La profezia di John Doe

Usciva il 3 maggio del 1941 nelle sale cinematografiche di tutti gli Stati Uniti Arriva John Doe, diretto da uno dei registi di maggiore successo commerciale e critico dell’epoca, l’italo-americano Frank Capra [1]. Il regista e il suo sceneggiatore di fiducia, Robert Riskin, entrambi produttori del film, si erano avventurati in un’opera piuttosto rischiosa, non solo per gli alti cosi produttivi, dovuti alle impegnative scene di massa e alla presenza di star quali Gary Cooper e Barbara Stanwick, ma anche sul piano politico. Tuttavia, Capra e Riskin credevano fortissimamente nel progetto e ne sentivano tutta l’urgenza.

Arriva John Doe e la situazione politica internazionale

Arriva John Doe era stato scritto e girato mentre in Europa e in Africa infuriava, da circa 2 anni, la Seconda Guerra Mondiale e l’Inghilterra da sola fronteggiava le armate di Hitler e Mussolini, che ormai dominavano l’intero continente europeo. Fino a quel momento il governo degli Stati Uniti, guidato dal democratico Franklin Delano Roosevelt, al suo terzo mandato (era stato eletto presidente degli Stati Uniti la prima volta nel 1932 ed era stato rieletto nel ’36 e poi di nuovo nel ‘40), era bloccato fin dall’agosto ’35 dalla mozione Pittman sulla neutralità e dall’insediamento in posti chiave di senatori repubblicani e di democratici conservatori (soprattutto degli Stati del Sud) determinati a tenere gli USA fuori dal conflitto, così come la maggioranza degli americani. Capra e Riskin, perciò, pur preoccupati al pari di Roosevelt e della minoranza degli americano liberal e progressista  dal dilagare dell’ideologia fascista nel mondo, sapevano che la maggior parte degli americani non avrebbe gradito un’opera apertamente interventista e antifascista. Decisero così di collocarsi sulla scia delle precedenti produzioni realizzate insieme, che avevano ottenuto un notevole apprezzamento da parte del pubblico e della critica.

John Doe e i suoi predecessori impegnati nella lotta contro il potere

Nel corso degli anni Trenta Frank Capra si era piazzato alle vette del box office con diverse pellicole molto apprezzate anche dalla critica. Tra Accadde una notte (1934), scritto da Riskin, che era stato premiato con ben 5 Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista – Clark Gable – e miglior attrice protagonista – Claudette Colbert) e Orizzonte Perduto (1937), premiato per il montaggio e la scenografia, aveva realizzato la sua prima opera di schietto contenuto sociale: È  arrivata la felicità (1936). Il primo dei suoi film interpretato da Gary Cooper, nei panni di Longfellow Deed, era anche la prima pellicola che eleggeva a protagonista un cittadino comune in lotta con le manovre losche di plutocrati e politici corrotti. A questo, film che gli aveva fruttato un altro Oscar per la regia, erano seguite due opere con James Stewart, sempre sceneggiate da RiskinL’eterna illusione (1938) e Mr. Smith va a Washington (1939) –, di cui soprattutto la seconda proseguiva il discorso avviato da È  arrivata la felicità. Anche qui il protagonista, Jefferson Smith, era un uomo comune che diventa eroe per caso nel combattere da solo per il bene dell’intera comunità, sorretto solo dalla propria forza morale, contro esponenti corrotti e malintenzionati del potere politico e finanziario. Loschi e avidi figuri, determinati, prima a strumentalizzare la sua goffa eccentricità e la sua ingenua timidezza, poi a distruggerlo agli occhi della collettività. Così, Capra e Riskin, quando si misero all’opera per Arriva John Doe, decisero che avrebbero concluso la trilogia sociale avviata nel ’36, ma spostandone un po’ l’asse.

Il maggiore rilievo politico di Arriva John Doe

Se Capra e Riskin erano consci dei rischi commerciali legati alla produzione di un’opera dichiaratamente antifascista, erano, però, anche persuasi del fatto che il pubblico avrebbe risposto positivamente ad un film, che, come i precedenti successi, avesse posto al centro un altro uomo comune. John Doe – che è l’equivalente del nostro Mario Rossi -, quindi, doveva essere soltanto un po’ più emarginato di Deeds e Smith, e come loro alle prese con l’opportunismo, la corruzione e l’immoralità di un potente. Ma, in tal caso, questo era incarnata non da un finanziere o da un politico qualsiasi, ma da un magnate dell’editoria (Mr. Norton, interpretato da Edward Arnold), intenzionato a diventare presidente degli Stati Uniti, con l’inganno e, soprattutto, con la manipolazione delle masse. Non contava molto, dunque, per i due autori delineare precisamente i contenuti fascisti del suo progetto politico. Era sufficiente, ai loro fini, esplicitare che si trattava di un programma di destra decisamente autoritario, ma rivestito di populismo.

Il lato oscuro del populismo denunciato da Arriva John Doe

Il populismo era sembrato essere proprio il credo di Capra e di Riskin, non solo in È  arrivata la felicità e Mr. Smith va a Washington, ma anche nelle altre pellicole di quel decennio [2]. Con Arriva John Doe, tuttavia, anche il populismo veniva messo in discussione. Sull’idealismo dei loro film degli anni Trenta, con il loro lieto fine rassicurante e liberatorio, scendeva ora il sipario. Arriva John Doe mostrava senza mezze misure come il populismo, anche quello più ingenuo, politicamente neutro e benintenzionato, contenesse al proprio interno la possibilità di essere strumentalizzato e pervertito alla stessa stregua delle visioni politiche organizzate e sviluppate dai partiti. In particolare, denunciavano Robert Riskin e Frank Capra, il populismo si prestava ad essere strumentalizzato dalla destra, specie da quella più reazionaria e filofascista.

Le ombre di Arriva di John Doe sul binomio populismo – onestà

L’aspetto più sinistramente pessimista di Arriva John Doe, quello che probabilmente ha fatto mancare all’opera il successo commerciale e critico cercato dai due autori-produttori, però, non risiede soltanto nell’avvertimento sui rischi che anche il più idealistico movimento populista possa essere inventato e manovrato da chi aspira al potere, per realizzare i propri interessi imprenditoriali e porre fine al sistema liberal-democratico. Ciò che rende profetico quel film è, da un lato, l’allarme che lancia sul falso mito dell’onestà della gente comune, dall’altro, il suo porre in dubbio l’affidabilità del buon senso del popolo, mostrandone l’incapacità di riconoscere chi, blandendoli, intende servirsi dei sentimenti collettivi [3].

Questo risvolto, oggi, in Italia, non meno che negli USA e in altri parti d’Europa, renderebbe una pellicola come Arriva John Doe un film particolarmente scomodo, forse ancor più di quanto non lo fosse ai tempi della sua uscita.

Il volto oscuro della folla

Neanche il popolo, l’insieme degli uomini comuni, dunque,  viene particolarmente lusingato in questo film. Le masse dei John Doe e dei Jane Doe che aderiscono a quel movimento, perché sembra ad essi il primo interlocutore collettivo in cui saranno protagonisti diretti, non brillano certo per perspicacia. Lusingati da un oratore (“Long” John Willough – John Doe) che dice loro che essi sono i veri buoni, i depositari autentici dei valori dell’onestà e dell’altruismo, non si chiedono chi e perché finanzi e gestisca una così complessa macchina organizzativa e propagandistica. Ai loro occhi il movimento è intrinsecamente affidabile non solo in quanto predica la solidarietà, ma perché quanto mai distante dalla politica fin lì conosciuta. Anzi, rifiutandosi di scrutare con occhio critico l’impiego capillare e mastodontico di tutti i mezzi di comunicazione possibili da parte del movimento dei Circoli di John Doe, questo gli pare essere la quintessenza dell’onestà. E perciò d’istinto lo contrappongono positivamente alle meschinerie dei partiti tradizionali. Ai cui esponenti i membri dei Circoli di John Doe non consentono di partecipare. Né i politici dei due maggiori partiti si permettono di mettere in discussione pubblicamente la purezza di quel movimento, essendo consci che il farlo significherebbe, in quel momento, commettere un suicidio politico. Come fa notare un personaggio in quel movimento può riconoscersi il 90% della popolazione. E questa può diventare la percentuale dei voti che potrebbe ottenere alle prime elezioni. Anzi, più che una possibilità, l’attesa di quel successo elettorale è esattamente lo scopo per cui quel movimento è stato inventato, organizzato e finanziato.

La pericolosamente manovrabile simbiosi tra il movimento populista dei circoli di John Doe e gli iscritti

Frank Capra, peraltro, ebbe l’abilità, anche, scegliendo un interprete come Gary Cooper, di sapere, grazie a pochi impercettibili passaggi, farci cogliere come il movimento dei Circoli di John Doe sia caratterizzato dalla creazione di un legame emotivamente fortissimo tra il suo portavoce, Gary Cooper (in realtà, un burattino i cui fili sono tirati dall’imprenditore Norton), e i suoi aderenti. Vi è tra Cooper e i membri dei Club una sorta di entusiastica e acritica identificazione totale, in cui ciascuno si specchia e si lusinga nell’altro. Questa simbiosi è la premessa necessaria per i fini, prima, elettorali e, poi, politici, che l’imprenditore Norton persegue. Poiché, assicurando la permanenza dell’emotiva adesione di massa, consentirà di potere poi condurre quegli elettori laddove l’opportunismo politico e le ambizioni del suoi vero padrone vorranno.

Non stupisce, dunque, che Frank Capra, per tutta la vita un convinto repubblicano conservatore, sia tornato a denunciare i rischi della demagogia populista 7 anni dopo, in pieno maccartismo (sul maccartismo si può vedere il post A cavallo della paranoia). Realizzando Lo Stato dell’Unione (1948), affiderà ad un attore che, come Gary Cooper, era per gli spettatori sinonimo di onestà, Spencer Tracy (ne abbiamo parlato nella rubrica Corsi e Ricorsi, nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First), il ruolo di un candidato repubblicano alle presidenziale, scelto e manovrato dai cinici vertici del partito, per il suo appeal populista.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Arriva John Doe era stato proiettato in anteprima il 12 marzo a New York City, Los Angeles e Miami. Uscirà in Italia soltanto nel 1948.

[2] Negli anni del New Deal di Roosevelt, anzi del secondo New Deal, decisamente più progressista del primo, i film di Frank Capra non erano un’esaltazione delle politiche economico-sociali sviluppate dal Partito Democratico al potere, con la loro complessa attuazione organizzativa, che orientava, smistava e addirittura creava lavoro. La visione capriana rinviava piuttosto ad una sorta di Old Deal: una celebrazione dell’iniziativa individuale, non intralciata dalla macchina governativa, che sapeva tradursi spontaneamente in solidarietà sociale e reciproca comprensione. Certamente gli stava a cuore la realtà sociale, come confermò nel ’71, nella sua autobiografia, Il nome sopra il titolo.

«Volevo cantare le canzoni degli operai oppressi, degli sfruttati, degli afflitti, dei poveri. Volevo stare al fianco degli eterni sognatori e condividere l’offesa di tutti coloro che erano disprezzati per motivi di  azza e di censo. Soprattutto, volevo combattere per le loro cause sugli chermi del mondo intero».

Però, in tutti i suoi film guardava con sospetto programmi e ideologie. La sua era la fiducia cieca nell’integrità morale degli sfruttati e degli oppressi, cioè, del pubblico dei suoi film, che egli senza sforzo riusciva a far sentire apprezzato e rispettato.

[3] Infatti, i due poveri diavoli protagonisti, l’homeless “Long” John Willough, alias John Doe (Gary Cooper), e la giornalista Ann Mitchell (Barbara Stanwick), non possono affatto dirsi del tutto integerrimi, essendosi entrambi lasciati comprare e manipolare da Norton. Né può essere definito spontaneo e puro il movimento dei Circoli di John Doe, anche se coloro che vi aderiscono lo ritengono tale. Anzi, paradossalmente, proprio nel momento in cui il personaggio di Cooper tenta di di dire la verità, smette di essere creduto e viene disprezzato dalla folla. Solo uno sparuto gruppo di seguaci, indisposti a rinunciare all’idealizzazione originaria, gli resterà accanto, assicurando un happy end, assai poco consolatorio.

Fonti

La visione del film

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. II., Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000

La mediazione familiare e le ochette

Mia moglie è una persona veramente immatura. L’altro giorno, per esempio, mentre mi facevo il bagno, è entrata e, senza motivo, mi ha affondato tutte le ochette! (W. Allen)

Citiamo questa battuta di Woody Allen a proposito del conflitto e della sua gestione, perché evidenzia come spesso nelle relazioni conflittuali, gli atteggiamenti dei protagonisti siano sostanzialmente simmetrici. In altre parole, quando siamo coinvolti in un conflitto capita che rileviamo nella condotta dell’altro evidenti segni di irrazionalità (affonda le nostre ochette senza apparente giustificazione), senza avvederci che le sue azioni non sono meno razionali delle nostre (non è esattamente sinonimo di comportamento adulto, giocare nella vasca da bagno con delle ochette finte).

L’inconsapevole specularità degli atteggiamenti conflittuali

La battuta di Woody Allen, poi, ha una particolarità perché rimanda non al conflitto in generale, ma a quello interno alla relazione coniugale. Nella vita di tutti i giorni, come nella gestione professionale dei percorsi di mediazione familiare, capita, in effetti, di imbattersi nella dinamica delle ochette. Anzi, forse, proprio nel conflitto di coppia è più immediato rilevare come sovente capiti che rimproveriamo all’altro qualcosa di molto simile a ciò che facciamo anche noi. E, in quel contesto relazionale, è ancor più frequente che noi non si sia assolutamente disposti a rendercene conto. Anzi, quando il nostro conflitto di coppia si è fatto profondo e lacerante, al punto che la fiducia e la stima sono ormai uno sbiadito e perfino un po’ scomodo e sgradevole ricordo, “l’aggressione” dell’altro alle nostre ochette, ci risulta intollerabilmente lesivo. In tali situazioni consideriamo la condotta altrui, in realtà, non così diversa dalla nostra, come rivelatrice della presenza nell’altro di un difetto caratteriale, di una tara morale, di una inadeguatezza psicologica, ecc. E non c’è posto nella nostra mente per ospitare il pensiero che l’affondamento delle nostre ochette non è, in realtà, così gratuito.

Il mediatore familiare e il valore soggettivo delle “occhette”.

La mediazione familiare ha spesso a che fare con dinamiche conflittuali in cui i membri della coppia mettono in gioco aspetti dolorosi e pesantissimi, ma che, a prima vista, sembrano essere soltanto delle ochette, ancora galleggianti o già affondate, in una vasca da bagno. Qualcosa di non tanto dissimile, talora, si verifica anche nella gestione di conflitti collocati in altri ambiti relazionali. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, a quelli tra vicini di casa, tra colleghi di lavoro, come anche quelli in ambito sanitario.

Tra i compiti del mediatore familiare, come del mediatore dei conflitti negli altri contesti, incluso quello della mediazione penale, non rientra il far sentir gli attori del conflitto giudicati come immaturi per il solo fatto di essere in conflitto – cioè di prendersela appunto per quattro stupide ochette finte (abbiamo sviluppato questo aspetto in diversi post della rubrica Riflessioni, tra i quali La mediazione come contenimento del timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere in conflitto ). Né rientra tra le sue mansioni il dare ad essi l’impressione di sottovalutare e sminuire i loro vissuti (se n’è parlato anche qui).

Quindi, è importante che il mediatore sappia che anche le ochette possono non essere solo delle ochette.

Alberto Quattrocolo

 

1997, muore Paulo Freire, ideatore della “pedagogia degli oppressi”

Non è possibile stare nel mondo senza fare storia, senza essere da essa plasmati, senza fare cultura, senza ‘trattare’ la propria presenza nel mondo, senza sognare, senza cantare, senza fare musica, senza dipingere, senza prendersi cura della terra, delle acque, senza usare le mani, senza scolpire, senza fare filosofia, senza punti di vista sul mondo, senza fare scienza, o teologia, senza timore davanti al mistero, senza imparare, senza insegnare, senza idee di formazione, senza fare politica.

Il 2 maggio 1997 muore per un attacco cardiaco Paulo Freire, pedagogista e teorico dell’educazione. Settantacinque anni dedicati “agli straccioni di ogni parte del mondo” per liberarli dall’oppressione attraverso l’educazione, intesa come pratica di libertà: idee maturate attraverso l’esperienza in Pernambuco, regione del Brasile che all’epoca aveva quindici milioni di analfabeti (su una popolazione di 25 milioni), approfondite durante la prigionia politica e l’esilio. Freire risveglia negli oppressi la coscienza del proprio valore, mette a punto un rivoluzionario metodo psicosociale e lo sperimenta sul campo: nel 1962, in soli 45 giorni, alfabetizza trecento tagliatori di canna da zucchero ad Angicos, nello stato di Rio Grande do Norte.

È un risultato sorprendente e il ministro dell’Istruzione lo chiama a coordinare il programma di alfabetizzazione nazionale, avviato nei primi mesi del ’64: con l’appoggio del governo, delle correnti politiche di sinistra e della Chiesa, nascono più di ventimila nuclei di alfabetizzazione in tutto il Paese, una rivoluzione senza precedenti. Gli educatori entrano nel mondo e nel linguaggio degli studenti e trovano con loro le parole generatrici – ad esempio, favelas – in grado di esprimere emozioni e realtà del quotidiano, in modo che discutendo di quelle parole gli allievi possano riconoscere la loro stessa vita; scomponendole e ricomponendole, trovano i fonemi fondamentali della lingua, con cui poter poi formare tutte le altre parole. Si costruisce così un percorso di apprendimento basato sul dialogo, inteso come strumento conoscitivo reciproco.

Il metodo Freire insegna agli adulti a leggere e scrivere in 40 ore (“chi ha fame ha fretta”, diceva), ma soprattutto a capire meglio il mondo, partendo dalla constatazione che un analfabeta che non conosca le ragioni del suo analfabetismo, anche se comincia ad acquisire nozioni, ritornerà all’analfabetismo: per questo l’educazione è anche educazione politica.

Ma alfabetizzare gli adulti significa anche far conquistare loro il diritto al voto. E così, nonostante il fondamento francescano, la sua pedagogia è ritenuta eversiva e, dopo il colpo di stato militare del ’64, Freire finisce in carcere per settanta giorni. Il nuovo governo abolisce il suo metodo educativo.

Dopo la prigionia, il pedagogista va in esilio in Bolivia, e poi, a causa del colpo di Stato, in Cile, dove lavora per cinque anni presso l’Istituto cileno per la Riforma Agraria e concepisce la sua opera più nota, la “Pedagogia degli oppressi” (1968), tradotta in più di 20 lingue ma pubblicata in Brasile solo nel ‘74. Nel ‘69 gli è offerto un posto di visiting professor all’Università di Harvard, in seguito lavora a Ginevra come consigliere educativo speciale del Consiglio Ecumenico delle Chiese e quindi si occupa della riforma educativa nelle colonie portoghesi in Africa, in particolare in Guinea Bissau e Mozambico, dove, per dieci anni, lavora all’educazione alla libertà dopo il colonialismo e scrive “Pedagogia in cammino, lettere dalla Guinea”.

La figura di Paulo Freire non può essere scollegata dalla realtà del Brasile a partire dagli anni Sessanta, dalle comunità di base e dal concetto di coscientizzazione. La sua esperienza umana, educativa e pedagogica prende le mosse da un’esigenza imprescindibile di concretezza, dalla necessità di un rapporto stretto e vitale con la realtà, fatto innanzitutto di ascolto, attenzione, conoscenza.

Il suo lavoro fonda la pedagogia critica e contribuisce a una filosofia dell’educazione ispirata a Platone tanto quanto ai pensatori moderni marxisti e anticolonialisti. Di fatto, la “pedagogia degli oppressi” può essere letta come uno sviluppo de “I dannati della Terra” di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che non fosse semplicemente un’estensione della cultura del colonizzatore.

L’educazione è concepita per la liberazione, come prassi trasformatrice, un atto organizzato collettivamente. Freire sottolinea la differenza fra prendere coscienza (atto intellettuale) e coscientizzazione (che implica un coinvolgimento più profondo). Autentico umanista, insiste sulla necessità di una nuova razionalità bagnata di emozioni, su una concezione della conoscenza che non separi aspetti cognitivi ed affettivi. Per questo l’educazione deve partire da una migliore conoscenza di ciò che già sappiamo, leggendolo non solo con gli occhi, ma con tutti i sensi: si tratta di conoscere per cambiare, aprendo la strada a una società della cittadinanza, aperta, libera.

Freire denuncia a più riprese “la realtà brutale” in cui l’autentica vocazione umana viene negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nella violenza degli oppressori, in cui prevale a volte un ordine ingiusto, altre volte la “falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria”, altre ancora “il potere invisibile dell’addomesticamento alienante”, la “burocratizzazione della mente”, uno stato di estraniazione, di conformismo dell’individuo, di accomodamento. Comunque, l’errore e l’ingiustizia fondamentale consistono nel vivere la realtà come fatalità, nel guardare “ai fatti come a qualcosa di già consumato, come a qualcosa che è successo perché doveva succedere”, alla “storia come determinismo e non come possibilità”.

All’interno di un regime basato su rapporti di forza, Freire individua i processi di disumanizzazione e prescrizione: la prima riguarda la violazione dei diritti, l’ingiustizia sociale, la fame e la negazione di accesso alla conoscenza, mentre la seconda concerne l’introiezione dei valori degli oppressori, al punto che la percezione di cambiamento è intesa nello svoltare da oppresso in oppressore. Al fine di contrastare i primi due processi, Freire introduce il concetto di “inserzione critica”, fondata sulla presa di coscienza della condizione di uomo come tale e non come cosa o strumento, e sull’educazione problematizzante, intesa come dialogo.

A questo tipo di educazione Freire contrappone quella che definisce “educazione depositaria” (oppure bancaria), così definita perché l’intervento educativo diventa un atto del depositare (come nelle banche), dividendo rigidamente le persone tra coloro che sanno e coloro che non sanno: ai primi spetta comunicare agli altri il frutto del loro sapere, trasmettere loro la sicurezza che credono di possedere, insieme alle norme di comportamento; dai secondi si pretende l’umiltà di imparare, obbedire ed eseguire quanto viene loro detto.

Tale visione, secondo Freire adottata da ogni tipo di dominatore, lascia il mondo esattamente come lo trova, perché riduce l’uomo a un mero esecutore di ordini. L’educazione depositaria perpetua e aggrava l’opposizione oppressore-oppresso, facendosi paladina di una concezione del sapere, della scienza, della storia in possesso soltanto di alcuni, mentre gli altri, la maggioranza, vengono alienati in una condizione di minorità e ignoranza. In questa “cultura del silenzio”, gli uomini, ridotti al mutismo, all’analfabetismo cronico, rimangono “semplicemente nel mondo, e non con il mondo e con gli altri. Uomini spettatori e non ri-creatori del mondo.”.

L’analfabetismo – l’essere senza parola – è una piaga culturale, la cui componente più grave è proprio il mutismo globale di chi non possiede lo strumento essenziale, la parola autentica, che gli permetta di “leggere” il mondo e la storia e di “scrivere” con le proprie mani e con la propria azione qualcosa di nuovo, che contribuisca a dare un nome al mondo stesso: “Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma il diritto di tutti gli uomini.”.

L’educazione comincia dalla consapevolezza che cambiare è difficile, ma è possibile, dalla fattiva sostituzione della “ribellione come denuncia” alla passiva rassegnazione: io, essere umano, “ho il diritto di provare collera, di manifestarla, di averla come motivazione per la mia lotta”. Il metodo di questa “lotta” è soltanto l’educazione autentica, dialogica, democratica, e sue dimensioni esistenziali imprescindibili sono la ricerca e la curiosità, il continuo porsi domande e cercare risposte, in particolare rispetto alla propria realtà di uomini.

In questa prospettiva l’educazione, chiamata a non essere sterile e a-storica ma ad entrare criticamente in dialogo costruttivo con la realtà, con la cultura, non può non farsi “educazione politica”, impegno attivo di ciascuno a “partecipare”, a essere attore protagonista di cambiamento del mondo che gli viene consegnato: gli uomini sono tenuti, attraverso essa, a superare la “schizofrenia storica” che li vuole assenti dal mondo e ad essere veramente “bagnati di realtà”.

Nel 1980, Freire ritorna in Brasile e ricomincia a studiare per cogliere i cambiamenti nel suo Paese. Diventa supervisore per il programma di educazione degli adulti, riceve il premio Unesco per la pace e 29 Paesi in tutto il mondo gli conferiscono la laurea honoris causa. Nell’88 diventa assessore all’educazione nel Comune di San Paolo, mettendo in piedi una grande rivoluzione culturale anche con temi trasversali, come l’eco pedagogia, e lì rimane fino alla morte. La moglie Anna Maria, nel 2007, otterrà le scuse ufficiali dal governo del Brasile per l’esilio a cui era stato costretto. Scuse che il governo ha esteso “a ogni brasiliano analfabeta”.

Silvia Boverini

Fonti:
https://it.wikipedia.org; G. Milan, “Alla scoperta di Paulo Freire nella pedagogia attuale”, http://www.giovaniemissione.it; http://paulofreire.it; B. Buonocore, “Paulo Freire”, http://nuovadidattica.lascuolaconvoi.it; A. M. de Luca, “Paulo Freire, il maestro degli oppressi: un ricordo a vent’anni dalla scomparsa”, www.repubblica.it

Quella festa del primo maggio trasformata nella prima strage della Repubblica

Sul pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, circa 2.000 persone si erano ritrovate per festeggiare il primo maggio del 1947.

Democrazia, pace, terra e libertà

Il regime fascista aveva cancellato questa festa, sostituendola con quella del 20 aprile, il Natale di Roma. Ma la dittatura fascista era finita. La Seconda Guerra Mondiale era finita. Mussolini era morto due anni prima, il 28 aprile del 1945, e il suo cadavere era stato esposto e dileggiato dalla folla il giorno dopo (lo abbiamo ricordato qui, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi). Il 30 aprile si era suicidato Hitler. In Italia, l’anno prima di quel sanguinoso primo maggio del 1947, esattamente il 2 giugno, col Referendum sulla forma di Stato, la maggioranza degli italiani aveva deciso che l’Italia non sarebbe più stata una monarchia, ma una repubblica. Ed erano stati eletti contestualmente i membri dell’Assemblea Costituente deputata a scrivere il testo della nuova costituzione repubblicana. Il 20 aprile del 1947 in Sicilia si erano svolte le elezioni dei membri dell’Assemblea regionale. Avevano votato uomini e donne, visto che era stato introdotto il suffragio universale. Insomma, a prima vista si sarebbe detto che l’incubo era finito. Che si era aperta una nuova fase. Un’era di pace, di libertà e di democrazia. I siciliani avevano eletto i loro legislatori regionali. E aveva ottenuto un successo notevole il Blocco del Popolo (29 seggi su 90, col voto del 32% degli elettori), costituito dall’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti. La Democrazia Cristiana aveva avuto soltanto il 21%, ottenendo 21 seggi. Erano lì, su quel pianoro, il primo maggio, quei circa 2000 siciliani, per festeggiare la vittoria elettorale. Molti di essi, infatti, erano agricoltori e contavano su quella novità politica per uscire dalla miseria e dall’ingiustizia derivante dal sistema del latifondo. La festa, infatti, era anche una manifestazione per la riforma agraria e in particolare contro il latifondismo, visto che, ancora nel ’46, in Sicilia, il latifondo rappresentava quasi il 28% dell’intera proprietà fondiaria contro il 17% della media nazionale [1].

La violenza mafiosa contro politici e sindacalisti di sinistra e contro il Blocco del Popolo nelle elezioni di aprile

Però le elezioni regionali, di cui il primo maggio 1947 quei lavoratori festeggiavano il risultato, non si erano svolte in un clima di legalità e sicurezza. La violenza mafiosa si era palesata con un’intensità non dissimile da quella fascista ai tempi delle elezioni del 1922 e del 1924. E i suoi bersagli erano sindacalisti e politici socialisti o comunisti.

Il terrorismo mafioso contro sindacalisti, politici e militanti di sinistra

Quindici di loro erano stati assassinati dal giugno del 1945 fino a quel primo maggio 1947 [2]. Si trattava di una vera e propria strategia del terrore che prendeva di mira sindacalisti, politici, contadini e operai di sinistra e che si era manifestata anche a ridosso delle elezioni. Il 4 gennaio era stato assassinato il dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (ne abbiamo parlato anche nel post sull’omicidio di Placido Rizzotto: Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi»). Il 17 gennaio era stato trucidato il militante comunista Pietro Macchiarella, mentre altri mafiosi avevano sparato tra i lavorati del Cantiere navale di Palermo.

«Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre»

Salvatore Celeste, capomafia di Piana, al termine di un comizio aveva gridato:

«Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre».

Ciononostante, il 32% dell’elettorato siciliano aveva votato per il Blocco del Popolo, ribaltando il risultato delle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente. In quell’occasione, infatti, la Democrazia Cristiana aveva ottenuto il 33,62% al 20,52%, mentre il PSI e il PCI aveva raggiunto, rispettivamente, appena il 12,25% il 7,91% [3].

Le minacce e gli “avvertimenti” ai manifestanti del primo maggio

Tra i partecipanti alla manifestazione per il primo maggio del 1947 qualcuno ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare una frase premonitrice:

«Partirete cantando, tornerete piangendo».

La stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato una donna, moglie di un esponente qualunquista, aveva avvertito altre donne che intendevano recarsi alla manifestazione a Portella della Ginestra, dicendo loro:

«Stamattina vi finirà male».

A Piana un mafioso si era rivolto ai manifestanti con queste parole:

«Ah sì, festeggiate il primo maggio, ma vedrete stasera che festa!».

La strage del primo maggio a Portella della Ginestra

Nonostante le minacce e gli avvertimenti non si poteva immaginare che qualcuno potesse arrivare a sparare su una folla inerme. Era passato del tempo dai Fasci siciliani e dai massacri successivi. Cose che non si sarebbero ripetute, si pensava. In sostituzione di Girolamo Li Causi, deputato del PCI all’Assemblea Costituente e segretario regionale comunista, un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di parlare alla folla. Dopo pochi minuti dall’inizio del suo discorso, all’improvviso, però, dalle colline circostanti il pianoro, partirono raffiche di mitra. Dapprima si credette che fossero scoppi di mortaretti. Non lo erano. La mascella di una bambina si coprì di sangue. Un bambino cadde colpito alla spalla. Qualcuno si abbatté al suolo senza rialzarsi. Tra questi un uomo con la testa maciullata. Una donna perdeva sangue dal petto crivellato sulla carcassa della sua cavalla. La gente cominciò a correre terrorizzata. Secondo le fonti ufficiali, quelle raffiche ammazzarono 9 adulti e 2 bambini e ferirono altre 27 persone, alcune delle quali morirono in seguito per i proiettili ricevuti. Tra i feriti due restarono invalidi per tutta la vita, una perse la vista e la parola e un altro l’uso della gamba destra. La carneficina durò in tutto un paio di minuti.

Il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra era stata commessa la prima strage dell’Italia repubblicana.

Le reazioni alla strage del primo maggio.

La CGIL reagì alla strage con lo sciopero generale e accusando i latifondisti di tentare di «soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori». Ma l’Ispettore capo di polizia in Sicilia, Ettore Messana, qualificò il fatto come un episodio circoscritto, di carattere locale. In realtà erano state subito fermate 74 persone tra le quali dei noti mafiosi. E all’Assemblea Costituente il giorno dopo la strage del primo maggio, Girolamo Li Causi propose le sue accuse. Se già dopo le elezioni del 20 aprile, disse, c’era stata una campagna a base di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si era intrattenuto con dei mafiosi. Inoltre, denunciò, tra coloro che avevano aperto il fuoco sulla folla, si erano visti dei monarchici e dei membri del partito qualunquista. La sua accusa, però, venne interrotta dalle grida dei qualunquisti e di esponenti della destra presenti in Assemblea, mentre il ministro degli interni, il democristiano, Mario Scelba, sosteneva l’assenza di qualsiasi «movente politico». Secondo il ministro la strage del 1° maggio era stata solo un «fatto di delinquenza». Nei giorni seguenti i fermati vennero rilasciati, mentre l’ispettore Ettore Messana stabiliva che gli autori della strage erano Salvatore Giuliano e i suoi banditi. Nel frattempo, il 13 maggio, Alcide De Gasperi chiudeva il ciclo dei governi di unità nazionale, avviato con la fine della dittatura, cacciando i partiti socialisti e comunisti all’opposizione, mentre in Sicilia il democristiano Giuseppe Alessi dava vita ad un governo regionale, che escludeva il Blocco del Popolo, e si basava sull’appoggio dei partiti di destra oltre che della DC.

Il mistero sui mandanti della strage politica del primo maggio 1947

Nel 1948 Salvatore Giuliano scrisse una lettera all’Unità, in cui dichiarava che lo scopo della strage era di natura politica e alludeva apertamente a suoi rapporti con politici di spicco, incluso il ministro Scelba. Subito dopo molti membri della sua banda furono catturati. Il 5 luglio 1950 il bandito Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano. Il Ministero dell’Interno comunicò che era stato ucciso, la notte precedente, in un conflitto a fuoco con un reparto dei carabinieri. Un articolo su L’Europeo, di Tommaso Besozzi, illustrò contraddizioni e incongruenze di quella versione, indicando, invece, come assassino di Salvatore Giuliano il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, divenuto segretamente, poco prima della morte di Giuliano, un informatore dei carabinieri. Al processo di Viterbo per il massacro del 1° maggio a Portella della Ginestra, Pisciotta si autoaccusò dell’omicidio di Giuliano e accusò anche i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti politici della strage. Dichiarò:

«Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa».

A gennaio del 1954, Pisciotta, detenuto all’Ucciardone, ritenendo di aver subito il carcere solo per avere servito lo Stato, chiese di parlare con il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, per raccontargli la verità sui rapporti tra la banda di Giuliano e le autorità politiche. Scaglione ebbe un primo breve incontro con Pisciotta e lo rassicurò, dicendogli che si sarebbero rivisti dopo qualche giorno. Il 9 febbraio 1954, il giorno prima di incontrare Scaglione, Pisciotta morì avvelenato con un caffè corretto con la stricnina.

Pietro Scaglione verrà ucciso da Cosa Nostra quindici anni dopo.

Alberto Quattrocolo

[1] Già nell’ottobre del 1944, 14 mesi dopo lo sbarco in Sicilia delle forze anglo-americane, che avevano liberato l’isola da quelle nazifasciste, i contadini avevano occupato le terre incolte. L’occupazione era stata legalizzata da Fausto Gullo, il Ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio, nel quale erano rappresentati i partiti antifascisti, dopo vent’anni di dittatura. Gullo, comunista, tentando di rimediare alla povertà diffusa, aveva adottato alcuni decreti per permettere l’occupazione dei terreni non utilizzati e imporre una ripartizione dei raccolti che favorisse gli agricoltori anziché i proprietari, come invece prevedevano le consuetudini fino ad allora vigenti in Sicilia. Poi, però, i contadini siciliani persero questo loro alleato. Finita la guerra, nel Secondo governo di Alcide De Gasperi, Gullo fu sostituito all’Agricoltura dal possidente terriero democristiano Antonio Segni (Gullo prese il posto di Palmiro Togliatti come Ministro di grazia e giustizia).

[2] Andrea Raia (05/08/1944), che a Casteldaccia (Pa) si ribellava alla mafia in nome dei diritti dei contadini. Nunzio Passafiume (07/06/1945), sindacalista che lottava per l’occupazione delle terre in mano alla mafia. Agostino D’Alessandro (11/09/1945), segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Pa). Giuseppe Scalia (25/11/1945), segretario della Camera del lavoro di Cattolica Eraclea (Ag). Giuseppe Puntarello (04/12/1945), dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia di Sicilia (Pa). Gaetano Guarino(16/05/1946), sindaco socialista di Favara e fondatore di una cooperativa agricola. Pino Camilleri (28/06/1946), sindaco socialista di Naro e organizzatore delle lotte contadine. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione (22/09/1946), entrambi contadini ad Alia, in provincia di Palermo, uccisi nel corso di un attentato alla Camera del lavoro. Giovanni Severino (25/11/1946), segretario della Camera del lavoro di Jappolo Giancaxio (Ag). Filippo Forno (29/11/1946), contadino e sindacalista di Comitini (Ag). Nicolò Azoti(23/12/1946), segretario della Camera del lavoro di Baucina (Pa). Accursio Miraglia (04/01/1947), segretario della Camera del lavoro di Sciacca (Ag). Pietro Macchiarella (17/01/1947), militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine. Nunzio Sansone (13/02/1947), militante comunista, impegnato nella lotta per la riforma agraria, a Villabate, in provincia di Palermo. Leonardo Salvia (13/02/1947), impegnato nelle lotte contadine a Partinico (Pa).

[3] L’erosione democristiana fu recuperata dalle liste di destra: il Blocco LiberalQualunquista conquistò infatti 287.698 voti, pari al 14,8 % e 14 seggi; il Partito Nazionale Monarchico ebbe 185.423 voti, cioè il 9,5 %, quindi nove seggi. Il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), invece, ottenne solo 171.470 voti, corrispondente all’8,8 % e a otto seggi.Il PSU (futuro PSDI) ebbe 4 seggi, 3 li ebbero i Repubblicani, e 2 l’Unione Democratica Siciliana. Il Fronte dell’Uomo Qualunque ebbe un solo seggio.

Fonti

Santino Umberto, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, in Manali Pietro (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999

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