Quando Churchill promise lacrime e sangue

Il 13 maggio del 1940, Winston Churchill, nel discorso di insediamento del governo di cui era Primo Ministro, si rivolse ai membri della Camera dei Comuni e al popolo britannico con queste parole:

«Non posso promettervi altro che sangue, fatica, lacrime e sudore. Chiedete, qual è la nostra politica? Rispondo che è condurre la guerra per mare, per terra e nel cielo con tutta la forza e tutto lo spirito battagliero che Dio può infonderci; condurre la guerra contro una tirannide mostruosa che non ha l’eguale nel tetro, miserabile catalogo del crimine umano. Questa è la nostra politica. Chiedete qual è il nostro scopo? Rispondo con una parola sola: vittoria, vittoria ad ogni costo, vittoria nonostante ogni terrore, vittoria, per quanto la strada possa essere lunga e dura. Senza vittoria infatti non c’è sopravvivenza».

Anthony Storr, lo psichiatra e saggista inglese anni dopo, parlando della personalità di Winston Churchill, disse:

«Se fosse stato un uomo di umore costante ed equilibrato non avrebbe mai potuto ispirare la nazione. Nel 1940, quando tutti i pronostici erano contro l’Inghilterra, un leader di giudizio ponderato avrebbe molto probabilmente concluso che eravamo finiti».

 

La voce inascoltata di Winston Churchill e il dilagare del nazismo in Europa

Da circa cinque anni, vanamente, Winston Churchill metteva in guardia i suoi colleghi politici, il popolo britannico e chiunque in Europa e negli USA fosse disposto ad ascoltarlo, sulla pericolosità di Adolf Hitler e sul rischio rappresentato da un’alleanza tra costui e Mussolini.

L’isolamento di Churchill e dei suoi allarmi sulle mire hitleriane prima della guerra

Aveva dato l’allarme quando l’Italia fascista nel 1935 aveva invaso l’Etiopia (all’invasione e alle stragi italiane in Etiopia abbiamo dedicato diversi post su Corsi e Ricorsi), senza ottenere comprensione sui pericoli che aveva segnalato. Aveva inutilmente sollecitato una reazione forte da parte anglofrancese quando, nel 1936, la Germania nazista aveva occupato e rimilitarizzato la Renania. Nuovamente, aveva pubblicamente disapprovato l’accordo, caldeggiato e negoziato dal Primo Ministro britannico Neville Chamberlain, del partito conservatore, firmato a Monaco, nel settembre del ’38, da Gran Bretagna, Italia, Francia e Germania, a spese della Cecoslovacchia, l’unica democrazia esistente nella parte orientale dell’Europa, che veniva lasciato sbranare dalle insaziabili fauci di Hitler [1].

Le proposte inascoltate del Primo Lord dell’Ammiragliato

Quando, il 1º settembre 1939, i tedeschi invasero la Polonia (dopo aver stipulato nel mese di agosto un accordo con i russi, il Patto Molotov-Ribbentrop, in virtù dei quali le truppe sovietiche occuparono anch’esse una parte della Polonia), Winston Churchill, come membro della Camera dei Comuni, sollecitò direttamente e indirettamente il Primo Ministro britannico Neville Chamberlain ad inviare un ultimatum alla Germania [2]. Su pressione della Camera, il Primo Ministro inviò l’ultimatum ad Adolf Hitler per chiedere la cessazione delle ostilità e poco prima invitò Churchill a entrare nel Gabinetto di guerra, di prossima costituzione. Il 3 settembre, scaduto l’ultimatum, la Gran Bretagna e la Francia si trovarono in guerra con la Germania. Quel giorno Chamberlain convocò Churchill nel suo ufficio e gli offrì di ricoprire (nuovamente) l’incarico di Primo Lord dell’Ammiragliato. Il giorno dopo Churchill suggerì caldamente  di attaccare immediatamente le armate tedesche che si trovavano sulla Linea Sigfrido (18.00 fortificazioni, lungo i confini occidentali della Germania, distribuite su una linea di 630 km, che partiva dalla regione di Aquisgrana ed arrivava al confine con la Svizzera), per alleggerire la pressione tedesca sui polacchi, ma non gli venne dato ascolto. I governi del Regno Unito e della Francia mantennero sostanzialmente inerti i loro eserciti, permettendo così alle truppe naziste di avanzare indisturbate in Europa orientale. Come correttamente temeva Churchill, questo atteggiamento anglofrancese alimentava la convinzione di Hitler che le potenze occidentali non volessero davvero combatterlo.

Winston Churchill: «Era come se tutta la mia vita fosse stata una lunga preparazione a quel momento»

Anche un altro, non meno importante, suggerimento di Churchill venne respinto: minare le acque territoriali della Norvegia per bloccare l’afflusso di materie prime, all’industria bellica tedesca. Ancora nel febbraio del 1940, il Gabinetto si oppose a questa proposta. E, come aveva previsto Churchill, Hitler se ne avvantaggiò. Comprendendo che la Gran Bretagna intendeva occupare la Norvegia per tagliare alla Germania quell’afflusso di materie prime, aveva predisposto l’invasione di quel Paese e le sue armate, in poche settimane, occuparono la Danimarca e la Norvegia.

Il fallimento norvegese sancì la totale disintegrazione della credibilità politica di Chamberlain. Nel dibattito alla Camera laburisti, liberali e conservatori esplicitarono la loro radicale disapprovazione sul modo con il quale veniva condotta la guerra [3].  Chamberlain, tuttavia, non presentò subito le dimissioni al re, Giorgio VI. Comunicò, invece, al sovrano che intendeva formare un governo di coalizione che comprendesse anche il Partito Laburista [4].

Quel pomeriggio, il leader laburista Clement Attlee fece sapere che avrebbe negato qualsiasi supporto a un governo guidato ancora da Neville Chamberlain. Costui, durante un incontro con Halifax e Churchill, disse che avrebbe raccomandato al re di nominare Churchill come Primo Ministro. Nelle prime ore del mattino del 10 maggio Giorgio VI convocò Churchill a Buckingham Palace.

«Suppongo che non sappiate perché vi ho fatto venire», disse il re sorridendo. «Maestà, non riesco davvero a immaginarlo», fu la risposta di Churchill. Il re rise e gli chiese di formare il nuovo governo. Churchill accettò e comunicò a Giorgio VI i nomi di coloro che intendeva inserire nel nuovo governo. Tra questi vi erano 4 laburisti, incluso il loro leader Clement Attlee [5]. In seguito confidò «Era come se tutta la mia vita fosse stata una lunga preparazione a quel momento».

Winston Churchill: «Vi prometto soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore»

Nella primavera del 1940 la Gran Bretagna era ad un centimetro dal baratro. L’Europa, invece, stava già sprofondando dentro quasi tutta quanta. La civiltà stessa era pressoché finita. Dilagavano ad occidente, dopo aver divorato la parte orientale dell’Europa, le armate di Hitler, cui presto si sarebbero unite quelle di Mussolini, il quale aveva già deciso a quel tempo di cessare la neutralità dell’Italia e di entrare in guerra contro la Francia e l’Inghilterra, al fianco della Germania [6].

Quel pomeriggio del 13 maggio Churchill e gli altri membri del nuovo governo erano quanto mai angosciati ed erano tutti concordi sul fatto che non vi fosse motivo per edulcorare l’amarissima verità. Perciò, Churchill esordì nella prima riunione con i suoi ministri dicendo «Vi prometto soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore». Queste parole, come si è scritto in apertura, furono pronunciate anche nel suo discorso alla Camera dei Comuni. Ma in questa occasione Churchill dichiarò anche:

«Mi assumo questo compito con ottimismo e speranza. Sono certo che la nostra causa non sarà lasciata cadere dagli uomini. In questo momento mi sento autorizzato a chiedere l’aiuto di tutti e vi dico: “Venite, dunque, procediamo insieme unendo le nostre forze”».

Quando tornò a Downing Street, il nuovo Primo Ministro seppe che le forze tedesche stavano penetrando sempre più profondamente in Olanda, Belgio e Francia.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Scrivendo a Lord Moyne, poco prima che il patto di Monaco, che avrebbe smembrato la Cecoslovacchia a beneficio del Terzo Reich, Churchill aveva lucidamente analizzato e previsto quanto sarebbe accaduto di lì a poco:

«Sembra che ci troviamo di fronte alla penosa alternativa tra guerra e vergogna per avere trascurato la nostra difesa e gestito male il problema tedesco negli ultimi cinque anni. Ho la sensazione che sceglieremo la vergogna, per ritrovarci poco dopo in guerra in condizioni ancora più avverse di oggi».

Churchill ebbe l’amarissima consolazione di sentirsi dare ragione un giorno dopo l’altro dal succedersi dei fatti esattamente come egli li aveva previsti.

[2] Nel marzo del 1939, in violazione degli accordi di Monaco, Hitler aveva invaso la Cecoslovacchia (su questa rubrica abbiamo dedicato a quest’aggressione il post 1939, invasione tedesca della Cecoslovacchia), annettendola al Reich, e Churchill, all’epoca semplice deputato, aveva scritto al Primo Ministro inglese, Neville Chamberlain, che quegli accordi aveva caldeggiato e firmato, invitandolo a predisporre le difese antiaeree sul territorio britannico. Il 7 aprile, quando l’Italia fascista aveva invaso l’Albania (abbiamo ricordato questa occupazione nel post In Albania non portammo ordine, giustizia e pace), Churchill aveva colto un altro inquietante segnale sulla convergenza delle mire espansionistiche e sull’inestinguibile e narcisistica bramosia dei due dittatori fascisti. Così, pur essendo inesorabilmente anticomunista, sostenne la necessità di coinvolgere l’Unione Sovietica in un sistema di deterrenza internazionale antinazista.

[3] Churchill, invece, in nome della lealtà dovuta da un ministro al proprio governo, difese Chamberlain. Lo aveva avversato con asprezza prima e dopo che aveva firmato il patto di Monaco, aveva denunciato gli aspetti catastrofici del suo ostinato tentativo di accordarsi con il dittatore nazista, ma aveva sempre riconosciuto che Chamberlain era in buona fede e che davvero era convinto di riuscire, con la sua politica accomodante vero Hitler, a preservare la pace. E non intendeva colpirlo alle spalle.

[4] Nel caso in cui i laburisti avessero posto la condizione che egli lasciasse la carica, Chamberlain disse al re che avrebbe voluto che a subentrargli fosse Lord Halifax, non Churchill. Quando il 9 maggio la notizia sulle intenzioni di Chamberlain circolò Lord Salisbury, disse: «Nel corso della giornata bisogna nominare Winston Primo Ministro». Del resto Halifax fece sapere che non avrebbe potuto accettare l’incarico in quanto, quale membro della Camera dei Lord, non avrebbe potuto partecipare ai dibattiti alla Camera dei Comuni

[5] Come primo atto Winston Churchill scrisse a Chamberlain per ringraziarlo del suo supporto.

[6] Temendolo, ma non volendo sprecare la minima possibilità di poter dissuadere il dittatore italiano dal gettarsi nella mischia, Churchill, il pomeriggio del 13 maggio accolse il suggerimento di Halifax, di fare un appello a Mussolini. Dunque, scrisse al Capo del Governo italiano:

«È troppo tardi per impedire che scorra un fiume di sangue tra il popolo inglese e quello italiano? L’Inghilterra andrà avanti fino in fondo, anche da sola, come ci è già accaduto, e ho valide ragioni per ritenere che verremo aiutati in misura crescente dagli Stati Uniti, o meglio da tutta l’America».

Fonti

Martin Gilbert, Churchill, Arnoldo Mondadori Editori S.p.A., Milano, 1992

John Lukacs, Churchill. Visionario, Statista, Storico, Collana Storica, Corbaccio, Milano, 2003

Ernesto Ragionieri, Churchill, Sellerio, Palermo, 2002

L’indipendenza di Kate Hepburn

Avrebbe compiuto 104 anni, oggi, Katharine Hepburn. Era nata il 12 maggio del 1907 ad Hartford, nel Connecticut. Eppure ancora oggi, oltre cent’anni dopo la sua nascita, e a quasi sei anni dalla sua morte (avvenuta il 29 giugno del 2003), resta il simbolo di una donna eccezionalmente moderna, non soltanto al passo coi suoi tempi, ma in anticipo su questi. Combatté le battaglie in cui credeva, nella vita privata, in quella professionale e in ambito culturale, politico e sociale. E lasciò, da questo punto di vista, un’eredità che disperdere sarebbe assai più che un peccato.

La sua era una famiglia assai agiata e colta, appartenente all’élite. Un’élite anche intellettuale. Saldamente inserita nella cerchia progressista e liberale dell’East Coast. Il padre era infatti uno dei più famosi urologi americani. E la madre era stata una “suffragetta”, termine con il quale si indicavano le donne che lottavano per l’affermazione dei diritti delle donne, a partire dall’elementare diritto di voto. Entrambi i genitori sostennero Katharine Hepburn nelle sue aspirazioni artistiche e nello sviluppo della propria emancipazione e realizzazione di sé.  aveva cominciato a recitare già da piccola negli spettacoli “femministi” organizzati dalla madre.

Pur essendo una persona introspettiva, più portata a pensieri profondi e più maturo rispetto dei suoi coetanei, all’esterno mostrava soprattutto una forza e una determinazione, che la facevano apparire aspra o, addirittura, arrogante. Più probabilmente era sofferente e arrabbiata. La sua infanzia, infatti, pur caratterizzata dalla piacevolezza, dai vantaggi e dalle prerogative proprie dei privilegiati, fu funestata dalla tragica morte del fratello. Una morte la cui causa non fu mai chiarita (suicidio o incidente), che graverà per sempre sempre come un oscuro macigno sull’animo della Hepburn.

Dopo la laurea al Bryn Mawr, college frequentato dai rampolli dell’upper-class, a ventiquattro anni sposò un agente di cambio Ludlow Smith. Divorziarono dopo soli cinque anni. Anche sul piano professionale quello non fu un periodo felicissimo. Non riusciva a far emergere stabilmente il suo talento. E ne risentiva sia la sua carriera teatrale.

Poi arrivò l’occasione della sua prima prova cinematografica, Febbre di vivere (1932),  accanto ad un gigante come John Barrymore, e sotto la direzione di George Cukor. Come abbiamo visto nella nota 1 del post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First si trattò della prima di diverse collaborazioni felicissime tra Cukor e la Hepburn. Fin da questa prima pellicola l’attrice ebbe modo di esprimere una personalità forte. Aspetto che risultò ancora più evidente in La falena d’argento (1933), diretto da Dorothy Azner, una delle rarissime registe dell’epoca. Interpretando un’aviatrice emancipata e ribelle, la Hepburn forniva il ritratto di una figura molto simile a se stessa oltre che alla madre. Il film non fu un successo commerciale, ma le recensioni sulla sua interpretazione  furono positive. Al suo terzo film, la Hepburn ottenne la consacrazione come una delle principali attrici hollywoodiane. La gloria del mattino (1933, di Lowell Sherman) le procurò il suo primo Oscar come migliore attrice. Anche in tal caso  il suo era un personaggio contro le regole, una persona diffidente nei confronti dei dettami non scritti della società e insofferente verso le rigidità dei ruoli tradizionali.

Per tutti gli anni Trenta Katharine Hepburn, incarnò, dunque, nelle sale cinematografiche il simbolo della ragazza moderna e libera. E libera era anche nella vita privata. Tanto da potersi permettere una relazione sentimentale, non condizionata da alcun vissuto di soggezione, con Howard Hughes. Costui, peraltro, l’aiutò quando cominciò ad avere problemi con la casa cinematografica per la quale lavorava, la RKO Pictures. Lasciata Hollywood, la Hepburn era tornata al teatro, ottenendo la parte della protagonista nella nuova commedia di Philip Barry, “Scandalo a Filadelfia”. Comprendendo come la parte fosse perfetta per lei, Hughes le comprò i diritti cinematografici. Portando sullo schermo il ruolo dell’ereditiera capricciosa protagonista di Scandalo a Filadelfia (1940), prodotto dalla MGM, interpretato con Cary Grant e James Stewart (che vinse l’Oscar come attore non protagonista) e diretto dall’amico George Cukor, il successo commerciale le arrise nuovamente.

Due anni più tardi avvenne l’incontro della sua vita, quello con Spencer Tracy. E rispetto alla loro storia d’amore si rimanda al post L’attualità e la verità di Indovina chi viene a cena, sempre pubblicato su Corsi e Ricorsi, limitandosi a ricordare che Tracy rappresenterà per venticinque anni non solo uno straordinario partner artistico di Katharine Hepburn, ma anche il grande amore della sua vita.

Se sono ancora moltissimi i ruoli memorabili portati ancora sullo schermo prima dei cinque anni di sospensione per assistere Tracy, gravemente malato, vale la pena porre in rilievo come spicchino in particolare quelli che la videro a confronto con partner maschili di splendida bravura. Da La Regina d’Africa (1951, di John Huston), al fianco di un grande Humphrey Bogart (premiato con l’Oscar), a Improvvisamente l’estate scorsa (1959, di J.L. Mankiewicz), accanto a Montgomery Clift.

Poi arrivò Indovina chi viene a cena (1967, di Stanley Kramer), con cui i due attori ritornarono davanti alla macchina da presa, nonostante le terribili condizioni di Tracy (che morì pochi giorno dopo la fine delle riprese). Il film procurò alla Hepburn il suo secondo Oscar.

Ma l’anno dopo ne arrivò un altro, il terzo, grazie a  (1969, di Anthony Harvey) di nuovo per un ruolo di donne forte e combattiva, Eleonora d’Aquitania, che interpretò duettando con un attore di classe inarrivabile come Peter O’Toole, nella parte di Enrico II.

Quattro Oscar vinti e dodici nomination in quasi cinquant’anni di carriera sono un record che nessun altra star ha mai registrato, ma un primato è costituito anche dalla validità e dalla varietà delle sue collaborazioni con attori come quelli citati e con altri di non minore forza scenica o levatura artistica: da Laurence Olivier a Burt Lancaster, da Yul Brynner a John Wayne, da Paul Scofield ad Henry Fonda. Accanto a Fonda e a sua figlia Jane Fonda, Kate Hepburn recitò infatti in Sul lago dorato (1981, di Mark Rydell), che fruttò tanto a lei quanto al suo partner cinematografico l’Oscar come migliore attore.

Ma la sua carriera non esprime che una parte, la più visibile, della natura anticonvenzionale di Katharine Hepburn. Anche il costante riserbo con cui ha tutelato la sua privacy denunciava la forza e l’indipendenza di questa donna, rispetto agli schemi comportamentali tipici delle celebrità. Al contrario di molte altre validissime attrici dell’altro ieri, di ieri e di oggi, la Hepburn non giocò mai la carta della propria bellezza, ma sempre quella della propria personalità. Se è già visto nei post sopra citati il suo impegno politico progressista e controcorrente (per esempio, antifascista e antinazista, antimaccartista, antirazzista), ma, soprattutto, cercò di infondere nelle donne il coraggio di avere fiducia in se stesse e di non lasciarsi condizionare dal ruolo imposto loro da una società testardamente maschilista. Del resto, affermò:

Se rispetti tutte le regole, ti perdi tutto il divertimento.

Alberto Quattrocolo

 

Quella giornata particolare

Fu una giornata particolare quella dell’11 maggio del 2016. Quel giorno la Camera dei Deputati approvò in via definitiva la legge sulle unioni civili, la cosiddetta legge Cirinnà. Due giorni prima di quell’11 maggio 2016, il disegno di legge era approdato alla Camera, dopo essere stato approvata al Senato, dopo che il governo aveva posto su questo disegno di legge la fiducia. Anche il 9 maggio 2016 il Consiglio dei Ministri, presieduto da Matteo Renzi, aveva posto la fiducia sul disegno di legge.

Il disegno di legge, approvato dal Parlamento, fu promulgato dal Presidente della Repubblica Italiana il 20 maggio e pubblicato il giorno seguente sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. La legge  entrò in vigore il 5 giugno.

L’iter di approvazione della legge sulle unioni civili: il lavoro della Commissione giustizia del Senato

Con l’avvio della legislatura (la ventisettesima), dal marzo 2013, al Senato la Commissione giustizia aveva iniziato ad esaminare in modo congiunto i disegni di legge di iniziativa parlamentare fino a quel momento presentati. Una prima proposta di testo unificato dei diversi disegni di legge all’esame congiunto della commissione giustizia del Senato era stata depositata a giugno del 2014 dalla senatrice Monica Cirinnà (Pd), nominata relatrice. Era seguita poi una seconda proposta di testo unificato, depositata nel luglio seguente, e una terza era stata depositata nel marzo 2015. Quest’ultima era stata adottata il 26 marzo come testo base per il proseguimento della discussione in commissione giustizia. Fu poi la volta della presentazione degli emendamenti al testo proposto da Monica Cirinnà. Inizialmente questo testo unico avrebbe dovuto portare i medesimi benefici del matrimonio alla coppia che stipula l’unione civile, ma la relatrice Cirinnà decise successivamente di eliminare dal testo ogni riferimento al matrimonio, pur rinviando agli articoli del Codice Civile, che lo disciplinano. In tal modo, questo disegno di legge estendeva il riconoscimento di quasi tutti i benefici riservati al matrimonio (tra cui l’eredità, la pensione di reversibilità e l’adozione del figlio del partner), vietando esplicitamente, tuttavia,l’adozione congiunta da parte della coppia. Si collocava tale disegno di legge sulla scia della legge sulle unioni civili tedesca, che era stata approvata nel 2001. Inoltre, prevedeva che l’unione civile fosse contraibile davanti all’Ufficiale dello stato civile solo da coppie dello stesso sesso. In sede di commissione parlamentare, votarono a favore del testo della Cirinnà il Partito Democratico ed il Movimento 5 Stelle (14 voti). Contro il testo votarono il Nuovo Centrodestra, Lega Nord e Forza Italia (8 voti contrari). Si astenne un senatore di quest’ultimo partito.

Il dibattito parlamentare e la questione di fiducia

Il dibattito sul disegno di legge iniziò in Senato il 2 febbraio 2016. Anche quella fu una giornata particolare, perché pochi minuti prima del primo voto in  aula il Movimento 5 Stelle annunciò la propria indisponibilità a votare la norma con lo strumento del “canguro”. Era, questo, un tipo di percorso, un espediente se si vuole così definirlo, teso a risolvere il problema posto dall’elevato numero di emendamenti, proposti da alcuni senatori, di area cattolica e contrari al disegno di legge, con finalità  ostruzionistiche. Se più della metà degli emendamenti presentati era stata respinta per inammissibilità, durante le votazioni era stata proposto di adottare la cosiddetta “regola del canguro”, per eliminare gli “emendamenti fotocopia” proposti dai contrari alla legge con il fine di ostruire, intasandolo per un tempo impossibile, il percorso della sua approvazione. Nonostante avesse dato rassicurazioni al Partito Democratico e agli attivisti LGBT nei giorni precedenti, il Movimento 5 Stelle si disse contrario al ricorso alla “regola del canguro”. Il Partito Democratico, allora chiese la temporanea interruzione del dibattito parlamentare, essendo mutata la mappa delle forze politiche favorevoli alla proposta di legge. Il Governo, temendo che sarebbero potuti mancare i voti necessari all’approvazione, tentò di raggiungere un accordo politico all’interno della propria maggioranza, essendo svanito il  sostegno alle unioni civili da parte del Movimento 5 Stelle e della Sinistra. Il 23 febbraio presentò, allora, un maxi emendamento che recepiva quasi integralmente il disegno di legge di Monica Cirinnà, al fine di introdurre nell’ordinamento le unioni civili tra persone dello stesso sesso, qualificandole come “formazione sociale specifica”. In tal senso si faceva esplicito riferimento all’articolo 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale“) e non all’articolo 29 (che, invece, si riferisce all’istituto del matrimonio). Il nuovo testo prevedeva, pertanto, diritti e doveri sostanzialmente identici a quelli previsti per il matrimonio, escludendo la stepchild adoption (la possibilità di adozione del figlio naturale del partner) e l’obbligo di fedeltà per le parti dell’unione civile. Su tale testo il Governo pose la questione di fiducia per la sua votazione al Senato nella seduta del 25 febbraio.

Un’altra giornata particolare, settantotto anni prima

Settantotto anni prima Adolf Hitler terminava la sua visita a Roma e salutato Benito Mussolini ripartiva per la Germania. Era stato pomposamente ricevuto alla stazione Ostiense la sera del 3 maggio 1938, poi, scortato da un  lungo corteo di automobili, era partito dal piazzale  (che oggi si chiama piazzale dei Partigiani), alla volta del Quirinale. Il giorno dopo – anche quella fu una giornata particolare -, il Fuhrer fu condotto da Mussolini  nel percorso della visita ufficiale, che includeva il Pantheon e l’Altare della Patria. Qui i due dittatori passarono attraverso cinquemila uomini in divisa: a destra milizie tedesche, a sinistra quelle italiane. venne, quindi, la sfilata su via dei Fori imperiali, definita dai giornali dell’epoca, tutti asserviti al regime fascista, la «riproposizione dei fasti della Roma antica». Nel quartiere di Centocelle, si tenne una manifestazione militare di 50.000  balilla e avanguardisti, poi Hitler presenziò ad un raduno di nazionalsocialisti residenti a Roma alla Basilica di Massenzio. Il Corriere della Sera, ridotto a giornale smaccatamente fascista (lo abbiamo ricordato su questa rubrica nel post Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura), il 5 maggio definì la visita come un trionfo,

esaltando gli «imponenti riti guerrieri in onore del Fuhrer e incessanti manifestazioni di popolo ai Capi delle due Rivoluzioni».

Dopo essere stato a Napoli, Hitler tornò a Roma e vi rimase altri tre giorni. Pochi mesi dopo appariva il Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della Razza). Pubblicato, dapprima in forma anonima sul Giornale d’Italia, il 14 luglio 1938 col titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», sarà ripubblicato sul numero uno della rivista «La difesa della razza» il 5 agosto 1938. Vi era una stretta correlazione tra quella visita, l’avvicinamento politico tra i due dittatori, la pubblicazione dell’abominevole Manifesto della razza, le vergognose, criminali e ripugnanti leggi per la difesa della razza italiana, approvate nell’autunno del 1938, e poi la firma del Patto d’Acciaio nel maggio dell’anno dopo. Quella visita non era stata senza conseguenze. Ma cosa c’entra quella visita con la legge sulle unioni civili?

Una giornata particolare (1977, di Ettore Scola)

C’entra perché sullo sfondo di quella storica e nefasta visita, Ettore Scola (insieme ai suoi co-sceneggiatori Maurizio Costanzo e Ruggero Maccari) collocò la vicenda del film Una giornata particolare (1977), di cui fu regista. E per quasi tutta la durata del film, dagli apparecchi radiofonici accesi nei vari appartamenti, a volume alto, si alza la voce del radiocronista, che commenta con retorica trionfalistica le varie fasi della visita di Hitler nella giornata del 6 maggio 1938. La trama di Una giornata particolare è semplicissima e arcinota: Antonietta (Sofia Loren), casalinga ingenua ed ignorante e profondamente sola, benché madre di sei figli e sposata con un impiegato statale (John Vernon), un fervente fascista, incontra, conosce e diventa amica di Gabriele (Marcello Mastroianni). Costui, radiocronista dell’EIAR (l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, che aveva l’esclusiva delle trasmissioni radiofoniche e di fatto era la “voce” del fascismo) è stato licenziato ed  è in procinto di partire per il confino, dove lo ha spedito il regime, al fine di punirlo ed emarginarlo a causa della sua omosessualità.

L’invio al confino degli omosessuali non era un’invenzione della sceneggiatura. Era una prassi frequente del regime fascista, che, infatti, perseguitò inesorabilmente gli omosessuali, ma lo fece con spietatezza, ammantata di ipocrisia.

La rimozione e la persecuzione dell’omosessualità da parte del regime fascista

Infatti, il codice penale, firmato dal ministro della Giustizia, Alfredo Rocco (ne abbiamo parlato nel post Le prime leggi fascistissime), a differenza del Paragrafo 145 delle legge nazista, non conteneva al suo interno una specifica normativa antiomosessuale. In realtà, nel progetto del Codice Rocco del 1927, l’articolo 528, comminava la reclusione da uno a tre anni per chi aveva relazioni omosessuali. Poi, però, il regime fascista aveva stabilito di eliminare tale articolo dalla versione definitiva del codice. Non si era trattato di una decisione frutto di spirito liberale, ma di un ragionamento politico-propagandistico, in cui la priorità era stata data all’immagine del modello di italiano che il fascismo intendeva veicolare. Prevedere il reato di omosessualità avrebbe significato ammettere l’esistenza di omosessuali tra gli italiani. E ciò era incompatibile con l’immagine che il duce voleva dare del maschio italiano. Nella relazione redatta dalla Commissione Appiani, che aveva il compito di discutere l’attuazione della nuova normativa, infatti, si legge:

 «La Commissione ne propose ad unanimità e senza alcuna esitazione la soppressione per questi due fondamentali riflessi. La previsione di questo reato non è affatto necessaria perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore, ma è noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediante l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive».

La repressione dell’omosessualità, quindi, non venne dunque affidata ai tribunali, ma alla polizia. Questa sottoponeva il caso ad una Commissione Provinciale, poi provvedeva alla diffida o all’ammonizione e al diffido. Vi furono così 20.000 pratiche di ammonizione nei confronti degli omosessuali. Ma molti furono anche confinati nelle isole del Mediterraneo, soprattutto alle Tremiti.

Con la fine della guerra, nessuno sarà più inviato al confino, ma l’omosessualità continuerà ad essere oggetto di persecuzione poliziesca, sia pure con un intensità non paragonabile a quella fascista, e perfino giudiziaria (si pensi al caso dei Balletti verdi e a quello Braibanti). Bisognerà attendere fino agli anni Settanta, per iniziare a vedere una più significativa riluttanza alla persecuzione e alla discriminazione, e fino al maggio del 2016 per vedere approvata una legge sulle unioni civili.

 

Alberto Quattrocolo

La mediazione familiare e il legame sociale

Non si contano le analisi che pongono in rilievo la distanza crescente tra cittadini e istituzioni e sottolineano l’indebolimento del legame sociale [1]. La cui fragilità, secondo queste chiavi di lettura, sarebbe ravvisabile anche nel costante proliferare di una conflittualità diffusa, particolarmente facile ad innescarsi e spesso portata a livelli estremi di escalation [2]. In tale prospettiva, questa diffusa conflittualità, causa o sintomo di un indebolimento del legame sociale, in assenza di spazi congeniali per essere gestita, finirebbe con l’essere guerreggiata con elevatissimi costi umani, sociali ed economici.

Ad esempio, si può pensare ai costi della conflittualità in ambito familiare. Come per altri conflitti interpersonali anche quelli interni alla coppia o alla famiglia, infatti, si ripercuotono su una dimensione più ampia, che varca i confini della relazione tra le persone che ne sono le dirette e attive protagoniste. Il che si verifica anche perché, non raramente, poi, il conflitto coniugale si sposta su un piano valoriale [3]. Tale transizione può essere assai funzionale alla conduzione della lotta dal punto di vista di chi aspira alla vittoria mediante un allargamento delle alleanze che acuiscono la delegittimazione del nemico. Ma ha come ricaduta un ulteriore riduzione del legame sociale, perché implica l’incompatibilità totale tra le parti, che si sentono legittimate nel loro l radicale rifiuto del dialogo e, non di rado, addirittura del confronto.

D’altra parte, rispetto agli effetti a largo raggio della conflittualità interna alla famiglia e alla sua ricaduta su quelle forme di legame sociale più immediatamente connesse alla fiducia nell’efficacia degli apparati istituzionali, va considerato un antico e sempre attuale problema: quello di come possa l’ordinamento, con le sue irrinunciabili caratteristiche di astrattezza e generalità, rapportarsi con il quotidiano intreccio di affetti, convinzioni, bisogni, interessi e sentimenti, senza produrre distorsioni, scontento e frustrazioni [4].

Da tempo, si sono posti alcuni interrogativi: può una sentenza ricucire dei rapporti dilaniati da ferite profonde? Può il sistema giudiziario dare risposte ad interrogativi sul senso dell’accaduto e sul valore che i rapporti hanno avuto e/o conservano, stante la condizione conflittuale che li attraversa? Può una pronuncia giudiziaria trasformare due ex coniugi, che nutrono profondi rancori, in persone in grado di sviluppare una fiducia vicendevole rispetto alle reciproche capacità di assolvere le funzioni genitoriali?

Si tratta di interrogativi che rinviano direttamente al tema della gestione del conflitto e della sua correlazione con la consistenza e la tenuta de legame sociale. I coniugi che escono sconfitti e, comunque, delusi e amareggiati dai percorsi di separazione – e non si tratta di una esigua minoranza –, ad esempio, sviluppano molto spesso nei confronti del sistema legale, in primis, ma anche degli apparati dei servizi sociali, quando intervengono, una rappresentazione mentale dalle tinte cupe, che nutre e si nutre di sensazioni dolorose, quali la frustrazione. Ma, soprattutto, costoro hanno la sensazione di non essere stati compresi né dagli operatori del diritto, e dal sistema giudiziario in generale, né dal sistema sociale e dai suoi rappresentanti e professionisti.

Da decenni si sostiene che è essenziale mettere a disposizione delle persone in conflitto dei luoghi per confrontarsi, per affrontare contrasti e divergenze, senza rischiare di esserne distrutti.

Ultimamente, sembrerebbe essere maggiormente avvertita l’esigenza di figure professionali in grado di prendersi cura di aspetti delicati e profondi anche del conflitto familiare. E, accanto a diverse professionalità, trova una crescente attenzione quella della mediazione familiare, in ordine alla quale si è posto più volte l’accento sull’intrinseca capacità di agevolare un rinnovo dello sfilacciato legame sociale [5].

A Torino, l’Associazione Me.Dia.Re. fin dal 2003 gestisce Servi Gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti (gratuiti, grazie a contributi di enti pubblici e privati, che ne coprono una parte dei costi, e all’autofinanziamento, derivante dai proventi dei propri corsi e progetti formativi). Questi Servizi non si propongono soltanto come luoghi di gestione alternativa dei conflitti, ma anche come sportelli di ascolto. Ciò fa sì che ad essi accedano sia le persone che, come parti di un conflitto, cercano un aiuto per confrontarsi (per mediare, si potrebbe dire), sia coloro che non hanno inizialmente alcuna intenzione di mediare, ma sentono il bisogno di essere ascoltati.

Gli obiettivi progettuali di fondo sono collocati nell’ottica di una tutela del legame sociale, anche nel senso del riallacciamento del rapporto tra il cittadino e le istituzioni e del recupero delle relazioni tra le persone [6]. Tale prospettiva è sottesa naturalmente anche agli altri servizi. Quelli di mediazione penale, svolti dall’Associazione nell’ambito del progetto ComuniCare, realizzato in convenzione con l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Torino. E quelli di mediazione familiare strettamente intesa, che Me.Dia.Re. eroga gratuitamente in convenzione con la Città di Torino, presso il Centro Relazioni e Famiglie.

Anche in questi servizi la logica di fondo è quella di far sentire alle persone che anche nelle situazioni di conflitto, dove il vissuto di ingiustizia e il dolore sono di portata tale da procurare una sensazione di isolamento e di abbandono, c’è una possibilità di ascolto, di vicinanza e di supporto. Non si è lasciati soli a fronteggiare dinamiche relazionali, sofferenze e malesseri, che spesso ci appaiono più grandi di noi [7].

Così, i membri di una coppia in lite, anche nel caso in cui il loro conflitto sia giunto ad un livello di escalation tale da aver annullato ogni spazio di discussione e non solo di trattativa, possono contare su di un luogo in cui portare la loro angoscia e la loro rabbia, avendo la possibilità di ricevere, in termini di ascolto, un’attenzione a-valutativa e, quindi, non colpevolizzante. Un ascolto che aiuta anche a pensare e a ripensare.

Oggi, però, sulla stessa mediazione familiare grava un’ombra conflittuale. Pur essendo presente nel nostro Paese da oltre trent’anni, è diventata oggetto di una disputa, che rischia di annebbiarne prerogative e potenzialità, meriti e pregi. Questa controversia, strettamente correlata alle disposizioni proposte dal Ddl 735, ha implicazioni profonde.

Se sono molteplici gli aspetti discutibili e discussi del disegno di legge citato, rispetto al tema dell’indebolimento o del recupero del legame sociale, ce n’è uno, basilare, che vale la pena prendere in considerazione: l’obbligatorietà [8].

Su questo aspetto, tra gli altri, è intervenuta anche Isabella Buzzi. Costei, che non soltanto è mediatrice familiare da quasi 30 anni, ma anche la fondatrice del Forum Européen Recherche et Formation a la Médiation Familiale – Francia, nonché dell’Associazione Italiana Mediatori familiari (A.I.Me.F. iscritta al Ministero dello Sviluppo Economico), ha affermato:

«Potrebbe funzionare l’obbligatorietà? Come mediatori familiari professionisti e di esperienza, supportati dalle ricerche, stiamo dicendo tutti la stessa cosa: è possibile obbligare le coppie a fare un colloquio informativo per conoscere la mediazione familiare ed è corretto che ricevano queste informazioni da un mediatore familiare professionista, all’estero non sono poche le nazioni che hanno questa procedura, ma non sarà mai possibile imporre alle coppie di restare in mediazione contro la loro volontà, perché l’autodeterminazione dei partecipanti (in altre parole la loro volontà) è la condizione senza la quale non è proprio possibile fare mediazione».

Assumendo un’ottica complementare a quella di Isabella Buzzi e supponendo che uno dei fini dei proponenti il disegno di legge sia quello di assicurare una sempre più efficace tutela istituzionale alle persone coinvolte in quelle particolari situazioni conflittuali, soprattutto, i minori, sorge un timore: che l’obbligatorietà dell’adesione al percorso, anziché riparare il legame sociale, lo allenti e lo sfilacci.

Un conto, infatti, è poter scegliere di avvalersi di un percorso. Un altro è il dovervi aderire necessariamente. In questo secondo caso, ci si trova a dover stare, obtorto collo, in relazione con qualcuno (il mediatore familiare) che, ex lege, istituzionalmente, è deputato a porre termine al nostro conflitto. In primis, trasformando il nostro radicale disaccordo con l’ex partner, incluse le sue motivazioni affettive ed emotive, in accordo legalmente rilevante. Il che è ben diverso, ad esempio, dal potersi volontariamente giovare, in quanto attori di un conflitto doloroso e stressante, angoscioso e opprimente, della mediazione familiare declinata come spazio di ascolto, come luogo di comprensione e di riflessione ad alta voce, al cospetto di un professionista che non ha alcuna aspettativa nei nostri riguardi, avendo come solo obiettivo quello di farci sentire accolti e ascoltati [9].

La mediazione familiare descritta dalla prima versione del disegno di legge, infatti, sembra quanto mai lontana dalla dimensione emotivamente accogliente e contenitiva, essendo una procedura cui gli avvocati devono partecipare al primo incontro e hanno il diritto di continuare a parteciparvi fino alla fine. In altre parole, la mediazione familiare disegnata in questo progetto di legge, pare essere assai più simile ad una negoziazione, condotta da un terzo, imposta alle parti, anche se queste non hanno alcuna voglia di negoziare. Imposta, dunque, anche quando, invece, di trattare tra di loro e con i legali, gradirebbero essere ascoltati e riconosciuti nella loro sofferenza e parlare liberamente di aspetti personalissimi. Riesce difficile, infatti, immaginare che nelle riunioni previste dalla mediazione familiare impostata nel Ddl, vi sia la possibilità per i due genitori, vista anche la presenza dei rispettivi avvocati, di parlare dei fatti e delle vicende che sono alla radice del loro conflitto, dando voce al senso di fallimento, di solitudine, di tradimento, di colpa, di vergogna e alla loro rabbia.

Insomma, la mediazione familiare, anziché luogo di contenimento e di rivisitazione, quindi di scioglimento o allentamento spontaneo dei nodi affettivi, emotivi e relazionali, che, alimentando diffidenze e rancori, sospetti e pregiudizi, hanno fin lì impedito un’autonoma conciliazione, potrebbe diventare luogo in cui tali aspetti vengono giocoforza repressi, per essere espulsi e soppiantati dalla richiesta, implicita solo in parte, da parte dello Stato (incarnato dal mediatore familiare), di realizzare un’artificiale performance collaborativa volta al raggiungimento di un accordo. La cui mancata conclusione è suscettibile di valutazione negativa anche da parte dell’autorità giudiziaria.

C’è più di qualche ragione per temere che tale tipo di mediazione familiare, così strettamente allacciata al sistema giudiziario, alle sue logiche e ai suoi obiettivi, invece, di riallacciare il legame sociale fra i coniugi in conflitto e fra entrambi e lo Stato, finisca col metterli ancor di più l’uno contro l’altro. Soprattutto, non è improbabile che collochi entrambi i genitori in conflitto in un rapporto conflittuale nei confronti dello Stato stesso. Quest’ultimo, infatti, implicitamente negando legittimazione alle loro ragioni conflittuali, li obbliga ad accantonarle e ad incontrare il loro peggior nemico, imporre loro di fare la pace.

In tal caso, cioè ove i genitori sentano che lo Stato è loro nemico, avendo dichiarato guerra al loro conflitto, è piuttosto improbabile che tale loro vissuto possa essere risolto, facendogli presente che tutto ciò è predisposto per il bene dei figli. Infatti, è proprio nella convinzione di essere ciascuno il miglior garante del benessere dei propri figli che questi genitori sono in conflitto l’uno con l’altro.

Alla luce di quanto sopra, se per lo Stato la mediazione familiare deve essere un efficace strumento di prevenzione della sofferenza dei figli generata dal conflitto tra i loro genitori e, contestualmente, un mezzo di tutela del legame sociale più latamente intesoallora pare auspicabile che, anziché renderla obbligatoria, ne incrementi le possibilità d’accesso. Sia attraverso un’adeguata opera di promozione, sia con una sistematica e capillare campagna di sensibilizzazione presso tutti gli operatori del complesso sistema deputato alla gestione di questo tipo di contenzioso, nonché, magari, con l’introduzione di rilevanti incentivi di ordine fiscale, per chi si avvale di mediatori familiari a pagamento, e con finanziamenti ad hoc tesi a far proliferare i centri gratuiti [10].

Alberto Quattrocolo

[1] Una distanza, probabilmente con radici antiche, che oggi è percepita molto più significativa che in passato. Da decenni i grandi “contenitori e connettori” del passato, come la famiglia, l’impiego, il partito, ecc., hanno perso molta o tutta la loro capacità di offrire contenimento e di dare stabilità ai legami sociali. Le strutture che tradizionalmente hanno fatto da collante tra le persone e tra queste e le istituzioni (culturali, sociali, politiche…), divenendo oggetto di una crescente diffidenza, sono oggi investite da una risentita sfiducia. E sono questa diffidenza, questa sfiducia, spesso derivate da un vissuto di mancato riconoscimento, a sfarinare il legame sociale.

[2] Sarebbero i contrasti che sorgono e si annidano nelle mille pieghe di una società complessa, punteggiata di bisogni non riconosciuti, caratterizzata da un’incomunicabilità figlia di una troppa comunicazione vuota, costantemente a rischio di una perdita di valore e senso, e di un’assenza di ascolto. Una società nella quale i tempi e i luoghi per pensare insieme, per confrontarsi, per comprendere e farsi comprendere, sono più ridotti che in passato.

[3] La capacità dei singoli attori originari di coinvolgere altri soggetti ottenendone l’appoggio morale e/o materiale è spesso una questione di abilità individuale, ma può anche coniugarsi alla tematica dibattuta: se questa riguarda aspetti sui quali si riesce ad accendere l’altrui sensibilità in termini etici e morali, le possibilità di coinvolgimento di altri possono essere particolarmente consistenti. E in tali casi, nelle sue ipotesi estreme, il conflitto può arrivare ad essere mitizzato, perfino ideologizzato.

[4] È un dato esperienziale di difficile contestazione che l’intervento della norma risulti particolarmente tangibile in ambito familiare soltanto quando sorgono delle condizioni di tensione che paralizzano o alterano il “normale” sistema di autoregolamentazione dei rapporti propri di ciascun gruppo familiare. In altre parole, soltanto quando l’ordine familiare è minacciato da eventi interni di dissenso si ricorre al diritto, affinché esplichi la sua potenza ordinatrice attraverso l’apparato giudiziario.

[5] In tale prospettiva, i mediatori familiari sono intesi come persone preparate a saper accogliere anche il venire meno di quelle certezze che si erano costruite nel tempo e che si erano consolidate con la quotidiana convivenza. Si tratta, dunque, di professionisti in grado di riconoscere e comprendere gli aspetti dolorosi del conflitto che sono chiamati a gestire. Ad esempio, quello relativo al mutarsi del concetto di casa, il cui valore di luogo di condivisione e contenimento, di intimità e di riparo, in presenza di una minaccia di disgregazione conflittuale del coniugio, assume, talora, dei connotati foschi: da luogo protetto e protettivo diventa terreno di una battaglia. Una battaglia ancora più dolorosa, dato che il “nemico” non è fuori dal suo perimetro, ma dentro e, magari, “minaccia” di portare via anche il guscio edificato insieme.

[6] Cioè, ci si prefigge, con tali Servizi, di restituire al singolo e a coloro che lo attorniano una certa fiducia nella capacità della società di essere presente nei momenti difficili. Di riparare le fratture createsi, in quello che sinteticamente si definisce legame sociale, per effetto di una conflittualità lacerante, rispetto alla quale le risposte tecnico-giuridiche e formali paiono spesso essere inappaganti.

[7] Che si tratti della vittima di un reato che sente la necessità di essere ascoltata individualmente e/o di interfacciarsi con l’autore per fargli comprendere la portata di quel fatto e chiedere ragione dello stesso. Oppure dell’autore del reato, interessato a confrontarsi con la vittima. Oppure, ancora, che si tratti di due colleghi giunti talmente ai ferri corti da farsi una guerra quotidiana sul luogo di lavoro, oppure di un operatore e di un paziente coinvolti in una relazione conflittuale.

[8] Nella versione originaria del disegno di legge per i genitori di minori che, intendendo separarsi, non trovino autonomamente un accordo sull’affidamento dei figli, si prevede che l’adesione ad un percorso di mediazione familiare costituisca una condizione di procedibilità. In altre parole, si prevede l’obbligatorietà del percorso per coloro il cui conflitto sia tale da raggiungere autonomamente un accordo. Per tali situazioni, la versione originaria del disegno di legge che ha come prima firmatario il senatore Simone Pillon impone l’obbligo di seguire un percorso di mediazione familiare.

[9] È questo il modello teorico e operativo dell’Associazione Me.Dia.Re., per approfondire il quale, oltre che alla pagina delle Pubblicazioni del sito, si rinvia anche a quella della rubrica Riflessioni

[10] Si tenga presente che già accade che, per effetto della Legge 54/2006, molte coppie accettino il suggerimento del giudice, in quella norma previsto, di fare un incontro con il mediatore familiare.

I roghi nazisti e la nazificazione della Germania

Il 10 maggio del 1933 diversi roghi divamparono nelle piazze di diverse città tedesche. Il più noto di questi roghi fu quello che si verificò in una piazza di fronte all’Università di Berlino. Qui divampò un fuoco che richiamava sinistramente quei roghi che il mondo occidentale aveva visto l’ultima volta nel tardo Medioevo.

I roghi nazisti del 10 maggio 1933

Un po’ prima della mezzanotte del 10 maggio ’33 una nutrita folla di studenti, provvisti di torce, entrò in una piazza dell’Unter den Linden. C’era un mucchio impressionante di libri. Su di essi furono tirate le torce. Poi altri volumi vennero lanciati sulle fiamme. Più o meno ventimila libri vennero bruciati soltanto in quella piazza di Berlino dagli studenti. Un proclama studentesco dell’Associazione studentesca della Germania annunciava la condanna al rogo di ogni libro

«che abbia un effetto sovversivo sul nostro futuro e che possa minare il pensiero tedesco, la patria tedesca e le forze che guidano il nostro popolo»

Erano opere di autori di fama mondiale. Tra le opere di autori tedeschi c’erano quelle di Thomas e Heinrich Mann, Walther Rattenau, Erich Maria Remarque, Albert Einstein, Alfred Kerr, Lion Feuchtwanger, Arnold e Stefan Zweig, Jakob Wassermann, Hugo Preuss. In quello e negli altri roghi, però, venivano anche bruciati i libri di Charles Darwin, Havelock Ellis, Sigmund Freud, André Gide, Ernest Hemingway, Hermann Hesse, Jack London, Georg Lukács, Helen Keller, James Joyce, Karl Marx,  Marcel Proust, Robert Musil, Joseph Roth, Margaret Sanger, Arthur Schnitzler, Upton Sinclair, H. G. Wells, Emile Zola.

«Queste fiamme non solo illuminano la fine della vecchia era, ma gettano la loro luce sulla nuova» (Joseph Goebbels)

Erano passati circa 4 mesi dalla nomina di Adolf Hitler a cancelliere del Reich. Come abbiamo ricordato in altri due post della rubrica Corsi e Ricorsi (Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione e La democrazia in fumo), Hitler aveva raggiunto il potere proprio grazie al meccanismo della democrazia rappresentativa, cioè del sistema parlamentare di quella Repubblica di Weimar, di cui egli stava cancellando tutto, anche il pensiero. Tanto che tra i libri scaraventati sui roghi c’erano quelli di Preuss, colui che aveva redatto proprio la costituzione di Weimar. E quei roghi non avvenivano per spontanea iniziativa di studenti goliardici. Erano un’iniziativa del Partito Nazionalsocialista (NSDAP), vale a dire del governo, cioè dello Stato tedesco, il Terzo Reich. Ed erano stati preceduti, quei roghi di libri, dal boicottaggio del commercio ebraico del 1° aprile ’33 (lo abbiamo ricordato qui). In effetti i roghi dei libri facevano parte di un più vasto disegno del partito nazionalsocialista, il quale non mirava solo al governo, ma intendeva plasmare la mente e lo spirito dei tedeschi (come si è rammentato, rievocando l’incontro del 30 marzo tra Joseph Goebbels e il più ammirato regista del cinema tedesco, Fritz Lang, nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista). A confermare tale prospettiva fu lo stesso Goebbels, il nuovo ministro della Propaganda, che, parlando a circa 40.000 studenti mentre i libri si trasformavano in cenere, disse:

 «L’anima del popolo tedesco potrà manifestarsi nuovamente. Queste fiamme non solo illuminano la fine della vecchia era, ma gettano la loro luce sulla nuova».

Le altre iniziative di nazificazione della cultura, dell’informazione e del cinema

I roghi dei libri, quindi, erano un pezzo del puzzle in costruzione della nazificazione della mentalità del popolo tedesco. Su questo registro si collocarono la proibizione della vendita e della circolazione nelle biblioteche di centinaia di libri, mentre contestualmente venne promosso la pubblicazione di un gran numero di testi nazisti.

La Camera per la cultura del Reich

Il 22 settembre del 1933 fu varata la legge istituiva della Camera per la cultura del Reich, diretta dal ministro Goebbels, in cui era scritto:

«Al fine di perseguire una politica culturale germanica, è necessario mobilitare gli artisti creativi in tuti i settori, in una organizzazione unificata sotto al guida del Reich. Il Reich deve non sono delineare le direttive del progresso, sia mentale che spirituale, ma anche guidare e organizzare le professioni».

Furono così istituite sette camere: per le belle arti, la musica, la letteratura, la stampa, la radio e il cinema. La legge imponeva a tutti coloro che lavoravano in tali settori di iscriversi alle rispettive Camere, le cui direttive avevano forza di legge.

Il repulisti nazista nella letteratura, nella musica e nel teatro

Tali Camere avevano il potere di rifiutare l’iscrizione e di espellere coloro che «non davano affidamento dal punto di vista politico». In altre parole, perdevano l’impiego anche coloro che venivano considerati poco entusiasti del nazionalsocialismo. Il risultato fu che, a partire da Thomas Mann, quasi tutti gli autori letterari di rilievo, con poche eccezioni, potendolo fare, emigrarono. Coloro che non ebbero tale possibilità non pubblicarono alcunché. Infatti, ogni manoscritto, per poter essere stampato, doveva essere approvato dal ministero della Propaganda. Lo stesso sistema valeva per le commedie teatrali. Il grande Max Reinhardt (lo abbiamo citato nel post dedicato a Marlene Dietrich) se ne andò nel ’35, preceduto o seguito da tanti altri, bravissimi e talora eccezionali, registi e commediografi teatrali (Bertolt Brecht, per dire) e da compositori e musicisti (Kurt Weill). Anche la musica, per quanto avesse minori possibilità di correlazione con la politica, fu colpita dalla scure nazista. Così furono proibite le esecuzioni di Mendelssohn, perché era ebreo, come quelle del più noto compositore tedesco moderno, Paul Hindesmith. Del resto le grandi orchestre sinfoniche e i teatri d’opera espulsero gli ebrei che vi lavoravano.

Parola d’ordine: epurare l’arte decadente

Un’aggressione più devastante la subirono, però, le arti figurative. L’espressionismo tedesco, che tanto aveva influenzato anche lo stile visivo della cinematografia e che contaminerò fecondamente il genere noir, fu considerato arte decadente. Analogamente erano considerate sinonimo di decadenza l’impressionismo, il cubismo e il dadaismo. Hitler già nel Mein Kampf aveva condannato l’arte moderna come degenerata e priva di senso. E una delle prime misure adottate, una volta ottenuto il potere, fu «l’epurazione dell’arte decadente» e la sua sostituzione con «l’arte germanica». Quindi vennero tolte dai musei 6500 pitture moderne (di Cezanne, Va Gogh, Guagin, Matisse, Picaso, Kokochcka, Grosz…).

Il controllo nazista sulla stampa, la radio e il cinema

Naturalmente ciò che più contava per realizzare un’efficace nazificazione delle menti popolo tedesco era il controllo sui mezzi di informazione e sulla principale industria dell’intrattenimento. La legge per la stampa del 4 ottobre del 1933 stabiliva che il giornalismo era una professione pubblica controllata dallo Stato e che i redattori dovevano essere ariani e non essere sposati con ebrei. Inoltre era loro ordinato di «tenere lontano dai giornali qualsiasi cosa che in qualche modo possa indurre il pubblico in errore, confonda il bene personale con il bene collettivo, o tenda a indebolire la forza del Reich tedesco all’interno o all’esterno». Vennero perciò chiusi giornali di fama mondiale, che vennero acquistati per pochi spiccioli dalla casa editrice del partito Nazista, l’Eher Verlag, la quale divenne un immenso impero editoriale. Ne sortì, però, anche una terribile monotonia dei quotidiani e dei periodici. Infatti, ogni giornale riceveva dettagliate istruzioni su cosa pubblicare e come. Sicché Goebbels e il presidente della Camera per la stampa, nel ’34, fecero un appello affinché i redattori rendessero meno monotoni i loro giornali. Ehme Welke, redattore di un settimanale li prese sul serio e finì in campo di concentramento per ordine del ministro. Una sorte analoga a quella della stampa toccò alla radio. Il mezzo di comunicazione che all’epoca aveva un’influenza superiore a tutti gli altri, non essendoci ancora la televisione. Goebbels si assicurò il controllo completo su tutte le trasmissioni radiofoniche, anche se, fino allo scoppio della guerra, i tedeschi potevano ancora ascoltare le radio straniere. Lo stesso controllo, come abbiamo scritto nel già citato post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista fu istituito sulla cinematografia. Come nel caso della radio, della stampa, delle arti figurative e della musica i tedeschi dovettero sorbirsi prodotti di qualità davvero mediocre.

In definitiva, tuttavia, Hitler e i suoi riuscirono a raggiungere gli obiettivi che si erano dati. Il popolo tedesco finì con l’essere in larghissima parte nazificato.

Alberto Quattrocolo

Fonti

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi, editore s.p.a., Torino, 1957

I Serenissimi occupano piazza San Marco

Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1997, la Veneta Serenissima armata, braccio operativo del Veneto Serenissimo governo, occupò piazza San Marco e il suo campanile, issando sulla cella campanaria la bandiera con il Leone di San Marco. Con loro, un finto mezzo blindato.

L’azione prese il via dalla provincia di Padova, dove si trovava l’autocarro camuffato. Alcuni in tuta mimetica e dotati di fucili della Seconda Guerra Mondiale, dirottarono un traghetto per raggiungere la piazza simbolo della città. Qui si divisero in due gruppi: il primo simulò di tenere sotto tiro la piazza con il mezzo blindato, mentre il secondo raggiunse la sommità del campanile e portò a termine il vero obiettivo della missione: issare la bandiera con il leone alato.

L’intenzione originaria era di mantenere le posizioni sino al giorno della ricorrenza della Serenissima: il 12 maggio 1797, infatti, cadde la Repubblica veneta per mano dei francesi. L’azione, puramente dimostrativa, aveva perlopiù carattere nostalgico.

Nel tentativo di mettere fine alla dimostrazione, l’allora sindaco Cacciari andò a parlare di persona con i manifestanti, ma fu solo grazie all’intervento del Gruppo d’Intervento Speciale (GIS) dei carabinieri che la situazione si risolse senza grossi problemi: in pochi minuti furono arrestati tutti i membri del gruppo presenti. L’occupazione non durò che poche ore.

I risvolti giudiziari furono molto differenziati per i vari partecipanti. Si andò da una condanna a quasi cinque anni, a diverse assoluzioni per l’inidoneità dell’organizzazione a raggiungere il proposito sovversivo. Diversi anche i reati contestati, tra cui figurano la banda armata e l’associazione sovversiva per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico

Alessio Gaggero

1973, resa del “territorio libero di Wounded Knee”

Nell’inverno 1973 un gruppo di giovani Indiani Americani della Nazione Lakota occupa, armi alla mano, il territorio di Wounded Knee richiedendo il rispetto degli accordi siglati nel 1868, il controllo delle Black Mountains (territorio sacro per i Lakota), la rimozione delle corrotte autorità delle riserve, la fine dello sfruttamento e della distruzione dei territori da parte delle grandi compagnie minerarie americane. La situazione è drammatica nell’intera Riserva di Pine Ridge (South Dakota), dove l’uso incontrollato di agenti chimici nelle ricerche minerarie ha causato l’avvelenamento delle falde acquifere con la conseguente larga diffusione di malattie tumorali e nascite di bambini deformi. Inoltre, gli abitanti della riserva denunciano il clima di terrore imposto dal capo-tribù corrotto Dick Wilson, che ha fatto assassinare dalla sua polizia privata paramilitare circa 60 nativi per eliminare ogni forma di resistenza alla vendita di parti del territorio per lo sfruttamento delle risorse di uranio.

A sostegno dei Lakota di Pine Ridge si mobilita l’American Indian Movement (AIM), l’organizzazione radicale che dal ’68 raggruppa attivisti di tutte le comunità indiane americane per il rispetto dei trattati siglati dal governo americano e contro la corruzione delle amministrazioni tribali delle riserve.

Per i nativi americani, Wounded Knee è un nervo scoperto a causa della strage del 1890, ultimo episodio delle guerre tra pellerossa e i “visi pallidi” mandati da Washington, un’autentica carneficina con un’intera tribù circondata e sterminata a raffiche di mitragliatrice dai soldati del 7° reggimento di cavalleria degli Stati Uniti: una tragedia entrata nella cultura popolare tramite canzoni, libri e film. L’area nella quale furono uccisi 150 indiani (ma alla fine degli scontri verranno contate circa 300 vittime) è stata dichiarata dal governo National Historic Landmark, ma è rimasta in mani private, nell’ambito di un vasto progetto governativo di privatizzazione forzata di ampie zone della Nazione Indiana.

Simbolicamente, alla nuova esplosione del conflitto tra nativi e governo americano, circa duecento sioux del gruppo Oglala Lakota, aderenti all’American Indian Movement, si asserragliano nello stesso posto in cui nel 1890 la cavalleria aveva massacrato i loro avi, prendendo in ostaggio una decina di civili che lavorano nei negozietti turistici o nelle poche attività presenti nel villaggio; alla loro testa c’è Russell Means, Lakota dalle idealità libertarie. Uomini, donne e bambini piazzano le tende intorno alla chiesa, trasformano l’emporio in sala dei congressi e di refezione, sistemano uomini armati in rudimentali bunker, legano le penne d’aquila alle trecce e organizzano la resistenza.

Nella riserva arrivano giovani nativi da tutti gli Stati Uniti e viene creato un consiglio formato dai rappresentanti di 75 Nazioni Indiane; nonostante le leggi americane permettano di portare in pubblico armi, il governo federale denuncia come terrorismo l’occupazione e mette in campo tiratori scelti della polizia federale, mezzi blindati ed elicotteri, circondando la zona.

Il comitato di occupazione non si lascia intimidire, richiedendo la fine delle aggressioni contro il popolo indiano, lo scioglimento delle amministrazioni corrotte, una ridiscussione dei 371 trattati tra le Nazioni Native e il governo federale, non uno dei quali in un secolo risultava rispettato. In attesa di una risposta da parte delle autorità, i  giovani Lakota rifiutano di consegnare le armi. Il governo risponde tagliando l’elettricità e impedendo ogni rifornimento di viveri dall’esterno.

Nonostante la durezza del clima, spesso molto sotto lo zero, per tutto l’inverno gli uomini e le donne di Wounded Knee rifiutano di arrendersi, vivendo secondo i costumi tradizionali, celebrando nascite e matrimoni secondo gli antichi riti. Per 71 giorni Washington non ha potere nel luogo simbolo della resistenza indiana: malgrado l’assedio la comunità si autogoverna e l’11 marzo i rappresentanti del movimento dichiarano l’indipendenza dagli Stati Uniti del territorio occupato.

Si verificano veri e propri scontri a fuoco, con un bilancio complessivo di due morti e una decina di feriti a Wounded Knee e due militari USA feriti gravemente; altri dodici occupanti, usciti dalla riserva in cerca di viveri, risultano dispersi, probabilmente sequestrati e fatti sparire dalle squadracce armate che fiancheggiavano le forze di polizia e i militari.

Nel frattempo sono in molti a schierarsi dalla parte degli assediati: altri indiani, ma anche attivisti dei diritti civili, afroamericani e personalità di spicco come l’attore Marlon Brando. Quest’ultimo, in solidarietà con gli assediati, non si presenta alla cerimonia degli Oscar per ritirare il premio vinto per “Il Padrino”, cedendo il palco a Sacheen Littlefeather, presidentessa dell’associazione per l’identità culturale dei nativi americani; la donna, in abito tradizionale apache, consegna alla stampa le 15 cartelle del discorso di Brando e usa i 60 secondi concessi per denunciare lo stravolgimento che il cinema americano fa della storia indiana e per portare all’attenzione collettiva la vicenda di Wounded Knee. In sala si scatena un putiferio, fra applausi e fischi, mentre John Wayne cerca di raggiungere il palco per gettare fuori Sacheen, fermato a stento da quattro guardie; grazie a tutto ciò, l’occupazione del sito indiano diventa di dominio pubblico, addirittura mondiale, e lo stesso Russell Means dirà in seguito che senza l’iniziativa di Brando e Sacheen “non avrebbero salvato la pelle”.

L’8 maggio, i nativi decidono di porre fine all’occupazione; l’esercito assalta la riserva con i mezzi corazzati e gli occupanti vengono arrestati. Gli indiani sono costretti ad abbandonare la zona, ottenendo in cambio l’apertura di un’inchiesta governativa sulle loro problematiche. La politica tradirà gli impegni assunti e il nulla di fatto causerà una serie di scaramucce anche negli anni successivi, con alcune vittime e una persistente, irreversibile tensione.

I processi seguiti all’assedio di Wounded Knee, incluso quello intentato contro Means, vedono prosciolti tutti gli accusati. Tuttavia, le milizie native filogovernative, restaurate nel loro potere, regolano i loro conti nelle riserve: gli attacchi dei paramilitari al servizio di Wilson divengono quotidiani, in tre anni 64 membri dell’AIM vengono assassinati, 300 sequestrati e sottoposti a torture, 562 arrestati, e l’eccidio proseguirà tra gli anni ‘70 e ‘80.

A tutt’oggi la riserva di Pine Ridge è il distretto più povero degli Stati Uniti d’America, con un tasso di disoccupazione attorno al 80%. La situazione abitativa è misera, malattie e un alto tasso di suicidi soprattutto fra i giovani segnano la vita della comunità. L’aspettativa di vita media è di 49 anni e circa il 40% delle case non dispone né di acqua potabile né di elettricità. I piccoli progetti di auto-aiuto quali l’allevamento di bisonti e l’installazione di piccoli impianti solari ricevono poco sostegno e non riescono a svilupparsi. Lo stesso sito storico di Wounded Knee rischia di essere venduto al migliore offerente da parte del privato che ne detiene legalmente la proprietà.

Il 13 dicembre 2007 i rappresentanti della tribù Lakota degli indiani d’America hanno stracciato i trattati firmati dai loro antenati nel 1868 a Fort Laramie. “Non siamo più cittadini degli Stati Uniti d’America e tutti coloro che vivono nelle regioni dei cinque Stati su cui si estende il nostro territorio sono liberi di unirsi a noi”, ha dichiarato a Washington Russell Means, che morirà pochi anni dopo. “I trattati – ha aggiunto – sono parole senza valore scritte su carta senza valore, perché non sono rispettati dal Governo americano”.

Silvia Boverini

Fonti:

www.it.wikipedia.org; M. Innocenti, “10 maggio 1973: la resa di Wounded Knee”, www.ilsole24ore.com; www.facebook.com/cannibaliere; G. Amico, “Wounded Knee 1973. Territorio libero d’America”, http://cedocsv.blogspot.com; “La terra di Wounded Knee”, www.ilpost.it; “Sioux, Wounded Knee rischia di finire all’asta”, www.corriere.it; Wu Ming 1, “Ghost Dance”, www.wumingfoundation.com; “Marlon Brando e Wounded Knee”, www.associazioneilcerchio.it

Con te, Marlene Dietrich

Morì il 6 maggio del 1992, Marlene Dietrich. Nessuna sa esattamente quanti anni avesse. Anche se la versione più accreditata era che fosse nata il 27 dicembre 1901, a Schöneberg, vicino a Berlino. Fu battezzata come  Marie Magdalene. Libera ed indipendente sin da piccola, però, si presentava agli altri come Marlene. Il nome che si diede da sé divenne sinonimo di glamour e mistero.

«Il glamour è essere sicuri di sé stessi. La certezza che vai bene da ogni punto di vista, che la tua mente e il tuo corpo, qualunque occasione si presenti, saranno all’altezza della situazione», disse quand’era ormai una diva decisamente acclamata.

I primati di Marlene Dietrich

L’angelo azzurro (di Joseph Von Sternberg, 1930), il film che la lanciò, fu il primo film sonoro del cinema tedesco. Con la sua performance Marlene Dietrich lo trasformò in un cult. Non si era mai visto nulla di così seducente sullo schermo, come Marlene Dietrich che cantava la canzone Lola Lola. Nel suo secondo film di successo, Marocco (di Joseph Von Sternberg, 1930), vestita da uomo con cilindro e smoking, baciava una donna del pubblico sulle labbra. Era il primo bacio lesbico della storia del cinema. Per il suo grande impegno civile, profuso instancabilmente durante la guerra nella causa antifascista, nel 1947,, ottenne la Medal of Freedom. Fu la prima donna ad essere insignita con tale onorificenza. Avendo le gambe più sexy del mondo, fu la prima diva a farsele assicurare.

Un’infanzia e un’adolescenza non proprio facili

Figlia di una gioielliera e di un ufficiale di polizia, Marie Magdalene, rimase orfana del padre a otto anni. Il nuovo marito della madre la adottò e le diede il proprio nome. Poi morì nel 1916, nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Questo lutto, indusse la giovane Marlene Dietrich a diffidare istintivamente del nazionalismo che aveva seminato morte, miseria e devastazione per quattro interminabili anni [1].

Gli esordi, il matrimonio e la maternità

Appassionata di concerti, musica classica e teatro, all’inizio degli anni venti, Marlene Dietrich frequentò un corso di recitazione diretto dal grandissimo Max Reinhardt (anch’egli poi rifugiatosi negli USA per sfuggire a Hitler). Nel 1922 iniziò a lavorare in teatro e fece le sue prime apparizioni cinematografiche. Naturalmente si trattava di film muti. L’anno dopo conobbe un aiuto regista, Rudolf Sieber, di cui si innamorò e lo sposò. Ebbero una bambina, Maria Elizabeth, anche lei futura attrice, conosciuta, poi, con il nome di Maria Riva. Ma già Marlene indossava spesso abiti maschili e non esitava ad avere relazioni sessuali o sentimentali con uomini e donne. La relazione con Rudolf era finita, anche se non divorziarono mai

Marlene Dietrich diventa l’angelo azzurro

Nel 1929 per la prima volta ebbe una parte da protagonista nel film Enigma, di Curtis Bernarhardt (anch’egli poi profugo del nazismo negli Stati Uniti, dove ebbe un’apprezzabile carriera cinematografica). In questo ruolo venne notata dal regista viennese, Josef von Sternberg, che già lavorava stabilmente e con notevole successo commerciale e critico a Hollywood. Immediatamente la scelse per il ruolo di una cantante che ogni sera risveglia la libidine di una folla greve e birraiola. Era un ruolo controverso di donna tanto seducente, quanto cinica e senza scrupoli, quello che l’attrice proponeva nel primo film sonoro tedesco in corso di produzione, Angelo Azzurro [2]. Per la parte di Unrat, il regista si era portato appresso dagli Stati Uniti, Emil Jannings, dove il più celebrato attore del cinema tedesco, aveva già ottenuto il plauso generale, ricevendo addirittura in appena tre anni di soggiorno hollywoodiano ben 2 Oscar. Ma fu la quasi esordiente Marlene Dietrich, abilmente diretta da Sternberg, ad imporsi nell’immaginario collettivo fin dalla prima proiezione de L’angelo azzurro, il 1° aprile 1930 al gloria Palast di Berlino [3]. Marlene-Lola, col frac, il cappello a cilindro e le calze a rete divenne immediatamente l’icona della Berlino libertina, disperatamente affamata di pane, di vita e di libertà, del periodo precedente al nazismo. Ma la carriera tedesca dell’attrice era già conclusa. Tra lei e von Sternberg si svilupparono quasi immediatamente un sodalizio artistico e una relazione amorosa. Marlene Dietrich non ebbe indugi nel seguirlo a Hollywood (dove avrebbero realizzato altri sei film). Ottenne subito un contratto con la Paramount, che in quel periodo era alla caccia di un’attrice europea da contrapporre alla svedese, divina, Greta Garbo della MGM. La Paramount, perciò, con la collaborazione di Sternberg si dedicò senza risparmio alla Dietrich, promuovendola con un investimento pubblicitario senza precedenti [4].

Marlene Dietrich, la disonorata venere bionda

In breve la Dietrich diventò una grande diva. In  Marocco (1930), affiancata alla nuova star maschile della Paramount, Gary Cooper, sebbene fosse ancora una cantante, non aveva più l’aggressiva carnalità di Lola. La femminilità esibita e misteriosa di quel personaggio, che aveva scandalizzato le platee, apparendo con le cosce bianche divaricate, mentre la sua voce roca  cantava “dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore”, subì una trasformazione. Già al suo primo film hollywoodiano, Sternberg la persuase ad aiutarlo a rappresentare la sensualità allo stato puro [5]. La trasformazione proseguì Disonorata (1931), Shangai Express (1932) e Venere Bionda (1932) [6].

Star maschili a rimorchio della diva Marlene Dietrich

In questi film, la Paramount, d’accordo con Joseph von Sternberg, utilizzava la notorietà di Marlene Dietrich per lanciare i divi di punta della sua scuderia maschile: in particolare Cooper e Cary Grant. E spettatori e spettatrici in egual misura in tutto il mondo accorrevano a bearsi gli occhi della loro bellezza. Ma se i suoi partner maschili erano, di fatto, ) delle figure di supporto -per fossero quanti validissimi attori, destinati di lì a poco a diventare delle superstar amatissime (specialmente Gary Cooper e Cary Grant), era lei ad impressionare il pubblico. Per la gente, in effetti, era difficile non cadere nell’identificazione tra queste ragazze ciniche dal look sempre eccessivo e la vera Marlene Dietrich, il cui stile di vita anticonvenzionale contribuiva  a veicolare un’immagine pubblica carica d’ambiguità, accentuata dal nuovo look cinematografico, costruito per lei dal regista, dal suo direttore della fotografia, il maestro Lee Garmes, e dal geniale costumista, Travis Banton [7].

L’autodisciplina  di Marlene Dietrich e il suo rapporto simbiotico con Joseph von Sternberg

Le prove erano lunghissime, ma la Dietrich sopportava tutto, grazie alla sua ferrea autodisciplina. Marlene Dietrich forniva il suo contributo alla creazione di questi effetti, monitorando le sue interpretazioni, tramite uno specchio semovente adeguatamente posizionato nel set. Ma le trasformazioni erano anche fisiche e perfino psicologiche. Sternberg decideva come lei doveva truccarsi e pettinarsi, la mise a dieta e la convinse anche a levarsi dei molari per rendere il viso più affilato. La Dietrich si lasciò modellare dal regista, creando con lui un rapporto, talmente ambiguo e simbiotico che Sternberg scrisse nelle sue memorie:

«Io sono Marlene. Marlene è me».

Una donna tutta sola e indipendente

Nel 1933 la Dietrich interruppe momentaneamente il sodalizio con Joseph von Sternberg per lavorare nel film Il cantico dei cantici diretto da Rouben Mamoulian, imposto alla produzione proprio dal suo pigmalione, che non sapeva smettere di gestirla. Nel 1933 il contratto con la Paramount stava scadendo e la Dietrich pensò di non rinnovarlo e di tornare per un po’ in Germania. Ma l’avvento del Nazismo cambiò le cose. Invece di tornare a Berlino accettò di rinnovare il contratto, a condizione che Sternberg continuasse ad essere il suo regista. L’anno dopo tornò a farsi dirigere da  von Sternberg in L’imperatrice Caterina (sua figlia interpretava l’imperatrice bambina), cui seguì l’ultimo lungometraggio con il regista, Capriccio spagnolo. Nel frattempo, però, l’esito commerciale insoddisfacente delle ultime pellicole le fece comprendere che la sua immagine non era più sintonica con i gusti del pubblico. Anche se il suo stipendio era astronomico (nel 1934 la Dietrich arrivò a guadagnare 350.000 dollari l’anno),si accordò con la Paramount non solo per svincolarsi dal controllo di Sternberg, ma anche per modificare la propria immagine. Sapendo di avere un talento multiforme adatto anche per la commedia, intendeva abbandonare i ruoli melodrammatici e interpretare ruoli che la rendessero più umanamente credibile [8]. Niente più mascheramenti esotici e pose statuarie, ma astuzia, fine umorismo e una inedita capacità di relazionarsi non soltanto con la macchina da presa, ma con gli attori [9].

L’amore con Erich Maria Remarque e il rifiuto delle offerte di Joseph Goebbels e del cinema fascista italiano

Dopo Angelo, che non ottenne il successo di pubblico previsto, per oltre due anni Marlene Dietrich non girò alcun film. La Paramount aveva deciso di sciogliere contratto con lei. La sua carriera a Hollywood sembrava finita. Lei, che nel 1937 aveva fatto domanda per ottenere la cittadinanza americana, decise di passare con Douglas Fairbanks Jr. una lunga vacanza in Francia. Qui  si ricongiunse con la sua famiglia allargata: sua figlia Maria ora tredicenne e il marito Rudi con la sua compagna [10]. Poi in un bar di Venezia, la Dietrich conobbe Erich Maria Remarque, immensamente noto autore del romanzo pacifista e antimilitarista Niente di nuovo sul fronte Occidentale. Divennero subito amanti. E, forse, fu l’antinazismo dello scrittore, e la demonizzazione persecutoria di cui era fatto segno da parte dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, ad incrementare la sua determinazione nel rifiutare le generose offerte di alcuni cineasti italiani e del ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels (nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista abbiamo visto come il ministro avesse tentato di arruolare nella sua macchina propagandista anche il regista Fritz Lang ), oltre che dello stesso Adolf Hitler.

La partita d’azzardo di Marlene Dietrich

In ogni caso, nel ’39, ottenuta la cittadinanza Americana, tornò negli USA, il 22 agosto 1939, una settimana dopo che la Germania aveva invaso la Polonia [11].

Nessuno avrebbe scommesso su di lei come attrice western. Ma di nuovo spiazzò tutti e affiancando il più improbabile dei suoi partners, James Stewart, interpretò  una commedia-drammatica western di notevolissimo successo, Partita d’azzardo (1939, di George Marshall). Passata a contratto  con la Universal, affiancò  in tre film un altro divo dal crescente successo, John Wayne. Due di essi erano di ambientazione western

La storia d’amore con Jean Gabin e il suo contributo alla lotta antinazista

Durante la Seconda Guerra Mondiale la Dietrich decide di appoggiare il governo americano attivamente. Non era soltanto un gesto di riconoscenza, di marca patriottica, per la cittadinanza ottenuta, ma anche una questione etica, morale e politica. Inserita in un ambiente in cui molti suoi amici erano intellettuali fuggiti dalla Germania nazista perché perseguitati per le loro idee politiche o perché di origine ebrea o perché omosessuali, aveva deciso di fare quanto poteva contro Hitler e Mussolini. Inoltre, si era innamorata del divo più noto del cinema francese, Jean Gabin. Questi, arruolatosi volontario nell’esercito francese, quando la Francia era stata occupata dalle armate di Hitler, era riparato negli USA. Il legame della Dietrich con Jean Gabin destò l’attenzione dell’FBI, già allertata dalle sue amicizie con liberali, progressisti e comunisti. Gabin, però, aveva moglie e figli e non intendeva trattenersi a Hollywood. Appena poté si arruolò nelle Forze libere francesi e tornò in Europa a combattere il nazifascismo. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra contro le forze dell’Asse, Marlene Dietrich chiese, quindi, di seguire le truppe in Africa e in Italia, con il compito di tenerne alto il morale con i suoi spettacoli, senza preoccuparsi della propria incolumità, anzi rischiando più volte la pelle. Era, infatti, tra i soldati americani durante la battaglia di Monte Cassino. Un secondo tour, tra il settembre 1944 e il luglio 1945, la portò in  Francia e in Belgio. Inoltre fornì la sua interpretazione della tristissima canzone antimilitarista Lili Marleen, che divenne il suo cavallo di battaglia [12]. Incontrò Gabin sul fronte belga nell’inverno del 1944 e poi di nuovo alla fine della guerra a Parigi. Nel 1946 Gabin la convinse a lavorare con lui nello sfortunato mélo di Martin Roumagnac Turbine d’amore. Si rividero ancora in seguito, qualche volta, ma Gabin non se la sentiva di lasciare la moglie e Marlene se ne tornò in America.

Altri ruoli memorabili

La liberazione dell’Europa dal nazifascismo coincise anche con una sorta di liberazione di Marlene Dietrich sul piano dei suoi ruoli cinematografici. Nel ’48, era diventata nonna, ma era una nonna tutta particolare. Continuava ad avere amanti, anche tra le celebrità del cinema (come Burt Lancaster) e ad infischiarsene della marea montante di conformismo che accompagnava quell’epoca di caccia alle streghe anticomunista (su Corsi e Ricorsi, al tema abbiamo dedicato diversi post, tra i quali: A cavallo della paranoia e John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante). Restava sempre “la Dietrich”, ma aveva raggiunto la maturità psicologica e artistica che servivano a farla lavorare come attrice versatile e non soltanto a  preoccuparsi di conservare lo status di diva. E tra i diversi film interpretati, seppe mettere molto di sé, dei suoi dolori e dei suoi conflitti interiori, oltre ad una spiccata vena umoristica nelle collaborazioni con registi-autori di origine europea.

Fu una zingara, che aiuta un fuggiasco (Ray Milland) nell’Europa occupata dai nazisti in Passione di zingara (1947, di Mitchell Leisen).

Quindi, interpretò mirabilmente Scandalo Internazionale (1948, di Billy Wilder), dove tra le macerie della Berlino post bellica era una cantante sospettata dagli Alleati di essere stata l’amante dei gerarchi nazisti. Inoltre, si fece dirigere da Alfred Hitchcock, in una dei suoi rientri in Inghilterra, nel thriller Paura in palcoscenico (1950).

Offrì, poi,  una performance toccante sotto la direzione di Fritz Lang, che, pur litigando con l’attirce, costruì su di lei il suo capolavoro western, dalle complesse sfumature morali, degne di un noir, Rancho Notorius (1952).

Quindi, tornò a collaborare con Billy Wilder, accanto ad attori della bravura e della statura di Tyrone Power e Charles Laughton in un raffinatissimo giallo processuale, tratto da Agatha Chritie, Testimone d’accusa (1957).

Si prestò ad una parte minore, ma memorabile, pensata apposta per lei, accanto all’interprete e regista Orson Welles, in una delle punte più alte e barocche del genere noir, L’infernale Quinlan (1958). Il film fu subito un cult maledetto.

Un immediato e strepitoso successo di critica e commerciale fu, invece, l’ultimo suo film importante. Aveva accolse con entusiasmo la proposta del produttore e regista di Stanley Kramer di interpretare, nel ricco cast di Vincitori e vinti (1961), una nobildonna tedesca decaduta. Anche qui sfruttò le proprie esperienze, nell’interpretare una donna con idee antitetiche alle sue, la vedova di un generale tedesco, giustiziato a Norimberga,  che cerca pateticamente di persuadere un giudice americano, interpretato da Spencer Tracy, dell’innocenza del popolo tedesco rispetto agli orrori commessi dal nazismo.

La fame d’amore

Tra i tardi Cinquanta e i Settanta Marlene Dietrich non ebbe timore nel proporsi in un formidabile ritorno alle origini come cantante, apparendo nei teatri di tutto il mondo. Su consiglio di Nat’ King’ Cole realizzò infatti concerti di enorme successo, incluso uno leggendario (famoso quello del 1959 a Rio de Janeiro). La sua ultima esibizione fu a Sidney nel 1975 [13]. Non lo faceva per i soldi. Di quelli ne aveva decisamente abbastanza. Lo faceva per amore. Disse sua figlia Maria:

«Mia madre era una tedesca prussiana e come tale possedeva un esagerato senso della disciplina e del dovere. Nessuno avrebbe resistito così a lungo sulla scena, come lei fece, fino ad un’ età nella quale le donne, in genere, preferiscono mettersi da parte. Lei si sentì, fino alla fine, impegnata a tenere viva l’ immagine di Marlene Dietrich, fatta di bellezza straordinaria e mistero, creata da Josef von Sternberg, il regista che l’ aveva lanciata, ma che poi aveva ripudiato la sua creazione. Marlene dedicò la sua vita a questa missione».

L’età, la solitudine e la depressione legata alla difficoltà di movimento causata dalle frattura agli arti inferiori, e gli alcolici, ebbero la meglio. Morì in un appartamento di avenue Montaigne, a Parigi, novantenne, il 6 maggio del 1992.

Alberto Quattrocolo

[1] Crescendo nel difficile periodo della Repubblica di Weimar, fece presto esperienza delle durezze della vita. Frequentò le scuole di Berlino e Dessau, studiando inglese e francese. Inoltre imparò a suonare il violino e il pianoforte. Grazie alla sua carica sensuale, non ebbe difficoltà eccessive a lavorare come ballerina e cantante nei cabaret di Berlino.

[2] Sternberg, chiamato a dirigerlo in doppia lingua, inglese e tedesco, doveva scegliere l’attrice giusta per il ruolo di Lola-Lola, la femme fatale che porta alla rovina il vecchio professore Unrat (personaggio nato dalla penna di Heinrich Mann per un dramma di impegno sociale, con un’esplicita polemica anti-autoritaria e di denuncia del bigottismo maschilista e patriarcale). Sottopose Marlene Dietrich ad un provino chiedendole di cantare un ritornello allusivo di una canzoncina da cabaret. Lei lo fece con la sua voce roca ed ebbe subito la parte.

[3] Emil Jannings divenne invidioso di Marlene Dietrich già durante le riprese. Pativa le attenzioni che il regista aveva per lei e cercava di fronteggiare, con il proprio gigionismo il crescente rilievo che, grazie alla collaborazione tra Sternberg e l’attrice, acquistava il personaggio di Lola-Lola nella realizzazione del film. Poi non riuscì più a controllare la rabbia:

«Durante le riprese delle scene dello strangolamento», raccontò in seguito Marlene Dietrich, «Jannings sembrava proprio che volesse strangolarmi. La mia gola rimase coperta di lividi per giorni e giorni, dopo che la scena era stata girata». Il rancore di Emil Jannings si fece ancora più profondo, quando divenuto attore ufficiale della Germania nazista, apprese che Marlene Dietrich, trasferitasi nel frattempo in America, aveva respinto i ripetuti inviti del ministro della Propaganda Joseph Goebbels a tornare in patria.

[4] Ne derivò una vera e propria guerra a distanza tra le due star. E non solo nel cinema, ma anche nel privato, tanto che per un certo periodo condivideranno anche la stessa amante.

[5] Tra le tante scene, due in particolare colpirono il pubblico: in una, vestita da uomo, Marlene Dietrich scendeva dal palcoscenico e baciava sulle labbra una giovane signora del pubblico. L’altra era il finale, in cui la Dietrich seguiva di corsa nel deserto il bellissimo soldato della Legione Straniera di cui era innamorata (Cooper), togliendosi e abbandonando nella sabbia le scarpe coi tacchi.

[6] In tutti questi film, diretti da Joseph von Sterberg, Marlene Dietrich interpretava donne prive di scrupoli e opportuniste, eroine negative, più che disposte a sfruttare la propria bellezza per raggiungere ciò che vogliono.

[7] I capelli diventati di un biondo platino, le sopracciglia ridotte a una linea sottile, la silhouette definita e androgina, erano accarezzati da una fotografia molto complessa, che creava aureole di luce sulle punte dei capelli, scavava le sue guance con le ombre, mentre il trucco si occupava di  ingrandirle gli occhi. Questo meticoloso lavoro sull’immagine dell’attrice sullo schermo era associato ad ambientazioni per lo più esotiche ricostruite interamente in studio, a stupendi costumi, spesso tendenti ad un sublime kitsch, e a scenografie fantasiose e barocche, illuminate da Garmes in modo tale da accentuare i richiami all’espressionismo.

[8] Fu il regista, di origini berlinesi, Ernst Lubitsch, allora a capo della produzione Paramount, a capire le nuove potenzialità dell’attrice, prima come produttore di Desiderio (1936, di Frank Borzage), al fianco di un brillante Gary Cooper, e poi anche come regista di Angelo (1937). Lubitsch “riportò Marlene sulla terra”.

[9] Paradigmatico di questa trasformazione fu tra gli altri La contessa Alessandra (1937, di Jacques Feyder), colossale rievocazione della rivoluzione bolscevica, in cui seppe collaborare meravigliosamente anche con un attore fuori classe come Robert Donat.

[10] Al gruppo occasionalmente si aggiungeva qualche suo o sua amante di turno, come l’ereditiera americana Jo Carstairs, il petroliere e produttore Joseph P. Kennedy, padre del futuro presidente degli Sati Uniti.

[11] Nel luglio del 1938, mentre era in Francia, ricevette una chiamata dal famoso produttore cinematografico Joe Pasternak (ebreo ungherese, che aveva lavorato in Germania e poi era emigrato a Hollywood), che le offriva un contratto alla Universal Studio.

[12] La sua versione di Lili Marlene si collegava alla partecipazione a programmi radiofonici di propaganda (come il MUZAC Project – musica per rendere la propaganda nazista meno efficace – dell’OSS, l’antenato della CIA). Nel 1947 per il suo impegno durante la guerra ricevette la Medal of Freedom, la massima onorificenza civile americana, mai prima d’allora assegnata ad una donna. Nel 1950 le venne anche conferita la Légion d’honneur dal governo francese.

[13] L’ultima apparizione cinematografica fu in Gigolò (1979, di David Hemmings), in cui, accanto a David Bowie, interpretava la tenutrice di un bordello nella Berlino dei primi anni Trenta.

Il primo giudice ucciso dalla mafia

Il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un punto di non ritorno.

Il 5 maggio 1971, il Procuratore Capo della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione e l’autista Antonio Lo Russo, agente di scorta, percorrono in auto via dei Cipressi. Come ogni mattina, il giudice si sta recando al cimitero di Palermo: la visita è alla moglie Concetta, scomparsa da qualche anno. Prima di arrivare a destinazione, i due vengono affiancati da una Fiat 850, che in pochi secondi blocca la macchina. I killer scendono rapidi dal proprio mezzo ed esplodono due raffiche di mitra. Scaglione e Lo Russo muoiono sul colpo.

La frase che apre l’articolo di oggi è presa dall’editoriale del Corriere della Sera del giorno successivo all’omicidio: Alberto Sensini sintetizza bene la situazione che si apre con quell’atto efferato. La mafia, fino a quel giorno, non aveva ancora toccato un magistrato. Certo, di sangue ne era stato versato molto, sempre troppo, ma l’escalation si era come fermata. L’attacco a viso aperto alle istituzioni era ancora lontano. Uccidere un giudice, tuttavia, costituì un chiaro passo in quella direzione. Davvero “un punto di non ritorno”.

Cesare Terranova, Lenin Mancuso e Boris Giuliano nel 1979, Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici nel 1983, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia nel 1985, Rosario Livatino nel 1990, Antonino Saetta e il figlio Stefano nel 1988, Antonino Scopelliti nel 1991. Gli uomini di legge caduti sotto i vili colpi degli uomini d’onore sono molti. Negli ultimi mesi abbiamo provato a ricordarne alcuni. Pietro Scaglione fu, suo malgrado, il primo di questa orribile lista.

Palermitano di origine, nasce agli inizi del nuovo secolo. In pochi anni potrà rivestire il ruolo di difensore dello stato, anche nelle vesti di Vicepretore e Pretore. Giunto alla Procura della sua città, gli vengono affidati i processi per la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. Nel febbraio del 1954, Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano condannato all’ergastolo, chiede di parlare con un magistrato. È di turno Scaglione. Pisciotta ricostruisce a lui i particolari e la dinamica di quella strage. Il magistrato assicura che tornerà l’indomani con un cancelliere. Ma Pisciotta muore dopo aver bevuto un caffè alla stricnina. Da Procuratore capo indaga anche sulla strage di Ciaculli e con l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo contribuisce a reprimere efficacemente la mafia, come attesta anche la Relazione della Commissione parlamentare antimafia.

Nondimeno, come scrisse Giovanni Falcone, il primo omicidio di un giudice ebbe “lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino”. Una strategia di attacco diretto, inedita fino a quel momento, che può far pensare a un cambiamento ai vertici di Cosa nostra. Tesi sostenuta anche da Tommaso Buscetta, celeberrimo collaboratore di giustizia, che, di fronte allo stesso Falcone, diceva di Scaglione: “Un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia”. Per il Boss dei due mondi, le menti e gli autori della strage furono Luciano Leggio e Salvatore Riina. La mafia siciliana stava cambiando, probabilmente in peggio.

Purtroppo, le indagini non portarono a prove sufficientemente certe a condannare nessuno, per cui, ad oggi, la verità giudiziaria è lontana dall’identificare i responsabili di quel doppio omicidio. Una cosa è certa, dice Pietro Scaglione, il nipote: “Mio nonno (riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Giustizia, previo parere del Csm) fu ucciso per avere svolto la sua attività giudiziaria in modo “specchiato e inflessibile” “.

Alessio Gaggero

La guerra in casa dei cambogiani e degli americani

Il 4 maggio del 1970, improvvisamente, la Guerra del Vietnam deflagrò all’interno degli Stati Uniti, assumendo le sembianze di una sorta di guerra in casa. Da anni il popolo americano vedeva sugli schermi televisivi i reportage del conflitto in corso in Vietnam, ma quel maggio di 49 anni fa, dal Sud Est Asiatico il conflitto esplose sul suolo statunitense. Quel 4 maggio, per gli statunitensi quella divenne assai simile ad una guerra in casa loro. Divenne, cioè, una realtà incontrovertibile, e ineludibile, l’esistenza di un fronte interno, lontano migliaia di chilometri da quello in cui si fronteggiavano, da un lato, l’esercito del Nord Vietnam e le forze comuniste del Sud Vietnam sue alleate, che aspiravano all’unione del Vietnam intero in unico Stato, sotto un regime comunista, e, dall’altro, le forze armate sud-vietnamite e quelle americane. La dimostrazione drammatica, per gli americani, della tangibile esistenza di una guerra in casa loro, il 4 maggio del ’70 fu rappresentata da 13 giovani studenti colpiti da circa 65 proiettili, sparati, in 13 secondi, da 28 soldati della Guardia Nazionale, alla Kent State University dell’Ohio. Dei 4 studenti che persero la vita, uno, William Schroeder, non era coinvolto nella dimostrazione che la Guardia Nazionale era andata a reprimere. Schroeder era membro del capitolo del servizio militare universitario.

Quel lunedì 4 maggio del 1970 gli oltre mille soldati della Guardia Nazionale erano stati inviati a reprimere l’occupazione dell’università statale della città di Kent da parte di circa 3.000 studenti contrari all’invasione della Cambogia da parte delle forze armate statunitensi, avviata pochi giorni prima, il 29 aprile, dal presidente degli Stati Uniti Richard M. Nixon [1]. Anche per i cambogiani, quel conflitto combattuto al di là dei loro confini, rispetto al quale erano stati fin lì neutrali, diventava una guerra in casa loro. Le vittime cambogiane nel giro di pochi anni diventarono milioni e gli orrori crebbero fino a rivaleggiare con quelli del nazifascismo.

«La teoria del pazzo» di Richard Nixon

Quella in Vietnam per gli americani era diventata una vera e propria guerra fin dal 1965 e poco alla volta aveva iniziato a dividere il popolo americano [2]. Nixon, eletto presidente nel novembre del ’68, proprio grazie alle frustrazioni e al dissenso sul conflitto in Vietnam svoltosi sotto l’amministrazione del democratico Lyndon Johnson, su una cosa era irremovibile: non aveva nessuna intenzione di diventare «il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra». E pensava che gli USA avrebbero potuto battere il Nord Vietnam non sul campo di battaglia, ma su quello psicologico. Si trattava di terrorizzare i comunisti, per indurli a sottomettersi alle sue proposte di accordo [3]. Così, in seguito, Nixon disse al Capo di gabinetto della Casa Bianca, H. R. Haldeman:

«La chiamo la “teoria del pazzo”. Voglio che i nordvietnamiti credano che ho raggiunto il punto in cui farei qualsiasi cosa pur di porre fine alla guerra. Faremo giungere alla loro orecchie, che “per Dio, sapete che Nixon è ossessionato dai comunisti. Non riusciamo a fermarlo quando è arrabbiato. E ricordatevi che tiene il dito sul bottone nucleare”, Vedrai che Ho Chi Min in persona in due giorni sarà a Parigi a chiedere la pace».

L’ambigua politica del principe cambogiano Nordom Sihanouk

Coerentemente con questa impostazione, dopo il giuramento come presidente (20 gennaio 1969), Richard Nixon decise che il suo primo obiettivo era la Cambogia. Qui, il principe Nordom Sihanouk, ottenuta l’indipendenza dalla Francia nel 1954, aveva condotto una politica alquanto ambigua e ondivaga. Confinante con la Tailandia e con il Vietnam, nemici tradizionali che più volte avevano tentato di invaderla nel corso dei secoli, la Cambogia aveva chiesto dapprima la protezione agli USA, ma quando, dalla primavera del ’65, le forze armate americane si impegnarono a difesa del Vietnam del Sud, il principe Sihanouk si avvicinò alla Cina, arrivando a rompere i rapporti con gli americani. Prevedendo la vittoria dei comunisti vietnamiti rispose positivamente alla richiesta di questi di poter usare il territorio cambogiano vicino alla frontiera con il Sud Vietnam per farvi passare armi e rifornimenti e installarvi proprie basi.

Il «diritto di caccia illimitata» a vietcong e nordvietnamiti in Cambogia e 14 mesi dii bombardamenti «di breve durata»

Il 29 dicembre del ’67, però, in un’intervista a Stanely Karnow, pubblicata sul Washington Post, Sihanouk disse che avrebbe concesso agli Stati Uniti un «diritto di caccia illimitata» a vietcong e nordvietnamiti in Cambogia, purché non venisse colpito alcun cittadino cambogiano [4]. Il presidente Lyndon Johnson, però, in quel momento era indisponibile ad estendere la guerra.

Era disponibile, invece, il suo successore, Nixon [5]. Il 17 marzo 1969, un paio di mesi dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Nixon ordinò il bombardamento sulla Cambogia, come rappresaglia contro una rinnovata offensiva dei comunisti vietnamiti nel Sud Vietnam.

Quest’operazione, che era stata definita di “breve durata”, durò di fatto per 14 mesi ininterrotti [6]. L’efficacia dei bombardamenti americani sulla Cambogia si rivelò da subito alquanto dubbia. I nordvietnamiti parevano tutt’altro che scoraggiati. Ma questa tattica rientrava tra le ambiguità e le oscillazioni dell’amministrazione Nixon rispetto al Sud Est Asiatico: Nixon, infatti, ripeteva che, come già per la guerra in Corea, voleva raggiungere «con il Nord Vietnam una pace, sì, ma con onore»[7]. Era uno slogan che politicamente gli giovava. Il popolo americano, secondo i sondaggi, nella primavera del ’69 aveva un’elevata fiducia nelle capacità del presidente di fronteggiare la questione vietnamita [8].

L’operazione Phoenix e la crescita del dissenso interno, preludio alla successiva guerra in casa

Il 15 ottobre del 1969, però, un movimento di protesta si legò alle voci critiche sollevatesi al Senato e al Congresso da parte di membri del Partito Democratico e da repubblicani indipendenti [9]. Era un movimento moderato, portato avanti da appartenenti alla classe media e non solo da studenti e hippies [10]. Circa 250.000 persone marciarono su Washington, al seguito di diverse personalità, tra cui la vedova di Martin Luther King [11]. A motivare quelle persone era anche la rivelazione di una discutibilissima operazione della CIA, l’operazione Phoenix: funzionari, collaboratori e sostenitori dei comunisti nel Vietnam del Sud erano stati uccisi in quest’attività segreta, per un totale di 6.187. Ma tra le vittime vi erano anche semplici contadini, denunciati da vicini invidiosi. Frequente poi era stato il ricorso alla tortura.

Il discorso di Nixon sulla «maggioranza silenziosa»

Nixon reagì con un discorso, il 3 novembre, in cui, lanciò un appello al popolo americano [12].

«Questa sera, a voi, grande maggioranza silenziosa dei miei compatrioti americani, chiedo il vostro sostegno. Uniamoci per la pace. Uniamoci contro la sconfitta. Dobbiamo capire questo: i nordvietnamiti non possono sconfiggere o umiliare gli Stati Uniti. Solo gli americani lo possono fare».

Il successo del discorso di Nixon fu impressionante. Gli indici di gradimento del presidente salirono notevolmente e migliaia di lettere e telegrammi di sostegno giunsero alla Casa Bianca.

«Abbiamo cominciato a prendere a calci nel culo quei bastardi di progressisti e continueremo a farlo» (Richard M. Nixon)

Per Nixon era più di una vittoria politica. Era una vittoria personale all’interno del suo antico conflitto contro intellettuali, liberal e progressisti. Con i suoi collaboratori esultò dicendo: «Abbiamo cominciato a prendere a calci nel culo quei bastardi di progressisti e continueremo a farlo». Poi incaricò il vicepresidente Spiro Agnew di somministrare quei calci. Costui attaccò subito la stampa e i telegiornali.

Li definì «un’élite ristretta e non eletta», che «non rappresenta, ripeto, non rappresenta il punto di vista dell’America». I democratici reagirono qualificando tali affermazioni come un sollecitare «gli istinti più bassi del pubblico» [13].

Le fatali oscillazioni, e la deposizione, del principe Sihanouk e il linciaggio dei vietnamiti in Cambogia

Come reazione ai bombardamenti sulle loro basi in Cambogia, i nordvietnamiti decisero si infiltrare 12.000 guerriglieri del movimento comunista cambogiano, che avevano addestrato nel Nord Vietnam. Erano i khmer-rossi. Ciononostante, nel gennaio del 1970, Sihanouk decise di non rinunciare all’annuale cura dimagrante in una clinica della Costa Azzurra [14]. Così il suo primo ministro, il generale Lon Nol e il vice di questi, principe Sosowath Sirik Matak  – poiché le bustarelle intascate per consentire il traffico di armi verso le basi nordvietnamite cambogiane gli sembravano poca cosa rispetto a quanto avrebbero potuto lucrare da un massiccio sostegno americano -, ai primi di marzo, esortarono i giovani cambogiani a saccheggiare le delegazioni vietnamite e vietcong presenti in Cambogia. Mentre una folla di cambogiani assetati di sangue, in un’esplosione di antico odio etnico, massacrava innocenti vietnamiti residenti in Cambogia, Lon Nol e Sirik Matak, che Nixon in via riservata aveva deciso di appoggiare, fornendo loro personale della CIA e soldati cambogiani addestrati segretamente in Sud Vietnam, ordinarono ai comunisti vietnamiti di andarsene dalle loro basi cambogiane lungo il confine con il Vietnam e programmarono di deporre il principe Sihanouk. Lo fecero il 18 marzo 1970, mentre costui, dopo aver cercato vanamente un appoggio presso i sovietici, ripartendo da Mosca, stava per recarsi a Pechino.

Il sanguinoso caos cambogiano e l’invasione americana

Nel giro di dieci giorni la Cambogia era nel caos. Bande rivali cambogiane si ammazzavano tra loro, arrivando a mangiare il fegato e il cuore degli avversari assassinati. Vigilantes cambogiani, organizzati dalla polizia e da funzionari governativi, davano la caccia ai residenti vietnamiti, bambini e donne inclusi. Unità sudvietnamite, accompagnate da istruttori e consiglieri americani, penetravano segretamente in Cambogia, mentre i nordvietnamiti e i khmer-rossi nelle loro basi lungo il confine vietnamita combattevano con successo contro l’esercito cambogiano. Sihanouk, a Pechino cercò l’appoggio della Francia, ma subito dopo annunciò che avrebbe appoggiato i comunisti, cambogiani e nordvietnamiti, «per liberare la patria». Nixon, il 26 aprile superò ogni indugio e decise di procedere con l’invasione della Cambogia. Annunciò tale mossa la sera del 30 aprile in un discorso televisivo. Presentò l’operazione come una mossa tattica di secondaria importanza, tesa solo a colpire le basi comuniste in Cambogia, così da poter più velocemente concludere vittoriosamente il conflitto con i nordvietnamiti. Lo stava allargando, invece, portando la guerra in casa dei cambogiani. Mentre parlava, infatti, 20.000 militari sudvietnamiti e americani stavano attaccando le basi nordvietnamite e vietcong in Cambogia.

La sparatoria del 4 maggio alla Kent State Univerity fa dilagare la guerra in casa negli USA

Se la maggioranza degli americani continuava ad appoggiare il presidente, i politici democratici, la stampa, gli insegnanti, molti dipendenti dell’amministrazione federale, parecchi imprenditori e liberi professionisti erano angosciati e nettamente contrarsi all’estensione della guerra in casa cambogiana. L’invasione della Cambogia avrebbe dovuto essere deliberata dal Congresso, inoltre contraddiceva l’impegno di Nixon di porre fine alla guerra in Vietnam. Alla Kent State University gli studenti pacifisti tentarono di occupare l’edificio in cui venivano addestrati gli ufficiali della riserva. Il governatore James Rhodes, un nixoniano di ferro, promise ai dimostranti che li avrebbe «fatti fuori» e inviò la Guardia Nazionale per imporre l’ordine. Come abbiamo visto, persero la vita quattro giovani, di cui uno che non era un dimostrante pacifista. Quelle morti fecero esplodere la protesta in tutti gli Stati Uniti. Più di 400 università e scuole superiori furono chiuse per gli scioperi di insegnanti e studenti. Oltre 100.000 persone marciarono su Washington, circondando la Casa Bianca e altri uffici governativi. La polizia e le forze armate tornarono a sparare in altre manifestazioni, uccidendo di nuovo. Una sera, Nixon, accompagnato dal suo valletto andò al Lincoln Memorial, dove i giovani dissidenti tenevano una veglia notturna. Fece uno strano monologo, nel tentativo di esprimere loro la sua comprensione e vicinanza. Pochi giorni dopo, però, ordinò la formazione di un gruppo segreto per spiare gli oppositori, sia i politici democratici che quelli esterni al partito Democratico. Quando gli fu fatto notare che lo spionaggio interno era illegale, rispose:

«Quando lo fa il presidente, allora è legale».

Alberto Quattrocolo

 

[1] Sulla rubrica Corsi e Ricorsi abbiamo fatto riferimento alla figura di Richard Nixon nell’ambito della caccia alle streghe anticomunista, avviata nella seconda metà degli anni Quaranta e divenuta “maccartismo” dal 1950, nel post sull’elezione di John Kennedy alla carica di presidente, di cui egli era l’avversario del partito Repubblicano, nel post dedicato alla fallita invasione di Cuba, nel post sui bombardamenti nel Nord Vietnam, in quello sull’eccidio di My Lai e in quello sullo scandalo Watergate

[2] Abbiamo parlato qui, sulla rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’incidente del golfo del Tonchino, verificatosi sotto la presidenza di Lyndon Johnson, già vicepresidente di John F. Kennedy e subentrato a questi al momento del suo assassinio il 22 novembre del 1963 (lo abbiamo ricordato qui). Johnson aveva vinto poi le elezioni del 1964, con un successo travolgente grazie al suo programma di estensione e rafforzamento del Welfare State (il programma della Great Society), ma alla fine del suo mandato lui e il suo partito, quello democratico, erano in una grave crisi di consensi. Nel marzo del 1968, a circa 9 mesi dalle nuove elezioni presidenziali, il candidato repubblicano Richard M. Nixon affermò che aveva «un piano segreto per il Vietnam». Era una balla. Non aveva alcun piano. Però, aveva compreso che l’escalation militare che Lyndon Johnson stava portando avanti era inutile, poiché la vittoria sul campo di battaglia era impossibile.

[3] Come aveva fatto con la Corea del Nord il presidente Dwight Eisenhower, di cui Nixon era stato vicepresidente. Eisenhower durante i negoziati con i nordcoreani, all’inizio del 1953, per superare lo stallo, aveva fatto sapere loro di essere disposto ad impiegare la bomba atomica se non si ammorbidivano, ottenendo un concreto progresso. Quindici anni dopo Nixon intendeva emulare il suo precedente capo.

[4] Poi nel gennaio del 1968, ripeté la stessa proposta all’ambasciatore americano in Cina, Chester Bowles, in visita ufficiale nella capitale cambogiana Phnompenh. Infatti, nel 1967, la Cina, sprofondata com’era nell’isolamento della “rivoluzione culturale” di Mao Zedong, non rappresentava più una solida protezione per il principe Nordom Sihanouk, il quale osservava con apprensione la concentrazione di forze nordvietnamite vietcong (i comunisti del Sud Vietnam che conducevano la guerriglia contro il governo filoamericano di Saigon).

[5] Costui, una settimana dopo il giuramento, ascoltò la proposta del nuovo capo delle forze armate americane in Vietnam, il generale Creighton Abrams, succeduto al gen. Westomerland. Abrams raccomandò un bombardamento aereo di breve durata sulle basi cambogiane dei vietcong, sostenendo che vi fosse il quartiere generale comunista e che nessun cambogiano abitava nei paraggi. Si seppe poi che Abrams mentiva consapevolmente: quelle aree erano popolate di civili. I cambogiani cominciavano a vivere il conflitto del Vietnam come una guerra in casa loro. Da lì a poco, la conta delle vittime sarebbe salita a livello di centinaia di migliaia

[6] Non potendo continuare a bombardare il Nord Vietnam, come aveva fatto Lyndon Johnson, per non pregiudicare i tentativi di dialogo in corso a Parigi con il Vietnam del Nord, Nixon aveva deciso di mostrare la sua faccia feroce sulla formalmente neutrale Cambogia. Naturalmente era indispensabile che i bombardamenti restassero segreti, sia per evitare una crisi internazionale che per non risvegliare il sentimento pacifista negli USA. In maggio, però, il New York Times, con uno scoop, rivelò i bombardamenti. La notizia negli USA non sollevò la reazione pubblica temuta da Nixon. Costui e il suo consigliere per la sicurezza, Henry Kissinger, però, s’infuriarono e chiesero al direttore dell’FBI, Edgar J. Hoover, di aiutarli a soffocare queste manifestazioni giornalistiche antipatriottiche. L’FBI mise sotto controllo i telefoni di 14 giornalisti e di 13 funzionari del governo. Erano i primi abusi di autorità da parte di Nixon e dei suoi collaboratori che sarebbero emersi nel corso dell’inchiesta sul Watergate.

[7] Nixon cercò di influenzare l’URSS, proponendo anche a costoro di far pervenire al Vietnam del Nord, la “teoria del pazzo”, ma i sovietici, sapendo che, senza l’appoggio sovietico, Ho Chi Min e i suoi si sarebbero immediatamente spostati verso la Cina, risposero che ad essi interessava migliorare le relazioni con gli USA «a prescindere dal Vietnam». Nixon, allora, contemplò l’alternativa della «vietnamizzazione del conflitto»: un ritiro delle truppe combattenti da Vietnam del Sud, per lasciare a questo la responsabilità della guerra in casa loro. Il che, però avrebbe inevitabilmente determinato la vittoria delle forze comuniste del Vietnam del Nord. Per scongiurare tale eventualità, il presidente aveva in programma di riempire l’esercito del Sud Vietnam di consiglieri, attrezzature, bombardieri B-52, ecc. Contemporaneamente, però, Nixon intendeva negoziare direttamente con i nordvietnamiti, escludendo dalle trattative il governo sudvietnamita, per proteggere il quale le truppe americane erano lì almeno dalla primavera del ’65A luglio di quell’anno scrisse una lettera a Ho Chi Min in cui auspicava che una conferenza tra di essi posse fine al sanguinoso conflitto, facendogli anche pervenire un ultimatum: se entro il 1° novembre non si verificava una svolta diplomatica avrebbe fatto ricorso a misure di «grande efficacia e potenza». Il 2 settembre, però, il settantanovenne leader nordvietnamita morì. E la risposta di Ho Chi Min, già malato, probabilmente non realmente sua, alla lettera di Nixon fu un freddo rifiuto. La sconfitta del Vietnam del Sud e dei loro alleati americani era per essi un dovere sacro.

[8] Il presidente, però, frustrato dall’immutabilità del conflitto, decise infine di riprendere i bombardamenti sul Vietnam del Nord, che erano stati interrotti da Johnson nel novembre del ’68.

[9] Costoro avevano proposto risoluzioni per impegnare il governo a ritirare tutti i soldati americani dal Vietnam entro la fine del ’70.

[10] Era un movimento promosso da un ex studente di teologia, il venticinquenne Sam Brown, intenzionato a radicare la protesta, declinata in termini non violenti, nelle comunità, quindi al di fuori dalle università.

[11] Vi aderirono anche diverse star hollywoodiane (Warren Beatty, Jane Fonda, Joanne Woodward, Paul Newman e Marlon Brando, tra le altre, come abbiamo visto nei post Paul Newman, un uomo oggiQuando Marlon Brando rifiutò l’Oscar perché «non siamo umani»).

[12] In quel discorso confermò la sua intenzione di negoziare la cessazione delle ostilità con il governo del Nord Vietnam, a condizione che riconoscesse quello del Sud, e contestualmente ricordò di  essere disposto ad assumere «misure forte ed efficaci» di tipo bellico

[13] Ma la reazione più significativa fu quella del movimento di protesta. Dodici giorni dopo, il 15 novembre 1969, la manifestazione ebbe un’adesione superiore a quella del mese prima. Infatti, il 12 novembre erano emersi i fatti relativi all’eccidio di civili sudvietnamiti My Lai da parte di soldati americani (l’abbiamo ricordato nel post 12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai). Da quel momento in poi, la guerra del Vietnam per una corposa minoranza degli americani diventò «la guerra di Nixon». Pochi mesi dopo divenne anche una guerra in casa, combattuta con fucili a baionette innestate nel campus di un’università statale.

[14] Sihanouk a quel tempo poteva ancora contare sulla lealtà dei contadini, agli occhi dei quali era un dio-re, per quanto s’impoverissero ogni anno di più per le sue forsennate politiche economiche, ma non più sulle classi medie di Phnompenh.

Fonti

AA.VV., NAM – cronaca della guerra in Vietnam 1965-1975, Novara, De Agostini, 1988,

Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 1985,

Neil Sheehan, Vietnam. Una sporca bugia, Milano, Edizioni Piemme, 2003

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