1978, approvata la legge n. 194 che introduce e disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza

Nel 1973, la diciassettenne Gigliola Pierobon fu rinviata a giudizio per essere ricorsa all’aborto clandestino: grazie al suo coraggio e a quello della sua avvocata Bianca Guidetti Serra, il processo divenne un grande evento mediatico capace di portare nelle case degli italiani il tema dell’interruzione di gravidanza, in anni in cui il corpo delle donne era estromesso non solo dal dibattito politico, ma anche dalle conversazioni quotidiane, e l’aborto era sanzionato con la reclusione da due a cinque anni in quanto delitto “contro l’integrità e la sanità della stirpe”.

Anche da quella vicenda presero forza le lotte per legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza, che condussero, il 22 maggio 1978, alla tormentata approvazione della legge n. 194. Oltre ad affermare il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, all’assistenza ospedaliera pubblica in caso di interruzione per motivi di salute, economici, sociali o familiari, il testo della nuova norma dichiarava che l’intervento “non deve essere un mezzo per il controllo delle nascite” e a tal fine destinava 50 miliardi di lire l’anno per finanziare i consultori territoriali, nati tre anni prima e all’epoca non ancora del tutto andati a regime.

Il lungo cammino che portò alla regolamentazione dell’aborto vide il Paese schierato su fronti opposti. Manifestazioni, sit-in, auto-denunce, assemblee di auto-consapevolezza, i primi consultori autogestiti e i viaggi verso le cliniche inglesi e olandesi organizzati dal CISA (Centro Informazioni per la Sterilizzazione e l’Aborto); la sentenza della Corte Costituzionale che nel ‘75 sancì la prevalenza della salute della madre rispetto alla vita del nascituro, riconoscendo la legittimità dell’aborto terapeutico; la proposta di referendum abrogativo degli articoli del codice penale riguardanti le diverse fattispecie di reato d’aborto, promossa dalla Lega XIII maggio e da L’Espresso, unitamente a Partito Radicale e Movimento di liberazione della donna, Lotta continua, Avanguardia operaia e PdUP-Manifesto, che raccolsero oltre 700.000 firme; sei proposte di legge sull’aborto, avanzate da PCI (schieratosi con molto ritardo nella campagna pro-choice), Liberali, PSDI, Movimento di Liberazione della Donna e DC.

Nonostante la decisa condanna del mondo cattolico, le incertezze dei politici e le tante ambivalenze che generarono criticità (ancora attuale quella relativa all’obiezione di coscienza), la legge fu varata e dal 5 giugno 1978 anche negli ospedali italiani fu praticabile l’interruzione di gravidanza. In un momento storico in cui anche la pillola anticoncezionale era illegale – fino al 1971 -, la battaglia civile per ottenere la depenalizzazione dell’aborto rivelò tutte le contraddizioni di un’Italia profondamente divisa.

Soprattutto, il dibattito che precedette l’approvazione della legge 194 produsse un autentico choc culturale in merito a temi ritenuti fino ad allora innominabili. Nell’Italia degli anni Sessanta, la legge che costringeva le donne ad abortire clandestinamente faceva da paravento a una realtà che non aveva né censo né classe, di cui tutti sapevano, ma che non veniva riconosciuta come problema. E invece il problema c’era: l’aborto era un’industria dalle solide fondamenta costruite sul corpo di milioni di donne. La voce delle donne mise improvvisamente in luce una quotidianità dell’aborto fatta di silenzi che nascondevano indicibili umiliazioni, di pratiche mediche rischiose che mettevano in pericolo la vita, di improponibili geografie della clandestinità rispondenti a sistemi di interessi che, sulla necessità e sulla disperazione delle donne, hanno costruito solide fortune. Una situazione che costringeva il sistema di valori di ognuna a rimodularsi rispetto all’urgenza di trovare una qualunque via d’uscita. L’attaccamento ai precetti della Chiesa e le convinzioni morali fino ad un momento prima credute indiscutibili, le credenze, le diffidenze, i costumi sessuali appresi, l’adesione alla morale dominante, le paure: di fronte a una gravidanza non voluta tutta questa rete emozionale subiva una scossa molto violenta.

Negli anni Sessanta modelli radicati imponevano ancora la maternità come principale realizzazione di sé per le donne, cui si abbinava una diffusa ignoranza e una drammatica limitatezza non solo dei più elementari servizi sociali, ma anche dei servizi sanitari e di assistenza al parto. Questo il terreno su cui poggiava il milione e mezzo di aborti clandestini stimato dall’Unesco all’inizio degli anni Settanta in Italia e i settanta milioni di lire di giro d’affari annuo per chi li praticava.

All’umiliazione di un processo arrivavano solo le donne più povere e isolate, che abortivano da sole o con l’aiuto di altre donne, nell’impossibilità di ricorrere a un medico o non riuscendo a trovare alternative di alcun genere: “Ho sei figli e ho abortito cinque volte; mio marito entra ed esce dal manicomio. Fino a quando ho potuto ho fatto l’operaia, ora lavoro come donna a ore. Nel 1972 ho fatto l’ultimo aborto. Mi chiedo se è giusto che lo stato processi me senza avermi dato niente, per me e per i miei figli e se adesso devo andare in galera lasciando loro e mio marito in quelle condizioni solo perché non potevo metter al mondo il settimo figlio e non avevo i soldi per andare in Svizzera ad abortire.”. I processi non arrivavano quasi mai a un verdetto, ma venivano rimandati a data da destinarsi oppure conclusi da un pronunciamento di “perdono” nei confronti dell’accusata: la legge non assolveva quindi, perdonava le donne, che restavano però moralmente criminali.

Solo al termine di un percorso durato più di un decennio, attraverso un confronto dialettico serrato e una negoziazione tenace, frutto di una complicata elaborazione femminista, si arrivò all’approvazione della legge 194, per certi aspetti controversa, ma attraverso la quale le donne poterono dirsi finalmente “persone”.

Contro la nuova legge furono avviate tre raccolte di firme per indire altrettanti referendum: una da parte dei Radicali (che ne chiedevano una modifica in senso ancor più ampio) e due da parte del cattolico Movimento per la Vita (una per un’abrogazione “minimale”, una per l’abrogazione totale: quest’ultimo verrà poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale). Il 17/18 maggio 1981 si votò, in un clima reso incandescente dal recente attentato a Giovanni Paolo II: la proposta cattolica fu bocciata a schiacciante maggioranza (68 per cento), quella radicale anche (88 per cento) e la legge 194 rimase in vigore.

Dall’entrata in vigore della legge sono stati 35 i ricorsi per incostituzionalità: tutti i procedimenti sono stati respinti, ma dimostrano comunque che la norma sull’interruzione volontaria di gravidanza resta una delle più contestate.

Eppure, prima del ’78 si registravano tra le 350 e le 450mila interruzioni di gravidanza l’anno, per lo più trattate in ospedale come aborti spontanei, quando in realtà erano procurati; l’anno successivo all’approvazione della 194, gli aborti documentati scesero a 237mila. Stando ai dati raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica delle Ivg, gli aborti nel 2016 sono stati 84.926, confermando una diminuzione costante dal 1982.

Secondo la Consulta di bioetica, tuttavia, è la massiccia crescita dell’obiezione di coscienza degli operatori sanitari, che in inglese prende il nome di “rifiuto delle cure”, uno degli aspetti principali che mette a rischio l’applicazione della legge, soprattutto al Sud, dove l’obiezione riguarda l’83,5% dei ginecologi, sfiorando il 100% in Molise, sebbene la stessa 194 preveda un bilanciamento tra obiezione di coscienza e applicazione della legge e obblighi le Regioni a garantire la continuità assistenziale. Secondo l’Associazione Luca Coscioni, nonostante l’aborto sia legalizzato, l’obiezione di struttura, non ammessa dalla legge 194 (solo il 60% degli ospedali con reparto di ostetricia ha un servizio IVG) e la dilagante obiezione di coscienza aggravano anno dopo anno il disservizio in molte regioni, limitando di fatto il diritto alle scelte riproduttive e alla salute di molte donne che vivono nel nostro paese. Anche in conseguenza di ciò, in Italia persiste un sommerso di aborti clandestini per cui ogni anno vengono condannati sette operatori sanitari per interruzioni praticate in strutture non idonee, per lo più studi medici privati.

L’11 aprile 2016, il Comitato europeo dei diritti sociali, organismo del Consiglio d’Europa, ha condannato l’Italia per aver violato il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire, riconoscendo che esse incontrano “notevoli difficoltà” nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, anche per l’alto numero di medici obiettori di coscienza.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Aborto, la legge 194 compie quarant’anni. Fra le priorità regolamentare l’obiezione di coscienza”, www.repubblica.it; M. Campitelli, “Aborto, 35 anni fa approvazione legge 194. La più contestata, ma anche più avanzata”, www.ilfattoquotidiano.it; “40 anni di legge 194, quando per la prima volta l’aborto fu possibile”, www.rainews.it; L. Melissari, “I quarant’anni della legge sull’aborto in Italia”, www.tpi.it; www.uaar.it; L. Balzarotti, “Quarant’anni fa nasceva la legge 194: l’aborto non era più un reato”, www.iodonna.it; L. Perini, “Quando la legge non c’era. Storie di donne e aborti clandestini prima della legge 194”, https://storicamente.org; C. Valentini, “Gigliola Pierobon, la contadina veneta grazie a cui l’aborto non è più un reato”, http://espresso.repubblica.it

Il massacro fascista dei cristiani etiopici a Debra Libanos

Il monastero cristiano copto di Debra Libanos, fondato nel XIII secolo, a circa 80 km da Adis Abeba, la capitale dell’Etiopia, divenne tristemente noto per via delle efferatezze della violenza fascista degli occupanti italiani. Il villaggio conventuale di Debra Libanos, infatti, tra il 21 e il 29 maggio 1937, entrò nella storia, nelle pagine più nere del colonialismo europeo in Africa, ma una storia che noi italiani non volemmo – e non vogliamo – conoscere né ricordare e ancor meno vogliamo (e ci fanno) studiare a scuola. Applicando un programma di sterminio, infatti, le truppe coloniali italiane, comandate dal generale Piero Maletti, per ordine del viceré, di Etiopia Rodolfo Graziani, massacrarono gli appartenenti alla chiesa copta etiopica presenti nella città conventuale di Debra Libanos. L’obiettivo della strage non era soltanto il conseguimento della sottomissione definitiva della chiesa cristiano copta e di quei pochi membri non trucidati e non ancora deportati della classe dirigente etiopica.

«Passi pertanto per le armi tutti monaci indistintamente, compreso vice-priore»

Il 19 maggio 1937, le truppe coloniali italiane avevano circondato la città-convento di Debra Libanos. Alle sette di sera, il generale Maletti ricevette da Rodolfo Graziani, nominato, un anno prima, il 20 maggio 1936, dal Capo del Governo, Benito Mussolini, viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe di occupazione, un telegramma. A Maletti veniva ordinato di uccidere «tutti [i] monaci indistintamente, compreso [il] vice-priore».

Il telegramma si chiudeva con la richiesta del viceré al generale di dargli conferma dell’esecuzione dell’ordine e di comunicargli il numero delle persone trucidate. Contemporaneamente, il viceré Graziani assicurò l‘ex ministro delle Colonie, diventato Ministro dell’Africa Italiana, Alessandro Lessona, che le esecuzioni sarebbero state

«effettuate in luoghi isolati e che nessuno – ribadisco: nessuno – può esserne testimone».

 

L’esecuzione fascista di 320 etiopici colpevoli di essere cristiani

Il generale Maletti, quindi, cercò un luogo adatto, in prossimità della città conventuale di Debra Libanos, che si prestasse alla comoda realizzabilità del massacro e alla sua segretezza. Maletti trovò quanto faceva al suo caso nella località di Laga Wolde, una spianata disabitata e raggiungibile dai camion, chiusa ad ovest da cinque colline e ad est dal fiume Finche Wenz. Separati sommariamente i religiosi dagli occasionali pellegrini, il 21 maggio, Maletti alle 13,00 in punto comunicò di aver fatto fucilare 320 persone. Due ore e mezza dopo il viceré Graziani fece arrivare a Roma un telegramma in cui assicurava che il plotone d’esecuzione aveva tolto la vita a «297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza».

 Un plotone d’esecuzione di religione musulmana

Per il massacro Maletti non si era servito degli eritrei arruolati nelle truppe coloniali italiane, essendo questi di religione cristiana. Il governo fascista aveva usato le truppe eritree, cristiano copte nella repressione della resistenza in Libia, approfittando, esaltando e strumentalizzando il loro odio religioso nei confronti dei resistenti libici (lo abbiamo ricordato nel post L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa). Campione assoluto di questa operazione spregiudicata e criminale era stato Graziani, stimolato ed entusiasticamente sostenuto da Mussolini [1].

Nell’aprile del ’37, Graziani aveva scritto al generale Pietro Maletti:

«I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».

Così, Maletti, per la realizzazione del bagno di sangue di Debra Libanos, impiegò gli ascari libici e somali, di fede musulmana, e, come scrisse, «i feroci eviratori galla della banda Mohammed Sultan: 1.500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile».

Furono pertanto gli ascari islamici a scaricare dai camion 320 esseri umani, a farli sedere lungo l’argine del fiume in secca, allineati, con la schiena rivolta verso il plotone di esecuzione. Poi facevano fuoco, e un ufficiale italiano sparava un colpo di grazia, vicino all’orecchio, a quelli che erano rimasti in vita.

Nessuno fu risparmiato

Qualcuno di coloro che si trovavano a Debra Libanos, però, era stato risparmiato fino a quel pomeriggio del 21 maggio 1937. Come relazionò Graziani al ministro Lessona, erano stati «risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine». Costoro erano stati rinchiusi nelle chiese di Debra Berhàn, mentre il convento di Debra Libanos era stato chiuso. Tre giorni dopo, però, il viceré Graziani ordinava a Maletti di procedere alla «liquidazione completa». Maletti, allora, fece scavare due fosse in località Engecha, a pochi km da Debra Berhàn e il 26 maggio faceva a pezzi con le mitragliatrici 129 diaconi. Come scrisse Angelo Del Boca, «martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani».

Le vittime furono di più, molte di più.

In realtà, però, non furono ammazzate soltanto le persone indicate nei rapporti ufficiali. Uno studio dei professori Ian l. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, condotto tra il 1991 e il 1994 provò che il 21 maggio erano state ammazzate tra le 1.000 e le 1.600 persone. Inoltre, un successivo studio, completato nel ’98, evidenziava che il 24 maggio a Engecha oltre ai diaconi di Debra Libanos, inizialmente risparmiati, erano state ammazzate altre 276 persone, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti appartenenti ad altri monasteri cristiani. Sicché il totale del massacro del 24 maggio sarebbe di 400 e quello complessivo ammonterebbe ad una cifra oscillante tra 1.423 e 2.033 vittime. Questa macabra contabilità va, poi, integrata, con i massacri compiuti nei giorni immediatamente precedenti da Maletti nella sua marcia su Debra Libanos. Infatti, ricevuto l’ordine di Graziani, egli era partito, il 16 maggio, da Debra Berhàn, con le sue truppe, alla volta della città conventuale, seminando la morte lungo il percorso. Nei suoi rapporti riferì di aver fatto incendiare 115.422 abitazioni (tucul), 3 chiese, un convento, dei cui monaci aveva ordinato la fucilazione e sterminato 2.523 partigiani etiopici.

Le premesse e le conseguenze dei massacri di Debra Libanos

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Perché ammazzare preti, insegnanti e studenti, rei soltanto di predicare e studiare il cristianesimo? Cosa avevano fatto di male a Mussolini e al suo pupillo Graziani?

Abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, che Benito Mussolini aveva voluto l’invasione dell’Etiopia, senza farla precedere da una dichiarazione di guerra, per potersi pavoneggiare come l’uomo della provvidenza che aveva riportato l’Italia ai fasti dell’Impero romano. Nonostante l’uso di un’immensa quantità di uomini e mezzi, nonostante l’uso dei gas sulle truppe etiopi, sui ribelli e su pacifici pastori e contadini (si veda il post 27 ottobre ’35: l’Italia va a tutto gas… in Etiopia), dopo un anno e mezzo di combattimenti e stragi di civili, gli etiopici non si erano rassegnati alla dominazione italiana. E, il 19 febbraio del 1937, due giovani studenti di origine eritrea avevano compiuto un attentato ai danni del viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani. Come rammentato nel post La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana, la reazione disposta da Mussolini era stata di una ferocia rara. Non soltanto gli italiani residenti ad Adis Abeba, le camicie nere in prima fila, si erano lanciati in efferati linciaggi per le strade della città, ammazzando donne, vecchi e bambini, ma poi, in conformità, all’ordine del duce («tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi»), erano stati fucilati un altro migliaio di civili. Inoltre, sempre, con l’autorizzazione di Mussolini, erano stati deportati in campi di concentramento e, addirittura, in strutture penali italiane, tutti gli appartenenti, attuali o potenziali, alla classe dirigente etiopica che era stato possibile catturare (notabili, giovani cadetti, studenti, laureati nelle università europee e statunitensi…). Inoltre, si erano massacrati anche i poveri cantastorie e gli eremiti (abbiamo rievocato questo orrore nel post Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi). Ma l’idea di Graziani e Mussolini era che, per sottomettere del tutto l’indomita popolazione etiope, occorresse eliminare anche ciò che spiritualmente la sorreggeva. Non potendo ammazzare la religione, pensarono di ammazzare i religiosi, cioè il clero cristiano-copto [2].

Neppure questo disegno criminale, però, raggiunse l‘obiettivo. Come ammise, indirettamente, lo stesso Graziani in uno dei suoi tanti rapporti al governo di Roma, le continue violenze avevano ingrossato lo schieramento degli insorti [3].

Alberto Quattrocolo

[1] Il 18 marzo di quel ’37, cioè circa due mesi prima, Benito Mussolini, in visita in Libia, ricevuta la Spada dell’Islam, in qualità di Protettore dell’Islam, dalle mani di un capo berbero, sostenitore dell’alleanza con gli italiani, disse solennemente:

«L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».

[2] Fu mostrando come prova un documento redatto in modo vago dal magistrato militare, che aveva investigato sull’attentato, il maggiore Franceschini, che avrebbe provato la correità dell’intera comunità di Debra Libanos, che Graziani impartì a Maletti l’ordine di andare a Debra Libanos e fucilare tutti i monaci del convento.

[3] Deluso per la mancata sottomissione dell’Etiopia, Mussolini, l’11 novembre del 1937, richiamò Graziani in Italia, sostituendolo con Amedeo di Savoia, duca di Aosta. Poi nel 1940. Quando fece entrare l’Italia in guerra accanto alla Germania nazista, il duce affidò a Graziani il compito della difesa della Libia dalle truppe inglesi, quindi, nell’autunno del 1943, lo nominò Ministro per la Guerra nell’orrenda Repubblica di Salò. Il 25 aprile del 1945, Graziani non seguì il duce in fuga verso la Svizzera e non finì a piazzale Loreto (che abbiamo ricordato in questo post). Si arrese agli americani. «Al processo», ricorda Del Boca, «fra le imputazioni mancava ogni riferimento ai crimini commessi in Africa. Inutilmente il governo etiopico avrebbe chiesto la sua estradizione. Oggi, a Filettino, suo paese natale, è venerato come un santo».

Fonti

Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014
Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008
Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Milano, 2015
Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009.

A undici anni dall’ultimo proiettile, tornano le BR

Roberto Ruffilli, questo il nome dell’ultima vittima delle Brigate Rosse. Il professore e senatore della Democrazia cristiana fu stroncato nel 1988, poco prima che scissioni interne e arresti portassero al disgregarsi dell’organizzazione terroristica che rapì e assassinò Aldo Moro. Per diciotto anni contribuì a rendere tali gli anni di piombo. Ne passarono poi undici senza bombe o proiettili che portassero il marchio della stella a cinque punte. La mattina del 20 maggio 1999, però, quel passato tornò a far paura. A uccidere.

Professore di diritto del lavoro tra Catania, Napoli e Roma, fu anche amministratore e consigliere dell’Ente Nazionale Assistenza al Volo, nonché consulente del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Agli occhi degli estremisti armati, un servitore dello Stato.

Grazie ai testimoni, la ricostruzione giudiziaria della dinamica fu piuttosto lineare. D’Antona esce di casa verso le 8.00, percorre a piedi la sua strada fino a un cartellone pubblicitario, che lo cela agli sguardi che arrivano dalla carreggiata; qui viene bloccato da due persone, già appostate in un furgone lì vicino da quasi tre ore: gli scaricano addosso tutto il caricatore, per assicurarsi che non riprenda mai più a respirare, e se ne vanno in direzioni opposte. La vita del professore si ferma, il terrore ricomincia.

Bastano poche ore e inizia a circolare un lungo documento di rivendicazione dell’agguato:

Il giorno 20 maggio 1999, a Roma, le Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Combattente hanno colpito Massimo D’Antona, consigliere legislativo del Ministro del Lavoro Bassolino e rappresentante dell’Esecutivo al tavolo permanente del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”. […]

In quegli anni era infatti in atto un tentativo trasversale di ristrutturazione del mondo del lavoro. Quel Patto per l’occupazione e lo sviluppo ne faceva parte, ma non piaceva ai nuovi terroristi rossi, che lo consideravano:

[…] centrale nella contraddizione classe/Stato, perno su cui l’equilibrio politico dominante intende procedere nell’attuazione di un processo di complessiva ristrutturazione e riforma economico-sociale, di riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo.

Le Nuove Brigate Rosse, o Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Combattente, sorsero dalle ceneri della vecchia organizzazione e tentarono di riprenderne l’opera, andando a colpire  uomini dello stato e personalità cardine.

Per quattro anni riuscirono a tenere viva la lotta armata di matrice comunista a fine eversivo: D’Antona fu, infatti, solo la prima delle vittime. Nel 2002 colpirono Marco Biagi, altro consulente del Ministero del lavoro, promotore di una riforma del lavoro, la cui legge prese il suo nome. L’anno successivo, temendo di essere scoperti dagli agenti della PolFer, Galesi e Lioce aprono il fuoco sul treno Roma-Firenze su cui stanno viaggiando. La testa dell’organizzazione cade in quell’occasione: Galesi, dopo aver ucciso un agente, viene ferito a morte, mentre Lioce viene catturata. Le Nuove BR vengono sostanzialmente smantellate, anche grazie alle numerose e dure condanne inflitte agli attentatori.

 

Alessio Gaggero

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La strage nazifascista al Passo del Turchino

In diciassette erano scampati alla strage della Benedicta (alla quale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi di Me.Dia.Re. abbiamo dedicato un post). Finiti in prigione furono tra coloro che vennero prelevati dal carcere genovese di Marassi, caricati su dei camion e portati, oltre il passo del Turchino, giù per un paio di km nei prati del Bric Busa.

Erano le prime ore del mattino del 19 maggio del 1944. L’Italia del Nord era sotto il dominio della Repubblica Sociale Italiana ed occupata dalle truppe del Terzo Reich. A lottare contro i fascisti italiani e contro i tedeschi c’erano i partigiani.

Qualche giorno prima di quel 19 maggio ’44, vale a dire il 15, alle sette di sera uno di loro travestito da tenente tedesco era entrato nel cinema Odeon di Genova, requisito dal comando tedesco per essere destinato all’uso esclusivo dei soldati tedeschi. Il partigiano riuscì ad uccidere quattro marinai tedeschi e e a ferirne altri 16.

La rappresaglia terroristica fatta dai nazifascisti superò il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in atto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Infatti, oltre ai diciasette di cui si è fatto cenno, altri quarantadue antifascisti furono prelevati dal carcere di Marassi. Cinquantanove in tutto. Di cui molti sotto i vent’anni.

Quel mattino del 19 maggio del 1944 furono spinti a gruppi di sei su delle tavole, allungate su una grande fossa, che il giorno prima un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo tale che ognuno dei destinati all’esecuzione, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.

Per la strage del Turchino, come per quella della Benedicta e per quelli di Portofino e di Cravasco, in cui i nazifascisti trucidarono complessivamente 246 persone, Siegfried Engel, capo delle SS a Genova, conosciuto come il «boia di Genova», fu condannato all’ergastolo in Italia, soltanto, nel 1999. Però, non scontò mai la pena in quanto la prassi diplomatica tedesca non accettava l’estradizione. Nel 2002, novantatreenne, Engel venne stato processato ad Amburgo, dove venne condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra. Non li scontò per via dell’età avanzata. Morì nel 2006, a 97 anni, senza aver fatto un giorno di carcere.

Quanto osservato a proposito della Benedicta vale anche per questa strage del passo del Turchino e per le tante altre commesse da fascisti e nazisti.

«Questa paradossale dilazione temporale, connessa a ragioni di politica internazionale e interna, ha inciso pesantemente sulla possibilità di pervenire a una più chiara disamina dell’occupazione tedesca e dei rapporti tra le sue strutture di comando e la RSI, e ha contribuito alla creazione di meccanismi degenerativi di rimozione o falsificazione della memoria, in gran parte impedendo l’operazione “pedagogica” consistente nell’evidenziazione degli orrori del nazifascismo attraverso le ricostruzioni processuali, e soprattutto mediante le narrazioni, in sede dibattimentale, dei testimoni, vittime di tali orrori.

La mancanza di un processo unitario per le stragi nazifasciste ha comportato la dispersione dell’attenzione processuale nei rivoli rappresentati da vicende giudiziarie slegate fra loro, frammentate nel tempo e nello spazio: mancò una visione d’insieme e uno sforzo interpretativo volto a dar conto in una chiave complessiva dell’intero fenomeno. Eppure, già all’epoca, da parte degli Alleati fu osservato che i vari eccidi perpetrati nella nostra penisola apparivano non già frutto di ideazioni fra loro slegate, né conseguenza di ordini provenienti da comandanti sadici o crudeli, ma erano invece riconducibili entro lo schema unitario della “machinery of reprisals” (rappresaglia), al fine di terrorizzare le popolazioni civili e indurle ad abbandonare ogni collaborazione con il movimento resistenziale.

[…] nella magistratura ordinaria o militare mancò qualsiasi segnale di “rottura” al momento del passaggio dal precedente regime al nuovo ordinamento costituzionale, e “l’amministrazione della giustizia si trovò ad affrontare i temi cruciali connessi alle immani e tragiche vicende del conflitto mondiale, della guerra civile […] e del crollo del regime in un contesto di sostanziale continuità con l’ordinamento giudiziario, le prassi di gestione e gli atteggiamenti culturali ereditati dal regime fascista”.

Paradossalmente, i processi celebrati dalla magistratura ordinaria nell’immediato dopoguerra a carico dei criminali nazifascisti risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quelli concernenti i presunti illeciti commessi dai partigiani durante la lotta resistenziale.

Nel 1960 la Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, al fine di dare una parvenza di legalità a una situazione di assoluto stallo investigativo, adottò provvedimenti abnormi di “archiviazione provvisoria”.

Tutti gli incartamenti relativi alle stragi naziste perpetrate nel nostro Paese vennero poi rinvenuti nel 1994 nel cosiddetto “armadio della vergogna”, posto in una stanza da anni vuota e inutilizzata, e le cui ante, quasi simbolicamente, erano rivolte contro il muro.

La mancata celebrazione di processi a carico dei criminali nazisti ebbe un ulteriore effetto perverso, in quanto contribuì a determinare nell’opinione pubblica il convincimento che in guerra ogni comportamento posto in essere dal nemico possa considerarsi pienamente legittimo e che le stragi dei civili costituiscano un portato inevitabile del conflitto, sottratto all’area di competenza della giustizia.

D’altro canto i parenti delle vittime, constatando che l’apparato giudiziario non si indirizzava contro gli autori delle stragi, spesso finirono per ritenere che la responsabilità degli eccidi dovesse essere sostanzialmente attribuita a coloro che, con le loro azioni di guerriglia, avevano determinato tali cruenti reazioni. In altre parole, come scrisse lo storico Giovanni Continipoiché “quasi mai si erano processati e condannati i colpevoli, i superstiti furono incapaci di dimenticare, obbligati a ripensare ancora e ancora le azioni passate […] per comprendere perché la strage fosse avvenuta; crebbe così un racconto incessante, fatto di lunghe catene causali che venivano reiteratamente raccontate, con il quale si cercava di identificare il senso di quegli eventi terribili e che spesso individuò il colpevole, un capro espiatorio trovato di norma all’interno della comunità stessa. E non c’è dubbio che i partigiani, per colpire i quali spesso le stragi erano state compiute, si prestassero molto bene ad incarnare quel ruolo.”» (Silvia Boverini, La strage nazifascista della Benedicta, https://www.me-dia-re.it/la-strage-nazifascista-della-benedicta/)

Alberto Quattrocolo

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Desaparecidos

I desaparecidos sono, in italiano, gli spariti. Un termine che di per sé potrebbe essere neutro, privo di risvolti giuridici, etici, morali, politici e storici. Ma, quando si sente o si legge questa parola, desaparecidos, la mente va immediatamente a coloro che furono fatti sparire da una delle più feroci dittature tra quelle che, complice la C.I.A., si affermarono in America Latina. Il 18 maggio del 1976, in Argentina, vennero ritrovati centoventisei corpi crivellati da raffiche di mitra. Erano i cadaveri di centoventisei desaparecidos.

30.000 desaparecidos

La parola desaparecidos era già stata impiegata per i 40.000 fatti sparire in Cile (delle sanguinose vicende cilene abbiamo parlato nel post 3 novembre 1970, Salvador Allende è presidente del Cile, all’interno di questa rubrica, Corsi e Ricorsi dell’Associazione Me.Dia.Re.),  durante la dittatura di Augusto Pinochet, ma fu con gli orrori della dittatura argentina che il termine si affermerà con questo particolare significato. In Argentina, infatti, delle 40.000 morti persone uccise a seguito del colpo di stato e della presa di potere (la notte del 24 marzo 1976) da parte del generale Jorge Rafael Videla Redondo, sono ben 30.000 gli spariti, i desaparecidos. Trentamila, tre quarti del totale, sono coloro che furono fatti sparire dal regime fascista di Videla e alle cui famiglie non fu mai comunicata la sorte. Trentamila persone che verranno inutilmente ricercati dalla Madri di Plaza de Mayo. Trentamila esseri umani che sparirono perché persone sospettate di appartenere ad organizzazioni studentesche, sindacali, politiche oppure perché ritenuti in grado di svolgere una qualsiasi attività interferente con la politica marziale della Giunta militare.

I rapimenti notturni, i «vuelos de la muerte»

Videla (poi condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità e morto in carcere), non volendo che il mondo conoscesse la natura sanguinaria del suo regime, optò per una modalità di realizzazione della repressione che fosse caratterizzata dalla segretezza più assoluta. Evitò così che la sua dittatura generasse immagini come quelle sugli orrori cileni, in particolare, quelle delle migliaia di persone detenute nello Stadio di Santiago del Cile, che fecero inorridire il mondo. Ed ottenne un altro risultato: far sparire le persone, anziché arrestarle pubblicamente, procurava una sensazione di tenebrosa, imprevenibile, costante esposizione alla minaccia di un oscuro potentissimo controllore. I rapimenti, infatti, avvenivano in piena notte. E dopo della persona sequestrata nessuno sapeva più niente.

«Solo Dio toglie la vita. Ma Dio è occupato altrove, e siamo noi a doverci occupare di questo compito in Argentina» (Ramón Camps)

Non soltanto nessuna notizia veniva più data dalle autorità, ma i desaparecidos venivano rinchiusi in luoghi segreti per essere poi soppressi. E anche la soppressione era realizzata in modo tale da preservare la segretezza degli omicidi. Ad esempio, ricorrendo ai «vuelos de la muerte». Caricati su aerei, migliaia di oppositori del regime, vennero lanciati sul Rio de La Plata o sull’Oceano Atlantico, per far sparire ogni traccia. A volte erano buttati in mare squartati, affinché gli squali arrivassero più rapidamente a sbranarli.

Il generale Ramón Camps, capo della Polizia Federale, disse:

«Solo Dio toglie la vita. Ma Dio è occupato altrove, e siamo noi a doverci occupare di questo compito in Argentina».

Le donne in stato di gravidanza venivano anch’esse uccise, ma dopo il parto, così i loro neonati venivano dati in adozione a funzionari, poliziotti e militari oppure venduti all’estero.

È vero, però, che certi centri di detenzione clandestini divennero vere e proprie carceri, acquisendo una sinistra notorietà. Tra queste la sede della scuola di addestramento della Marina Militare (ESMA), a Buenos Aires.

La guerra sporca

Videla, che, per la sua disumanità, oltre che per i suoi baffetti, venne chiamato l’Hitler della Pampa, ripeté in più occasioni le parole che erano state dette dal generale Ibérico Saint-Jean, governatore de facto della provincia di Buenos Aires:

«Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi».

Queste parole sintetizzavano efficacemente la «guerra sporca» («guerra sucia»), cioè il programma di repressione violenta finalizzato a cancellare la cosiddetta «sovversione». Per il regime di Videla erano sovversivi non soltanto i guerriglieri marxisti o peronisti attivi in Argentina dal 1970, ma chiunque esprimesse un dissenso nell’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario. Nei confronti di costoro, oltre a 2.300 omicidi politici, fu scatenata una campagna repressiva di brutale ferocia. Non solo arresti e detenzioni senza procedimenti giudiziari, ma anche torture, oltre alle sparizioni già dette.

Terrorismo di Stato

Fin da subito la Giunta sospese le libertà civili e sindacali e condusse un’esplicita repressione nei confronti della sinistra, anche se il Partito Comunista, allineato a Mosca, appoggiò il governo militare, dato che l’U.R.S.S. non si schierò contro questa giunta fascista essendo l’Argentina un importantissimo fornitore di grano. Ma, com detto, accanto alla repressione alla luce del sole c’era la «guerra sporca». Il piano repressivo perseguito dalla giunta militare era molto più radicale, infatti, di quello dichiarato. L’apparato della repressione divenne rapidamente non soltanto illegale anche secondo le norme fasciste introdotte dalla Giunta, ma anche clandestino. E non poteva essere diversamente, essendo deputato a realizzare di fatto un terrorismo di Stato.

L’escalation della repressione arrivò, infatti, a colpire non soltanto attivisti politici o dissidenti dichiarati del regime, ma anche chi aveva, anche in modo indiretto, simpatizzato per una qualsiasi associazione attiva in ambito sociale o umanitario o qualsiasi organizzazione studentesca. Molti desaparecidos furono così persone che non avevano svolto né erano coinvolte in alcun modo in attività di opposizione al regime.

Le madri e le nonne di Plaza de Mayo

Le vittime di questa ondata di morte e di terrore furono riconosciute solo grazie alle dichiarazioni di morte presunta, ottenute dalle Madri di Plaza de Mayo, nel 1983, con l’appoggio di movimenti per i diritti umani, come Amnesty International. Due anni dopo, furono avviati i procedimenti penali nei confronti degli appartenenti alla Giunta militare.

Accanto alle Madri di Paza de Mayo era stata fondata anche l’associazione Nonne di Plaza de Mayo, con lo scopo di individuare e restituire alle famiglie legittime tutti i bambini figli di donne fatte sparire e dati in adozione.

A dónde van los desaparecidos

Tra le tante opere (saggi, romanzi, film, quadri, ecc.) dedicati ai desaparecidos, si può ricordare anche la canzone Despariciones, del cantante, attore, politico panamensi Rubén Blades. Una canzone, cantata anche da Mana, che dà voce al dolore, alla rabbia, alla denuncia e all’amore.

«Que alguien me diga si han visto a mi esposo
preguntaba la Doña
Se llama Ernesto X, tiene cuarenta años
trabaja de celador, en un negocio de carros
llevaba camisa oscura y pantalón claro
Salió anoche y no ha regresado
y no sé ya qué pensar
Pues esto, antes no me había pasado
ooo…

Llevo tres días
buscando a mi hermana
se llama Altagracia
igual que la abuela
salió del trabajo pa´ la escuela
llevaba unos Jeans y una camisa clara
no ha sido el novio, el tipo está en su casa
no saben de ella en la PSN ni en el hospital
ooo….

Que alguién me diga si han visto a mi hijo
es estudiante de pre-medicina
se llama Agustín y es un buen muchacho
a veces es terco cuando opina
lo han detenido, no sé qué fuerza
pantalón claro, camisa a rayas
pasó anteayer

A dónde van los desaparecidos?
Busca en el agua y en los matorrales
Y por qué es que se desaparecen?
por qué no todos somos iguales
Y cuándo vuelve el desaparacido?
Cada ves que lo trae el pensamiento
cómo se le habla al desaparecido
con la emoción apretando por dentro
oh…….

Clara, Clara, Clara Quiñones se llama mi madre
ella es, ella es un alma de Dios
no se mete con nadie
Y se la han llevado de testigo
por un asunto que es nada más conmigo
y fue a entregarme hoy por la tarde
y ahora dicen que no saben quién se la llevó
del cuartel

Anoche escuché varias explosiones
patún pata patún pete
tiro de escopeta y de revolver
carros acelerados frenos gritos
eco de botas en la calle
toque de puertas por dioses platos rotos
estaban dando la telenovela
por eso nadie miró pa’fuera

A dónde van los desaparecidos?
Busca en el agua y en los matorrales
Y por qué es que se desaparecen?
por qué no todos somos iguales
Y cuándo vuelve el desaparecido?
Cada ves que lo trae el pensamiento
cómo se le habla al desaparecido
con la emoción apretando por dentro» .

La traduzione in italiano, grosso modo, è così:

Qualcuno mi dica se ha visto mio marito,
chiedeva la signora,
Si chiama Ernesto X, ha quarant’anni,
fa il sorvegliante in una concessionaria,
portava una camicia scura e pantaloni chiari.
È uscito ieri sera e non è ritornato
e non so più cosa pensare
perché non mi era mai successo prima

Sono tre giorni
che cerco mia sorella
si chiama Altagracia
come la nonna
è uscita dal lavoro per andare a scuola
portava i jeans e una camicia chiara
non è stato il fidanzato, il tipo è a casa sua
non sanno niente di lei alla PSN né all’ospedale

Qualcuno mi dica se ha visto mio figlio,
studia medicina
si chiama Augustín ed è un bravo ragazzo
a volte cocciuto nell’esprimere le proprie idee
lo hanno trattenuto, non so chi
pantaloni chiari, camicia a righe
è successo l’altroieri.

Dove vanno gli scomparsi?
cerca nell’acqua e tra i cespugli
il motivo per cui scompaiono
è che non siamo tutti uguali
e quando lo scomparso torna
ogni volta che il pensiero lo richiama
come si parla allo scomparso,
con l’emozione che stringe il cuore!

Clara, Clara, Clara Quiñones si chiama mia madre
lei è, lei è un’anima di Dio
e non da retta a nessuno
l’hanno presa come testimone
per una faccenda che riguarda solo me
e che è venuta a riferirmi stasera
e ora dicono che non sanno chi se l’è portata via
dalla caserma.

Stanotte ho sentito delle esplosioni
patún pata patún pete
colpi di fucile e di pistola
macchine in corsa, frenate, grida
eco di stivali nella strada,
colpi alle porte, imprecazioni, piatti rotti
c’era la telenovela
per questo nessuno si è affacciato a guardare.

Dove vanno gli scomparsi?
cerca nell’acqua e tra i cespugli
il motivo per cui scompaiono
è che non siamo tutti uguali
e quando lo scomparso torna
ogni volta che il pensiero lo richiama
come si parla allo scomparso,
con l’emozione che stringe il cuore!

 

Alberto Quattrocolo

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Un colpo alla testa uccide il commissario Calabresi

Di origine romana, Luigi Calabresi studiò giurisprudenza in Sapienza, ma, alla carriera forense, preferì quella nelle forze dell’ordine: nel 1965, a 28 anni, prese servizio come vicecommissario a Milano. Il percorso lavorativo in Questura lo portò fino a rivestire il ruolo di vice capo dell’Ufficio politico, passando per quello di Commissario capo. Nel frattempo, era riuscito anche a costruirsi una famiglia: Gemma, la moglie, era incinta del terzo figlio quando diventò vedova; Mario sarà direttore de La Repubblica fino a gennaio 2019.

La mattina del 17 maggio 1972 gli fu tolto tutto. Da poco uscito di casa, stava raggiungendo l’auto per andare, con ogni probabilità, in ufficio; davanti al civico 6 di corso Vercelli, fu colpito da un proiettile alla schiena e uno alla testa. Morirà poco dopo in ospedale, a 34 anni.

C’è un fatto, grave, che molti hanno legato all’omicidio Calabresi: la morte di Giuseppe Pinelli nel 1969. Il commissario, che all’epoca era incaricato di indagare sugli attentati per mezzo di bombe, dovette ampliare il proprio raggio d’azione alla strage di piazza Fontana. Le relative indagini portarono a convocare in Questura Pinelli, ferroviere che lavorava nella stazione di Porta Garibaldi. Trattenuto ben oltre i limiti previsti per legge, dopo tre giorni costui precipitò proprio dalla finestra dell’ufficio del commissario, per poi spirare qualche ora più tardi al Fatebenefratelli.

L’opinione pubblica si scagliò contro le forze dell’ordine, chiedendo il riconoscimento dell’omicidio e attribuendone il concorso anche a Calabresi e al questore, ritenuti essere presenti nella stanza al momento del fatto. Le dichiarazioni di tutti, compresi i cinque agenti che effettivamente si trovavano in quell’ufficio, portarono a escludere la presenza dei due ufficiali. Di più, l’inchiesta, conclusasi nel 1975, definì la morte come accidentale: “l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”, che portò alla caduta, fu provocata da un improvviso malore di Pinelli.

Il mondo sociale, politico e culturale facente capo alla sinistra si ribellò fortemente alla sentenza, facendo anche chiari riferimenti alla responsabilità del questore e del commissario. Di conseguenza, il movente dell’omicidio di Calabresi fu spesso rintracciato in ciò che accadde quel giorno del 1969 nel suo ufficio. Altre ipotesi portavano a sospettare degli ambienti della destra estrema, in considerazione del fatto che il commissario stava conducendo un’indagine sul traffico d’armi e finanziamenti agli eversori tedeschi. Ad ogni modo, le indagini ufficiali non portarono ad alcun rinvio a giudizio.

Almeno, fino a quando Leonardo Marino non decise di raccontare la propria versione. Nel luglio 1988, infatti, l’ex militante di Lotta Continua raccontò alle forze dell’ordine di aver partecipato attivamente all’omicidio, ordinato, a suo dire, da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Dunque, sedici anni dopo i fatti, si aprì finalmente il processo. Per chiuderlo, ce ne vollero altrettanti. Sofri, Bompressi (l’esecutore materiale) e Pietrostefani furono condannati a 22 anni carcere.

Alessio Gaggero

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La mediazione come attraversamento del conflitto

L’ attraversamento del conflitto costituisce davvero il solo modo per realizzarne il superamento?

Pare che fosse questo il pensiero di Robert Frost, allorché sostenne:

Il conflitto: l’unico modo per superarlo è attraversarlo.

Sì, però, mentre si è dentro il conflitto si sta male

Se vi è delle verità in quelle sue parole, però, è una verità anche scomoda. Lo è in quanto il conflitto non è un’esperienza comoda e confortevole. Certo, si dice che il conflitto serva a segnalare qualcosa che non funziona nella relazione. Oppure, si sottolinea che ha in sé un importante potenziale trasformativo. Aiuta a crescere, a definirsi, a individuarsi, a separarsi, a conoscersi, a mettersi alla prova, a fare pulizia… Tutto condivisibile, e anche vero, ma… a posteriori. Durante quell’esperienza, mentre si è dentro il conflitto, si sta male. E se qualcuno ci parla dell’ attraversamento del conflitto, dell’intero conflitto, in tutta la sua lunghezza, come condizione per crescere e migliorare, è possibile che non ci venga un moto d’invincibile entusiasmo. È possibile che l’ attraversamento del conflitto che stiamo vivendo ci sembri un’esperienza da incubo. Qualcosa che non augureremmo al nostro peggior nemico. O meglio, a lui magari sì. Ma non con noi.

Perché, sì, l’attraversamento del conflitto avviato oggi e concluso chissà quando, forse, un giorno ci sarà utile, come, del resto suole dirsi rispetto alla sofferenza. Ma …“un giorno”. Domani, nel futuro. Un futuro indefinito. Chissà quando, appunto. E chissà se.

Oggi, però, intanto, patiamo. E non ci sono se e non ci sono forse. È un fatto certo. Perché, è inutile nasconderselo: la relazione conflittuale, specie se la conflittualità ha raggiunto livelli di escalation particolarmente elevati, è quanto mai dolorosa, tormentata e angosciante. E, tante volte, vorremmo che ci fosse una medicina, una bacchetta magica, un rito, un intervento divino o un aiuto umano per poterne uscire fuori. Per venirne fuori presto e senza ulteriori danni.

Tante volte non cerchiamo un bottino, ma giustizia e riconoscimento

La vittoria, certo. Ma non basta. Perché, non è detto che ci sia sufficiente prevalere sull’altro. Tante volte ci occorre di più. Tante volte non cerchiammo un bottino, ma giustizia e riconoscimento. E, anche se sappiamo di non avere interamente ragione, siamo persuasi di averne di più di quanta non ne abbia il nostro nemico.

Abbiamo più ragione nel senso che siamo più ragionevoli e nel senso che siamo dalla parte giusta o, almeno, da quella meno ingiusta. E vorremmo che il mondo (cioè quell’insieme di persone che per noi contano qualcosa e rispetto alle quali ci preoccupiamo dell’immagine mentale che hanno di noi) lo capisse. Vorremmo, ad esempio, che comprendesse che non abbiamo aperto le ostilità per capriccio. Ma per reazione: perché siamo stati attaccati. E vorremmo far capire che l’abbiamo tentato più e più volte l’attraversamento del conflitto, ma che l’altro è indisponibile ad un vero e onesto confronto. Che è sfuggente. Oppure che è aggressivo. Che non sa stare a sentire. Che, invece, sa solo provocare. Vorremmo far capire a chi ci suggerisce che l’unico modo per superare il conflitto è dialogare – perché questo sarebbe il vero e solo attraversamento del conflitto  -, che di tentativi di dialogare ne abbiamo fatti tanti da non contarli più. Ma sono stati inutili e frustranti: l’altro non ci sta. Non è capace. Non ha argomenti. Perciò la butta in caciara o si sottrae in altri modi.

Ma… allora… Robert Frost e la sua frase lapidaria?

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L’Ascolto e la Mediazione come accompagnamento e sostegno nell’attraversamento del conflitto

Restano abbastanza vere, ovviamente, quelle parole. Amare, scomode e probabilmente vere. Però, un po’ meno scomode, un po’ meno amare, possono essere, se si considera la possibilità della mediazione. La quale, almeno, nella prospettiva, nel metodo e nella pratica professionale di Me.Dia.Re., non è riducibile ad un tentativo di ripristinare il dialogo (abbiamo approfondito tale aspetto nel post La mediazione e l’Alterità, all’interno di questa rubrica, Riflessioni), Ma uno stare accanto a chi sta vivendo un conflitto doloroso (s veda il post Nella mediazione si ascoltano le persone non (solo) le parti del conflitto), anche se non ha alcuna intenzione di mediarlo. Anche se lo irrita, lo spaventa o lo esaspera la prospettiva dell’attraversamento del conflitto. È uno stare accanto di qualche utilità, perché, in fondo, non è detto che l’attraversamento del conflitto vada fatto da soli. E perché non è detto che l’attraversamento del conflitto consista soltanto nel dialogare con il nemico.

L’attraversamento del conflitto può iniziare con l’essere ascoltati da qualcuno che non ha preconcetti verso di noi, non ha aspettative rispetto alla nostra condotta futura (si veda il post Il fine della mediazione non è prestabilito dal mediatore). Qualcuno che non ci giudica.

L’attraversamento del conflitto può proseguire anche così, con l’ascolto. L’ascolto e basta. E, quando ciò succede, questo attraversamento del conflitto si compie senza soffrire troppo, senza essere sopraffatti dall’angoscia. E, compiendosi in tal modo, porta con sé il superamento del conflitto attraversato.

Alberto Quattrocolo

Quando Rom e Sinti difesero i loro figli ad Auschwitz

Non a tutti è noto che anche i popoli Rom e  Sinti furono perseguitati e sterminati dai nazisti. E ancor meno noto è che anch’essi, all’interno del lager, come, ad esempio, gli ebrei e i soldati russi detenuti a Sobibor, tentarono di ribellarsi ai loro aguzzini, che li torturavano e massacravano.

«Sapevamo che ci stavano portando a morire nelle camere a gas e abbiamo preso la decisione migliore. Piuttosto che obbedire agli ordini dei carnefici nazisti avremmo sfidato la morte, lottando con onore e dignità».

Con queste paroleil 16 maggio del 2010, si espresse Raymond Guerenè, durante la prima cerimonia europea di rievocazione dell’olocausto nazista delle popolazioni Rom e Sinti. Costui faceva parte di quel gruppo di Rom e Sinti rinchiusi ad Auschwitz che, il 16 maggio 1944, si era ribellato alle SS.

L’ordine di Himmler di internare tutti i Rom e Sinti ad Auschwitz

Abbiamo già ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi (nel post 1942, Himmler emana il decreto per internare gli zingari ad Auschwitz), che il 16 dicembre 1942, Heinrich Himmler (a capo delle forze di sicurezza del Terzo Reich dal 1939), aveva emesso l’ordine di internare tutti gli appartenenti al popolo Rom ad Auschwitz. Qui, a costoro sarebbe stato apposto sul petto un triangolo nero con una Z, che stava per Zingari (Zigeuneri). Si trattava dell’ultima mostruoso passaggio della traduzione in atto dell’odio dei nazionalsocialisti verso i popoli del vento (rom e Sinti, che venivano chiamati zingari). Già alla metà degli anni trenta, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, era stato istituito un ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara. I nazisti come tanti altri razzisti, prima e dopo di loro, odiavano visceralmente i Rom e i Sinti. Ma a differenza di altri razzisti, si erano preoccupati anche di sostenere una teoria scientifica in base alla quale definirli come una razza, oltreché impura (cioè non “ariana”), anche degenerata e geneticamente criminale. In virtù di tale assunto, non si erano fatti alcuno scrupolo nell’emanare delle leggi di sterilizzazione forzata, applicandola su 30.000 donne, né, come vedremo, di sottoporli poi agli “studi” (vale a dire a impiegarli come cavie umane in mostruosi esperimenti, ammantati di fasulla rilevanza scientifica) del dottor Mengele sui gemelli e sui bambini. Né vi furono, poi, remore di sorta, quando vennero ordinate le deportazioni nei lager.

La persecuzione del fascismo italiano contro Rom e Sinti

Le leggi razziali introdotte dal regime fascista nel 1938, oltre che gli ebrei erano indirizzate a colpire anche le comunità dei Rom e dei stini. Di costoro furono internati furono circa 25.000 individui. Gli ebrei furono 7.000. Le prime disposizioni in danno di Rom e Sinti vennero emanate l’11 settembre 1940. A tutte le prefetture d’Italia fu trasmessa una circolare dal capo della polizia Arturo Bocchini che disponeva l’internamento di tutti gli “zingari” italiani. Questo provvedimento era “giustificato” sulla base dei loro comportamenti antinazionali e del loro coinvolgimento in crimini gravi. In ragione di queste premesse, a dir poco frutto di generalizzazioni razziste, ne veniva ordinato il rastrellamento, da eseguirsi celermente, provincia per provincia. I luoghi di detenzione erano nelle isole Tremiti, dove già erano stati spediti i deportati dalla Libia (ne abbiamo parlato nei post L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa e 25 ottobre 1911: gli italiani iniziano a deportare i libici in Italia), presso Agnone nel convento di San Bernardino, in Sardegna a Perdasdefogu, e poi dalle parti di Teramo, Campobasso, Viterbo, e a Colle Fiorito nella provincia di Roma.

Pořajmos

Pořajmos, che può essere tradotto in italiano con parole quali “grande divoramento” o “devastazione”, è il termine impiegato da Rom e Sinti per indicare lo sterminio del proprio popolo perpetrato da parte dei nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Una vera e propria “pulizia etnica”. Oltre 500mila persone Rom e Sinti vennero ammazzate nei campi di sterminio. Ma a questo numero vanno aggiunti coloro che furono uccisi durante le incursioni nei campi nomadi nelle sommarie esecuzioni di massa che precedevano le registrazioni. Le condizioni di vita nel settore in cui erano detenuti Rom e Sinti ad Auschwitz-Birkenau erano tali da far diffondere impressionanti epidemie di tifo, di vaiolo e di  dissenteria, le quali  decimarono la popolazione del campo. Inoltre i medici tedeschi che operavano all’interno per svolgere i loro esperimenti, come il capitano delle SS Josef Mengele, selezionavano le loro cavie anche tra Rom e Sinti. Mengele, infatti, per i suoi test aveva selezionato gemelli e nani, anche tra gli appartenenti alle famiglie Rom e Sinti del campo. In tutto circa 35mila Rom, adulti e adolescenti, erano prigionieri in altri campi di concentramento tedeschi. Anche qui venivano selezionati per ricerche ed esperimenti “scientifici” realizzati nei campi stessi o in istituti poco distanti. Dopo gli ebrei e i polacchi, i rom sono stati per numero il terzo gruppo nazionale sterminato dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau.

La rivolta dei Rom e Sinti del 16 maggio 1944.

Alla fine di marzo, le SS avevano ammazzato nelle camere a gas di Auschwitz circa 1.700 Rom, molti dei quali già malati, che erano appena stati deportati dalla regione di Bialystock. Poi, il 16 maggio del 1944, gli amministratori del campo decisero di sterminare tutti gli abitanti dello Zigeunerlager. Cioè, circa 5mila uomini, donne e bambini, Rom, Sinti e Manush. Per eseguire l’operazione, le guardie delle SS circondarono il settore nel quale costoro erano detenuti, per essere certi che nessuno gli  sfuggisse. Però, quando fu loro ordinato di uscire, i Rom e i Sinti si rifiutarono. Erano stati avvertiti di quel che stava per accadere loro e si erano armati con quanto avevano potuto trovare:  pietre, tubi di ferro, vanghe e vari altri attrezzi che usavano  normalmente per il lavoro forzato.

«Non vi daremo i nostri piccoli»

In tal modo riuscirono ad uccidere 11 SS e a ferirne diverse altre. Così gli ufficiali delle SS, sapendo che il tempo e diverse altre condizioni erano a tutto loro favore, decisero di evitare altri rischi ed elusero lo scontro diretto contro quei Rom, che per quanto stremati, ebbero la soddisfazione di vedere i loro persecutori e assassini ritirarsi.

Quelle donne e quegli uomini, senza alcuna speranza erano decisi a tentare di difendere i loro bambini con le poche  forze rimastegli.

«Non vi daremo i nostri piccoli perché li facciate uscire dai vostri camini. I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa su di loro» gridarono.

Lo sterminio dei Rom e Sinti nelle camere a gas di Birkenau

Poco per volta, però, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, i nazisti trasferirono 3mila tra Rom e Sinti ancora in grado di lavorare ad Auschwitz I e in altri campi di concentramento dislocati in Germania. Poi, il 2 agosto,  le SS deportarono i restanti 2.898, la maggior parte dei quali erano malati, anziani, donne e bambini. Furono uccisi quasi tutti nelle camere a gas di Birkenau. Alcuni ragazzini, che erano riusciti a nascondersi durante le operazioni di trasferimento, vennero scoperti  e trucidati nei giorni seguenti. Almeno 19mila dei 23mila Rom e Sinti di Auschwitz furono eliminati nel lager.

Durante il processo di Norimberga non verrà ammessa la costituzione di parte civile dei superstiti Rom e Sinti e, nel 1953, la legge sugli indennizzi che stabiliva un risarcimento a coloro che erano stati perseguitati per motivi politici, di razza e religione, non riconoscerà nulla a Rom e Sinti. Il Porrajmos verrà ufficialmente riconosciuto dalla US Holocaust Memorial Museum di Washington solo nel 1994.

Alberto Quattrocolo

Fonti:

Boursier, Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale, www.storiaxxisecolo.it

Antonella De Biasi, Auschwitz, la rivolta degli ultimi, www.patriaindipendente.i

Tomasone, Il genocidio nazista dei rom, www.akra.it

Mino Piane, Auschwitz: 16 Maggio 44, la rivolta di Rom e Sinti contro le SS, www.blastingnews.com

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1988, inizia il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan

Il 15 maggio 1988, dopo 9 anni di conflitto, l’Armata Rossa sovietica iniziò le operazioni di disimpegno dall’Afghanistan di circa 100.000 uomini di svariate divisioni, brigate e reggimenti d’assalto, mezzi blindati e corazzati, squadroni di caccia e di elicotteri d’attacco, consulenti militari, personale del GRU e del KGB; la maggior parte dell’esercito sovietico era dispiegata nelle grandi città e negli aeroporti principali, dai quali partivano i “raid senza quartiere sulla popolazione”, tutti situati nelle province orientali.

Gli accordi di Ginevra del 1988 tra Afghanistan e Pakistan, con l’URSS e gli Stati Uniti come garanti, posero fine all’intervento sovietico nella guerra civile afgana e stabilirono un meticoloso piano di ritiro, elaborato dallo Stato Maggiore sovietico, che attraverso una completa copertura aerea e il fuoco di sbarramento delle batterie di artiglieria intendeva limitare ulteriori perdite – si registrarono tuttavia 500 caduti.

La ritirata si concluse il 15 febbraio dell’anno seguente, quando l’ultimo generale lasciò la “tomba degli imperi”: lo precedeva una lunga fila di blindati e di uomini con il kalashnikov in spalla, la tel’njaška sotto la mimetica, il volto segnato e tanti compagni lasciati sul campo. Quell’immagine fu il simbolo della vittoria dei mujaheddin, che combattendo una guerra di liberazione, e “per procura” allo stesso tempo, poterono festeggiare la cacciata del secondo esercito più potente del mondo dalla loro terra.

Dall’esterno era difficile capire quanto la guerra afgana avesse pesato nell’Unione Sovietica. L’assenza di pubbliche manifestazioni di dissenso, del tipo di quelle che caratterizzarono l’America durante la guerra del Vietnam, non deve ingannare: fin dall’inizio i sovietici hanno odiato questa guerra, comprendendo appieno l’inaccettabilità delle motivazioni ufficiali. E questa non fu l’ultima delle ragioni che diedero a Gorbaciov la forza di mettere la questione all’ordine del giorno: già due anni prima, al XXVII Congresso del partito, il Presidente aveva parlato per la prima volta di “piaga purulenta” dell’Afghanistan. La nuova politica della glasnost e l’attenuazione della censura consentirono ai giornalisti sovietici di dare descrizioni più veritiere di quanto stava accadendo in Afghanistan, rendendo edotta la popolazione delle reali condizioni in cui si trovava a operare il “limitato contingente di truppe sovietiche”; il nuovo clima contagiò le stesse forze armate, tra alti ufficiali che manifestavano aperto dissenso e reduci che raccontavano le loro reali esperienze: “all’inizio eravamo elettrizzati. Ci dissero che stavamo andando a combattere contro gli Americani. Solo che quando arrivammo, degli Americani non c’era traccia. Dovevamo combattere contro fantasmi che apparivano e scomparivano nella notte. La popolazione civile era ovviamente ostile. Noi non capivamo loro e loro non capivano noi.”.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan, da molti definita il “Vietnam russo”, che preannunciò la definitiva caduta dell’URSS e devastò lo stato afgano, aveva avuto inizio il 24 dicembre 1979, dopo lunghi tentennamenti seguiti al colpo di stato messo in atto nell’aprile ‘78 dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), quando il presidente Mohammed Daoud Khan, in carica dal 1973 dopo aver detronizzato il re, venne ucciso, e il potere fu assunto da Mohammed Taraki, uomo poco gradito alle gerarchie religiose. Nasceva con lui la “Repubblica Democratica dell’Afghanistan”.

La “rivoluzione d’aprile” del 1978 era stata salutata come la speranza di un nuovo Afghanistan. Duecentomila famiglie contadine ricevettero le terre ridistribuite con la riforma agraria. Fu abolito l’ushur, la decima dovuta dai braccianti ai latifondisti, i prezzi dei beni primari furono calmierati, i servizi sociali garantiti a tutti dallo stato, i sindacati legalizzati. Partì una campagna di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa; nelle aree rurali vennero costruite scuole e cliniche mediche; iniziò un piano di emancipazione delle donne: le bambine finalmente poterono andare a scuola e, per legge, non furono più oggetto di scambio economico nei tradizionali matrimoni combinati.

Nonostante la laicizzazione dello Stato, la religione islamica non venne penalizzata; tuttavia, le gerarchie religiose islamiche afgane iniziarono a denunciare la soppressione della libertà religiosa da parte del governo: in realtà, come spiegarono allora il New York Times e la BBC, era la riforma agraria ad aver suscitato la loro opposizione, dato che i religiosi erano anche proprietari delle terre e beneficiari delle decime. E furono questi a fomentare l’opposizione armata, la jihad dei mujaheddin (santi guerrieri) contro “il regime dei comunisti atei senza Dio”.

Taraki rifiutò seccamente questa definizione, preferendo quella di “rivoluzionario” e “nazionalista”. Anche in politica estera il nuovo governo afgano scelse il non allineamento, limitando i rapporti con l’URSS di Leonid Breznev ad accordi di cooperazione commerciale.

Ma a Washington il caso afgano suscitò grande preoccupazione e molti alla CIA, al Pentagono e al Dipartimento di Stato suggerirono al presidente Jimmy Carter di sostenere la nascente guerriglia afgana in funzione antisovietica, procurandosi un nuovo fedele alleato regionale in sostituzione dell’Iran, appena perduto con la rivoluzione khomeinista del gennaio ‘79. Molti alla Casa Bianca osservarono che armare i mujaheddin afgani era avventato, per il rischio di provocare un intervento armato dell’URSS, oltre che per la pericolosità potenziale di allevare una simile forza integralista islamica. Ma l’idea di far impantanare l’URSS in un “suo Vietnam” fece accantonare i dubbi, e il 3 luglio ‘79 Carter firmò la prima direttiva per l’organizzazione degli aiuti bellici ed economici segreti ai mujaheddin afgani, convinto di siglare la condanna a morte del nemico sovietico.

La CIA costruì praticamente dal nulla un’enorme rete internazionale che coinvolgeva tutti i paesi arabi, Arabia Saudita in testa, allo scopo di far arrivare ai mujaheddin fiumi di denaro e armi, nonché migliaia di volontari della guerra santa. Come base logistica dell’operazione fu scelto il fidato Pakistan, al confine meridionale afgano. Qui la CIA e i servizi segreti militari pachistani costruirono campi di addestramento e centri di reclutamento. Usando una strategia già sperimentata altrove, l’intelligence Usa promosse e gestì direttamente in loco la produzione e il traffico di oppio per autofinanziare in nero l’operazione. Fu così che l’eroina afgana iniziò a invadere le strade d’America e d’Europa.

I mujaheddin afgani diventarono rapidamente una potente forza militare capace di minacciare la tenuta del governo di Taraki: a metà del ’79, le formazioni della guerriglia islamica riunite in un unico fronte di resistenza sostenuto da Iran, Pakistan e Cina, controllavano quasi l’80% del territorio.  Rifiutando le ripetute richieste afgane d’aiuto militare, l’URSS rimase sostanzialmente fuori dalla guerra civile, fin quando, a settembre, Taraki fu ucciso dal suo vice Hafizullah Amin, che salì al potere e subito fece quello che Taraki non aveva mai fatto: perseguitare l’opposizione politica islamica, finendo per rafforzarla e radicalizzarla.

Per il Cremlino, Amin era un uomo della CIA (e i suoi trascorsi negli Usa sembravano confermarlo): la sua scelta di uccidere Taraki, amato dagli afgani, era incomprensibile, la sua politica repressiva dannosa, le sue posizioni ideologiche ambigue, un affronto i suoi incontri con l’incaricato di affari USA a Kabul. Il 24 dicembre Breznev ordinò all’Armata Rossa di invadere il paese.

La guerra afgano-sovietica finì lasciandosi dietro morti e feriti su tutti i fronti, un territorio devastato e una guerra civile tra contrapposte fazioni di mujaheddin che si contenderanno per anni il controllo del paese.

La guerra in Afghanistan fu anche una delle cause che concorsero alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il conflitto cambiò la percezione dei leader sovietici sull’uso della forza e sull’intervento militare in paesi stranieri per mantenere salda l’URSS; accelerò glasnost e perestrojka e stimolò la nascita di nuove forme di partecipazione politica critiche verso il partito comunista, a cominciare dai numerosi e attivi veterani (soprannominati Afgantsy); screditò l’immagine dell’Armata Rossa, rafforzando le spinte indipendentiste delle repubbliche sovietiche, le quali vedevano l’intervento in Afghanistan come una guerra russa combattuta da soldati non russi.

Le cifre ufficiali parlarono di 15.000 caduti sul fronte sovietico, ma ricerche più recenti hanno valutato almeno 26.000 morti, 50.000 feriti e 300 dispersi, oltre al fatto che quasi il 90% dei combattenti contrassero malattie a causa delle pessime condizioni climatiche e sanitarie.

Calcolare le perdite afgane è difficile, visto che i combattimenti non si arrestarono con il ritiro sovietico, ma proseguirono per molti anni: le stime vanno da 670.000 a 2 milioni di civili afgani morti, 1.200.000 disabili e circa 3 milioni di feriti, causati tanto dalle azioni sovietiche quanto dai razzi dei mujaheddin; i caduti delle forze governative si stimano intorno a 18.000 uomini, per i mujaheddin intorno a 75.000 – 90.000 morti.

Più di 5 milioni di afgani (un terzo della popolazione prebellica) trovarono rifugio nei campi profughi allestiti in Pakistan o in Iran, con ulteriori 2 milioni di profughi interni al paese; nel corso degli anni Ottanta gli afgani da soli costituivano la metà dei rifugiati presenti in tutto il mondo. Le condizioni di vita nei campi profughi mieterono ulteriori vittime.

Il paese era stato devastato dai combattimenti: Kandahar, seconda città del paese, scese da una popolazione di 200.000 abitanti a non più di 25.000 a causa delle campagne di bombardamento aereo dei sovietici; il sistema di irrigazione del paese, di vitale importanza dato il clima arido, uscì quasi completamente distrutto dal conflitto, rendendo incoltivabili molte zone. Tra i 10 e i 16 milioni di mine furono sparse per tutto il paese da entrambi i contendenti, continuando a provocare vittime anni dopo la fine dei combattimenti e impedendo il ritorno di molti rifugiati alle loro case.

Sulla pelle degli afgani, gli Stati Uniti avevano vinto la loro jihad contro l’URSS, senza immaginare che presto la jihad si sarebbe rivoltata contro di loro.

Silvia Boverini

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Fonti:
D. Bartoccini, “Trent’anni fa la ritirata dell’Armata Rossa dall’Afghanistan”, https://it.insideover.com; A. Jacoviello, “La ritirata sovietica dall’ Afghanistan sarà ‘onorevole’”, https://ricerca.repubblica.it; M. Liberti, “L’invasione sovietica dell’Afghanistan – il Vietnam russo”, www.instoria.it; www.studiperlapace.it; E. Piovesana, “Afghanistan, 24 dicembre 1979”, http://it.peacereporter.net; https://milanoinmovimento.com; www.it.wikipedia.org

La dignità di Toscanini contro la violenza fascista

La sera del 14 maggio del 1931, Arturo Toscanini, allora cinquantacinquenne, al Teatro Comunale di Bologna, si rifiutò di eseguire gli inni “Giovinezza” e “Marcia Reale”. Sapeva cosa rischiava, ma com’era sua abitudine, non era disposto a negoziare, a fare baratti, tra la propria dignità e la prepotenza del regime fascista.

L’opposizione di Toscanini al regime fascista

Arturo Toscanini era giù una celebrità mondiale. E per Benito Mussolini, giunto quasi al nono anno dalla presa del potere (abbiamo ricordato in un post di Corsi e Ricorsi come, a seguito della marcia su Roma, il 31 ottobre del 1922 Mussolini avesse ottenuto dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di Presidente del Consiglio), il non averlo schierato dalla propria parte era peggio che un’onta. Gli creava un non trascurabile imbarazzo politico, per la fama internazionale di Toscanini e il rispetto e l’ammirazione che ovunque lo accompagnavano. Inoltre, quel direttore costituiva uno spina nel fianco rispetto, sia all’immagine di un popolo unanimemente fascista, che la propaganda del regime cercava di proiettare in patria e all’estero, sia alla soggezione che intendeva incutere su tutti gli attuali e futuri dissidenti. Si potevano far assassinare, bastonare per strada, sbattere in carcere o al confino i politici antifascisti, per quanto fossero noti e apprezzati anche all’estero. Si potevano azzittire con l’intimidazione, l’olio di ricino e la violenza gli altri meno noti oppositori, ma perseguire legalmente Toscanini era una faccenda politicamente un po’ più complicata. Però, per Mussolini era anche insopportabile avere un tale oppositore esplicito alla fascistizzazione sia dello Stato che della società, che stava attuando, fin dal 3 dicembre del ’22, cioè dall’approvazione della legge che gli garantiva i pieni poteri.

L’opera di fascistizzazione dell’Italia

Dopo aver cancellato ogni briciola di libertà di stampa, di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero, dopo aver eliminato ogni rappresentanza sindacale al di fuori di quella fascista, dopo aver eliminato la separazione dei poteri, assoggettando il potere legislativo a quello del governo, avendo reso questo di fatto un braccio esecutivo del Partito Nazionale Fascista, l’unico partito esistente (si veda su questa rubrica il post Verso uno Stato etico, religioso e sociale), avendo sciolto e dichiarato illegali tutti gli altri, avendo istituito dei tribunali speciali e una polizia segreta per perseguitare gli oppositori (abbiamo ricordato queste involuzioni in diversi post, tra i quali quello su Le prime leggi fascistissime), Mussolini era riuscito a sradicare quasi ogni forma di dissenso. Poi, con un’opera minuziosa, aveva proseguito la soppressione dei minuscoli spazi di libertà residui. Il decreto legge del 24 dicembre del 1925 aveva disposto la rimozione dal servizio per tutti i funzionari statali (quindi anche gli insegnanti) i quali non dessero «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio piena garanzia di un fedele adempimento dei propri doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Inoltre, per cercare di azzittire anche quei dissidenti che, per non finire in galera o al confino, erano espatriati, con un’altra norma del periodo era stata inflitta la perdita della cittadinanza italiana per chi all’estero commetteva o concorreva a commettere fatti diretti a turbare l’ordine pubblico nel Regno, o volti alla diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituiva reato. Del resto il 26 maggio 1927 alla CameraMussolini aveva pronunciato un discorso destinato a fare (“tristemente”) epoca.

«In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli a-fascisti quando siano cittadini probi ed esemplari».

Da candidato per la lista dei fasci di combattimento ad oppositore del fascismo

Ma Toscanini non era un a-fascista. Era un anti-fascista dichiarato da più di 10 anni.

Figlio di un sarto garibaldino (era nato a Parma,  il 25 marzo 1867), Toscanini era un patriota di idee socialiste e, quando era già famoso su entrambe le sponde dell’Atlantico, si era schierato per l’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, quindi aveva inizialmente aderito al programma fascista (il programma di San Sepolcro). Sicché nel novembre 1919 si era candidato alle elezioni politiche, nel collegio di Milano, nella lista dei fasci di combattimento, non venendo eletto. Realizzando, poi, che il fascismo era in realtà una forza reazionaria di estrema destra, ne aveva preso le distanze. Ciononostante, nel 1920, aveva appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume. Poi, però, si era andato dissociando anche dal nazionalismo, divenendo un forte oppositore di Mussolini ben prima della marcia su Roma.

L’antifascismo di Toscanini e la reazione del regime

Grazie all’enorme prestigio internazionale di cui Arturo Toscanini godeva, la sua aperta critica al regime non gli impedì di mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma fino al  1929. Ma ciò non significava che egli fosse sceso a compromessi con i fascisti. Ad esempio si era rifiutato di dirigere la prima di “Turandot” del suo amico Giacomo Puccini, se Mussolini fosse stato presente in sala. Naturalmente gli sgherri del duce non erano rimasti inattivi di fronte a questi atteggiamenti di aperta ostilità. In primo luogo, tentarono di ridurre il suo prestigio, imbastendo una campagna di stampa intesa a delegittimarlo. Subì, così, attacchi sia sul piano artistico che su quello personale. Inoltre le autorità si misero a spiarlo e ad intercettargli a tutto spiano le telefonate e la corrispondenza, premurandosi anche di ritirare a lui e ai suoi famigliari, sia pure temporaneamente, il  passaporto.

L’aggressione del 14 maggio 1931

Il 14 maggio 1931, Toscanini doveva dirigere al Teatro Comunale di Bologna un concerto in commemorazione di Giuseppe Martucci.  Ma, come abbiamo anticipato, si era rifiutato da subito di eseguire come introduzione “Giovinezza” e “Marcia Reale”, in presenza di figure di spicco del regime come Leandro Arpinati e Costanzo Ciano, nonché di vari gerarchi. Vista la sua irremovibilità, era stata tolta ogni ufficialità al concerto, facendo venire meno la necessità di esecuzione di quegli inni. Ma quando Toscanini, giunse in macchina davanti al teatro con la figlia Wally, fu circondato e aggredito da un gruppo di fascisti. Violentemente schiaffeggiato sulla guancia sinistra e tempestato di pugni sul viso e sul collo dalle camicie nere, venne difeso dal suo autista. Costui riuscì a spingerlo in auto e ad all0ntanarsi. Ma le camicie nere si presentarono al suo hotel, urlandogli di andarsene.

Verso le 2 di notte, dopo aver inviato un telegramma di protesta a Mussolini, senza neppure farsi vistare da un medico, se ne andò a Milano. E da qui, Toscanini si recò a New York.

 

«Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità» (Albert Einstein).

Mentre il duce aggiungeva tasselli alla fascistizzazione dell’Italia a tutti i livelli, introducendo anche quell’obbligo del giuramento dei professori universitari, cui soltanto 12 opposero un rifiuto su 1.200 (lo abbiamo ricordato qui), Toscanini, continuava a dirigere dei concerti in Europa (ma non più in Italia, dove tornerà soltanto alla fine della Seconda guerra mondiale).  Nel 1933, però, quando il nazismo salì al potere, si rifiutò di avere rapporti anche con la Germania e respinse energicamente un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth. Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo. E, quando il governo italiano avviò una politica antisemita, con le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare Mussolini, avendole definite, in una conversazione telefonica intercettata, «roba da Medioevo». Nel ’39, anche a causa della crescente e dilagante persecuzione razziale, si stabilì negli Stati Uniti d’America. Qui continuò a usare la musica per sensibilizzare alla lotta contro il fascismo e il nazismo, offrendo sostegno economico e morale a coloro che cercavano rifugio in America, fossero ebrei o oppositori politici.

Quando, dopo l’attacco giapponese, del 7 dicembre 1941, a Pearl Harbour, gli USA entrarono in guerra, Toscanini decise che avrebbe diretto esclusivamente concerti di beneficenza, di raccolta fondi per lo sforzo bellico e la Croce Rossa e a favore delle forze armate statunitensi.

Il 13 settembre 1943, su Life fu pubblicato un suo lungo articolo, intitolato “Appello al Popolo d’America”. L’articolo prendeva spunto da una precedente lettera inviata al presidente Franklin Delano Roosevelt,

in cui dopo aver scritto «Le assicuro, caro presidente, che persevero nella causa della libertà, la cosa più bella cui aspira l’umanità», proseguiva chiedendo che gli Alleati permettessero «ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei combattenti della Francia Libera . Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore».

Albert Einstein gli scrisse:

«Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire».

 

Alberto Quattrocolo