri attori  caratteristi come il suo amico fraterno Ward Bond o come  Charles Coburn, sia superstar come Clark Gable, Gary Cooper, Robert Taylor, era un’organizzazione di orientamento politico conservatore, con lo scopo dichiarato di difendere l’industria cinematografica, e attraverso di essa, il Paese, contro l’infiltrazione comunista e fascista. John Wayne, che dopo Sam Wood e Robert Taylor, nel ’48 ne era divenuto attivissimo presidente (lo fu per tre mandati consecutivi), con l’affermarsi della Guerra Fredda, aveva tradotto il suo impegno politico in un anticomunismo attivo e inesorabile.

«La ripugnanza che sento per i comunisti…» (John Wayne in Marijuana)

Così nel ’52, John Wayne, supportò in tutti i modi per lui possibili la caccia alle streghe anticomunista: con la sua nuova casa di produzione, produsse ed interpretò Marijuana (1952, di Edward Ludwig), un film di aperta propaganda anticomunista, in cui impersonava un membro della Commissione parlamentare per le attività anti-americane (House Un American Activities CommitteeHUAC), impegnato nella caccia ai comunisti; si schierò incondizionatamente dalla parte di Joseph McCarthy (l’abbiamo ricordato su questa rubrica, nel post A cavallo della paranoia), nelle primarie del Partito Repubblicano, per poi sostenere il candidato, più moderato, scelto dalla convention repubblicana per le elezioni presidenziali, il generale Dwight Eisenhower. Inoltre, come presidente dell’MPAPAI, che collaborava con l’HUAC, convocò lo sceneggiatore e produttore Carl Foreman. Costui, indagato per essere stato in passato iscritto al Partito Comunista Americano (dal quale era uscito, nauseato, a seguito del patto di non aggressione nazi-sovietico del ’39), aveva appena sceneggiato Mezzogiorno di fuoco (1952, di Fred Zinneman), capolavoro western e allegoria riuscitissima (tanto da fruttare all’anziano Gary Cooper il suo secondo Oscar) dell’isolamento al quale erano condannati i presunti comunisti, dopo essere stati ligi e in prima linea contro le minacce alla comunità, alla libertà e ai principi costituzionali. Wayne, che detestava Mezzogiorno di fuoco, avendone riconosciuto i pregi artistici e colto il significato politico, disse a Foreman:

«Siete un professionista, come potete far parte di una banda di comunisti? Se continuate su questa strada, la vostra carriera è finita. Nessuno vi farà più lavorare. Vi sarà ritirato il passaporto e anche all’estero faremo sì che non troviate più alcun lavoro».

La replica di Foreman fu:

«Sapete, i vostri metodi mi ricordano molto quelli di Hitler e Stalin».

«Bisogna combattere il fuoco con il fuoco» (John Wayne)

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Confuso e sbalordito, John Wayne replicò a Carl Foreman, giustificandosi maldestramente:

«Bisogna combattere il fuoco con il fuoco».

Probabilmente, la sua risposta non era soltanto un’auto-giustificazione improvvisata e, intellettualmente e moralmente, debolissima. Forse la pensava davvero così, pur riconoscendo la potente verità che gli aveva spianato davanti agli occhi Foreman, l’intellettuale. In effetti, a John Wayne non piacevano un granché gli intellettuali. Nel 1960 fece pubblicare a proprie spese, su tre pagine consecutive del numero di Life del 4 luglio un articolo dal titolo Non c’erano scrittori fantasma ad Alamo. In effetti, pur appoggiando il candidato repubblicano alle presidenziali Richard M. Nixon, fin dai tempi della sua raccapricciante partecipazione alla caccia alle streghe, John Wayne biasimava il fatto che costui, alla pari del suo avversario John F. Kennedy, non si scrivesse da solo i propri discorsi, ma si avvalesse appunto di ghost-writers. La sua America, dunque, non era certo quella dell’élite intellettuale. Non era l’America di chi ne metteva in dubbio la storia, le tradizioni o la politica estera. Quell’anno, infatti, John Wayne spendeva quasi tutto il suo capitale per promuovere La battaglia di Alamo (1960, di John Wayne). Un kolossal dai costi impressionanti, che aveva diretto e interpretato, realizzando un sogno artistico e politico inseguito da ben quindici anni. La pellicola, un impasto di idealismo libertario, antirazzismo e nazionalismo spinto, lo mandò quasi in rovina, ma egli non si diede per vinto. E nove anni dopo, tornò alla carica con un’altro film da lui prodotto, diretto e interpretato, I berretti verdi (1969, di John Wayne). Un’opera di sfacciata propaganda a favore della guerra in Vietnam, che pesantemente osteggiata non soltanto dal movimento pacifista, ma anche dalla critica americana e internazionale, pur ottenendo un certo successo di pubblico.

«Se una cosa non è bianca o nera vada al diavolo» (John Wayne)

John Wayne non amava le sfumature. Gli piacevano le cose nette: «Le sfumature possono andare a farsi fottere», diceva. A ben vedere, però, pochi divi riuscirono come John Wayne a mettere in luce, anche involontariamente, le nevrosi, le contraddizioni, le storture morali, della mentalità autocelebrativa dei WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti). Padre di quattro figli, non si arruolò per combattere al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale, diversamente da altri attori, meno manifestamente patriottici di lui. Sostenitore della famiglia tradizionale, pur essendo sposato, ebbe relazioni sentimentali con diverse attrici: Marlene Dietrich (l’abbiamo ricordata nel post Con te, Marlene Dietrich), Barbara Stanwyck, Susan Hayward, Joan Crawford, Claire Trevor, Jean Arthur, Gail Russell e Paulette Goddard, compagna di un “sovversivo” come Charles Chaplin (abbiamo ricordato qui il capolavoro “sovversivo” Tempi Moderni, di Chaplin, che la Goddard interpretò nel 1936). Sposò tre donne ispano-americane, che in tutto gli diedero sette figli e, sul letto di morte, si convertì al cattolicesimo. E la morte fu dovuta ad un cancro causato dalle radiazioni assorbite mentre girava nel ’56 un film nel deserto dell’Utah, dove si svolgevano i test delle armi nucleari. Anche sul piano personale entrò spesso in contraddizione con il suo reazionario e monolitico credo politico. Ad esempio, restò amico dell’attore Larry Parks, comunista finito nella lista nera, mantenne intatta la sua stima nei confronti del citato Carl Foreman, tanto da andare a congratularsi con lui per il successo del suo kolossal antimilitarista, I cannoni di Navarone (1961, di Jack Lee Thompson), interpretato da Gregory Peck (che abbiamo ricordato nel post Il buio oltre la siepe e l’umile forza dell’empatia). Volle accanto a sé Laurene Bacall in Oceano Rosso (1955, di William A. Wellman), pur essendo costei, come il marito Humphrey Bogart, di idee politiche diametralmente opposte alle sue e, per giunta, una fiera avversaria del maccartismo. E la rivolle al proprio fianco nell’ultimo film che interpretò Il pistolero (1976, di Don Siegel). Nella sua megaproduzione e prima prova registica, La battaglia di Alamo, volle accanto a sé due attori, bravissimi, dichiaratamente di sinistra, Richard Widmark (di cui abbiamo parlato nel post Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood) e Laurence Harvey. Uno dei suoi ultimi film, da lui prodotto, lo vide al fianco di un’altra indistruttibile progressista e anti-maccartista, Katharine Hepburn (l’abbiamo ricordata nel post L’indipendenza di Kate Hepburn). Lavorò, inoltre, per tre volte con un sostenitore fedelissimo del Partito Democratico e uno dei più risoluti e dichiarati nemici della caccia alle streghe, il divo Kirk Douglas, arruolandolo anche in film da lui prodotti. Peraltro, con Kirk Douglas interpretò una grossa produzione di Otto Preminger (Prima vittoria, 1965, di Otto Preminger), un altro progressista e anti-maccartista impegnato. Inoltre, non lesinò manifestazioni di gratitudine e apprezzamento alla sopra menzionata Marguerite Roberts, autrice della sceneggiatura che gli fruttò l’Oscar, l’unico da lui vinto, per Il Grinta (1969, di Henry Hathaway), come non ebbe esitazioni nell’ammirare e stimare Paul Newman, suo risoluto avversario in moltissime battaglie politiche. Infine, la sua fervente passione politica non era tale da portarlo a trasformarla in lavoro, a differenza di quanto aveva fatto il suo amico Ronald Reagan. Tanto che nel ’66 rifiutò la candidatura a Governatore dell’Alabama, propostagli dai repubblicani.

«Non si è mai visto un cowboy sul lettino dello psicoanalista. I letti servono a una cosa sola». (John Wayne)

Se non era politicamente contorto, John Wayne aveva, comunque, una personalità complessa. Una complessità che gli permetteva di toccare vette di autenticità in diverse prestazioni attoriali. I suoi film migliori, quelli nei quali dimostrò non solo di avere una forte presenza scenica, ma anche di essere un vero, grande, attore cinematografico, lo vedevano interpretare personaggi ambigui, tormentati da impulsi autodistruttivi e lacerati da un’inquietudine dolorosa e senza requie. L’americano tutto d’un pezzo, il leader coraggioso e virile, svelava, in queste pellicole, la propria natura autoritaria. Tiranni dai risvolti psicopatici erano, infatti, i protagonisti di alcune delle sue pellicole artisticamente più riuscite e alle quali era maggiormente affezionato: La strega rossa (1948, di Edward Ludwig), Fiume Rosso (1948, di Howard Hawks), Iwo Jima, deserto di fuoco (1949, di Allan Dwan) e l’inarrivabile capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi (1956). Ethan Edwards, il vendicativo protagonista di Sentieri selvaggi, che spara negli occhi ad un indiano morto, per non farlo andare in paradiso, che uccide con furia maniacale i bisonti, per far morire di fame donne e bambini comanches, era reso da Wayne come, anzi meglio di quanto avrebbe potuto fare un esperto interprete di noir o il più fedele attore del Metodo. John Wayne mostrava di Ethan, senza edulcorarli né giustificarli, sia il razzismo omicida che l’ottusità psicotica, lasciando affiorare il coacervo di contraddizioni che affliggeva quell’immortale personaggio: la solitudine e l’amarezza di fondo, l’incapacità di integrarsi e di dare e ricevere amore, la fragilità sottesa all’arroganza, la crudeltà e il cinismo. Insomma, John Wayne non era un tipo cerebrale, ma nemmeno quell’ottuso irriducibile che poteva apparire. Forte bevitore e fumatore incallito (5 pacchetti al giorno), era capace di sorprendenti momenti di consapevolezza della complessità della vita e della tortuosità della psiche umana, sia nelle sue performance cinematografiche che nella vita reale.

«Io non recito, reagisco». (John Wayne)

John Wayne non aveva la pretesa di essere un artista. Diceva che lui non recitava, si limitava a reagire. Il che era ben visibile quando interagiva davanti alla macchina da presa con caratteristi particolarmente espressivi come Thomas Mitchell, John CarradineBarry FitgeraldWalter Brennan o i suoi amici Ward BondVictor McLaglen, Pedro Armendariz, Harry Carey Jr., Ben Johnson Forrest Tucker. Ma questo suo saper ascoltare e reagire emergeva anche con co-protagonisti del calibro di Walter Pidgeon, Ray MillandAnthony QuinnMontgomery CliftHenry Fonda, Jeffrey HunterDean Martin, William Holden, Stewart Granger, Lee MarvinJames Stewart, Rock Hudson, Robert MitchumJames Caan o Rod Taylor, per non parlare dei suoi duetti nei diversi film interpretati con la versatile Maureen O’Hara. Non rubava mai la scena agli altri, anzi, sapeva stare da parte e, permettendo loro di emergere, sapeva reagire, appunto, al momento giusto e con la giusta misura. In effetti, secondo i suoi detrattori, John Wayne non sapeva far altro che interpretare se stesso. Tuttavia, andrebbero ricordati film come Il grande tormento (1941, di Henry Hathaway), in cui era un giovane montanaro tormentato da rovelli edipici, I cavalieri del Nord Ovest (1949, di John Ford), dove, quarantaduenne, interpretava un burbero, auto-ironico e sobriamente sentimentale ma fiero, capitano sessantacinquenne. Oppure, il suo film più romantico e poetico, Un uomo tranquillo (1952, ancora di John Ford), in cui impersonava un ex-boxeur, trasferitosi nella sua terra d’origine, l’Irlanda, alla ricerca delle proprie radici e della quiete necessaria a superare insopprimibili sensi di colpa.

«Credetemi se vi dico che sono enormemente felice di ritrovarmi con voi questa sera» (John Wayne)

Nato il 26 maggio del 1907, come Marion Michael (all’anagrafe, Robert) Morrison, nell’Iowa, cresciuto alle soglie del deserto californiano, figlio di un farmacista fallito, che ebbe un rapporto conflittuale con la moglie, grazie al fisico imponente e ad una borsa di studi per il football, aveva frequentato l’università. Notato dal celeberrimo Tom Mix era entrato nel mondo del cinema come attrezzista e trovarobe. Dopo alcune particine in alcuni film di John Ford, aveva esordito in un leggendario flop commerciale, Il grande sentiero (1930), un western colossale di Raoul Walsh. Ribattezzato per quel film John Wayne, era finito a fare 9 anni di lunghissimo tirocinio in filmetti a basso costo, finché John Ford non lo aveva riscoperto, lanciandolo come protagonista di Ombre rosse. Raggiunto il successo, pur subendo delle cadute, per circa quarant’anni, restò all’apice. I suoi film nel complesso gli fecero guadagnare 400 milioni di dollari, un record, fino alla sua morte, imbattuto nella storia del cinema mondiale (pare che tutti i film da lui interpretati abbiano incassato, nel mondo, oltre un miliardo di dollari). Per più di vent’anni figurò nelle classifiche degli indici di gradimento e nel 1969, quando era sulla breccia dell’onda da ormai trent’anni e ne aveva sessantadue di età, venne insignito del titolo di “Superstar del decennio”. Né la sua popolarità calò negli anni Settanta, come non venne meno dopo la sua morte. In effetti, al di là degli aspetti ideologici, impliciti o espliciti di alcune o molte sue pellicole, la gran parte dei film che interpretò John Wayne avevano successo perché erano fatti bene, in taluni casi assurgevano al rango di autentici capolavori della Settima Arte, e offrivano al pubblico esattamente ciò che era disposto a pagare per vedere. A dispetto del suo successo planetario e dei suoi tanti ruoli di leader dispotico, John Wayne seppe conservare una certa umiltà di fondo, tanto da sapere riconoscere i propri errori e scusarsi in pubblico, e non dimenticò mai il valore dell’amicizia. Creata nel dopoguerra la propria società di produzione, se ne servì anche per dare lavoro a persone in difficoltà, fossero amici di lunga data, ex nemici come il regista John Sturges, o giovani autori. Per tutti coloro che gli volevano bene, egli era The Duke, il Duca, un soprannome che gli venne affibbiato da giovane, prendendolo a prestito dal nomignolo che aveva dato al suo cane quand’era bambino.

Nell’aprile del ’79, a tre anni di distanza dall’ultimo film che aveva interpretato (Il pistolero, 1976, di Don Siegel), John Wayne era apparso davanti alle telecamere durante la cerimonia per la consegna degli Oscar.

«Credetemi se vi dico che sono enormemente felice di ritrovarmi con voi questa sera. L’Oscar e io abbiamo qualcosa in comune. L’Oscar apparve sulla scena di Hollywood nel 1928. Proprio come me. Il tempo ci ha reso un po’ malconci, ma siamo ancora qui e contiamo di rimanere in circolazione ancora per un bel po’», disse con la voce un po’ incrinata dall’emozione.

La stessa commozione aveva afferrato il pubblico a casa e i suoi colleghi nel trovarsi davanti un John Wayne incredibilmente dimagrito e provato dal grande “C”, come egli definiva il cancro, che era tornato ad attaccarlo l’anno precedente e contro il quale aveva lottato una prima volta, nel 1964, vincendolo, grazie all’asportazione di un polmone.

Alberto Quattrocolo

Fonti

AA.VV., Il Cinema. Grande Storia Illustrata, Volume Quinto, Istituto Geografico De Agostini Novara, 1982

Alan G. Barbour, John Wayne, Milano Libri Edizioni, 1979

Anton Giulio Mancino, John Wayne, Gremese Editore, 1998

 

 

Solo alcune migliaia di morti

A Mussolini bastavano solo alcune migliaia di morti per potersi sedere, da vincitore, al tavolo della pace, dopo la sconfitta della Francia e del Regno Unito: questa era la sua convinzione alla fine di maggio del 1940. Appena alcune migliaia di morti per beneficiare dell’esito vittorioso di una guerra-lampo, conseguita sul campo, per quattro quinti, dalla armate hitleriane. Solo alcune migliaia di morti italiani, dunque. Un po’ di carne da macello, gente mandata ad ammazzare e a morire, per contrattare e salvare la faccia del regime fascista con l’alleato nazista, che, attaccata e conquistata la Polonia, stava sbaragliandone gli alleati anglo-francesi un po’ ovunque. Solo alcune migliaia di morti, e poco importava dove e come, visto che le forze armate del Terzo Reich avevano messo in ginocchio la Francia e avevano costretto il contingente britannico alla disperata evacuazione dalle spiagge di Dunkerque.

Il 10 giugno del 1940 l’Italia, per volontà di Benito Mussolini, dichiarò, perciò, guerra alla Francia e al Regno Unito, credendo che ormai le democrazie occidentali fossero pressoché battute e pronte alla resa. L’Inghilterra e neppure quel poco che restava della Francia, però, non erano Stati male armati e isolati come l’Etiopia (abbiamo parlato in diversi post, all’interno di questa rubrica, delle atrocità commesse nell’invasione fascista dell’Etiopia), né come la Spagna repubblicana (abbiamo ricordato qui il contributo italiano alla guerra civile spagnola) o come l’Albania (abbiamo ricordato in un altro post l’invasione italiana dell’Albania nell’aprile del 1939), tutti stati contro i quali si erano arrischiate, peraltro facendo ben poco onorevoli figure, le truppe dell’Italia fascista. Quella decisione del 10 giugno 1940 non procurò, quindi, solo alcune migliaia di morti italiani: Mussolini ne ebbe molti di più, di morti italiani, di quanto aveva asserito che sarebbero stati il minimo indispensabile per potersi spartire con Hitler il ricco bottino pregustato. In effetti, non ebbe nient’altro che morti, militari e civili: all’incirca mezzo milione. E la guerra lampo non solo non portò una vittoria fulminea, ma durò ben cinque anni. Cinque anni di atrocità e abomini. Un incubo quale il popolo italiano mai aveva vissuto prima e nel quale entrò senza tentare di risvegliarsi. Andando imbambolati dietro al loro duce, gli italiani si gettarono nel baratro. Alcuni con tronfio entusiasmo; altri, la maggior parte, con riluttante e incerta fiducia in una magica e rapida vittoria; altri ancora con sgomenta rassegnazione.

 

Il Patto d’Acciaio

Il 22 maggio 1939 il ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e il ministro tedesco Joachim von Ribbentrop avevano firmato a Berlino un’alleanza difensiva-offensiva, tra l’Italia e la Germania. Un patto che Mussolini aveva inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto d’Acciaio. Pochi giorni prima di apporre la firma, Ciano, conscio dell’impreparazione militare dell’Italia, aveva chiesto a Ribbentrop se Hitler aveva intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop aveva risposto che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni», assicurando il collega italiano che le divergenze con la Polonia, per il controllo del Corridoio di Danzica, sarebbero state superate «su una strada di conciliazione». La rassicurazione combaciava con la previsione di Mussolini, secondo il quale l’Italia sarebbe stata militarmente pronta per il 1943. Perciò il duce aveva dato il suo assenso definitivo per la firma dell’alleanza. Si completava, così, quel fatale e sciagurato processo di avvicinamento tra i due dittatori di cui gli italiani avevano già fatto tangibile esperienza con l’abominevole Manifesto della Razza del 14 luglio del 1938 (lo abbiamo ricordato qui) e la successiva emanazione e la solerte applicazione delle vergognose leggi razziali del 1938, a partire dal censimento degli ebrei. Già tre mesi dopo, il 23 agosto, però, Ciano, di rientro da una visita ufficiale in Germania, riferì a Mussolini che Hitler aveva intenzione di attaccare la Polonia. E fece presente al duce che gli italiani non volevano la guerra e, soprattutto, che non volevano battersi al fianco della Germania per aiutarla a conquistare un potere che avrebbe un giorno utilizzato contro di loro.

Il Patto Ribbentrop-Molotov

Mussolini gli diede ragione, ma, proprio quel giorno, il 23 agosto, la Germania e l’Unione Sovietica annunciarono di aver firmato un patto decennale di non aggressione reciproca in caso di invasione tedesca della Polonia (firmato rispettivamente dal ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Molotov e dal ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop). Ciò non fece che accrescere la volontà di Mussolini di essere al fianco di Hitler, nell’imminente guerra che andava profilandosi. Tuttavia Hitler, due giorni dopo, il 25 agosto, inviò una lettera a Mussolini che avrebbe potuto raffreddare gli ardori bellici del duce fascista: Hitler scusandosi per non aver avvertito l’alleato italiano dell’intesa sviluppata con Stalin, spiegava sia le ragioni del patto stipulato con l’URSS, appunto all’insaputa dell’Italia, sia i risvolti, secondo lui positivi anche per Mussolini, di quell’accordo. Per il dittatore italiano, chiariva Hitler, il Patto Ribbentrop-Molotov implicava una minore necessità della Germania di un apporto delle forze armate italiane accanto a quelle tedesche, nel caso in cui Francia e Inghilterra fossero intervenute accanto alla Polonia in procinto di essere assalita dalle forze tedesche (e da quelle sovietiche). Il patto con Stalin, spiegava Hitler, gli permetteva di non aver nulla da temere da parte della Russia, cioè dal lato orientale, e di potersela cavare da solo, cioè senza bisogno delle forze armate italiane, ad occidente, contro gli eserciti anglo-francesi.

Nove mesi non belligeranza

Mussolini e suo genero risposero, con una lettera firmata dal duce, che comprendevano la posizione della Germania, per quanto riguardava la Polonia, e che la approvavano; ma aggiungevano che, nel caso in cui il previsto e imminente conflitto dell’alleato tedesco con la Polonia avesse dato luogo ad una guerra generale in Europa, l’Italia non era in grado di «assumere l’iniziativa di operazioni belliche». Aggiungevano ancora, però:

 «Il nostro intervento può tuttavia essere immediato, se la Germania ci darà subito i mezzi bellici e le materie prime per sostenere l’urto che i franco-inglesi dirigeranno prevalentemente contro di noi».

Hitler, privatamente irritato per quella risposta, fece buon viso a cattivo gioco e chiese di cosa avesse bisogno l’alleato italiano per far fronte ad un eventuale attacco franco-britannico. Il 26 agosto Mussolini rispose con una lunghissima lista, appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente esagerata che Galeazzo Ciano la definì «tale da uccidere un toro». Il Führer, pur sospettando che gli italiani lo stessero prendendo in giro, rispose che comprendeva la situazione italiana e che poteva inviare solo una piccola parte del materiale richiesto.

Il 1° settembre 1939, alle 5,30 del mattino, la Wermacht dava il calcio d’inizio alla Seconda Guerra Mondiale, invadendo la Polonia.

Nove mesi di frustrazione di Mussolini

Nel pomeriggio di quel giorno Mussolini riunì il Consiglio dei Ministri e, con il volto pallido e grave, in ghingheri in uniforme bianca, lesse il messaggio che aveva ottenuto dal Führer per prevenire rimproveri di tradimento dai suoi gerarchi più filo-hitleriani. La lettera di Hitler terminava, infatti, con una formula, che era uno scudo per il duce rispetto ad eventuali critiche germanofile, così articolata:

«Io credo, quindi, che in queste condizioni non vi sia necessità di un sostegno militare dell’Italia. Io Vi ringrazio, Duce, anche per tutto quanto farete in avvenire per la causa comune del Fascismo e del Nazionalsocialismo».

L’annuncio dello stato di non-belligeranza da parte del duce provocò in Italia un’immensa soddisfazione, che non contagiò soltanto piccoli gruppi di fascisti fanatici. Per alcuni altri – cattolici e liberali la cui opposizione al fascismo li aveva ridotti alla clandestinità o al mutismo – si accendeva la speranza che una rottura di solidarietà tra fascismo e nazismo preludesse ad una liberalizzazione del regime.

Per Mussolini, invece, iniziavano nove lunghi mesi di delusione, di stress, di disturbi gastrici. Questa depressione trovava rari momenti di sollievo. In particolare, quando indugiava in sogni ad occhi aperti sul verificarsi di un qualche “miracolo” che gli permettesse di rinunciare alla non-belligeranza. Tolti quei brevi attimi, vagamente onirici, assistere alle incessanti vittorie delle armate di Hitler e, in tal modo, rendersi conto ogni giorno di più che il dittatore tedesco assurgeva a livelli ai quali egli non avrebbe potuto mai avvicinarsi, gli procurava un tormento insopportabile.

Le impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi in Polonia, a ben vedere, avevano già messo in risalto l’inconsistenza della politica militarista e della propaganda dell’Italia fascista. Ma il duce, come scriveva nel Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940, era sempre più convinto che l’Italia non potesse restare non-belligerante «senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci».

«… ho bisogno solo di alcune migliaia di morti » (Mussolini)

Le armate del Reich, mettendo in atto l’efficace tattica del Blitzkrieg (guerra-lampo), nella primavera del ’40, sconfiggendo le forze anglo-francesi e i loro alleati, travolgevano la Danimarca (il 9 aprile), la Norvegia (tra il 9 aprile e il 10 giugno), i Paesi Bassi (tra il 10 e il 17 maggio), il Lussemburgo (il 10 maggio), il Belgio (tra il 10 e il 28 maggio) e andavano all’attacco diretto della Francia. Il 28 maggio, mentre i franco-britannici cominciavano ad evacuare da Dunkerque, via mare, e mentre il Belgio capitolava, Mussolini decise che l’Italia sarebbe entrata in guerra al fianco della Germania.

Un mese prima, il 28 aprile, papa Pio XII gli aveva scritto un messaggio per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Il 14 maggio anche il presidente degli Stati UnitiFranklin Delano Roosevelt, aveva tentato di dissuaderlo dall’entrare in guerra. Due giorni dopo il primo ministro britannico, Winston Churchill, scrisse a Mussolini una lettera per essere certo che il duce fosse conscio che il Regno Unito, per quanto rimasto sostanzialmente solo in Europa a fronteggiare le truppe naziste, non si sarebbe mai sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l’esito della battaglia sul continente (lo abbiamo ricordato qui). Anche il principe ereditario Umberto di Savoia espresse la propria contrarietà, come del resto fece il maresciallo Pietro Badoglio, capo di stato maggiore. Entrambi insistettero (il primo con Ciano, il secondo con Mussolini) sul numero insufficiente dei carri e degli aerei. Secondo Mussolini, però, le rapide vittorie tedesche annunciavano l’imminente fine della guerra, sicché, secondo il suo convincimento, l’insufficienza effettiva delle forze armate italiane aveva un’importanza trascurabile. Occorreva poter sbandierare «solo un pugno di morti», per potersi sedere al tavolo dei vincitori, avendo il diritto di reclamare parte del bottino che sarebbe stato conseguito in realtà dall’alleato tedesco.

A Badoglio, infatti, il duce replicò seccamente:

«Lei, signor maresciallo, non ha la calma sufficiente per un’esatta valutazione della situazione. Le affermo che in settembre tutto sarà finito e che ho bisogno solo di alcune migliaia di morti per sedere alla tavola della pace come co-belligerante».

La coltellata alla schiena della Francia

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Il 28 maggio 1940 il duce comunicò a Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia e, la mattina successiva, riunì a Palazzo Venezia i quattro vertici delle Forze Armate. La riunione durò appena mezz’ora. Il re non venne consultato, ma solo informato. E si oppose soltanto su un punto:  la questione del comando supremo, che Vittorio Emanuele III intendeva conservare per sé. Due giorni dopo, il 30 maggio, Mussolini annunciò ufficialmente a Hitler che l’Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5 giugno. Il 1º giugno il Führer chiese, però, al dittatore italiano di posticipare fino all’11 giugno, poi i due giunsero a concordare come data dell’ingresso italiano nel conflitto lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano convocò per le 16:30 a Palazzo Chigi l’ambasciatore francese André François-Poncet per leggergli la dichiarazione di guerra. François-Poncet, secondo quanto scrisse Ciano nel suo diario, disse che considerava la dichiarazione di guerra

«un colpo di pugnale a un uomo già a terra»

L’ambasciatore inglese, cui Ciano lesse la dichiarazione di guerra un quarto d’ora più tardi, restò imperturbabile.

In sede internazionale la dichiarazione di guerra contro la Francia fu vista esattamente per quel che era: un gesto vile come una pugnalata alle spalle. L’esercito francese, infatti, era già stato messo in ginocchio dai tedeschi, e il suo comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già ordinato ai comandanti delle forze superstiti di ritirarsi per mettere in salvo il maggior numero possibile di unità. Stava per riecheggiare il passo dell’oca sugli Champs-Élysées. Infatti, da lì a pochissimo, il 14 giugno, le truppe tedesche entrarono a Parigi.

Roosevelt, appresa la notizia della dichiarazione di guerra italiana alla Francia, rilasciò un’amara dichiarazione radiofonica:

«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l’ha affondato nella schiena del suo vicino».

«La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: vincere!» (Mussolini)

Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, Pietro Capoferri, che ordinò il saluto al duce alla folla ammassata in piazza Venezia, alle 18:00 di quel 10 giugno 1940, Mussolini apparve al balcone del palazzo presidenziale. Indossando l’uniforme da primo caporale d’onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, con un lungo discorso trasmesso anche via radio e diffuso dagli altoparlanti nelle città e nei paesi, adottando un tono ancor più “cesariano” del suo solito, gridò:

«Combattenti di terra, di mare, dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania. Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è stata già consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insediato l’esistenza del popolo italiano».

Se questo era il delirante e cialtronesco inizio dell’annuncio, non da meno poteva essere la conclusione:

«La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!».

«Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà»

Dal pubblico si levarono applausi e acclamazioni. Il duce, terminata la vanagloriosa perorazione, si ritirò rapidamente dal balcone di palazzo Venezia, mentre la folla si ritirava in silenzio.

L’11 giugno le truppe italiane cominciarono le operazioni militari lungo il confine francese, in vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali. Furono compiuti anche dei bombardamenti aerei,  puramente dimostrativi, su Port Sudan, su Aden e sulla base navale inglese di MaltaIl fatto che l’alto comando delle operazioni fosse stato affidato al generale Rodolfo Graziani (che, come abbiamo visto in altri post su Corsi e Ricorsi, si era dimostrato esperto nel massacrare civili in Libia ed Etiopia, ma molto meno nel prevalere sui combattenti etiopi, nonostante l’uso dei gas e malgrado la loro inferiorità per numero e per mezzi) mostrava come Mussolini avesse lanciato l’Italia «in guerra senza essere attaccata, né sapere dove attaccare». Infatti «addensava le truppe alla frontiera francese, solo perché non aveva altri obiettivi». L’atteggiamento venne definito dal generale Quirino Armellini in questi termini: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».

Non ci voleva molta immaginazione per sapere cosa si sarebbe visto. Mussolini, intrappolato dalla sua stessa retorica da megalomane, aveva incessantemente dichiarato, fin dall’invasione dell’Etiopia, che l’Italia era pronta a mobilitare «8 milioni di baionette» e che possedeva un numero di aerei sufficiente a «oscurare la luce del sole». La realtà era che, dopo la mobilitazione del giungo 1940, gli effettivi erano appena un milione e 600 mila uomini, meno, quindi, di quelli del 1915, quando Vittorio Emanuele III scaraventò gli italiani e il Paese, povero e male armato, nella carneficina della Prima Guerra Mondiale (lo abbiamo ricordato nel post Oh, che bella guerra). Mussolini disponeva solo di 1.600.000 soldati, in effetti, non perché mancassero in Italia degli uomini da mandare in guerra, ma perché non il regime era in grado di equipaggiarne di più. Ma tanto a Mussolini bastavano solo alcune migliaia di morti. E, sotto questo profilo, un milione e seicento mila esseri umani potevano bastare a fornirgli quelle alcune migliaia di morti.

Alberto Quattrocolo