30 giugno 1960: Genova resiste

Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
(Sandro Pertini, “U brichettu”, 28 giugno 1960)

Il 30 giugno 1960, dopo settimane di intensa mobilitazione, la città di Genova è attraversata da un’imponente manifestazione popolare, convocata dalla Camera del Lavoro e sostenuta da tutte le forze antifasciste, per protestare contro l’imminente VI congresso nazionale del Movimento Sociale Italiano (MSI). La sede prescelta è il Teatro Margherita, a pochi passi dal ponte monumentale in ricordo dei Caduti per la libertà, nel cuore del capoluogo ligure, città medaglia d’oro alla Resistenza in cui l’antifascismo è un valore ancora molto vivo.

Ad accendere ancor più gli animi la comunicazione che presiederà l’evento Carlo Emanuele Basile, prefetto della città fino a quindici anni prima, soprannominato “il boia” e fedele collaboratore dei nazisti, responsabile dei più efferati eccidi di partigiani, della massiccia deportazione in Germania di operai genovesi, nonché ligio esecutore della persecuzione anti-ebraica nazifascista.

Appare subito evidente il tentativo di rilegittimare il fascismo alla guida del paese, a pochi mesi dalla costituzione del governo di Ferdinando Tambroni, un monocolore democristiano eletto grazie ai voti determinanti del MSI, esecutivo che creò contrasti nella stessa DC.

Il MSI ottiene l’autorizzazione a tenere il proprio congresso a Genova dal 2 luglio come ringraziamento per l’appoggio a Tambroni, ma c’è di più. Scrive Danilo Montaldi:

Genova è una delle città più rosse […], un porto in cui le lotte hanno spesso scavalcato le indicazioni delle direzioni sindacali. Genova dunque è un importante campione, il cui risultato è possibile riferire alle masse di tutto il Paese. L’intenzione della maggioranza di governo era dunque quella, autorizzando il congresso fascista nella città, di misurare la temperatura del Paese, e di dimostrare la possibilità di un’apertura all’estrema destra fascista, senza timori dal punto di vista della reazione.

Si tratta di un vero e proprio test di politica autoritaria da imporre a una città che, come ricordano con orgoglio alcuni protagonisti di quei giorni, si era resa libera addirittura due giorni prima del 25 aprile ‘45.

Lo sdegno in città monta rapidamente nel corso del mese di giugno, tra appelli, dichiarazioni, comizi, tafferugli, cortei, scioperi, boicottaggi da parte dei cittadini ai danni dei congressisti in arrivo, rapporti di polizia, schieramento mediatico; il MSI minaccia di difendere il congresso con un centinaio di picchiatori delle proprie sezioni romane; il questore genovese viene sostituito con Giuseppe Lutri, noto per le sue precedenti attività di contrasto alla Resistenza torinese, mentre viene inviata in città una squadra del famigerato reparto Celere di Padova, specializzato nella repressione dei moti di piazza.

La città resiste. Non si tratta semplicemente di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica; è invece un punto di snodo della storia sociale e politica d’Italia. Sono ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel ’45 e, non solo a Genova (vi sono antefatti a Milano, Livorno, Bologna), appare necessario tornare a difendere i valori della Costituzione nata dalla Resistenza. Quei fatti si inseriscono nella crisi degli equilibri politici nazionali e, più in generale, in un mutamento profondo dello scenario internazionale, ove si muovevano i primi passi del processo di distensione e della decolonizzazione. I moti del ’60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici. Dirà Paride Batini, all’epoca ventiseienne, in seguito leader portuale genovese: “Il miracolo economico lo stavano costruendo sulla nostra pelle, noi volevamo giocarci il futuro.”.

Nelle piazze genovesi scendono cittadini d’ogni età, uomini e donne, operai, portuali, studenti, militanti, ex partigiani. Entra in scena quella che fu definita la generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirata l’aria entrando in fabbrica o studiando all’Università; ragazzi che avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni ‘40-‘50 all’Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale. Li chiamavano “teddy boys”, con tono vagamente sprezzante, a indicarne la presunta fascinazione per il mito americano. Li ha raccontati Primo Moroni, futuro libraio milanese, scrittore, intellettuale mai allineato, presente nel ’60 ai fatti di Genova:

Eravamo tutti giovani, generosi e intransigenti, portavamo i jeans, avevamo il mito dell’America e siccome i soldi in tasca erano pochi ci vestimmo con delle magliette comprate per trecento lire nei grandi magazzini. Non ci interessava una vita passata solo lavorando, preferivamo guadagnare meno ma avere più tempo libero, però quando ci fu da protestare non ci tirammo certo indietro.

Nonostante le indicazioni ufficiali della dirigenza dei partiti della sinistra, che invitano alla calma e temono provocazioni, i manifestanti genovesi non vengono abbandonati dai loro rappresentanti istituzionali: si schierano il costituente Umberto Terracini, buona parte del PCI, la CGIL (UIL è contraria, CISL lascia libertà agli iscritti), l’ANPI; al comizio del 28 giugno in Piazza della Vittoria, il deputato Pertini infiamma l’uditorio nel discorso noto come “U brichettu” (il fiammifero):

La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della Casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. […] Io nego che i missini abbiano il diritto di tenere a Genova il loro congresso. Ogni iniziativa, ogni atto, ogni manifestazione di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo. Si tratta, del resto, di un congresso qui convocato non per discutere, ma per provocare e contrapporre un passato vergognoso ai valori politici e morali della Resistenza.

Pertini chiede a tutti di scendere in piazza il 30 giugno per tutelare la libertà conquistata con il sacrificio di migliaia di persone.

E la popolazione risponde. Racconta Giordano Bruschi, partigiano:

Il “miracolo genovese” sorprese tutti, a cominciare da noi del direttivo CGIL. Alle 14.30 la piazza traboccava, il corteo partì da solo, dai vicoli dalle strade i rivi di folla crescevano, alle 16 la sosta in via XX settembre di fronte al sacrario dei caduti consentì un conteggio: eravamo in 100.000. Tambroni voleva dare una lezione a chi osava contestare il centrodestra, 4000 poliziotti in assetto di guerra con il reparto celerini di Padova capofila delle repressioni di strada; poi 2000 carabinieri e 2000 finanzieri.

La grande manifestazione conclude pacificamente il suo percorso. Ma, dopo il corteo, nessuno torna a casa, sorgono presidi antifascisti spontanei e Piazza De Ferrari diviene il luogo strategico della partita. Alle 17, l’ordine di sgombero: inizia un carosello selvaggio di camionette, lacrimogeni, lavoratori manganellati, giovani piangenti, cittadini cacciati nella vasca di De Ferrari. Poi, la scelta della Celere di inseguire chi si rifugia nei vicoli capovolge la partita: la struttura di Genova verticale, quella cantata da Caproni, i “caruggi”, divengono l’arma segreta di Genova antifascista.

Vico San Matteo, vico Falamonica, vico Castagna, salita Pollaioli, Ravecca, diventano fortezze di popolo, i celerini ricevono dalle case colpi di ombrello, di bastone, di pentole, lanci di vasi, olio, acqua calda. In pochi minuti lo scenario cambia, Piazza De Ferrari è gradualmente accerchiata da migliaia di cittadini. Quelli della “Severino”, i garibaldini che nell’aprile ’45 avevano liberato Genova dai tedeschi, applicano la tattica partigiana dell’autodifesa: barricate sulle strade di accesso costruite con sedie e tavolini dei bar, auto e camionette; tavole, sassi e mattoni, prelevati dal vicino cantiere di Piccapietra; un flusso ininterrotto sino allo scontro, in cui la Celere ha la peggio e il comandante finisce nella fontana.

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Tambroni chiede al prefetto Pianese di far intervenire l’esercito; Giorgio Gimelli, presidente dell’ANPI e Bruno Pigna, segretario della Cgil di Genova, mediano coi manifestanti per smobilitare le barricate ma senza ritirarsi e senza accettare compromessi. Partigiani e lavoratori presidiano le stazioni, molti congressisti neppure scendono dai treni. A Roma la DC discute, litiga con Tambroni e Segni che sostengono l’intervento militare, Moro e Fanfani trattano coi socialisti per scaricare Tambroni.

Alle 23.00 del 1° luglio il prefetto Pianese comunica a Bruno Pigna che il congresso del Movimento Sociale Italiano è revocato. Il presidente del consiglio, sostenuto dal presidente Gronchi, non si dimette. Lo scontro sociale e politico rimane aspro in tutta Italia e Tambroni emana direttive per impedire con la forza le manifestazioni contro il governo.

Il tributo di sangue pagato nei giorni successivi sarà molto alto. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, la polizia provoca il primo morto, Vincenzo Napoli. Il 6 luglio squadroni a cavallo caricano gli antifascisti a Roma, a Porta San Paolo, ferendo alcuni deputati di PCI e PSI. Il 7 luglio gli scontri si spostano a Reggio Emilia, dove muoiono cinque operai: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi e Afro Tondelli. L’8 luglio la CGIL indice uno sciopero generale. A Palermo vengono uccisi Francesco Vella, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo e Andrea Cangitano, a Catania Salvatore Novembre. Centinaia i feriti.

Il 19 luglio Tambroni si dimette, dando avvio alla stagione del centrosinistra.

Nel processo che segue gli scontri di Genova sono imputate 43 persone, di cui 7 già agli arresti. La Corte di Cassazione decide lo spostamento del processo a Roma. Le arringhe di difesa sono fondate su argomenti politici come la salvaguardia dei valori della Costituzione e della libertà personale, sulla legittimità della resistenza in caso di gravi provocazioni. Gli imputati, difesi dal senatore Terracini con l’organizzazione “Solidarietà Democratica” e supportati durante la durata del processo con raccolte di fondi dall’ANPI, verranno quasi tutti condannati nel luglio ‘62, per pene massime di 4 anni e 5 mesi.

Dopo i fatti del 1960 e fino agli anni Novanta, verrà “marginalizzato” il peso politico pubblico dei neo-fascisti, che saranno comunque utilizzati come manovalanza per le trame golpi­ste e le stragi che, fino agli anni Ottanta inoltrati, saranno al centro della strategia della tensione nello stato “nato dalla Resistenza”.

 

Silvia Boverini

Fonti: www.it.wikipedia.org; F. Astengo, “Genova 1960. La rivolta antifascista”, http://contropiano.org; G. Marchetti, “30 giugno 1960: il “No pasaràn!” di Genova (e quel che accadde prima e dopo)”, www.genova24.it; P. Stacciali, “30 Giugno 1960 – Genova”, http://www.osservatoriorepressione.info; M. Philopat, “La strada bruciata delle magliette a strisce”, www.antiwarsongs.org; D. Lifodi, “Scor-data: 30 giugno 1960”, www.labottegadelbarbieri.org; “30 giugno 1960: la battaglia di Genova”, www.rifondazione.it

244 vittime nell’eccidio nazifascista di Civitella, Cornia e San Pancrazio

Nell’arco di colline, una sorta di un contrafforte, che separa la Valdichiana dalla Valdambra, l’estrema propaggine del Valdarno superiore, ci sono, tra gli altri centri abitati, Civitella, Cornia e San Pancrazio. Tutti e tre in provincia di Arezzo e vicini tra loro. Cornia è una località del Comune di Civitella, mentre San Pancrazio è un borgo del Comune di Bucine. Sono dei bei posti, come ce ne sono tanti in Toscana e, più, in generale in Italia. Ma all’inizio dell’estate del 1944, sotto la dominazione nazifascista, anche la natura quieta e contemplativa di luoghi come Civitella della Valdichiana poteva essere improvvisamente stravolta dalla ferocia. Come avvenne la mattina del 29 giugno del 1944, quando Civitella, Cornia e San Pancrazio vennero circondati da unità della Divisione corazzata Hermann Goering. Costoro avevano avuto la consegna di uccidere tutti gli uomini di età superiore ai quindici anni e di bruciare le case. E la eseguirono con scrupolo: le vittime quella mattina furono 244 e i tre abitati vennero pressoché totalmente distrutti. Per molto tempo si pensò a questa strage come ad una rappresaglia seguita ad un’azione partigiana. Come abbiamo visto su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, anche rispetto ad altri stragi (si rinvia ai post La strage nazifascista della Benedicta e La strage nazifascista al Passo del Turchino), l’attribuzione della causa della ferocia nazifascista alla lotta resistenziale ha prodotto conseguenze di non poco rilievo. Ma, come per altre stragi, anche per quest’eccidio nazifascista consumato a Civitella, Cornia e San Pancrazio, tale interpretazione è parecchio discutibile.

Lo scontro con i partigiani del 18 giugno

Infatti, è vero che in quella zona erano sorti e si rifugiavano diversi gruppi partigiani, che si giovavano della conformazione montuosa e della presenza di fitti boschi, per combattere e per sottrarsi ai rastrellamenti. Ed è vero che a Civitella era stato insediato un comando tedesco, la Divisione corazzata Hermann Goering, agli ordini del tenente generale Wilhelm Schmalz. Il compito di tale Divisione era quello di stroncare l’attività partigiana per evitare che rallentasse il completamento della Linea Gotica. Quest’ultima era una linea difensiva fortificata di oltre 300 chilometri, che l’esercito tedesco costruiva sui rilievi appenninici, dal versante tirrenico della attuale provincia di Massa-Carrara fino al versante adriatico della la provincia di Pesaro, per fermare l’avanzata delle forze anglo-americane, che, sbarcate nel luglio del ’43, prima, in Sicilia e, poi, a Salerno e, in seguito, ad Anzio, e liberata Roma, stavano risalendo la penisola. La funzione della Linea Gotica era quella di impedire che gli anglo-americani, raggiunta la pianura Padana, potessero liberare dall’occupazione nazista il resto dell’Europa settentrionale, attraverso il passo del Brennero, e l’Europa centrale, attraverso Trieste e il valico di Lubiana.

In questo contesto il 18 giugno 1944 quattro soldati tedeschi che si trovavano nel Circolo del Dopolavoro di Civitella furono sorpresi da alcuni partigiani, intenzionati ad impossessarsi delle loro armi. Un soldato tedesco reagì e i partigiani dovettero fare fuoco. Due dei soldati tedeschi morirono sul colpo, un terzo, gravemente ferito, spirò qualche ora dopo. I tedeschi avviarono perquisizioni nelle case di Civitella e delle due frazioni più vicine, Cornia e San Pancrazio. Nessun civile collaborò con i tedeschi, però, il parroco per dimostrare la disposizione assolutamente pacifica degli abitanti, organizzò e celebrò il funerale ai militari tedeschi. Al termine della cerimonia, una ventina di persone furono prese dai tedeschi e schierate contro il muro sotto il tiro di mitragliatrici. All’ultimo momento, però, queste non aprirono il fuoco. Infatti, i tre militari tedeschi uccisi appartenevano alla piccola guarnigione di stanza in una fattoria a tre chilometri dal paese, priva dell’autorità per decidere azioni repressive.

La Divisione Hermann Goering

La successiva strage del 29 giugno a Civitella, Cornia e San Pancrazio venne decisa, in realtà, quasi certamente, il 25 giugno, quando, nell’ambito del ripiegamento della Decima Armata tedesca, sconfitta nella battaglia del Trasimeno, il territorio della Valdichiana fu affidato alla competenza della Divisione corazzata Hermann Goering, acquartierata a Villa Carletti, presso Monte San Savino. Si trattava di una delle più brutali compagnie tedesche presenti in Italia in quel periodo. L’intera operazione venne pianificata e diretta da un comando che si era installato nella villa sotto la guida di Heinz Barz. Lo scopo era quello di stroncare le attività partigiane. E il metodo era la ferocia. Una ferocia che a Civitella, Cornia e San Pancrazio si traduceva nell’ammazzare donne e uomini, bambini e anziani, nel commettere violenze sessuali su molte donne e nel fare poi scempio di numerosi cadaveri. La Divisione Hermann Goering era composta in larghissima parte da giovani volontari, di 18 anni, provenienti dalla Hitlerjugend e da organizzazioni a partecipazione volontaria del Partito Nazista. Questa Divisione era stata impiegata nei territori dell’Europa occupata, mai al fronte, e si era specializzata nella realizzazione di massacri di civili. Dal marzo del 1944,  giunta in Toscana, aveva partecipato a diverse operazioni nell’Appennino, ma aveva già contribuito a diversi eccidi fin dall’ottobre del 1943 fino. Tra quelli precedenti all’eccidio di Civitella, Cornia e San Pancrazio, sempre in provincia di Arezzo c’era stato nell’aprile ’44, il massacro di tutti gli abitanti di Vallucciole, donne e bambini e infanti, inclusi.

La strage del 29 giugno: 244 vittime

La mattina presto del 29 giugno, attorno alle cinque, i primi ad essere uccisi furono gli abitanti delle frazioni più vicine a Civitella. Anch’essi come gli altri si preparavano per andare alla messa del giorno dei santi Pietro e Paolo.
Le case di Palazzina, Querciola, Maestà Tonda furono subito perquisite dai tedeschi. Nel corso della perquisizione in ciascuna frazione furono uccisi uomini, donne e ragazzi di tredici-quattordici anni.
A Civitella dove i tedeschi avevano appena ucciso tutti gli otto ospiti ricoverati presso la Casa di Riposo, coloro che erano stati catturati venivano spinti brutalmente verso la chiesa parrocchiale. Giunti alla chiesa, però, i soldati la trovarono la porta chiusa. I tedeschi la sfondarono con una bomba a mano e trascinarono fuori quelli che vi si erano rifugiati. Don Alcide Lazzeri, il parroco, si fece avanti urlando: «Sono io il responsabile di quanto è accaduto, uccidete me». Ma non venne considerato. Gli uomini, separati dai famigliari, furono depredati degli oggetti di valore, portati a lato della chiesa e uccisi a gruppi di cinque, insieme a quelli che erano stati rastrellati nelle case e allo stesso don Lazzeri. Quindi, i soldati tedeschi andarono a cercare e ad uccidere gli abitanti rimasti dentro le abitazioni. Incendiarono anche le case di Civitella per assicurarsi la morte di coloro che erano sfuggiti alle perquisizioni, nascondendosi magari nelle cantine o nelle soffitte. Furono pochi gli uomini di Civitella che riuscirono a salvarsi. Ma nelle frazioni di Cornia e Solaia, non vennero risparmiati neppure le donne ed i bambini.
Quelli della Hermann Goering erano arrivati contemporaneamente nelle due località verso le sei del mattino e subito presero a sterminare intere famiglie, incendiandone anche le case e i fienili. A Solaia, oltre all’intera famiglia Valli, i due genitori e i loro due bambini, di tre e sette anni, fu ucciso anche un bambino piccolo in braccio alla madre Modesta Rossi, una staffetta partigiana di trent’anni, moglie del partigiano Dario Polletti. Madre e figlio furono uccisi in casa, a colpi di scure, sotto gli occhi dell’altro figlio di sette anni, Mario. Modesta Rossi si era rifiutata di rivelare il nascondiglio dei partigiani ai fascisti della Repubblica di Salò (ne abbiamo ricordato la costituzione nel post Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI). Nelle località di Verniana, Burrone e Cornia i tedeschi ammazzarono indistintamente uomini, bambini, anziani e donne. Poi i loro corpi vennero dati alle fiamme. Solo a Cornia vennero uccise 40 persone, in netta prevalenza donne. A Gebbia furono massacrati i coniugi svedesi Cau, accusati di aver collaborato con i partigiani.
A San Pancrazio, quel mattino, perquisite le case, ammazzandovi sul posto alcuni abitanti, e messe in fuga le donne con i bambini, gli uomini vennero radunati nella piazza principale e trattenuti lì fino verso le 14,00, quando arrivò da Civitella un nuovo contingente di truppe. Allora gli uomini furono quindi condotti alla vicina Fattoria Pierangeli, dove i tedeschi gli rubarono i pochi oggetti di valore e, dalle 17, nelle cantine, cominciarono le esecuzioni. Con un colpo di pistola alla nuca furono uccisi 60 uomini in quella cantina.

 

Alberto Quattrocolo

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Stonewall inizia la rivolta

Stati Uniti, fine anni ’60. L’omosessualità è considerata diffusamente come un comportamento deviato ed è, perciò, illegale in 49 stati. La comunità scientifica avvalora questa tesi, inscrivendo l’omosessualità nel novero delle patologie psichiatriche, con la seconda edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-II, 1968). Erano, tuttavia, anche gli anni delle grandi contestazioni, come quella contro la guerra in Vietnam, e dei movimenti per i diritti civili per gli afroamericani, le donne, i poveri e le minoranze in genere. In questo clima di fermento sociale si inscrivono i fatti di Stonewall.

Lo Stonewall Inn era un locale del Greenwich Village, un quartiere del distretto di Manhattan a New York, noto per essere uno dei punti di ritrovo della comunità omosessuale della Grande Mela. Il bar, prima un nightclub per eterosessuali, nel 1969 era in mano alla famiglia mafiosa dei Genovese che, fiutando un affare redditizio, lo trasformò in un locale per omosessuali, pagando tangenti alla polizia per poterlo mantenere aperto. Tutti comunque sapevano che a New York lo Stonewall era l’unico locale in cui le persone gay potevano ballare, o meglio, farlo in coppia. Nondimeno, lo Stonewall faceva di tutto per passare inosservato, a differenza di oggi, che è diventato simbolo della comunità newyorkese Lgbtq, anche grazie alla nomina a Monumento nazionale (primo, negli Usa, che riguarda la storia della comunità gay).

Arriviamo alla notte tra il 27 e 28 giugno 1969, quando si svolsero i fatti. All’epoca, le irruzioni della polizia nel locale erano frequenti, gli avventori dello Stonewall erano abituati a queste retate e il personale era generalmente in grado di riaprire il bar nella notte stessa o in quella seguente. All’una e venti circa, molto più tardi del solito, otto agenti, di cui uno solo in uniforme, entrarono nel bar, ma qualcosa andò diversamente dal solito e si scatenò la guerriglia. Alcuni sostengono che Sylvia Rivera, una donna transgender, scagliò una bottiglia contro un agente, dopo essere stata pungolata con un manganello. Un’altra versione dichiara che Stormé DeLarverie, una donna lesbica, trascinata verso un’auto di pattuglia, oppose resistenza, incoraggiando così la folla a reagire.

Quale che fosse stata la miccia, in poco tempo fuori dal locale si riunì una folla, che diede inizio agli scontri fisici e al lancio di oggetti. I poliziotti, sopraffatti per numero, si rintanarono all’interno del locale e attesero i soccorsi: la squadra anti-sommossa originariamente addestrata per contrastare i dimostranti contro la guerra del Vietnam. Questa riuscì a liberare i colleghi assediati nel locale, ma la folla aumentò fino a raggiungere migliaia di persone e lo scontro con la polizia continuò fino alle prime ore del mattino, e a intermittenza per altre cinque notti.

La sensazione che le cose stessero cambiando iniziò quella stessa notte.

Queste le parole di Thomas Lanigan-Schmidt, una delle poche persone ancora vive tra quelle che parteciparono agli scontri. Questi, infatti, dimostrarono per la prima volta che la comunità omosessuale era diventata un vero movimento, deciso a combattere e a rifiutare il ruolo canonico di vittima.

Le organizzazioni omofile dei due decenni precedenti avevano creato l’ambiente perfetto per la nascita del Movimento di liberazione gay. Per la fine di luglio a New York si formò il Gay Liberation Front (GLF), e per la fine dell’anno il GLF comparve in città e università di tutti gli Stati Uniti.

Organizzazioni simili vennero presto create in tutto il mondo: Canada, Francia, Regno Unito, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Australia e Nuova Zelanda. In Italia, dove un movimento omofilo che preparasse il terreno non era mai esistito, si dovette aspettare fino al 1971.

 

Alessio Gaggero

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Dall’Aventino alla dittatura

La decisione dei parlamentari dell’opposizione, ad eccezione dei comunisti, di ritirarsi sull’ Aventino, era stata deliberata il 27 giugno del 1924, per denunciare le diverse e gravissime illegalità e violenze commesse dal governo Mussolini, a partire dal sequestro e dalla probabile uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti. Dieci anni dopo, quella che venne definita la secessione dell’ Aventino, fu criticata da Carlo Rosselli, di lì a poco, anch’egli perseguitato dal regime, inviato al confino, fuggito avventurosamente, rifugiato in Francia e lì assassinato, insieme al fratello Nello, dai sicari fascisti (abbiamo ricordato la sua storia nel post Non mollare e l’assassinio dei fratelli Rosselli in un altro post). Secondo Carlo Rosselli, il ritiro dei deputati dell’opposizione sull’ Aventino fu dovuta al fatto che fino al giugno del 1924 i partiti di opposizione, finiti in minoranza, collocandosi dalla parte della Costituzione, erano rimasti gli unici custodi della legalità di fronte ad un governo, quello di Mussolini, che non sapeva cosa fosse la legalità e se ne infischiava della Costituzione. Si battevano sul terreno del diritto e della morale e contavano, con una specie di autoillusione, sul Re, quale garante del rispetto del diritto, non comprendendo che Vittorio Emanuele III non aveva alcuna intenzione di tutelare la legalità e, avendo lasciato che il fascismo fosse passato dall’opposizione al governo, grazie all’uso della violenza, del raggiro e della corruzione, era anche disposto a lasciargli proseguire la sua opera di instaurazione della dittatura [1].

L’impari lotta tra legalità, moralità e razionalità, da una parte, e illegalità, assenza di scrupoli e violenza, dall’altra.

In effetti, con le elezioni nazionali del 4 aprile 1924, Mussolini, già posto da Vittorio Emanuele III, a capo del governo, all’indomani della marcia su Roma, del 22 ottobre del 1922 (l’abbiamo ricordato qui), grazie alla nuova legge elettorale, alle pressioni, alle intimidazioni e alle violenze commesse dai fascisti ai danni dei partiti di opposizione, ai brogli e alle corruzioni d’ogni genere, realizzate dal partito fascista, aveva ottenuto esattamente ciò che voleva. La lista nazionale del Fascio littorio (il cd. listone) aveva raccolto il 64,9% dei voti e aveva visto eletti tutti i suoi 356 candidati alla Camera dei Deputati [2]. All’insieme delle altre liste era toccato un terzo dei seggi (179). In tal modo Mussolini si era assicurato la possibilità di esercitare un potere tale da procedere verso la fascistizzazione dell’Italia e l’instaurazione della dittatura. Il 1° maggio, infatti, L’Unità, l’Avanti! e La Giustizia, tentarono di denunciare le illegalità fasciste, ma uscirono con larghi spazi bianchi per gli interventi “correttivi” della censura governativa.

Il 30 maggio il deputato socialista unitario Giacomo Matteotti aveva avuto il coraggio di denunciare con un grande discorso alla Camera le violenze e i brogli commessi per carpire la vittoria [3]. Poco dopo veniva sequestrato e assassinato da sicari fascisti (si veda questo post).

La crisi del delitto Matteotti

Il 12 giugno alla Camera, l’opposizione accusò esplicitamente Mussolini di aver fatto scomparire Matteotti. Il giorno dopo il Presidente del Consiglio dei Ministri, parlando alla Camera dei Deputati, sostenne di non essere coinvolto nella scomparsa di Matteotti, dicendosene anzi addolorato. Poi, lasciò che al termine della seduta, il Presidente della Camera dei Deputati, il nazionalista Alfredo Rocco, comunicasse che i lavori parlamentari era aggiornati sine die. Questo rinvio della prossima riunione della Camera ad una data da definirsi, toglieva di fatto alle opposizioni ogni possibilità di risposta da parte dell’opposizione all’interno del Parlamento. Quel giorno, però, i gruppi parlamentari d’opposizione dichiararono di non voler partecipare alla seduta della Camera, per sfiducia verso il governo. Tra il 14 e il 16 giugno, per placare l’opinione pubblica, Mussolini si dimise dalla carica di Ministro degli Interni, che esercitava insieme a quella di Presidente del Consiglio dei Ministri e fece dimettere Emilio De Bono da Direttore generale della Polizia, nominandolo Comandante generale della Milizia, inoltre venne esonerato il Questore di Roma e si dimisero il Sottosegretario agli Interni, Aldo Finzi e il Capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, Cesare Rossi. In pratica, alcuni degli uomini più direttamente coinvolti nel delitto Matteotti, come mandanti e come autori di un’opera di copertura e depistaggio per sviare le indagini e coprire gli autori materiali. Mussolini era isolato e il suo regime pareva in bilico, barcollante. Ancor più in bilico apparve due giorni dopo con l’arresto dei rapitori di Matteotti, individuati da testimoni oculari e accusati di omicidio volontario. Anche la mossa dei fascisti di accusare gli oppositori di «speculazione scandalistica», parve un’arma spuntata. Le violenze fasciste, cui Mussolini aveva messo la museruola, ripresero con brutalità: il 22 giugno, a Torino gli squadristi devastarono l’abitazione del senatore Alfredo Frassati, direttore de La Stampa. Lo stesso giorno, a Bologna, Farinacci e Grandi radunarono 50.000 camicie nere che urlavano la loro determinazione a difendere il regime, presto imitati dai fascisti di Ferrara, Cremona e Milano. Intanto il 24 giugno il Senato, controllato da membri ultraconservatori o apertamente fascisti votava la fiducia a Mussolini con soli 21 voti contrari e 6 astenuti, mentre vari gerarchi fascisti manifestavano la propria fedeltà al regime.

La decisione del 27 giugno di ritirarsi sull’ Aventino

Il 26 giugno 1924, quindi prima ancora che fosse ritrovato il corpo del deputato socialista, i parlamentari dell’opposizione si riunirono nella sala della Lupa di Montecitorio, oggi chiamata anche sala dell’Aventino. Il 27 giugno i gruppi di opposizione, con l’eccezione dei comunisti, decisero all’unanimità di non prendere più parte ai lavori della Camera finché non fosse stata abolita la milizia, sciolte le organizzazioni segrete incaricate della repressione e ripristinata la legalità e finché il governo Mussolini non avesse chiarito la propria posizione a proposito della scomparsa di Giacomo Matteotti. Spiegarono di avere abbandonato la Camera per costituirsi in unico parlamento legittimo, visto che la composizione della Camera dei Deputati uscita dalle urne era stata compromessa dalla violenza e dai brogli del governo fascista e visito che nel parlamento ufficiale era ormai impossibile esercitare ogni funzione libera per gli eletti del popolo. Quei parlamentari, dunque, votarono un ordine del giorno che costituì la base della secessione dell’Aventino. Tale definizione si collegava ad un episodio della storia dell’antica Roma, quello in cui i rappresentanti della plebe, avevano espresso la loro protesta contro i patrizi riunendosi sul colle Aventino nel 494 a.c.

L’opinione pubblica e i parlamentari dell’ Aventino

«I rappresentanti dei gruppi di Opposizione, riunitisi oggi a Montecitorio, si sono trovati d’accordo nel ritenere impossibile la loro partecipazione ai lavori della Camera, mentre la più grave incertezza regna ancora intorno al sinistro episodio di cui è stato vittima l’on. Matteotti. Pertanto i suddetti rappresentanti deliberano che i rispettivi gruppi si astengano dal partecipare ai lavori parlamentari della Camera, e si riservano di constatare quella che sarà l’azione del governo e di prendere ulteriori deliberazioni».

Con queste parole i parlamentari ritiratisi sull’ Aventino comunicavano la loro decisione [4]. Contestualmente avviavano una risoluta compagna contro le violenze di ogni genere commesse dagli estremisti, arrivando a sostituirsi alla sonnecchiante polizia nel denunciare i crimini, a tentare di stimolare la magistratura ad indagare e a mettere in allarme l’opinione pubblica. Immediatamente si schierò dalla loro parte Piero Gobetti che costituì a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e altre grandi città dei gruppi di “Rivoluzione liberale” per diffondere le idee dell’ Aventino. Anche la stampa palesò la propria disapprovazione al regime in nome della morale politica. Perfino il Giornale d’Italia, dell´ultraconservatore Salandra, abbandonò le sue posizioni filofasciste per esigere che si facesse luce piena sulla vicenda di Matteotti e si tornasse alla legalità. Si trattava di un comportamento che rifletteva i sentimenti delle classi medie, fino a quel momento vicine a Mussolini, considerato il leader capace di restituire la pace sociale, ma che ora ne prendevano le distanze. Così se perfino alcuni miliziani, per l’indignazione crescente, non osavano apparire in pubblico o strappavano la tessera del partito, la folla aveva ritrovato il coraggio di applaudire i più noti deputati dell’ Aventino al loro passaggio. Contestualmente chi aveva sostenuto il fascismo per opportunismo se ne distanziava e analogamente facevano organizzazioni come l’Associazione Nazionale dei Combattenti e l’Associazione dei Mutilati e Invalidi di Guerra.

La solitudine istituzionale dei deputati dell’ Aventino

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Fu Vittorio Emanuele III a salvare Mussolini e i fascisti dalla crisi di istituzionale e politica in cui erano finiti. Il 17 giugno, Vittorio Emanuele III aveva già ricevuto Mussolini senza esercitare alcuna delle sue prerogative. E in seguito si limitò ad esortare i parlamentari alla conciliazione, rifiutando di esaminare i documenti presentatigli da Giovanni Amendola e Ivanoe Bonomi, che, a seguito della pubblicazione sul Mondo, del memoriale difensivo di Cesare Rossi, mostravano il coinvolgimento di Mussolini nell’omicidio di Matteotti. Così mentre i deputati dell’ Aventino, attendevano il soccorso del Re, quale garante della legalità e continuavano a produrre articoli e discorsi per tenere desto l’allarme dell’opinione pubblica, il Re abbandonava loro e la libertà e il futuro del popolo italiano nelle mani del fascismo. Carlo Sforza, insignito del Collare dell’Annunziata, onorificenza che lo autorizzava a considerarsi cugino del re, ricordò che:

«Quando Ivanoe Bonomi presentò al re le prove della responsabilità di Mussolini, il sovrano cominciò a sfogliare; ma appena si rese conto di quanto terribili erano le accuse, impallidì, tremò e: “Le posso chiedere un piacere?”. “Dica”. “Non mi faccia leggere, si riprenda questi fogli” e glieli ficcò di forza nelle mani. E Bonomi, alzandosi: “Badi, Lei si prende una grossa responsabilità”. Infatti fu in quel momento preciso che Vittorio Emanuele di Savoia divenne complice».

A seguito del documento di severa condanna del fascismo votato dal congresso dell’Associazione Nazionale Combattenti, una sua delegazione guidata dalla medaglia d’oro Ettore Viola, recatasi nella tenuta di San Rossore per illustralo al Re, fu da questi ostentatamente ignorata.

«…quel giorno noi di loro faremmo strame per gli accampamenti delle camicie nere» (Benito Mussolini)

Legalisti e moderati, i deputati contestatari dell’ Aventino, rifiutarono anche la proposta di Gobetti di costituire con tutti i partiti non appartenenti al “listone” un Parlamento che si autoproclamasse depositario della legittimità costituzionale, vigilasse sul mantenimento dell’ordine e nominasse un nuovo governo (solo i comunisti aderirono alla proposta di Gobetti. Consapevole di questa debolezze delle opposizioni e potendo contare sull’appoggio incondizionato del Re, Mussolini, pur preoccupato e a momenti incerto sul da farsi, appena quindici giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti, rivolgendosi agli operai delle miniere di mercurio del Monte Amiata, il 31 agosto, rispondendo alle accuse dei parlamentari dell’ Aventino, disse che

il loro «clamore era molesto, ma perfettamente innocuo» e che qualora  avessero oltrepassato «la vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di loro faremmo strame per gli accampamenti delle camicie nere».

 

Non era semplice una minaccia, quella del Presidente del Consiglio dei Ministri, e neppure un’ipotesi o una dichiarazione d’intenti. Era contemporaneamente una descrizione della realtà e un programma. Qualche giorno prima i miliziani fascisti si erano scatenati a Napoli. Il 5 settembre a Torino, su indicazione di Mussolini, gli squadristi picchiarono selvaggiamente davanti al portone di casa sua, Piero Gobetti, e a Roma, ammazzarono a baionettate un cameriere. Due mesi dopo, il 5 dicembre, Mussolini replicò con tracotanza a un discorso di opposizione tenuto al Senato da Luigi Albertini, che era direttore del Corriere della Sera. Mentre a Firenze, un gruppo dei 10.000 squadristi lì riunitisi, incendiavano la sede del Nuovo giornale e quelle del giornale dell’Associazione Combattenti, nonché le sedi della massoneria e del Circolo di cultura, ad Arezzo, Pisa, Siena e  Bologna devastavano le sedi dei giornali e le abitazioni degli uomini dell’ Aventino.

La fine di ogni opposizione e dello stato di diritto liberale

Il 3 gennaio 1925, quando, alla Camera, Mussolini dichiarò che assumeva su di sé ogni responsabilità di tutto quello che era accaduto in Italia, mise la pietra tombale sullo stato di diritto e sul regime liberale. Non c’era più spazio in Italia per nessuna forma di opposizione al fascismo, a partire da quella politica. Di cui, come aveva detto Mussolini, si fece strame. Così, rispetto ai parlamentari che si erano ritirati sull’ Aventino, va ricordato che quando, il 16 gennaio 1926 alcuni popolari e demosociali entrarono a Montecitorio per assistere alle celebrazioni solenni per la morte della regina Margherita di Savoia, i parlamentari fascisti li scacciarono con la violenza dall’aula e lo stesso Mussolini il giorno dopo, li accusò di indelicatezza nei confronti della sovrana defunta. Poi il 9 novembre 1926 la Camera dei deputati, riaperta da Mussolini solo per approvare le leggi eccezionali, deliberava anche la decadenza dei 123 deputati aventiniani, ai quali furono aggiunti anche il fascista dissidente Massimo Rocca e tutti i comunisti. Gli unici rappresentanti dell’opposizione a Montecitorio rimasti erano 6 deputati appartenenti alla fazione di Giolitti. Peraltro, la sera prima, Antonio Gramsci, in violazione dell’immunità parlamentare ancora vigente, era stato arrestato.

Come si è visto in altri post, anche con l’approvazione delle leggi fascistissime (le abbiamo ricordate nel post Le prime leggi fascistissime) verrà cancellato “legalmente” ogni residuo di libertà, mentre proseguiranno le bastonature, fatali per Giovanni Amendola e Piero Gobetti e per tanti altri meno noti. Inoltre pioveranno fitte le condanne, il carcere, il confino per gli antifascisti, molti dei quali furono costretti alla clandestinità o all’esilio.

Per vent’anni fu soppressa ogni speranza legalitaria, insieme alle più diverse forme di libertà (di stampa, di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione, di insegnamento, a proposito della quale si rinvia ad un altro post), mentre si ripristinava la pena di morte, veniva introdotto un Tribunale Speciale per reati politici, si istituiva l’O.V.R.A., la polizia politica segreta (si veda questo post) per garantire l’effettiva persecuzione di ogni oppositore, data la formale messa fuori legge di tutti i partiti e tutte le organizzazioni politiche, tranne il partito fascista, e l’irrogazione delle lunghe pene detentive previste per chi ricostituiva le organizzazioni disciolte o si affiliava ad esse. Del resto nel 1928 si riducevano le elezioni a semplici plebisciti di approvazione di una “lista unica” di deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. Nel 1939 le elezioni, rese di fatto inutili, furono del tutto abolite nel 1939 con la sostituzione della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la quale era composta solo da fascisti nominati dal Governo, mentre il Senato rimaneva di nomina regia.

Non a caso, proponendo il proprio disegno di fascistizzazione dello Stato e della società (rispetto alla quale rinviamo al post Verso uno Stato etico, religioso e sociale), nel discorso dell’Ascensione, del 26 maggio 1927, pronunciato davanti ad una Camera dei Deputati ormai tutta fascistizzata, nel corso del quale Mussolini disse:

«…nessuno speri che, dopo questo discorso, si vedranno dei giornalisti antifascisti, no: o che si permetterà la resurrezione di gruppi antifascisti: neppure. Si ritorna al mio discorso tenuto prima della rivoluzione in un piccolo circolo rionale di Milano, l’ “Antonio Sciesa” […] L’opposizione non è necessaria al funzionamento di un sano regime politico. L’opposizione è stolta, superflua in un regime totalitario, com’è il regime fascista […] In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti e per gli a-fascisti, quando siano dei cittadini probi ed esemplari».

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Il partito di Mussolini, per citare ancora Rosselli, «messosi con un colpo di mano al centro della vecchia legalità, la scomponeva a pezzo a pezzo. Quella legalità non era che un residuo sospeso ad un filo, al filo della continuità costituzionale che il sovrano aveva voluto che si rispettasse (violare, ma con le forme). L’opposizione si attaccò disperatamente a quel filo».

[2] Osservava ancora, nel 1934, Carlo Rosselli, che «le opposizioni non si preoccupavano di rovesciare il rapporto di forze che aveva permesso al fascismo di spazzare il movimento operaio e non si preparavano in nessun modo a resistere e a contrattaccare nelle piazze. E come avrebbero potuto farlo? Per condurre la lotta con stile offensivo nel Paese, avrebbero dovuto essere in posizione di minoranza e di illegalità: ora l’opposizione era la legalità, la vecchia legalità, mentre il governo era l’illegalità. Il governo, non l’opposizione, era rivoluzionario». Un governo rivoluzionario per modo di dire, quello di Mussolini, dato che non aveva conquistato il potere grazie ad una rivoluzione (come abbiamo visto in numerosi post, tra cui 3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteriIrruzione in casa di un Presidente del Consiglio), ma al sostegno, alla complicità e all’acquiescenza di quello che oggi si chiamerebbe l’establishment.

[3] Tra le violenze commesse dai fascisti, nei primi mesi del 1924, durante la campagna elettorale, si possono ricordare le seguenti: il 7 febbraio, a Brescia, era stato aggredito dai fascisti il deputato socialista Nino Mazzoni, mentre i deputati massimalisti Giuseppe Di Vittorio e Arturo Vella venivano “banditi” da Bari; il 27 febbraio, a Torino, era stato bastonato dai fascisti il segretario nazionale della FIOM, Bruno Buozzi; il giorno dopo, a Reggio Emilia, era stato rapito dalla sua abitazione e ucciso da due fascisti il candidato massimalista Antonio Piccinini; il 14 marzo, a Roma, era stato aggredito Alberto Giannini, direttore del “Becco Giallo” e il 16 dello stesso mese, a Milano, i fascisti assaltando la sede degli Arditi d’Italia, ammazzavano l’ardito Antonio Corgiola, mentre, a Spilimbergo (Udine), si compiva un’aggressione ai danni del deputato di opposizione Marco Ciriani; il 23 marzo, a Savona, era stato percosso dai fascisti il deputato del partito popolare Paolo Cappa.

[4] I 123 parlamentari ritiratisi aderenti alla secessione dell’ Aventino erano i seguenti: Gregorio Agnini, Giuseppe Albanese, Salvatore Aldisio, Gino Alfani, Filippo Amedeo, Giovanni Bacci, Gino Baldesi, Arturo Baranzini, Pietro Bellotti, Roberto Bencivenga, Arturo Bendini, Guido Bergamo, Mario Bergamo, Mario Berlinguer, Alessandro Bocconi, Antonio Boggiano Pico, Igino Borin, Giambattista Bosco Lucarelli, Roberto Bracco, Giovanni Braschi, Alessandro Brenci, Carlo Bresciani, Bruno Buozzi, Vittorio Buratti, Emilio Caldara, Romeo Campanini, Giuseppe Canepa, Russardo Capocchi, Paolo Cappa, Luigi Capra, Luigi Carbonari, Giulio Cavina, Eugenio Chiesa, Mario Cingolani, Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, Paolo Conca, Giovanni Conti, Felice Corini, Giovanni Cosattini, Mariano Costa, Onorato Damen, Raffaele De Caro, Alcide De Gasperi, Diego Del Bello, Palmerio Delitala, Marziale Ducos, Luigi Fabbri, Cipriano Facchinetti, Luciano Fantoni, Giuseppe Faranda, Enrico Ferrari, Bruno Fortichiari, Luigi Fulci, Angelo Galeno, Tito Galla, Dante Gallani, Egidio Gennari, Annibale Gilardoni, Vincenzo Giuffrida, Enrico Gonzales, Antonio Gramsci, Achille Grandi, Antonio Graziadei, Ruggero Grieco, Giovanni Gronchi, Leonello Grossi, Ugo Guarienti, Giovanni Guarino Amella, Ferdinando Innamorati, Stefano Jacini, Arturo Labriola, Costantino Lazzari, Nicola Lombardi, Ettore Lombardo Pellegrino, Giovanni Maria Longinotti, Francesco Lo Sardo, Arnaldo Lucci, Emilio Lussu, Luigi Macchi, Cino Macrelli, Fabrizio Maffi, Pietro Mancini, Federico Marconcini, Mario Augusto Martini, Pietro Mastino, Angelo Mauri, Nino Mazzoni, Giovanni Merizzi, Umberto Merlin, Giuseppe Micheli, Fulvio Milani, Giuseppe Emanuele Modigliani, Enrico Molè, Guido Molinelli, Riccardo Momigliano, Giorgio Montini, Alfredo Morea, Oddino Morgari, Elia Musatti, Nunzio Nasi, Tito Oro Nobili, Angelo Noseda, Giovanni Persico, Guido Picelli, Camillo Prampolini, Enrico Presutti, Antonio Priolo, Luigi Repossi, Ezio Riboldi, Giulio Rodinò, Giuseppe Romita, Francesco Rossi, Giuseppe Srebrnic, Mario Todeschini, Claudio Treves, Domenico Tripepi, Filippo Turati, Umberto Tupini, Giovanni Uberti, Arturo Vella, Domenico Viotto, Giulio Volpi.

Bruno Caccia, l’unico magistrato assassinato al Nord dalle mafie

Bruno Caccia venne ucciso, il 26 giugno 1983. Il Procuratore Capo della Repubblica di Torino, impegnato ad indagare sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel capoluogo piemontese, quella domenica sera di fine giugno, mentre si chiudevano i seggi per le elezioni politiche, come d’abitudine, stava portando il cane a spasso, senza scorta. Abitava in via Sommacampagna 9, una traversa di Corso Moncalieri, a pochi passi dal Ponte Umberto I, la prosecuzione di Corso Vittorio Emanuele II che, scavalcato il Po, esita nel breve Corso Fiume. Via Sommacampagna è la terza parallela di quest’ultimo, una via dritta, che sale ripida sulla collina torinese. A pochi passi da casa, alle 23:35, il Procuratore Capo Bruno Caccia fu colpito da una serie di proiettili sparati dal fucile di precisione dell’autista di una Fiat 128. Il secondo passeggero scese dall’auto, si avvicinò a Bruno Caccia e gli sparò ancora. In tutto furono 14 i proiettili che colpirono il Procuratore.

Bruno Caccia fu soccorso quasi immediatamente e subito trasportato al pronto soccorso del vicino Ospedale delle Molinette. Ma era già morto, quando vi arrivò.

Aveva 65 anni, una moglie, la professoressa Carla Ferrari, sposata nel 1953 e tre figli: Guido, Paola e Maria Cristina.

Dalle indagini sulle BR e Prima Linea a quelle sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta e Cosa Nostra in Piemonte e Valle d’Aosta

Bruno Caccia era nato a Cuneo il 16 novembre 1917 in una famiglia la cui appartenenza alla magistratura risaliva agli inizi del 1800. Fino al termine del ginnasio era vissuto a Cuneo, poi la famiglia aveva traslocato a La Spezia, dove suo padre, magistrato, era stato trasferito. Diplomatosi con la maturità classica ad Asti, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Torino, laureandosi nel 1939, con la lode, e ottenendo l’anno dopo anche la laurea in Scienze Politiche. Nel 1941 aveva superato il concorso in magistratura.

Dopo essere stato uditore presso il Tribunale di Torino, aveva assunto il ruolo di sostituto procuratore. Divenuto Procuratore della Repubblica ad Aosta, nel 1964, aveva condotto un’indagine sull’assessore socialista Milanesio e su delle speculazioni edilizie. Poi era stato nominato Sostituto alla Procura Generale di Torino. Aveva seguito diverse inchieste, incluse alcune sulle Brigate Rosse. Nel 1980, divenuto Procuratore Capo, aveva proseguito, intensificandola, l’attività di indagine sulle colonne torinesi delle Brigate Rosse e di Prima Linea.

Ottenuta la collaborazione dei primi grandi pentiti del terrorismo rosso, Patrizio Peci e Roberto Sandalo, quelle colonne furono sostanzialmente smantellate. Bruno Caccia si occupò, però, anche delle tangenti delle giunte rosse nel Comune di Torino e dello scandalo petroli o scandalo dei 2000 miliardi, riguardante un immenso affare di contrabbando di petrolio e di relativa frode fiscale da duemila miliardi di lire. Inoltre, aveva stimolato la procura ad intensificare la lotta al traffico degli stupefacenti e alla criminalità mafiosa. Bruno Caccia, infatti, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani magistrati per indagare sulle ramificazioni della mafia in Piemonte. Il suo fu il primo vero pool antimafia che avrebbe ispirato poi quello di Falcone e Borsellino.

Secondo il pentito Domenico Agresta, i boss della ‘ndrangheta avevano cercato di avvicinarlo, ma Bruno Caccia li aveva scacciati. E, sostenne Agresta, questo suo “irrispettoso” rifiuto determinò la decisione di ucciderlo:

«Erano entrati nel suo ufficio senza prendere un appuntamento. Ma lui gli aveva sbattuto la porta in faccia, li aveva cacciati in malo modo. Placido Barresi me lo raccontò in carcere: la cosa che più lo faceva arrabbiare era proprio questo, che lui non li avesse neppure fatti parlare. Per questo decisero di ucciderlo, mi disse che avevano deciso il cognato Mimmo e Ciccio Mazzaferro che all’epoca comandavano».

Le prima indagini sull’omicidio di Bruno Caccia: la pista terroristica

In realtà, in un primo momento, grazie ad una serie di depistaggi, le indagini sull’assassinio di Bruno Caccia furono orientate vero le BR. Appena dieci minuti dopo l’omicidio era arrivata, infatti, una prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, seguita da altre inviate alla Rai di Milano, al Corriere della Sera e al Giornale d’Italia. In un primo momento furono considerate credibili, dal momento che erano in corso dei processi alle colonne torinesi delle Brigate Rosse e di Prima Linea.  Le perquisizioni delle celle dei terroristi, la negazione da parte loro di qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio e una telefonata a La Stampa da parte di terroristi di estrema destra dei NAR (ne abbiamo parlato su questa rubrica, nei post I Nuclei Armati Rivoluzionari assassinano Francesco Straullu 21 ottobre 1981 e Quel “no” di Maurizio Arnesano), crearono più di qualche dubbio sulla validità della pista terroristica. ma anche questa si rivelò infondata.

La collaborazione del boss catanese Ciccio Miano e la condanna del ‘ndranghetista Domenico Belfiore

Poi, un anno dopo, nel luglio 1984, il boss del clan dei Catanesi di stanza a Torino come riferimento di Cosa Nostra per il narcotraffico in Piemonte, Francesco ‘Ciccio’ Miano, prese la decisione di collaborare con gli inquirenti. Diventò, quindi, informatore dei Servizi Segreti e cominciò a riferire sul traffico di droga che i siciliani gestivano con il clan di ‘ndrangheta di Domenico Belfiore, leader dei calabresi a Torino. In particola, Miano si rese disponibile a registrare, grazie ad un apparecchio a bobina nascosto sul suo corpo, le sue conversazioni in carcere con il boss ‘ndranghetista Belfiore. Miano registrò in tutto 36 conversazioni, nelle quali si affrontava il rapporto tra calabresi e siciliani a Torino, che trasformatosi in alleanza, in quanto tale non resse a lungo. Tra le varie rivelazioni di Ciccio Miano ci fu anche il nome di colui che aveva dato l’ordine di ammazzare Bruno Caccia: proprio il leader dei calabresi Belfiore.

In dieci anni si svolsero cinque processi per l’omicidio di Bruno Caccia, che si conclusero, nel 1995, con la condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio.

L’ipotesi dei famigliari di Bruno Caccia su scenari più complessi

Ma nel 2014 i familiari del procuratore, rappresentati dal legale Fabio Repici, presentarono un esposto con una denuncia che cambiava non poco lo scenario alla base dell’omicidio di Bruno Caccia. Per la famiglia c’erano elementi idonei a ipotizzare che l’omicidio fosse collegato alle indagini che il Procuratore Capo stava svolgendo sul riciclaggio di denaro sporco al Casinò di Saint Vincent. Venne, quindi, avviata un’inchiesta a carico di Rosario Pio Cattafi (detto Saro), un avvocato con un passato da estremista di destra presso l’organizzazione terroristica neofascista Ordine Nuovo (ne abbiamo parlato anche nei post Il 10 luglio del ’76 il giudice Occorsio fu ucciso da un terrorista neofascista di Ordine Nuovo1972, strage di Peteano), ex-intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti e ritenuto il mediatore della mafia di Barcellona Pozzo di Pozzo e di apparati dello Stato, e del calabrese Domenico Latella. Costui, già fornitore di pezzi di ricambio alla Marina Militare e alla Guardia di Finanza, in quegli anni aveva operato come sicario al servizio della Cosa Nostra catanese a Milano e Torino. E, da ergastolano, aveva ottenuto la libertà, anche se trent’anni dopo la polizia scoprì la sua partecipazione al sequestro di Cristina Mazzotti, diciottenne rapita nel 1975 in provincia di Como e uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo.

L’idea era che dietro l’omicidio del Procuratore Bruno Caccia ci fosse la longa manus dell’intelligence italiana, la quale in quegli anni trattava con la mafia, sicché il delitto sarebbe stato pianificato per fermare le indagini sui traffici in Valle D’Aosta. La figlia di Bruno Caccia, Paola, ricordò al quotidiano La Stampa che poco prima di essere assassinato suo padre aveva spiccato i mandati di perquisizione al Casinò di Saint Vincent. In particolare, secondo questa prospettiva, il coinvolgimento della mafia catanese e di ambienti collusi nella vicenda del Casinò di Saint Vincent non sarebbe stata una pista alternativa, ma integrativa a quella esitata nella condanna contro Belfiore.

L’arresto e i processi di Rocco Schirripa come esecutore materiale dell’omicidio di Bruno Caccia

Poco prima del Natale 2015, la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano arrestò Rocco Schirripa ritenendolo l’esecutore dell’assassinio del Procuratore Bruno Caccia, ma il 30 novembre 2016 la Corte d’Assise, avendo rilevato un errore procedurale, da parte delle Procura, di gravità tale da invalidare le prove raccolte, emise nei confronti di Schirripa una sentenza di non luogo a procedere. Il processo bis contro Schirripa iniziò il 10 febbraio 2017, e Demetrio Latella, denunciato dai famigliari di Bruno Caccia, chiamato a testimoniare, si avvalse della facoltà di non rispondere.  Secondo la Procura di Milano non c’era nulla di concreto a suo carico circa l’omicidio di Bruno Caccia, l’avvocato Repici e la famiglia del magistrato ucciso ritenevano, invece, che Latella fosse stato un intermediario tra la criminalità organizzata e una zona grigia ostile al Procuratore. L’avvocato Repici chiese anche 10 milioni di euro di risarcimento per la famiglia Caccia e criticò la Procura per non aver voluto indagare ulteriormente sulla pista catanese. Il 17 giugno di quell’anno Rocco Schirripa venne condannato all’ergastolo e, il 14 febbraio del 2019, in appello la condanna fu confermata.

A Bruno Caccia, il 26 giugno 2001 è stato intitolato il Palazzo di giustizia di Torino. Inoltre a lui e alla moglie è dedicato un cascinale a San Sebastiano da Po (TO).  La Cascina Bruno e Carla Caccia è frutto del sequestro, in virtù della legge 109/96 di tali beni alla famiglia Belfiore, in particolare a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico. La Cascina Caccia è gestita dall’Associazione Acmos, aderente alla rete di Libera.

«Noi famigliari vogliamo solo la verità», Paola Caccia

«Sono passati 36 anni, ma a Torino, ancora oggi, quasi non si può parlare di Bruno Caccia», ha detto Paola Caccia. «Non mi spiego perché, dopo 30 anni, anche nella vicenda giudiziaria, continuino a esserci grandi resistenze. Noi famigliari vogliamo solo la verità di quel 26 giugno 1983 […] Parlare di Caccia, come emerso dalle carte, non si poteva, perché tabù, come se in questa storia ci fosse qualcosa di indicibile. Trentasei anni in cui abbiamo dovuto lottare, combattere, per avere risposte concrete».

Anche l’ex magistrato Mario Vaudano, 74 anni, allora giudice istruttore a Torino, poi divenuto Procuratore ad Aosta e infine magistrato dell’Ufficio Europeo Antifrode (OLAF), divenuto consulente della famiglia Caccia, ha affermato che le piste suggerite dalla famiglia Caccia e dall’avvocato Repici vanno approfondite. E ha ricordato che il magistrato Olindo Canali, all’epoca dell’inchiesta, uditore giudiziario del Pubblico ministero titolare dell’indagine, Francesco Di Maggio, disse di aver appreso, alcuni anni dopo, che in casa di Cattafi era stato trovato il finto volantino delle Brigate Rosse che rivendicava l’assassinio del magistrato. La DDA di Milano ritenne la testimonianza di Canali smentita da quella dell’ufficiale dei carabinieri, Eugenio Morini, che partecipò alla perquisizione della casa di Cattafi. Inoltre, secondo Mario Vaudano, che ha fatto notare come gli altri possibili testimoni indicati dall’avv. Repici non vennero ascoltati, la pista del Casinò di Saint Vincent andava maggiormente esplorata, perché «Lì si riciclavano anche tangenti della politica. Un giro molto più grande di Cattafi».

Alberto Quattrocolo

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1967, strage di Cima Vallona

Dobbiamo fare i conti con questi intrichi di identità, con le nostre memorie selettive, con matasse piene di nodi.
(Wu Ming 1, “Cent’anni a nordest”)

L’unione di Terra e Sangue provoca il tetano (Karl Kraus)

Il 25 giugno 1967 il silenzio della notte su Cima Vallona, località alpina al confine tra Veneto e Trentino Alto Adige, fu squarciato da una potente esplosione. Dal presidio di Santo Stefano di Cadore fu inviata una pattuglia composta da alpini, artificieri e finanzieri, che riscontrò l’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione; avvicinandosi a piedi alla struttura crollata, la squadra fu investita dalla deflagrazione di un ordigno collocato sotto un mucchio di ghiaia: l’alpino radiofonista Armando Piva morì dopo un giorno d’agonia.

All’epoca, il movimento indipendentista altoatesino compiva frequenti attenti dinamitardi, perlopiù contro infrastrutture dello stato, e, per contrastarlo, era stata costituita la Compagnia Speciale Antiterrorismo, di stanza a Laives, composta da Carabinieri, Agenti di Pubblica Sicurezza, Finanzieri, Alpini e Sabotatori Paracadutisti, selezionati per le loro particolari capacità e addestrati ad operare in montagna e in situazioni estreme. Una squadra di quattro uomini della Compagnia Speciale fu immediatamente inviata in elicottero a Cima Vallona per raccogliere indizi; scendendo dal luogo dell’attentato a piedi lungo l’unico sentiero, i militari incapparono in un secondo ordigno nascosto: il sottotenente Di Lecce, il capitano Gentile e il sergente Dordi morirono sul colpo, mentre il sergente Fagnani rimase gravemente ferito.

Sul luogo dell’esplosione furono trovate due tavolette di legno con incisa una rivendicazione a firma dell’organizzazione terroristica separatista altoatesina BAS (Befreiungsausschuss Südtirol, Comitato per la liberazione del Sudtirolo):

Voi non dovrete avere mai più la barriera di confine al Brennero. Prima dovete ancora scavarvi la fossa nella nostra terra.

Le indagini condotte in Italia attribuirono l’attentato a una cellula terroristica di quattro persone (un austriaco e tre tedeschi) riconducibili al BAS, e nel ’70 la Corte d’Assise di Firenze comminò in contumacia tre ergastoli e una condanna a 24 anni di reclusione per banda armata, strage e altri reati minori. I tre tedeschi, riconosciuti come esecutori materiali, si trovavano in Austria, dove, a seguito di forti pressioni diplomatiche italiane, furono processati secondo il diritto austriaco e assolti per insufficienza di prove.

Recentemente è uscito un libro su Cima Vallona, basato su ricerche di archivio, in cui si sostiene l’innocenza delle quattro persone condannate. All’epoca la polizia italiana impedì a quella austriaca di compiere sopralluoghi sul luogo dell’attentato e la proposta austriaca di istituire una commissione mista di indagine venne respinta. Secondo alcune fonti, almeno uno dei presunti terroristi, Peter Kienesberger, “era sul libro paga dei servizi segreti italiani”; è inoltre comprovato che a una decina di chilometri dal luogo dell’attentato si celava un deposito di armi ed esplosivi (Nasco) di Gladio: il giudice Mastelloni, indagando sulla struttura Stay Behind, appurò la presenza in Alto Adige dei servizi segreti fin dal ’62, quando il generale De Lorenzo vi inviò gli uomini del Sifar.

Della questione altoatesina (1946-‘92) si conoscono gli aspetti politico-diplomatici e di tutela delle minoranze, mentre è stato quasi completamente trascurato il lato militare clandestino. Dalla fase iniziale, spontaneistica e autoctona, a quella organizzata dal BAS, fino alla fase conclusiva – la più cruenta – d’ispirazione neonazista e pangermanista, quella del terrorismo sudtirolese è una pagina rimossa della recente storia nazionale, spesso segnata da equivoci e letture riduttive. Eppure, interessò per oltre dieci anni (1956-‘67) un’area ben più vasta della regione Trentino-Alto Adige, dove ebbe il suo epicentro; i semplici numeri – oltre 300 attentati, 9 vittime tra le forze dell’ordine e almeno una decina di stragi evitate in modo fortuito – dimostrano che non fu un fenomeno circoscritto, riconducibile a un esiguo gruppo di nostalgici. Fu un tempo di guerra, con alberghi requisiti e trasformati in caserme, il coprifuoco e la necessità di visti d’ingresso dall’Austria, nonché accuse di torture praticate per estorcere confessioni, con almeno due morti sospette tra gli arrestati.

Una “questione regionale” che, oltre ai protagonisti locali, vide via via schierati la politica, l’esercito, i servizi segreti, le diplomazie d’Italia e Austria, l’intera alleanza atlantica. Con la guerra fredda il confine del Brennero era divenuto gradualmente un avamposto dell’occidente contro un’ipotetica invasione dall’Est, nel timore di un crollo della fragile Austria qualora fosse stata attaccata dalle forze sovietiche. La preoccupazione degli USA per la crescita del Partito Comunista Italiano indusse la necessità di controllare militarmente quel confine, e l’escalation terroristica nell’area fornì un’incontestabile motivazione ufficiale per farlo: recenti studi storici hanno individuato la presenza diretta e il coinvolgimento di diversi servizi segreti europei nel provocare tensioni nella regione.

Il governo italiano, con l’appoggio della NATO, finì per promuovere una lunga e segreta campagna di guerra cosiddetta non ortodossa. Le ragioni dell’irredentismo sudtirolese furono zittite e strumentalizzate e la piccola “Heimat” al di qua del Brennero divenne un laboratorio di sperimentazioni politico-militari: l’Alto Adige fu probabilmente il banco di prova per la strategia della tensione attivata dai servizi segreti internazionali in collaborazione con le diverse formazioni dell’estrema destra italiana ed europea.

Le questioni internazionali concorsero a radicalizzare gli opposti nazionalismi che si fronteggiavano attorno a quel confine sin da quando, nel novembre 1918, sulla base degli accordi internazionali stipulati prima dell’entrata in guerra, l’Italia aveva occupato l’attuale provincia di Bolzano e portato il confine a nord fino al Brennero, includendo nel nuovo stato nazionale una consistente minoranza di lingua tedesca, legata per cultura e tradizioni allo scomparso impero austriaco. Dopo un periodo incerto fino al ‘21, il brusco cambiamento fu rappresentato dall’avvento al potere del fascismo, quando essere veri italiani al cento per cento divenne obbligatorio per tutti senza condizioni. Nei quasi cent’anni successivi, nessun governo italiano si è mai ufficialmente scusato per i molti delitti compiuti dal regime fascista in Alto Adige.

Scrive oggi Wu Ming 1:

Sul confine […] è tutto più denso, più netto e più estremo. Il nazionalismo italiano di confine è molto più forte; a Trieste e Bolzano i fascisti sono superfascisti. Ogni fenomeno si manifesta in modo più radicale perché è un territorio di conflitto tra narrazioni, e la mia narrazione deve essere ben tornita, densa, dura per poter essere usata come oggetto contundente contro l’altro. Partendo dai margini, dalle estremità, la visione è molto più chiara di quella che avresti partendo dal centro. La storia d’Italia la capisci meglio dai confini – da Trieste, da Bolzano, dalla Val Susa. La storia dell’unificazione nazionale, la storia delle guerre, dei confini rinegoziati la capisci dai confini stessi, non la capisci da Roma.

L’Italia ha un confine di terra quasi completamente montuoso. Il fatto che sui loro crinali corra il confine nazionale ha sovraccaricato le Alpi di una congerie di significati simbolici, allegorici: sono diventate prima territori da contendere, poi i baluardi della nazione. Eppure, l’identificazione della linea di confine con il crinale di una montagna o la linea di displuvio è un fenomeno recente, del XVIII secolo; prima di allora, in genere i confini includevano le montagne, per il semplice motivo che il potere politico le ignorava: non erano considerate importanti, non erano simboli e quindi non potevano essere marcatori di nulla.

Sarà il nazionalismo italiano e poi il fascismo a farsi portatore di discorsi sulla montagna che in realtà riguardavano l’identità nazionale, lo “spazio vitale” della nazione: si costruì una narrazione secondo la quale Alto Adige e Istria erano “naturalmente” italiani, e dovevano solo essere riportati dalla parte giusta. A voler essere precisi, come rileva lo storico Matteo Melchiorre, il confine culturale e storico tra mondo mitteleuropeo e mondo mediterraneo non è mai stato al Brennero, ma molto più giù, tra Veneto e Trentino, dove un tempo correva la frontiera tra la Repubblica di Venezia e l’Impero austroungarico: oggi è solo un confine regionale, ma fino al 1918 era una falda geopolitica, e le tracce di quel passato aiutano a capire il territorio, la sua storia, come si è evoluto e conformato.

C’è poi un altro aspetto paradossale, nella retorica nazionalista attorno ai patri confini montani: essi coincidono con lo spartiacque alpino per buona parte della loro lunghezza. Lo spartiacque attraversa ghiacciai perenni, molti dei quali si stanno sciogliendo a causa del cambiamento climatico prodotto dall’uomo. Quando i ghiacciai cambiano morfologia lo spartiacque si sposta, e con esso si spostano i confini, che in molti casi non coincidono più con le loro rappresentazioni sulla cartografia ufficiale. Per affrontare il problema, l’Italia, l’Austria e la Svizzera hanno introdotto il concetto di “confine mobile”, riconoscendo implicitamente l’instabilità di elementi topografici, come lo spartiacque, che si pensava fossero permanenti. E in nome dei quali ancora oggi si ritiene di poter affermare, con la forza militare o della legge, una politica di supremazie nazionali, sopraffazioni e poteri di esclusione.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; M. Ferrari, E. Pasqual, A. Bagnato, “A Moving Border”, Columbia Books on Architecture and the City; “La visione dal basso. Una conversazione tra Wu Ming 1 e Italian Limes su clima, territorio, confini, esplorazioni”, www.wumingfoundation.com; G. Flamini, “Brennero connection”, Editori Riuniti, 2003; www.piantiamolamemoria.org; R. Bianchin, “Quel killer fu pagato dai servizi”, https://ricerca.repubblica.it; www.labottegadelbarbieri.org; G. Punzi, “Alto Adige, passaporti e dinamite, due destre per lo stesso territorio”, www.remocontro.it; M. Marcantoni, G. Postal, “Südtirol. Storia di una guerra rimossa (1956-1967)”, Donzelli ed., 2014

Il blocco di Berlino

Finita la seconda guerra mondiale la città di Berlino si trovava nel cuore di quella parte della Germania che era stata occupata dalle forze armate dell’Unione Sovietica. Erano stati i russi, infatti, che, dopo aver ricacciato fuori dai confini sovietici le armate di Hitler e di Mussolini che l’avevano invasa, a partire dall’Operazione Barbarossa, avviata il 22 giugno 1941 (l’abbiamo ricordata su questa rubrica, nel post L’abominevole Operazione Barbarossa), avevano incalzato le truppe tedesche fino a Berlino, arrivandoci prima delle forze anglo-francesi. Queste, sbarcate sulle coste italiane nell’estate del 1943, tra il 9 e il 10 luglio in Sicilia (si veda questo post ) e due mesi dopo a Salerno (l’abbiamo rievocato in questo post), erano state fermate dai nazi-fascisti lungo la cosiddetta Linea Gotica. Ma un anno dopo, il 6 giugno del 1944, avevano compiuto il determinante sbarco in Normandia (vi abbiamo dedicato il post Gli amici del 6 giugno). Dalle spiagge della Francia settentrionale, gli angolo-americani avevano preceduto alla liberazione dell’Europa Occidentale, che da cinque anni le truppe naziste avevano occupato. Ma l’avanzata verso la Germania era stata ostacolata dal fallimento di alcune operazioni – a partire dal disastro sanguinoso dell’Operazione Market Garden (si veda il post Il 17 settembre 1944 scatta la fallimentare operazione Market Garden) – e dal contrattacco tedesco alla fine del ’44 nelle Ardenne. Americani ed inglesi quindi, giunsero a Berlino quando le armate di Stalin avevano appena vinto la battaglia di Berlino.

Finita la Seconda Guerra Mondiale, Berlino era divisa in quattro settori, ciascuno dei quali amministrato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.  Il progetto iniziale di un’amministrazione congiunta tra queste quattro potenze fu, però, sgretolato dal passaggio della comune guerra contro il nazifascismo alla guerra tra l’Ovest capitalista e l’Est comunista, la cosiddetta Guerra Fredda.

Se prima la collaborazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica aveva prodotto la vittoria sulle forze nazi-fasciste, ora le due super-potenze si disputavano l’egemonia sul vecchio continente. L’URSS, per prevenire eventuali future aggressioni, sentiva la necessità di avere alle proprie frontiere una cintura di Stati governati da regimi filo-sovietici; mentre gli Stati Uniti, sentivano di dover rinunciare all’idea di ritirarsi dal continente, visto che la Gran Bretagna, uscita prostrata dalla guerra, non era in grado da sola di contrastare efficacemente l’espandersi dell’influenza sovietica.

Collocata nel cuore dell’Europa, la Germania era ridotta ad un cumulo di macerie, tra le quali si aggiravano, tentando di amministrarla, gli eserciti dei vincitori, e Berlino, quasi completamente distrutta, riassumeva drammaticamente la condizione di questo spettrale Paese, il cui futuro assetto era considerato decisivo per gli equilibri internazionali futuri. Proprio a Berlino, infatti, gli interessi di Stati Uniti e Unione Sovietica il 24 giugno del 1948, si scontrarono direttamente.

La “rottura”  del 1948

In quell’anno la cessazione definitiva di ogni possibilità di collaborazione tra Mosca e Washington e la trasformazione del rapporto tra le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale in Guerra Fredda, in termini di contrapposizione diretta tra due blocchi militarmente organizzati, era maturata sempre più velocemente. Nella parte occidentale dell’Europa, e, in particolare in Francia e Italia, si concludeva la collaborazione tra i partiti comunisti e i partiti borghesi, mentre nell’Europa orientale, a febbraio, come era già avvenuto in tutti i Paesi inseriti nella zona di influenza sovietica, anche in Cecoslovacchia veniva imposto con la forza un governo a guida comunista. Si spegneva così nell’Europa dell’Est ogni residua possibilità di Stati governati con criteri di pluralismo politico. Pochi mesi dopo, inoltre, si produceva una rottura tra l’Unione Sovietica e la Yugoslavia di Tito, deciso a seguire una politica autonoma rispetto alla linea decisa da Mosca. Ma era soprattutto a Berlino che le posizioni tra URSS, da una parte, USA, Gran Bretagna e Francia, dall’altra, erano sostanzialmente divergenti.

Le ragioni della crisi di Berlino

A Berlino si trovava il Consiglio di Controllo Alleato per la Germania, dal quale dipendeva anche una Kommandantur quadripartita, incaricata di gestire l’amministrazione della città. Come il resto della Germania, anche Berlino, pur essendo inserita nella zona sovietica, era divisa in quattro zone occupate dalle truppe delle tre potenze vincitrici della guerra (USA, URSS e GB), alle quali era stata aggiunta la Francia. Ma le prospettive e i programmi tra gli occidentali, soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, e l’Unione Sovietica erano assolutamente divergenti. L’URSS pensava alla Germania come uno stato centralizzato, ritenendo che ciò avrebbe meglio garantito il pagamento delle riparazioni di guerra stabilite dagli accordi di Yalta e Potsdam ed era assai poco interessata a rendere la Germania una nazione florida, essendo stati invasi due volte da uno stato tedesco negli ultimi trent’anni. Mentre, gli anglo-americani volevano che la Germania fosse uno stato federale, o comunque diviso in regioni dotate di ampia autonomia ,e ritenevano che le riparazioni dovute dalla Germania andassero sospese per consentirle una più rapida ripresa economica della Germania e togliere il popolo tedesco da quella miseria, che secondo gli americani era l’anticamera del totalitarismo. Nel mese di febbraio le potenze occidentali tennero una prima conferenza tra di loro a Londra, nell’ambito della quale discussero la riunione delle zone francese, britannica e statunitense in un unico stato tedesco occidentale, dotato dei necessari organi di governo e di una propria Costituzione. I sovietici, però, non erano stati informati di tale complessiva prospettiva, radicalmente antitetica rispetto alla loro. Queste divergenze condussero, dunque, alla frattura nella collaborazione quadripartita nel Consiglio di controllo, durante la riunione del 20 marzo: il rappresentante sovietico Sokolovskij lasciò bruscamente la sala dopo aver aspramente criticato gli occidentali per il loro rifiuto di sottoporre al Consiglio stesso i progetti della conferenza di Londra. Ai primi di giugno, allora, gli occidentali diffusero un comunicato in cui si spiegava il sopraddetto, ma si taceva un punto importantissimo. Il comunicato, infatti, non faceva cenno alla decisione, la più importante, di una fusione economica delle tre zone occidentali attraverso una riforma monetaria, consistente nell’introduzione di nuova moneta (il Deutsche Mark). In pratica, si voleva totalmente isolare la zona sovietica dal resto della Germania. La riforma monetaria venne annunciata il 18 giugno ed entrò in vigore tre giorni dopo. Lo scopo principale dichiarato era quello di arrestare l’inflazione monetaria, impeditiva della ripresa economica, ritirando la vecchia moneta tedesca e scambiandola con la nuova nel rapporto di 10 a 1. I sovietici levarono forti proteste diplomatiche e diedero luogo anch’essi ad una riforma monetaria nella parte da essi controllata. Ma la decisione degli occidentali di estendere la circolazione del nuovo marco anche ai settori occidentali di Berlino, che svelava la volontà di rafforzare il legame tra l’ex capitale tedesca e il resto della Germania sottoposto al controllo occidentale, fece illividire di rabbia l’Unione Sovietica. Era chiaro che, così facendo, americani, inglesi e francesi, rendevano Berlino Ovest un avamposto occidentale nel cuore della zona sovietica.

L’annuncio sovietico del blocco di Berlino

L’insofferenza dei sovietici verso gli ex alleati occidentali era cresciuta inesorabilmente, già nel periodo precedente, Tanto che un anno prima all’inizio dell’estate del 1947, diversi quotidiani locali scrissero che si prevedeva un prossimo abbandono di Berlino da parte delle forze occidentali. Inoltre i treni provenienti da Ovest e diretti a Berlino venivano bloccati per ore, a causa di semafori inspiegabilmente rossi  oppure per via di interminabili controlli dei bagagli dei passeggeri. Dopo la diffusione del comunicato, la rabbia sovietica subì un’impennata. Così, al principio dell’estate, il 24 giugno 1948, le telescriventi dei giornali berlinesi trasmisero un proclama dell’amministrazione militare sovietica:

«alle sei del mattino il traffico ferroviario, stradale e fluviale fra Berlino e l’occidente sarà interrotto, e con esso l’afflusso di carbone e delle derrate alimentari. Tutte le riserve di viveri nel settore sovietico saranno riservate a tale settore».

Alle sei del mattino infatti la radio sovietica aveva annunciato il blocco per motivi tecnici della linea ferroviaria HelmstedtBerlino e, sempre ricorrendo ad analoghi pretesti, comunicava la chiusura delle altre comunicazioni terrestri. Agli anglo-americani fu chiaro che si trattava di un ultimatum o meglio di un ricatto: se l’Occidente non riconosceva l’autorità sovietica su tutta la città di Berlino, i berlinesi sarebbero stati ridotti alla fame.

Oltre ad angosciare gli abitanti di Berlino, quell’annuncio diffuse il panico ovunque. Si stava avverando uno dei peggiori momenti di crisi della Guerra Fredda, forse il momento di maggior tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, per la prima volta la possibilità che si arrivasse ad un confronto militare tra le due potenze parve orribilmente concreta.

Il ponte aereo

Le forze occidentali erano state colte del tutto impreparate da questa mossa sovietica. Non avevano previsto alcun piano per reagire ad un evento simile. Scartata l’ipotesi di forzare il blocco, suggerita dal generale Clay, governatore militare statunitense a Berlino, la Casa Bianca e Westminster decisero di rifornire provvisoriamente la città mediante un ponte aereo, sperando di pervenire rapidamente ad una soluzione diplomatica. Ma dare luogo ad un ponte aereo non era un’impresa da poco. Gli abitanti di Berlino Ovest avevano bisogno di 12.000 tonnellate di viveri al giorno. Farli arrivare unicamente per via aerea, sulle prime parve impossibile. Non c’era altra soluzione, però. Anzi, in seguito ci si rese conto che era anche la migliore soluzione, essendo lo strumento più adatto per resistere all’assedio. Ciò, però, fu appurato grazie alla straordinaria organizzazione delle forze aeree anglo-statunitensi, che meritatamente passò alla storia. Infatti, Dopo appena 13 giorni di attuazione del blocco da parte dei sovietici, americani e britannici facevano atterrare all’aeroporto Tempelhof di Berlino un aereo ogni 93 secondi, scaricando in ventiquattr’ore 6.393 tonnellate di merci (poi si arrivò perfino a trasportare una intera centrale elettrica smontata pezzo per pezzo). Grazie ad un rigoroso razionamento di tutte le merci trasportate a Berlino gli abitanti poterono superare l’inverno ‘48-’49. Fallì, però, la mediazione tentata da una commissione di esperti nominati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La fine del blocco e la nascita delle due Germanie

L’intesa giunse soltanto a primavera inoltrata. Il 5 maggio 1949 fu annunciata la fine del blocco per il giorno 12. A Berlino erano state scaricate due milioni e mezzo di tonnellate di merci; settanta aviatori anglo-statunitensi erano morti in incidenti di volo; gli Stati Uniti avevano speso per il ponte 350 milioni di dollari, la Gran Bretagna 17 milioni di sterline, i tedeschi 150 milioni di Deutsche Mark.

Il blocco di Berlino era sciolto, ma lo era anche la prospettiva di una Germania unita, cioè di una unica patria per il popolo tedesco. Il 12 maggio ’49, infatti, i governatori militari di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna approvarono la Legge Fondamentale (Grundgesetz), ossia la Costituzione per le zone da essi occupate occidentali. I sovietici avevano appeno compiuto un analogo atto. Il sorgere di due Germanie era diventato un dato di fatto. Tale divisione, a Berlino, nel 1961, diede luogo alla costruzione del famigerato muro.

Alberto Quattrocolo

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Il ghetto di Łódź viene liquidato

Posizionata al centro della nazione polacca, la città di Łódź contava, all’inizio della Seconda guerra mondiale, 672.000 abitanti. Di questi, circa 250.000 erano di origine ebraica: la loro comunità era ricca e culturalmente molto vivace. Le  cose cambiarono radicalmente dal 9 settembre 1939, quando le forze tedesche di occupazione entrarono in città.

Con l’arrivo delle truppe, più di 70.000 ebrei fiutarono il pericolo e lasciarono Łódź, per rifugiarsi in altre città o nei territori occupati dell’Unione Sovietica. Ne rimanevano comunque in città più di 150.000. Il processo di “arianizzazione” era iniziato.

Inizialmente, il progetto nazista si proponeva di liberare l’intera zona da tutti gli ebrei presenti e, per fare questo, si valutò l’opportunità di creare un ghetto, che servisse da collettore per le partenze verso i campi di lavoro, di concentramento e di morte. L’idea era di chiudere le operazioni nell’arco di un anno. Le cose andarono molto diversamente.

Dunque, individuati i limiti del ghetto, nei due mesi successivi venne eretta una barriera di travi di legno e filo spinato, in maniera da isolarlo completamente dal resto della città. Il primo maggio 1940, gli ebrei vennero ufficialmente rinchiusi e il 12 giugno il ghetto contava 160.320 persone. Con l’andare dei mesi e degli anni, poi, il numero crebbe fino a toccare i 200.000: a Łódź furono infatti convogliati molti ebrei e rom provenienti da ghetti più piccoli già smantellati. L’intera popolazione era racchiusa in una superficie di appena 4 chilometri quadrati. Con questi numeri, rappresentava il secondo tra i ghetti nazisti istituiti dal Terzo Reich in Polonia, dopo quello di Varsavia.

Nonostante le terribili condizioni di vita, che, da sole, portarono alla morte di oltre 45.000 persone (per fame, freddo, malattie, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie), Łódź si distinse per il mantenimento di una certa vita comunitaria, sia religiosa sia culturale. Vanta, inoltre, un unicum nella storia della Shoah: la conservazione di un archivio, contenente documentazione sia tedesca che ebraica, grazie al quale si riesce, a distanza di decenni e nonostante i tentativi di occultamento nazisti, a ricostruirne i passaggi.

Come in molte altre situazioni simili, per gestire la popolazione locale furono organizzati uno Judenrat (consiglio ebraico) e un reparto di polizia ebraica, con il compito di eseguire gli ordini delle autorità tedesche e vigilare su eventuali fughe. Il consiglio fu presieduto da Mordechai Chaim Rumkowski, una delle figure più controverse dell’Olocausto.

Autorizzato dai tedeschi a “prendere ogni necessaria misura” per mantenere l’ordine all’interno del ghetto, Rumkowski si vide investito di un potere mai concesso prima a un ebreo e non esitò a farne uso. Convinto che la produttività ebraica avrebbe salvato le loro vite, impose alla popolazione 12 ore di lavoro giornaliero. In effetti, forse a causa dell’estrema produttività, quello di Łódź sopravvisse più a lungo di ogni altro ghetto in Polonia: fu, infatti, l’ultimo ghetto polacco ad essere liquidato.

Nonostante questo, le condizioni di vita rimasero molto dure e “re Chaim“, come veniva chiamato dagli ebrei, rimase, nell’immaginario pubblico, un personaggio molto ambiguo e contraddittorio: lo stesso Primo Levi, finita la guerra, non gli risparmierà dure critiche.

A due anni dall’occupazione nazista, poi, iniziarono le deportazioni. Il 20 dicembre 1941, le autorità tedesche ordinarono a Rumkowski di selezionare 20.000 abitanti per la deportazione: lo Judenrat, attraverso una speciale commissione, aveva il compito di scegliere tra i criminali, i lavativi e coloro che avevano lucrato sui nuovi arrivati del ghetto. La destinazione era per tutti il campo di sterminio di Chełmno.

Il campo rom (i cui abitanti, decimati dalle malattie, si erano ridotti a circa 4.300 persone) fu il primo ad essere liquidato, tra il 5 e il 12 gennaio 1942. Tra il 16 e il 19 gennaio 1942 fu la volta di un primo contingente di 10.003 ebrei. Altre massicce deportazioni seguirono nel febbraio-aprile 1942 (34.073 persone) e nel maggio dello stesso anno (10.914 persone).

Quando poi, nell’autunno successivo, le autorità tedesche chiesero un ulteriore invio di 15.000 persone non necessarie alla produzione, la notizia scatenò un acceso dibattito per decidere chi sarebbe dovuto partire. Rumkowski, dopo aver esaminato le diverse opzioni, rimase sempre più convinto che l’unica speranza di sopravvivenza fosse il mantenere un’elevata produttività per il Reich. Pronunciò, dunque, il famoso discorso:

Un atroce colpo si è abbattuto sul ghetto. Ci viene chiesto di consegnare quello che di più prezioso possediamo – gli anziani ed i bambini. Sono stato giudicato indegno di avere un figlio mio e per questo ho dedicato i migliori anni della mia vita ai bambini. Ho vissuto e respirato con i bambini e mai avrei immaginato che sarei stato obbligato a compiere questo sacrificio portandoli all’altare con le mie stesse mani. Nella mia vecchiaia, stendo le mie mani ed imploro: Fratelli e sorelle! Passatemeli! Padri e madri! Datemi i vostri figli!

15.681 bambini (sotto i 10 anni) e anziani furono selezionati per la deportazione.

Fino al 1944 non vi furono ulteriori partenze e, all’inizio di quell’anno, il ghetto di Łódź, con i suoi 80.000 abitanti, poteva considerarsi il più grosso concentramento di ebrei di tutta l’Europa orientale. In effetti, si poteva parlare un immenso campo di lavoro: in tale era stata trasformata quella zona della città.

Nel maggio di quell’anno, però, quando la vicinanza delle armate sovietiche faceva sperare in una rapida liberazione, Himmler dette l’ordine di procedere alla liquidazione totale della popolazione rimasta: tra il 23 giugno ed il 14 luglio 1944, 7.196 ebrei vennero deportati e uccisi nel campo di sterminio di Chełmno. Dopo una sospensione temporanea dei trasferimenti, gli stessi ripresero in seguito allo scoppio della rivolta di Varsavia del primo agosto: le autorità tedesche si convinsero del pericolo di mantenere ancora in vita un ghetto così popoloso. Otto giorni più tardi ripresero i trasporti, questa volta con destinazione Auschwitz: furono deportati gli ultimi 72.000 residenti del ghetto.

Della popolazione ebraica del ghetto sopravvissero, alla Seconda guerra mondiale, meno di 10.000 persone.

Alessio Gaggero

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L’abominevole Operazione Barbarossa

Operazione Barbarossa era il nome in codice adottato dai tedeschi per l’invasione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Deliberata definitivamente da Adolf Hitler il 18 dicembre del 1940, l’ Operazione Barbarossa fu avviata 6 mesi dopo, il 22 giugno del 1941. Secondo i piani del Führer doveva essere una guerra lampo  (Blitzkrieg) dall’impatto devastante per l’U.R.S.S., in particolare, l’idea di fondo era di ottenere su quel fronte gli stessi rapidi e prodigiosi risultati bellici conseguiti sconfiggendo l’ esercito polacco. Il 1° settembre del ’39, infatti, la Germania aveva dato il via alla Seconda Guerra Mondiale, attaccando e devastando rapidamente la Polonia, poi si era impadronita della Danimarca e aveva occupato la Norvegia entro la primavera del 1940. E, se il 14 giugno di quell’anno i soldati di Hitler, dopo aver sbaragliato le forze anglo-francesi, avevano marciato a Parigi, sotto l’Arco di Trionfo, 8 giorni dopo la Francia, nel frattempo vilmente e pateticamente attaccata anche dall‘Italia di Mussolini (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, nel post 20 giugno 1940 l’attacco infame e fallimentare dell’Italia alla Francia), si era arresa alla Germania. La sequenza sconvolgente delle fulminee vittorie naziste in Europa, ormai quasi tutta occupata, si era interrotta solo con la mancata realizzazione dell’Operazione Leone Marino (l’abbiamo ricordata qui), cioè l’invasione dell’Inghilterra. Grazie all’abilità e al coraggio dei piloti della Royal Air Force, alla determinazione quasi sovrumana del nuovo primo ministro, Winston Churchill (si veda il post Quando Churchill promise lacrime e sangue), a capo di un governo comprendente tutte le forze politiche, e alla coesione del popolo britannico, Hitler era stato fermato. In questa cornice si collocava l’ Operazione Barbarossa.

La fine della luna di miele nazi-sovietica

Due anni prima, il 23 agosto 1939, 8 giorni prima di dare il via alla guerra, aggredendo la Polonia, la Germania nazista e l’U.R.S.S. avevano firmato un trattato, noto come il “patto Ribbentrop-Molotov“, dal nome dei rispettivi ministri degli Esteri. Tale patto aveva disciplinato la spartizione della Polonia e stabilito il principio della non aggressione. Grazie ad esso la Germania aveva potuto non solo aggredire lo stato polacco, per poi procedere alle successive aggressioni delle altre nazioni europee, senza temere un’offensiva sovietica da est e continuando a ricevere forniture di petrolio, grano ed acciaio provenienti proprio dall’impero sovietico. Parallelamente, l’Unione Sovietica aveva occupato la porzione orientale della Polonia, come previsto nel trattato nazi-sovietico e il 30 novembre 1939 aveva attaccato la Finlandia, contando sull’acquiescenza tedesca. Hitler, però, aveva continuato a considera l’Unione Sovietica come il suo principale nemico. Sicché, se il suo programma iniziale era stato quello di assicurarsi prima una vittoria definitiva ad occidente, annientando anche la Gran Bretagna, per poi attaccare in un secondo momento la Russia, dall’estate  del 1940, cominciò a pensare che quest’invasione non potesse essere ulteriormente posposta.

I reciproci imbrogli tra Stalin e Hitler

Essendo sfuggita la vittoria definitiva sull’Inghilterra ed essendo fallito il tentativo del suo alleato italiano di darle un colpo mortale nel Mediterraneo e nel Nord Africa, dove, anzi, le truppe di Mussolini, nel tentativo di prendere l’Egitto, subivano una sconfitta disastrosa,  non dissimile da quella di invasione della Grecia, muovendo dall’Albania, Adolf Hitler si persuase che, se avesse invaso e battuto l’Unione Sovietica, avrebbe privato Churchill della speranza di ottenere un giorno l’aiuto di Stalin contro la Germania, deprimendo, così, definitivamente lo spirito combattivo inglese. Inoltre, all’inizio dell’estate del 1940 era iniziata una vera e propria, per quanto non dichiarata, gara di cinismo e scaltrezza tra lui e Stalin. L’Unione Sovietica a  fine giugno-inizio luglio 1940 aveva imposto alla Romania di cederle oltre alla regione della Bessarabia anche la parte settentrionale della Bucovina e aveva occupato il territorio di Herța, suscitando in Hitler il timore di perdere in un prossimo futuro il petrolio rumeno. Così, il Führer, alla fine del settembre 1940, s’impegnò a garantire i ridimensionati confini della Romania, dopo che altri territori rumeni erano stati ceduti a Paesi filo-tedeschi, in virtù di accordi imposti dalla Germania. Cioè, una parte della Transilvania settentrionale all’Ungheria e la Dobrugia meridionale alla Bulgaria.

«Quando comincerà l’ Operazione Barbarossa il mondo tratterrà il fiato», Adolf Hitler

Il 18 dicembre 1940 il Führer diramò, quindi, la direttiva n. 21 per l’attuazione dell’ Operazione Barbarossa. Ma non condivise tale piano con il suo alleato, Benito Mussolini, che aveva convocato per un incontro al Berghof, sopra Berchtesgaden, per il 19 e il 20 gennaio del 1941. Umiliato per le disfatte italiane in Egitto e in Grecia, Mussolini non aveva alcuna voglia di fare quel viaggio, ma fu piacevolmente sorpreso quando il dittatore tedesco lo accolse con calore ed evitò di rimproverarlo per la sua cattiva prova sui campi di battaglia. La sorpresa, però, non gli impedì di notare che in Hitler si era sviluppato uno stato d’animo decisamente antirusso. Il Führer, infatti, non si fidava della capacità degli italiani di mantenere il segreto e, per questo, aveva deciso di non rivelare neppure l’idea generale dell’Operazione Barbarossa. Un’operazione che stava iniziando ad entusiasmarlo, man mano che si convinceva del suo sicuro successo, tanto che nel consiglio di guerra del 18 febbraio ai suoi generali disse:

«Quando comincerà l’ Operazione Barbarossa il mondo tratterrà il fiato e non farà alcun commento».

Nella direttiva segretissima del 18 dicembre del 1940 Hitler aveva scritto:

«Le forze armate tedesche debbono prepararsi a schiacciare la Russia in una rapida campagna prima che la guerra contro l’Inghilterra sia terminata. A tal fine l’esercito impiegherà tutte le unità a disposizione, tranne quelle necessarie per salvaguardare da attacchi di sorpresa i territori europei occupati. I preparativi dovranno essere condotti a termini entro il 15 maggio 1941. Occorre usare la massima prudenza per evitare che trapeli la nostra intenzione di attaccare».

«E’ la guerra. Credete che ce la siamo meritata?», Molotov

L’attacco, quindi, inizialmente era previsto per il mese di maggio del 1941, ma le sconfitte italiane sul fronte greco e l’imprevisto colpo di stato a Belgrado, indussero Hitler a posticipare l’avvio dell’ Operazione Barbarossa, per procedere prima alla conquista della Jugoslavia e della Grecia. Sicché il signore nazista della guerra, il 30 aprile del 1941, decise che l’Operazione Barbarossa sarebbe iniziata il 22 giugno 1941.

«Rimandatelo a quella puttana di sua madre. Non è una fonte ma un disinformatore», Stalin

Tra l’autunno del 1940 e la primavera del 1941 Hitler aveva iniziato un enorme spostamento di materiali, mezzi e truppe verso i confini orientali del Reich, mentre aerei da ricognizione tedeschi ad alta quota studiavano il terreno in vista della prossima avanzata: tali attività non erano sfuggite ai servizi segreti sovietici, ma questi segnali erano respinti da Stalin, il quale non solo non aveva protestato con il governo tedesco, ma aveva ordinato alla stampa sovietica di tacere su tali fatti, aveva imposto di adempiere generosamente agli invii pattuiti rifornimenti di grano, materiali e materie prime alla Germania e si era rifiutato di mobilitare l’esercito. Ciò anche se a fine marzo il Sottosegretario di Stato statunitense Sumner Welles, su disposizione del Segretario di Stato Cordell Hull, aveva trasmesso, all’ambasciatore sovietico a Washington, Konstantin Umanskij, un rapporto, basato su informazioni provenienti da affidabili fonti tedesche, in cui era rivelata l’intenzione della Germania nazista di attaccare di lì a poco l’Unione Sovietica. Inoltre, Stalin non tenne in alcun conto un memorandum reali intenzioni di Hitler, fattogli pervenire dal Primo Ministro Britannico, Winston Churchill, il 19 aprile. Ancora il 16 giugno 1941, Stalin scriveva di suo pugno su di un rapporto di un ufficiale tedesco che rivelava la data esatta dell’attacco da parte della Germania:

«Rimandatelo a quella puttana di sua madre. Non è una fonte ma un disinformatore».

«Lasciatemi ancora dire una cosa, Duce. Dopo che, lottando, sono giunto a questa decisione, mi sento spiritualmente libero», Adolf Hitler

Con un annuncio di poco precedente al tuonare dell’artiglieria, verso le due del mattino del 22 giugno 1941, l’ambasciatore di Hitler al Cremlino presentava al Ministro degli Esteri sovietico Molotov la dichiarazione di guerra. Alla stessa ora, a Berlino, il ministro degli Esteri tedesco, Ribbentrop, dava udienza all’ambasciatore russo per proporgli la stessa comunicazione. Si trattava di un capolavoro di mistificazione e sfrontatezza, che svettava anche rispetto alla lunga sfilza delle dichiarazioni colme di falsificazioni con cui, fino a quel momento, Hitler si era giustificato nell’attaccare gli altri Paesi europei. Il dittatore nazista giustificava la decisione di aprire le ostilità inventandosi, tra le altre cose, che la Russia aveva praticato «sabotaggio, terrorismo e spionaggio» ai danni della Germania, preparandosi da tempo ad attaccarla. La reazione di Molotov fu: «E’ la guerra. Credete che ce la siamo meritata?». Poco dopo, alle tre del mattino l’ambasciatore tedesco a Roma faceva svegliare il Ministro degli Esteri italiani, Galeazzo Ciano, genero del duce, per consegnargli una lunga lettera di Hitler per Mussolini. Costui, in villeggiatura a Riccione, veniva svegliato da Ciano che gli leggeva la missiva del FührerMussolini, parecchio infastidito, sbottò: «Io non oso, di notte, svegliare i miei servitori ed i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo». Il testo della missiva, con la quale Hitler informava il suo alleato italiano della decisione che aveva assunto e messo in atto a sua insaputa e specificava aggiungendo che non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto delle truppe italiane per quella campagna, finiva così:

«Lasciatemi ancora dire una cosa, Duce. Dopo che, lottando, sono giunto a questa decisione, mi sento spiritualmente libero. L’associarmi all’Unione Sovietica, malgrado la sincerità assoluta dei nostri sforzi per venire ad una definitiva conciliazione, era stato per me assai fastidioso perché, in un modo o nell’altro, ciò sembrava contrario con tutto il mio atteggiamento precedente, con le mie concezioni e con i miei precedenti impegni. Ora sono assai contento di essermi liberato da questo disagio spirituale. Con saluti cordiali e camerateschi, vostro Adolf Hitler».

Mezz’ora dopo, alle 3 e mezzo del mattino, i cannoni tedeschi diedero il via al cannoneggiamento lungo un fronte di centinaia di miglia. Il generale tedesco Günther Blumentritt, annotò che venivano intercettato continuamente lo stesso messaggio dagli avamposti sovietici: «ci stanno sparando addosso, cosa dobbiamo fare?». A tali sconvolti interrogativi il comando superiore sovietico rispondeva: «dovete essere impazziti, e perché non trasmettete in codice?». Così, l’invasione tedesca, che colse di sorpresa i sovietici, fu, inizialmente, davvero molto rapida.

La pianificazione del terrore e dello sterminio nell’ Operazione Barbarossa

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Oltre all’impiego della Wehrmacht, cioè delle forze armate regolari, il comando tedesco, per ordine di Hitler, nel pianificare l’ Operazione Barbarossa, aveva stabilito l’impiego di speciali unità operative, le Einsatzgruppen, già utilizzate in Polonia e composte da SS e personale di polizia (ne abbiamo parlato a proposito nel post Il 13 luglio del ’41 a Józefów 500 “uomini comuni” fucilarono 1500 bambini, donne e anziani), incaricate di occuparsi della “liquidazione”, perlopiù tramite esecuzioni sommarie, di ebrei, zingari e oppositori politici presenti nei territori orientali e catturati.

L’annientamento degli ebrei

E tali “mansioni” furono svolte scrupolosamente: le vittime ebree delle Einsatzgruppen nel territorio sovietico occupato furono 2.200.000 uomini, donne, vecchi e bambini, ai quali vanno aggiunti decine di migliaia di cittadini sovietici non ebrei. Ma la pianificazione nazista del terrore riguardava non soltanto lo sterminio degli ebrei, ma anche dei membri dell’amministrazione sovietica. Ai primi di marzo del ’41, Hitler, infatti, aveva spiegato ai capi delle tre armi e ai principali comandanti delle truppe destinate all’ Operazione Barbarossa che quella che si apprestavano a combattere «È una lotta tra ideologie e razze diversi e dovrà essere combattuta con una durezza, una spietatezza e una inesorabilità senza precedenti […] I commissari del popolo dovranno essere eliminati».

L’Ordine relativo ai Commissari politici e lo sterminio dei prigionieri di guerra.

Così venne diramato “l’Ordine relativo ai Commissari politici”. Per sradicare ogni dubbio, il 16 luglio del ’41, ad invasione appena cominciata, Hitler precisò che la soluzione migliore era «fucilare chiunque ci guarderà di traverso». In realtà, uno dei modi utilizzati dai nazisti per incutere il terrore in tutta la popolazione consisteva nell’impiccare o nell’inchiodare i funzionari del Partito Comunista alle porte. Per risparmiare tempo, però, più spesso venivano fucilati, per lo più insieme ai bambini, alle donne e agli uomini ebrei. Non è dato, quindi, sapere quanti commissari comunisti siano stati ammazzati, poiché nella contabilità nazista non venivano distinti dalle vittime ebree. Certamente gli ebrei “liquidati” erano moltissimi di più, dato che erano assai più numerosi dei commissari e che ad essere uccise erano intere famiglie, con ritmi e sistemi industriali. Una sorte crudele era riservata anche ai soldati sovietici presi prigionieri: in tutto i tedeschi catturarono 5 milioni e 250 mila soldati sovietici. Di questi 3.800.000 furono presi tra il 21 giungo e il 6 dicembre del ’41. Complessivamente, alla cattività sopravvisse appena un quinto dei russi catturati. «Per noi più prigionieri muoiono e meglio è», affermava Alfred Rosenberg.

La resistenza russa motivata dalla ferocia nazista

Contestualmente veniva pianificata un’opera distruzione di ogni industria e un’attività di così vasta e sistematica rapina di ogni risorsa russa, a partire da quelle alimentari ,che dovevano essere destinate a nutrire il popolo tedesco, che esplicitamente i vertici nazisti affermavano: «Non v’è dubbio che molti milioni di persone moriranno per fame quando porteremo via dal Paese le cose che ci sono necessarie».

Come abbiamo ricordato nel post Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana», la ferocia nazista fu una delle cause del fallimento dell’ Operazione Barbarossa. Infatti, Otto Bräutigam, vicecapo dell’ufficio politico di Alfred Rosenberg, in un dettagliato rapporto scrisse: «il lavoratore e il contadino non tardarono a scoprire che erano destinati a servire da schiavi alla Germania. […] Noi ora ci troviamo nella grottesca situazione di dover reclutare milioni di lavoratori dai territori occupati dopo che tanti prigionieri di guerra sono morti di fame come le mosche […] La nostra politica ha fatto confluire i bolscevichi e i nazionalisti russi in un fronte comune contro di noi […] Oggi i russi combattono con un eroismo e uno spirito di sacrificio senza pari, ed essi combattono contro di noi solo per difendere la loro dignità umana».

Alberto Quattrocolo

21 giugno 1964, Mississipi Burning

Lo scrittore afroamericano Richard Wright descrive nella sua autobiografia il clima di terrore che incombeva sulle comunità nere nel Sud della segregazione.

«Erano tempi in cui un crimine commesso da un nero diventava un crimine commesso dai neri; e la conseguenza era la punizione collettiva, il massacro ritualizzato che abbiamo imparato a chiamare linciaggio. […] Linciaggi e rappresaglie sono sempre anche forme di comunicazione: terrorismo nel senso stretto del termine perché hanno lo scopo di incutere terrore non solo alle persone colpite ma a tutti i loro simili. Perciò ritualità e simbolismo sono inseparabili dalla violenza immediata». (A. Portelli, “Aperta la diga dell’antifascismo dilaga l’odio razziale”, il Manifesto 6/2/2018)

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1964, James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner, attivisti del movimento per i diritti civili degli afroamericani, furono uccisi a colpi di pistola da un gruppo di membri dei “cavalieri bianchi” del Ku Klux Klan, con la complicità dello sceriffo, nella contea di Neshoba, Mississippi. L’inchiesta dell’FBI che ne seguì prese il nome di Mississippi Burning e ispirò, oltre due decenni dopo, l’omonimo film di Alan Parker.

«Se fossero stati uccisi tre neri, forse il caso non avrebbe nemmeno fatto notizia», dirà il fratello di una delle vittime, in occasione della riapertura della vicenda giudiziaria, nel 2005.

Invece la violenza dei segregazionisti incappucciati aveva colpito un bianco ateo (Schwerner), un ebreo liberale (Goodman) e un afroamericano (Cheney), uniti da un comune sentire in una lotta interrazziale pacifica quanto determinata, che fece guadagnare a Schwerner l’epiteto di “amico dei negri” col quale fu apostrofato poco prima di essere ucciso.

Michael Schwerner, ventiquattrenne, era un attivista di New York che aveva lasciato il lavoro per aderire al CORE (Congress of Racial Equality) e dirigersi con la moglie a Jackson (Mississippi), dove fu loro offerto il coordinamento del movimento nella città di Meridian e in cinque contee limitrofe, fra cui quella di Neshoba; insieme a loro si trasferì in loco un gruppo di ragazzi afroamericani aderenti alla NAACP (National Association for the Avancement of Colored People), tra cui James Chaney. Il loro compito a Meridian era quello di reclutare più gente possibile all’interno del movimento, visitando scuole, luoghi pubblici, chiese e abitazioni private. Nonostante l’astio che la città provava verso l’organizzazione, la polizia aveva dato ordine di non toccare gli attivisti, preferendo mantenere il delicato equilibrio sociale della città.

La condizione degli afroamericani a Meridian era molto diversa rispetto alle altre città del Mississippi: settanta neri possedevano già il diritto di voto, la polizia non era brutale come altrove, non erano rinchiusi in un ghetto e molti vivevano discretamente; pochi volevano assumersi rischi e il supporto al movimento era fornito soprattutto da teenager e studenti. L’obiettivo di coinvolgere la popolazione adulta attirò Schwerner verso la contea di Neshoba, luogo che sapeva essere pericolosissimo per un “agitator”, appellativo con cui i cittadini del Mississippi definivano gli attivisti per i diritti civili. Qui gli afroamericani erano in altissima percentuale anziani, la metà viveva nelle niggertowns del capoluogo, alcuni possedevano qualche spicchio di terra; la loro situazione avrebbe anche potuto rimanere stabile se non si fossero ribellati alla segregazione vigente per legge e per antica consuetudine.

Dopo qualche cauta esplorazione, Schwerner e Chaney tennero un comizio presso la Mount Zion Church di Longdale (Neshoba), presentando il progetto “One man, one vote”; accolti con entusiasmo dalla popolazione di colore, fondarono una “Freedom School” all’interno della chiesa, allo scopo di incoraggiare e istruire i cittadini afroamericani all’iscrizione nei registri elettorali. In quel periodo Goodman si unì alle attività del gruppo di Meridian.

I White Knights, un sottogruppo del KKK, venuti a conoscenza dell’attività del movimento, iniziarono a preparare un piano per ostacolarla e prevenire una manifestazione di massa indetta per il 22 giugno: credendo erroneamente che Schwerner si trovasse a Longdale nella Mount Zion Church, la sera del 16 diedero alle fiamme l’edificio. Il 20 giugno, mentre il Senato degli Stati Uniti approvava il Civil Rights Bill, alcune centinaia di studenti si avvicinavano al Mississippi in vista della manifestazione del 22: sebbene non si potesse certo ravvisare “l’invasione” vaticinata dai media, la sensazione prevalente era quella di turbamento generale per i cittadini del “Magnolia state”.

Il 21 giugno Schwerner, sebbene molto agitato per le ripetute minacce di morte, si recò a Longdale con Chaney e Goodman per indagare sull’incendio della chiesa e interrogare qualche testimone; temendo rappresaglie, informò la segreteria del CORE circa i propri spostamenti, chiedendo di avvisare la polizia qualora non avesse dato notizie entro le ore 16. Dopo il sopralluogo a Longdale, i tre attivisti scelsero per il ritorno a Meridian la Highway 19, più lunga ma trafficata e perciò ritenuta più sicura. Proprio qui, invece, furono intercettati da Cecil Price, vice-sceriffo della contea e membro dei White Knights, fermati per presunte violazione al codice della strada e condotti in carcere per accertamenti. Rilasciati in serata, i tre scomparvero.

La carcassa bruciata dell’auto fu rinvenuta in una palude. Nelle indagini fu coinvolto l’FBI, con personale interessamento di Robert Kennedy e del presidente Lyndon Johnson. Quarantaquattro giorni dopo la scomparsa, i cadaveri furono ritrovati, grazie a un informatore, sotto una diga di terra in una fattoria privata: a Schwerner e Goodman era stato sparato un solo colpo al cuore, mentre l’afroamericano Chaney fu colpito tre volte, dopo essere stato picchiato.

Nel dicembre ‘64 il Dipartimento di Giustizia pensò di avere abbastanza informazioni per agire e autorizzare 19 arresti, tuttavia il giudice federale William H. Cox, ardente segregazionista, annullò la messa in stato d’accusa, sostenendo che non si trattasse di un crimine contro gli USA e che un caso del genere non competesse alla giurisdizione della sua corte. L’iter giudiziario poté riprendere solo grazie all’azione della Corte Suprema, che nel marzo ‘66 annullò la decisione di Cox: gli uomini del Ku Klux Klan non furono chiamati a processo con l’accusa di omicidio ma con quella di “cospirazione atta alla violazione dei diritti civili”, riconoscendo la competenza della giurisdizione federale.

Quando il processo “United States versus Cecil Price et al” iniziò, erano trascorsi oltre tre anni dal triplice omicidio. A rappresentare gli USA fu il procuratore generale presso il Dipartimento di giustizia per i diritti civili, l’avvocato John Doar, già molto attivo ai tempi della campagna “Freedom Ride” del ’61, mentre a presiedere la corte fu lo stesso giudice Cox; gli avvocati difensori ostacolarono in ogni modo la selezione di giurati afroamericani.

Il processo si aprì il 9 ottobre ‘67 a Meridian in un’atmosfera surreale, tutta l’opinione pubblica dello stato del Mississippi parteggiava per gli imputati, John Doar e i rappresentanti dello stato federale furono costantemente messi sotto pressione; furono appese bandiere confederate negli edifici antistanti il tribunale e gli abitanti furono visibilmente infastiditi da questo evento che stava turbando e in qualche modo cambiando il loro mondo. Doar fece un discorso introduttivo rivolto ai dodici giurati:

«Membri della giuria, questo fu un piano freddamente calcolato ed eseguito a sangue freddo. Tre uomini, poco più che ragazzi, furono le vittime. La lucidità con cui fu eseguito fu pari alla imperfezione con cui fu organizzato. I partecipanti all’omicidio si credettero salvi, salvi perché il crimine venne commesso nella contea del Neshoba. Membri della giuria, ebbene sì, si sbagliarono. Non c’è segreto di una portata del genere che possa essere mantenuto, in nessun angolo della terra, neanche in Neshoba».

John Doar sfruttò la possibilità di avere come testi i tre membri dei White Knights Wallace Miller, Delmar Dennis e James Jordan (unico testimone oculare dell’omicidio) e la confessione, poi ritrattata, dell’imputato Horace Doyle Barnette.

Nell’arringa finale, dopo aver puntato il dito contro il vice-sceriffo Price, accusandolo di aver abusato della sua autorità, del carcere della contea, della sua automobile di servizio e della sua pistola per facilitare l’assassinio dei tre giovani, Doar si rivolse ai giurati:

«Signori della giuria, questo processo è importante per gli Stati Uniti, per gli imputati, ma ancora di più lo è per lo stato del Mississippi. Le parole che ho pronunciato io, quelle che hanno pronunciato gli altri avvocati saranno dimenticate ma quello che farete voi dodici cittadini oggi sarà per sempre ricordato. […] Se non troverete questi uomini colpevoli significherà che dichiarerete che la legge della contea di Neshoba è la legge del Mississippi».

I risultati andarono oltre ogni più rosea aspettativa: sette imputati furono dichiarati colpevoli, tra i quali Cecil Price (nessuno scontò più di sei anni di carcere); furono assolti in otto, tra cui lo sceriffo Lawrence A. Rainey, mentre per tre imputati i giurati non riuscirono a raggiungere un accordo, tra loro il predicatore Edgar Ray Killen: si disse che uno dei giurati rifiutò di condannare una persona di chiesa.

Negli anni successivi, il reporter investigativo Jerry Mitchell continuò ad approfondire il caso, contribuendo alla scoperta di nuove prove e testimoni; le sue indagini e il lavoro dell’insegnante Barry Bradford e dei suoi studenti, in particolare un’intervista col predicatore Killen, produssero una nuova attenzione dei media nazionali e una forte pressione dell’opinione pubblica sul Congresso, che condusse a un nuovo processo, oltre quarant’anni dopo i fatti.

Nel 2005, una giuria condannò Killen in quanto reclutatore e organizzatore del piano che portò all’assassinio dei tre attivisti. Il predicatore, all’epoca ottantenne, fu condannato a tre pene di 20 anni di reclusione da scontare consecutivamente e morì in carcere.

Il fratello di Chaney dichiarò:

«Non sono ancora arrivato allo stadio del perdono, ma a quello della comprensione. Capisco le forze che determinano questi omicidi e alcuni dei moventi di queste persone: il primo fattore motivante è la paura».

Il presidente Barack Obama ha attribuito a Schwerner, Chaney e Goodman la massima onorificenza civile americana, la “Medaglia della Libertà”.

Silvia Boverini

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Fonti:

A. Portelli, “Aperta la diga dell’antifascismo dilaga l’odio razziale”, il Manifesto 6/2/2018;

www.it.wikipedia.org;

C. Maracci, “Mississippi Burning, la dura legge del Ku Klux Klan”, www.fattodiritto.it;

“Mississippi burning”, https://storiasite.wordpress.com