1972, strage di Peteano

Senta, vorrei dirle che xè una machina che la gà due busi sul parabreza. La xè una cinquecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna.

La notte del 31 maggio 1972, da un bar di Monfalcone, parte una telefonata anonima ai carabinieri di Gradisca d’Isonzo. Sono le 22.35. Piove a dirotto, quella sera. La prima pattuglia ad arrivare sul posto segnalato è quella dei militari dell’Arma di Gradisca, con l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. L’utilitaria è visibile in un viottolo di terra battuta, subito dopo una curva. Mango decide di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che parte accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo. Successivamente arriva una terza pattuglia da Gorizia.

Tagliari decide di dare un’occhiata all’interno, trova la leva che apre il cofano e tira. La leva, scattando, fa scoppiare una bomba nascosta nel portabagagli. Ferraro, 31 anni, siciliano, sposato da poco e in attesa del primo figlio; Poveromo, 33 anni, lucano, anche lui con la moglie incinta; Dongiovanni, di Lecce, 23 anni: i tre sono investiti in pieno dall’esplosione e fatti a pezzi. L’ufficiale, protetto dalla portiera aperta, resta gravemente ferito. Le salme vengono portate nella caserma dei carabinieri, le bare allineate sul biliardo.

Questa è la strage, o più correttamente l’eccidio di Peteano. È uno dei drammatici episodi di quella collaborazione tra terroristi di destra e apparati dello Stato che va sotto il nome di “Strategia della tensione”. E forse l’unico su cui oggi sappiamo (quasi) tutto.

In quei primi anni Settanta questo piccolo angolo di Nord Est non è particolarmente politicizzato: la vita scorre tranquilla, in assenza di benessere, sul confine; la criminalità è di piccolo calibro, furti maldestri, risse, piccole vendette. Gorizia è una città povera. Quando si spargerà la notizia che per l’attentato è stata usata una Cinquecento rubata e imbottita di esplosivo saranno in tanti a commentare, senza cinismo e sgranando gli occhi, “I gà usà una machina nova! Una Cinquecento!”.

Il contesto storico-politico italiano si presenta invece assai intricato.

Il nuovo presidente della repubblica, Giovanni Leone, è stato appena eletto con i voti (contrattati sottobanco ma poi rivendicati pubblicamente) del MSI, il partito neofascista; il 14 marzo muore in circostanze mai chiarite Giangiacomo Feltrinelli; il 7 maggio ‘72 si svolgono le elezioni anticipate, con pesanti provocazioni delle destre un po’ ovunque (a Pisa la polizia, schierata a difesa di un comizio missino, uccide a botte Franco Serantini); dopo il voto si vara un “debole” governo di centro-destra guidato dal democristano Andreotti e dal liberale Malagodi, che in Parlamento saranno spesso salvati in extremis dai voti missini. Il 17 maggio a Milano viene ucciso il commissario Calabresi.

Intanto le inchieste sulla strage di piazza Fontana sono costrette a prendere atto che gli anarchici non c’entrano e che bisogna imboccare la pista nera, fin dall’inizio protetta da molti esponenti dei “servizi”; fra gli uomini della destra collegati alle stragi si fa il nome di Pino Rauti, eletto in Parlamento con il MSI.

Nel febbraio ‘72 si registra lo scioglimento dell’intero comando della Terza armata, ritenuta completamente infiltrata da fascisti. Intanto Graham Martin, ambasciatore degli USA mandato da Nixon per “mettere ordine” in Italia, finanzia Vito Miceli, allora capo dei servizi segreti e manovratore di molti fili che collegano estrema destra, forze dell’ordine e delinquenza comune. Nel Paese tira una “preoccupante aria da golpe” che spinge alcuni gruppi dell’estrema sinistra ad armarsi.

In questo clima, a dirigere le indagini per l’attentato di Peteano è il colonnello Dino Mingarelli, già braccio destro del generale De Lorenzo e in tal veste custode dei nominativi per gli arruolamenti (illegittimi) di neofascisti da affiancare ai carabinieri nel colpo di Stato (“Piano Solo”) previsto per l’estate del ’64 e abortito all’ultimo minuto.

Mingarelli dirige subito l’inchiesta verso gli ambienti di Lotta continua di Trento, ma dalla magistratura milanese giunge l’informazione secondo cui l’attentato è opera di un gruppo terrorista triestino di estrema destra; l’indicazione era stata fornita da Giovanni Ventura, arrestato per la strage di Piazza Fontana, tuttavia il colonnello la scarta, su ordine del SID – il servizio segreto italiano -, chiude la pista nera e ne apre subito un’altra. C’è un gruppetto di sei balordi che i carabinieri tenevano già d’occhio: eccoli, i mostri.

Il 1° aprile ’74 si apre un processo che non deve essere politico, ma la battaglia politica comincia subito. L’avvocato della difesa Nereo Battello accusa Mingarelli di aver sospeso le indagini a destra per ordini giunti dall’alto, di non avere ascoltato come testimone Giovanni Ventura e mette in luce gli errori clamorosi commessi durante le indagini. Il processo si conclude con l’assoluzione per insufficienza di prove, che diverrà una definitiva assoluzione con formula piena nel ‘79. Dopo la conclusione del primo grado di giudizio per il colonnello Mingarelli giunge la promozione a generale. I sei imputati lo denunciano per le false accuse, dando inizio a una nuova inchiesta contro ufficiali dei carabinieri e magistrati per aver deviato le indagini.

I responsabili materiali dell’attentato di Peteano furono Vincenzo Vinciguerra, Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio, aderenti al gruppo eversivo neofascista Ordine Nuovo: la verità si sa solo dodici anni dopo l’eccidio e solo grazie a una spontanea assunzione di responsabilità di Vinciguerra, che, latitante dal ‘74, si costituisce nel ‘79 con l’espressa volontà di non compromettere con la latitanza la sua dignità di militante rivoluzionario. Al momento della confessione egli si trova in carcere per il tentato dirottamento all’aeroporto di Ronchi dei Legionari dell’ottobre ‘72, concluso con la morte dell’ex-paracadutista Boccaccio e la fuga di Cicuttini.

Vinciguerra si assume la responsabilità per “fare chiarezza”, avendo capito che tutte le precedenti azioni dell’estremismo di destra, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare. La confessione gli costa la condanna all’ergastolo. Solo quando la condanna passa in giudicato e non c’è più la possibilità di ricevere benefici in cambio di rivelazioni, collabora.

Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di Peteano non ha le connotazioni della strage. È strage sul piano giuridico […] perché il numero dei morti poteva essere indeterminato. […] Però non è strage, nel senso che l’attentato colpisce per la prima e unica volta un apparato militare dello Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusivamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l’apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare quest’attentato. […] Di fronte alla Commissione stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo l’attentato di Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l’Arma dei carabinieri e il SID da un lato, e la destra dall’altro. Cioè l’Arma dei carabinieri pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagini, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero dell’interno, Guardia di Finanza) prese atto che dall’estrema destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze. Quindi a definire l’attentato di Peteano una strage si confondono un po’ le idee alle persone nel senso addirittura di far credere che l’attentato di Peteano avesse le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente l’opposto.

Cicuttini, condannato all’ergastolo in contumacia, viene catturato ventisei anni dopo la strage, con uno stratagemma, ed estradato in Italia, dove muore nel 2010. È accertato che il segretario del MSI Almirante gli abbia fatto pervenire 35.000 dollari, durante la latitanza, per sottoporsi a un intervento alle corde vocali onde impedirne il riconoscimento come autore della telefonata che aveva attirato i carabinieri nella trappola di Peteano. Accusato di favoreggiamento aggravato degli autori (militanti e dirigenti del suo partito) di un attentato terroristico, Almirante si avvale per anni dell’immunità parlamentare per evitare il processo (che invece condanna l’avvocato che fece da tramite), fino ad essere amnistiato in quanto ultrasettantenne.

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Nei vari filoni processuali, per Peteano vengono condannati alcuni militanti per la partecipazione all’organizzazione armata Ordine Nuovo; un perito e svariati ufficiali dei Carabinieri, per falsa testimonianza; ma soprattutto è accertata con sentenza passata in giudicato l’opera di depistaggio nelle indagini svolta dal generale Mingarelli, dal colonnello Chirico, dal maresciallo Napoli e dal colonnello Santoro, condannati per favoreggiamento, falso, soppressione di atti e peculato.

Come ha scritto il senatore Pellegrino nella sua relazione della Commissione Stragi,

può ritenersi un fatto storico accertato […] l’illecita copertura attribuita agli estremisti di destra da parte di alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, tra questi il col. Mingarelli, [così come] certo, o almeno estremamente probabile, deve ritenersi altresì che altro settore degli apparati, e cioè il SID, conoscesse l’identità dei colpevoli fin dal 1972.

Per un simile spiegamento di coperture eccellenti a un eccidio di uomini dello stato, una spiegazione sembra offrirla la scoperta della struttura di Gladio, emersa proprio durante le indagini del giudice Casson sulla strage di Peteano. Dalla cava di Aurisina, scoperta pochi mesi prima dell’attentato e poi identificata come uno dei nascondigli di Gladio, potrebbe esser giunto l’esplosivo impiegato nell’attentato. I depistaggi servivano a impedire che venisse alla luce la struttura segreta, che aveva complesse ramificazioni proprio nel nordest, la zona più esposta alla “minaccia comunista”? Secondo Vinciguerra, il Ministero degli interni e la polizia di stato hanno dato l’ordine di disinteressarsi di Peteano. Sono state fatte sparire le prove, le lettere anonime che descrivevano gli attentatori.

Nell’ordinanza di rinvio a giudizio il giudice veneziano Felice Casson scrive:

Troviamo ancora una volta carabinieri, servizi segreti, magistrati, politici, fascisti di vario genere, concorrenti nelle protezioni e negli aiuti accordati a personaggi e a movimenti eversivi fin dagli anni Sessanta, anche in relazione a gravissimi episodi delittuosi quali una strage, o a movimenti di stampo neofascista con fini non sempre chiari e non sempre in contrasto con il potere legale.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Almirante, il protettore dei terroristi fascisti che uccisero i carabinieri”, www.globalist.it; “31 maggio 1972: strage di Peteano”, www.labottegadelbarbieri.org; G. Cecchetti, “Per la strage di Peteano condannati due alti ufficiali”, https://ricerca.repubblica.it; F. Fain, “La strage di Peteano, 45 anni di dolore”, https://ilpiccolo.gelocal.it; www.ilpost.it; M. Vittorelli, “Do you remember Peteano?”, www.nazioneindiana.com; G. Carotenuto, “Via Giorgio Almirante, terrorista”, www.gennarocarotenuto.it

Boris Pasternak e il dottor Zivago

Boris Pasternak morì, a Peredelkino, il 30 maggio del 1960. La sua fu una vita particolare. Una vita in cui i confini sfumarono. Ad esempio, quelli tra la vita vera, vissuta, di Boris Pasternak, e perfino la sua morte, e quella del personaggio frutto della sua creazione letteraria, il dottor Zivago, infatti, vi sono sconcertanti punti di contatto, sovrapposizioni. Come se Pasternak avesse avuto delle premonizioni. Oppure, non si trattava che della facile previsione sullo sviluppo degli eventi, alla luce della conoscenza di come vanno le cose del mondo, soprattutto in quei luoghi in cui lo Stato ha un potere che non conosce limiti?

«L’arte è nell’erba e bisogna avere l’umiltà di chinarsi a raccoglierla»

(Boris Pasternak).

Boris Leonidovič Pasternak era nato a Mosca, il 10 febbraio 1890 in una famiglia ebraica laica assimilata, appartenente al mondo intellettuale e artistico. Suo padre Leonid era un artista e un professore della Scuola moscovita di pittura, che aveva illustrato i libri di Lev Tolstoj; sua madre, Rosa Kaufmann, era pianista, Anche Boris desiderava diventare pianista e compositore. Perciò, durante l’infanzia,  si dedicò al piano e studiò la musica e la composizione. A 18 anni, terminato il liceo tedesco di Mosca, Boris Pasternak si iscrisse alla Facoltà di filosofia, ma poi, dopo aver visitato l’Italia e la Svizzera, mentre seguiva il semestre all’Università di Marburgo, decise che quel che faceva per lui era la poesia.

Già le sue prime poesie, uscite nell’almanacco Lirika, denunciavano l’influenza del simbolismo e del futurismo, come la sua prima raccolta di poesie, del 1914, Il gemello delle nuvole, e anche quella se Oltre le barriere (1917). Inoltre dal 1914 faceva parte del gruppo di poeti futuristi Centrifuga.

«Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita» (Boris Pasternak).

Poi Boris Pasternak si dedicò alla ricerca di una scarna semplicità del verso e di una misura classica. Si allontanò, quindi, dal futurismo, sia perché non apprezzava l’aggressività dei futuristi russi sia perché aveva sviluppato una maggiore propensione per atmosfere intime, domestiche. Però, con L’anno 1905 (1927) e Il luogotenente Schmidt (1927), Boris Pasternak si riferì alla rivoluzione del 1905, pur calandola in una lontananza fiabesca. Nel frattempo, come il protagonista del suo successivo e unico romanzo, Il dottor Zivago, anch’egli si sposò, nel 1922, ed ebbe un figlio per poi separarsi dalla moglie, dopo alcuni anni, nel 1931. Come Yuri Zivago anche Boris Pasternak si innamorò di un’altra donna. Che sposò nel 1934, per poi trasferirsi nel sobborgo moscovita di Peredelkino nel 1936. Le successive raccolte, invece, realizzate nel corso della Seconda Guerra Mondiale, come Sui treni mattinali (1943), o La vastità terrestre (1945), riflettevano il contesto storico e la lotta del popolo sovietico contro l’invasione nazista (in questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo dedicato un post in particolare alla battaglia di Stalingrado Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana»).

Boris Pasternak e la rivoluzione bolscevica

In effetti, Boris Pasternak non era mai vissuto in un mondo a parte. Sul piano politico, egli aveva aderito alla rivoluzione d’ottobre, tentando di essere leale con il nuovo regime. Ciò però non lo aveva indotto a chiudere gli occhi e non guardare le atrocità che venivano commesse. Pur riconosciuto come un esponente di punta della nuova generazione dei poeti, egli iniziò a pensare ad un’altra Russia, che superasse quella sovietica. E, mentre sognava una Russia dell’anima, europea, anzi universale, prendeva posizione contro le terribili condizioni dei contadini collettivizzati e intercedeva presso Nikolaj Ivanovič Bucharin perché salvasse Osip Mandel’stam, «uno dei grandi poeti del XX secolo», “reo” di aver scritto un’ode contro Stalin. Entrambi, però, finirono vittime delle Grandi purghe staliniane. Nonostante la repressione, feroce e sistematica, di ogni accenno di dissenso e il terrore diffuso nei cittadini sovietici ad ogni livello di essere denunciati come antirivoluzionari, Boris Pasternak restava in contatto con gli esuli e internati.

L’U.R.S.S, contro il dottor Zivago

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Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, quando il regime stalinista scatenò un violentissimo attacco contro gli intellettuali “deviazionisti e borghesi”, Boris Pasternak iniziò a scrivere il suo primo e unico romanzo, Il dottor Živago. Ma nell’Unione Sovietica un testo per poter essere pubblicato doveva essere approvato dall’autorità. E il suo romanzo non solo non le entusiasmava ma provocava un netto rifiuto da parte dall’Unione degli Scrittori. Proprio come capitava al protagonista del romanzo, Yuri Zivago, le cui poesie suscitavano l’irritazione delle autorità. Per il regime era inammissibile la circolazione in Unione Sovietica e all’estero di un libro che, fortemente autobiografico, ardiva illustrare la realtà del bolscevismo, senza fare sconti sui lati più oscuri della gloriosa Rivoluzione d’ottobre. Come accadeva al protagonista del romanzo, così anche Boris Pasternak pagava il prezzo di cercare la verità e di dirla con la propria arte. Il dottor Živago, infatti, fu bandito dal governo che sottopose l’autore a persecuzioni sia sul piano intellettuale che su un altro, ben più tangibile. Furono le pressioni del regime e la sorveglianza dei servizi segreti che condussero Boris Pastrnak negli ultimi anni della sua vita alla povertà e all’isolamento. Fortunatamente lo pubblicò, in Italia, Feltrinelli nel 1957 e la critica occidentale lo accolse con entusiasmo. Tanto che nel ’58 gli venne assegnato il Nobel.

«La politica non mi dice nulla. Non mi piacciono gli uomini indifferenti alla verità» (Boris Pasternak).

Proprio l’assegnazione del premio provocò il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali. Secondo il regolamento dell’Accademia Svedese, per ottenere il riconoscimento, l’opera doveva essere stata pubblicata nella lingua materna dell’autore. Così agenti della CIA e dell’intelligence britannica, riusciti ad entrare momentaneamente in possesso del manoscritto in lingua russa, dopo averlo fotografato pagina per pagina, lo fecero precipitosamente pubblicare con intestazione russa e con le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni russe.

Dapprima Pasternak inviò un telegramma a Stoccolma esprimendo la sua gratitudine. Pochi giorni più tardi, a causa delle pressioni del KGB, comunicò all’Accademia la sua rinuncia al premio e l’intenzione di restare in Russia. Rifiutava così la fama, il denaro del premio e la possibilità di sfruttare commercialmente la distribuzione del libro in Occidente, pur di non vedersi negata la possibilità di rientrare nell’URSS. Come Yuri Zivago, anche Boris Pasternak non riusciva a separarsi dalla sua terra. E la minaccia del KGB di impedirgli per sempre di non farlo mai più rientrare, se fosse andato a Stoccolma, fu il colpo decisivo.

«L’uomo è nato per vivere, non per prepararsi a vivere» (Boris Pasternak).

Pur senza aver ritirato il premio, Pasternak non venne risparmiato dalla persecuzione. Morì due anni più tardi, a Peredelkino. Ormai era in condizioni non tanto dissimili da quelle dottor Zivago, al termine del romanzo: solo, emarginato e povero.

Il romanzo fu pubblicato ufficialmente in Russia solo nel 1988, e nel 1989 il figlio di Boris Pasternak, Evgenij, andò in Svezia per ritirare il premio.

Boris Pasternak negò sempre di aver pensato a Zivago come ad un ritratto di se stesso. Però, nel romanzo Pasternak inserì come “poesie di Zivago” alcuni suoi componimenti lirici.

Cinque anni dopo la sua morte, il regista David Lean e lo sceneggiatore Robert Bolt, realizzavano il kolossal Il dottor Zivago. Milioni di spettatori avrebbero fatto lunghe file per entrare nelle sale cinematografiche dove la pellicola era proiettata, per emozionarsi e commuoversi.

Alberto Quattrocolo

Romy Schneider

La vita di Romy Schneider fu così tormentata, così funestata da lutti insopportabili, che, quando morì il 29 maggio 1982, furono in molti a pensare che si fosse suicidata. In effetti, sembra quasi che una sorta di destino crudele abbia giocato con la sua esistenza, rubandole la felicità ogni volta che l’aveva raggiunta.

Ciò che rende la vita di Romy Schneider interessante anche dal punto di vista della rubrica Corsi e Ricorsi, è, però, anche il suo intrecciarsi con l’epoca in cui visse. Anche Romy Schneider infatti appartenne al suo tempo e partecipò dei conflitti e dei cambiamenti che si compirono, partecipandovi attivamente, talora, subendoli talaltra. E facendosene in qualche modo interprete, al pari di altri attori e registi la cui vita o le cui opere sono state ricordate su questa rubrica (tra gli altri: John Garfield, Sterling Hayden, Katharine Hepburn, Paul Newman, Sal Mineo, Marlon Brando, Richard Widmark, Spencer Tracy, Marlene Dietrich, Sammy Davis Jr e May Britt, Vittorio De Sica, Charles Chaplin, Sidney Poitier, Micheal Cimino).

Romy Schneider nei panni di Sissi

Romy Schneider era nata a Vienna, il 23 settembre del 1938, quindi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler (l’Anschluss). Ed era una figlia d’arte. La madre, l’attrice tedesca Magda Schneider, e il padre, l’austriaco Wolf Albach-Retty, erano entrambi attori di successo nei paesi di lingua tedesca, ma soprattutto in Austria. La madre, che, poi sposò un pasticcere di Colonia, in Germania, dove si trasferì con la figlia, indusse la figlia ad intraprendere la carriera cinematografica, vincendone le resistenze. Così, Romy apparve per la prima volta sullo schermo all’età di soli 15 anni, nel film del 1953 Wenn der weiße Flieder wieder blüht (Quando il bianco lillà fiorisce di nuovo). Fu l’anno dopo, però, che Romy Schneider interpreto il film decisivo per il suo futuro. L’amore di una grande regina (1954) la vide impegnata nel ruolo della giovane Regina Vittoria d’Inghilterra, mentre la baronessa Lehzen, fedele governante della regina, era interpretato da sua madre Magda. Il regista Ernst Marischka fu così soddisfatto della collaborazione con Romy Schneider che pensò subito a lei per il ruolo della principessa Sissi. I tre film su Sissi che girarono insieme grazie al il fascino delle scene, alla sfarzosa solennità dei costumi, al fatto fosse che fossero realizzati in Technicolor e, soprattutto, grazie all’intensa presenza scenica della giovane attrice ottennero un successo straordinario. La trilogia di Sissi, dedicata all’imperatrice d’Austria Elisabetta, prodotta nel triennio 1955-1957, procurò, infatti, a Romy Schneider un’immensa popolarità, rendendola agli occhi del pubblico europeo un simbolo di freschezza, ingenuità ed entusiasmo. Per i produttori Romy Schneider era un investimento sicuro e non esitarono a persistere nel farle interpretare invariabilmente la parte della fanciulla pura, onesta e allegra in favole romantiche e commedie divertenti, appoggiati in ciò dalla madre che si occupava anche della promozione e della cura dell’immagine della figlia.

La ribellione della giovane Romy Schneider e l’incontro fondamentale con Alain Delon

Già alla fine degli anni Cinquanta Romy Schneider rivelò una certa insofferenza sia verso i film che le facevano girare sia verso la madre. Fondamentale fu l’incontro con Alain Delon. Si conobbero sul set de L’amante pura (1958), si innamorarono e lei lo seguì a Parigi.

La Schneider era già una attrice famosa mentre Delon muoveva i suoi primi passi nel mondo del cinema. Presto, però, le cose si sarebbero trasformate. Alain Delon diventò sempre più famoso e richiesto, mentre la carriera di Romy Schneider iniziò a segnare il passo. Fu il compagno a darle un aiuto fondamentale, supportando, anche contro la riluttanza e l’insicurezza di lei, il suo spirito ribelle. Infatti, nell’estate 1960, Romy Schneider andò a far visita Delon a Ischia, dove egli stava girando Delitto in pieno sole, diretto da René Clement, e l’attore cercò di convincerla a contattare il regista italiano Luchino Visconti. Spaventata Romy Schneider tornò a Parigi, ma Delon, giunto a Roma, riuscì a convincerla a raggiungerlo per conoscere Visconti. Il progetto di costui era la rappresentazione dello spettacolo teatrale Peccato, che sia una puttana di John Ford e intendeva avere Romy Schneider come protagonista femminile, accanto a Delon. L’attrice cercò di dissuadere il regista, non sentendosi in grado di recitare in teatro e per di più in francese, un’opera scritta da un inglese e diretta da un regista italiano, debuttando nel Théâtre di Parigi. Anche sua madre era contraria al progetto di Visconti e Alain Delon. Costui, però, che credeva fermamente nel talento teatrale di Romy Schneider e aveva intenzione di investire il proprio denaro per permetterle di partecipare a questo lavoro teatrale, alla fine riuscì a spuntarla. Dopo molte prove, Romy Schneider riuscì a calarsi nel personaggio di Annabelle, scoprendo di avere una vocazione come attrice teatrale. E anche se un attacco di appendicite portò alla revoca della prima dello spettacolo in radio e televisione, la prima, spostata al 29 marzo 1961, fu un successo unanimemente riconosciuto. Tra il pubblico vi erano non soltanto attrici della levatura di Anna Magnani e Ingrid Bergmann, ma anche Magda Schneider e Wolfi, il fratello di Romy. Romy Schneider non soltanto recitò 120 rappresentazioni dello spettacolo e, con lo stesso regista, interpretò uno degli episodi del film Boccaccio’70, ma da quel momento in poi, divenne un’attrice internazionale. Lavorò in costose e impegnative co-produzioni europeo-americane, dirette da autori di spessore notevole e di corpose ambizioni artistiche e spettacolari, come Il processo (1962, di Orson Welles)Il cardinale (1963, di Otto Preminger) e I vincitori (1963, di Carl Foreman), ricavandone notorietà e soddisfazioni. Nel ’64, però, la relazione con Alain Delon terminò.

La maternità e la maturità

Dopo un momento di depressione, Romy Schneider conobbe Harry Meyen, attore e regista, di origine ebraica, che sposò nel luglio ‘66. Dal loro rapporto nacque, David, il 3 dicembre 1966. Il periodo di tranquillità e felicità fu funestato nel febbraio 1967 dalla morte di suo padre, Wolf Albach-Retty, colpito da due infarti. L’anno dopo, grazie ad Alain Delon, ottenne una parte nel film epocale La piscina, di Jacques Deray. Il fatto di lavorare insieme al divo francese portò la stampa ad ipotizzare il risorgere di una relazione tra i due. Ma Romy Schneider non lasciò che i pettegolezzi le rovinassero la serenità raggiunta. Nel frattempo inanellava una sfilza di interpretazioni pregevolissime per personaggi eterogenei: L’amante (1970, di Claude Sautet) con Michel Piccoli e Lea Massari; La Califfa (1970, di Alberto Bevilacqua), accanto ad Ugo Tognazzi; Il commissario Pellissier (1971, di Claude Sautet,), di nuovo con Michel Piccoli; L’assassino di Trotsky (di Joseph Losey) con Alain Delon e Richard Burton. Inoltre, diretta da Luchino Visconti, tornò a vestire i panni dell’imperatrice Elisabetta di Baviera in Ludwig II (1972), al fianco di Helmut Berger e Silvana Mangano. La sua versatilità trovò ulteriori conferme in un’altra commedia, di nuovo di Claude Sautet, E’ simpatico, ma gli romperei il muso, al fianco di Yves Montand, e nel drammatico Noi due senza domani (1973, di Pierre Granier-Deferre) con Jean-Louis Trintignant. Nel giugno del ’73, si separò dal marito Harry Meyen, e dalla Germania, si trasferì nuovamente in Francia, continuando a lavorare instancabilmente in  opere di successo.

L’impegno pubblico di Romy Schneider nella battaglia sull’aborto e il dolore privato

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Nel frattempo, però era attenta a quel che succedeva in quegli anni politicamente, socialmente e culturalmente tumultuosi. Infatti,  partecipò nel giugno del 1971 alla campagna di auto-denuncia nella battaglia femminista a favore della legalizzazione dell’aborto che si stava sviluppando in tutta Europa. Negli anni Settanta l’aborto era illegale non soltanto in Italia ma anche in Germania e, attraverso una coraggiosa auto-denuncia sulla rivista tedesca Stern, anche Romy Schneider ammise di aver abortito, pur sapendo di rischiare la prigione e di poter generare uno scandalo dannoso per la propria immagine e la propria carriera. Come si è visto, non andò così. E anche sul versante privato, la rottura del rapporto con Meyen, fu compensato dall’inizio di un uovo rapporto con il  suo segretario Daniel Biasini, di nove anni più giovane, che sposò il 18 dicembre del ’75. Poco dopo scoprì di essere incinta, ma perse il bambino a causa di un incidente d’auto, all’inizio del 1976. Quell’anno, durante il quale le veniva assegnato il premio Cèsar addirittura per due interpretazioni maiuscole in altrettanti film, L’importante è amare, di Andrzej Zulawski e per Frau Marlen di Robert Enrico, rilasciò un’intervista quasi catartica e destinata a restare riservata fino a poco tempo fa. Parlando con Alice Schwarzer del magazine Emma, il 12 dicembre del 1976, Romy Schneider, parlando sottovoce e piangendo all’improvviso, confessò di essere convinta che sua madre avesse fatto sesso con Adolf Hitler e spiegò di aver avuto sempre un rapporto complicato, cui non poteva di aver fatto visita al dittatore nella sua residenza sull’Obersalzberg.

Inoltre, secondo un articolo del 21 dicembre 2009 del quotidiano tedesco Bild, dal 1976 sino alla morte Romy Schneider sarebbe stata spiata dalla Stasi, i servizi segreti della Germania comunista, per il suo sostegno a favore di un comitato d’opposizione. Era noto, del resto che l’attrice desse non soltanto generosi sostegni a diverse iniziative umanitarie e di beneficenza, ma che aiutasse anche chi si opponeva alla dittatura nella Germania orientale

La morte dell’ex marito, il cancro e l’assurda, orrenda, morte di suo figlio David

Il 21 luglio del 1977 Romy Schneider e Daniel Biasini ebbero una bimba, Sarah Magdalena. La vita era tornata ad essere tale. Vita. L’anno dopo, diretta ancora da Claude Sautet offriva un’altra sensibilissima prova in Una donna semplice. Anche tale performance le fruttò il César nel febbraio 1979, ma la soddisfazione, due mesi dopo, fu oscurata dalla notizia che il suo ex marito, Harry Meyen, si era suicidato. Pur non trascurando il lavoro di attrice, Romy Schneider faticò a tenere duro. Riuscì a non lasciarsi sopraffare anche dalla notizia della di sua nonna, Rosa Albach-Retty. Però, l’anno dopo, nel 1981 il matrimonio con Biasini finì, e a Romy venne diagnosticato un tumore al rene destro. Quello stesso anno, il 5 luglio, suo figlio David Christopher, quattordicenne, tentando di scavalcare il cancello in ferro nella abitazione dei suoi nonni, restò infilzato. Il dolore per la morte di David la distrusse. Però in qualche modo riuscì ad interpretare La signora è di passaggio di Jacques Rouffilo, nuovamente accanto a Michel Piccoli. Sopra il titolo del film Romy fece porre una dedica:

a David e a suo padre“.

Nuovamente premiata per questa interpretazione, Romy Schneider era ormai in condizioni desolanti. Viveva in un albergo di Parigi, da sola, e prendeva sonniferi e stimolanti. Fece un viaggio alle Seychelles con sua figlia e con un nuovo compagno Laurent Petin. Comprò una nuova abitazione a Boissy , a 70 km da Parigi, per dimenticare, per trovare quella pace, che il destino si era crudelmente divertito a sottrarle. Il 29 maggio 1982 morì per un colpo apoplettico.

Dopo qualche tempo, grazie all’interessamento di Alain Delon venne sepolta nel cimitero di Boissy-Sans-Avoir, dove qualche tempo dopo ottiene  una tomba comune con suo  figlio.

Alberto Quattrocolo

 

Strage di piazza della Loggia

Alle 10 e 12 del 28 maggio 1974, in piazza della Loggia a Brescia, un ordigno fatto esplodere in un contenitore della spazzatura provocò otto morti e circa cento feriti. La piazza era gremita a causa di una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Erano presenti il sindacalista della Cisl Franco Castrezzati, Adelio Terraroli del Partito comunista italiano e il segretario della Camera del lavoro di Brescia Gianni Panella. Sei persone morirono subito, altre due dopo ore di agonia in ospedale.

Il giorno prima del fatto, un messaggio proveniente da Ordine nero e diretto ai quotidiani di Brescia aveva preannunciato attentati contro esercizi pubblici. La morte di un giovane bresciano (già militante in formazioni extraparlamentari di estrema destra), avvenuta qualche giorno prima, sarebbe stata ricordata, secondo il messaggio, con degli attentati. Nelle settimane precedenti, in effetti, c’erano già stati attacchi violenti nelle scuole e contro sedi di partiti della sinistra e di organizzazioni sindacali, volti a contrastare mutamenti sociali in senso progressista. Per questo, antifascisti e sindacalisti avevano organizzato quella manifestazione del 28 maggio.

Il funerale si svolse nella stessa Piazza della Loggia, alla presenza del Capo dello Stato Giovanni Leone, del Presidente del Consiglio Mariano Rumor e dei principali leader di partito. La cerimonia venne interamente pagata dal comune di Brescia e vide la partecipazione popolare di circa 500.000 persone.

Nell’arco di quarant’anni, si sono celebrati tre distinti processi. L’ultimo, terminato nel 2017, ha condannato per strage il dirigente di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi, come organizzatore dell’eccidio, e il militante (e informatore del Sid) Maurizio Tramonte, per concorso. Diversamente, i primi due procedimenti portarono esclusivamente ad assoluzioni.

Un ulteriore troncone di indagine risulta tuttora pendente presso la Procura per i Minorenni di Brescia, a carico del veronese Marco Toffaloni. Fu infatti acquisita una fotografia del giorno della strage, che attesterebbe la presenza di Toffaloni, all’epoca diciassettenne, in Piazza della Loggia la mattina del 28 maggio 1974, pochi istanti dopo l’esplosione. Questo, unitamente ad alcune sue dichiarazioni a un collaboratore di giustizia, portarono la Procura ad aprire nuovamente il processo.

 

Alessio Gaggero

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1993, strage di via de’ Georgofili a Firenze

Ne capite qualcosa di politica voi? No! È bene allora che ci portiamo dietro un po’ di morti, così si danno una mossa.
(Giuseppe Graviano, capomafia palermitano)

All’1,04 del 27 maggio 1993 un ordigno montato su un furgone Fiat Fiorino bianco e composto di 250 chili di tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina esplode a Firenze in via dè Georgofili, un antico vicolo a pochi passi da piazza Signoria. La deflagrazione, cui segue un incendio, distrugge la Torre dè Pulci, sede dell’Accademia dè Georgofili, e sventra il centro storico della città. Nell’attentato perdono la vita la custode dell’Accademia, Angela Fiume, suo marito Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina e lo studente di architettura Dario Capolicchio. Decine di altre persone rimagono ferite, tra cui la giovane Francesca Chelli, che assiste impotente alla morte del suo compagno Dario, arso vivo.

Molti altri palazzi vengono danneggiati: la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte Vecchio e l’Istituto e Museo di Storia della Scienza, oltre a numerose opere d’arte conservate in quegli edifici. Enorme anche il danno economico: per ricostruire la torre, riparare la chiesa e il complesso degli Uffizi e restaurare le opere rovinate, saranno spesi più di 30 miliardi di lire.

Gli abitanti, feriti e sconvolti, si precipitano in strada mentre giungono i primi soccorsi. Per qualche ora si pensa a una fuga di gas, ma all’alba diviene chiaro che l’evento ha una matrice diversa: il gigantesco portone di legno massiccio di un palazzo vicino è stato completamente scardinato e nel cortile c’è il motore del Fiorino, scagliato a distanza dall’esplosione; i vigili, rimuovendo le macerie, portano alla luce un enorme cratere di forma ellittica, largo quasi 5 metri e profondo un metro e mezzo. Si inizia a parlare di attentato: l’ingente quantità di esplosivo impiegato e la sua composizione, simile a quella usata l’anno precedente a Palermo per uccidere il giudice Borsellino, indirizzano le indagini verso la pista mafiosa.

La mattina successiva, con due telefonate anonime all’Ansa di Firenze e Cagliari, la “Falange Armata” rivendica la strage; per capire di chi si tratti occorre fare un passo indietro. Nel gennaio del ‘92 si era concluso il maxi-processo di Palermo, iniziato nel 1986 e istruito dal pool antimafia di Antonio Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per la prima volta aveva trovato applicazione l’articolo 416 bis, il carcere duro per i reati di stampo mafioso, ed erano stati comminati 19 ergastoli, 2665 anni totali di reclusione e multe per 11 miliardi di lire, con le condanne in contumacia anche di Totò Riina e Bernardo Provenzano, latitanti.

Dopo le sentenze di Palermo, l’organo direttivo dei boss di Cosa Nostra più potenti decide di dare inizio a una catena di attentati, rivendicandoli con il nome di “Falange Armata”. I fatti di Firenze sono da inquadrarsi all’interno di una strategia più ampia, con la quale la mafia mira a incutere timore nell’opinione pubblica, ricattare lo Stato e imporsi come suo interlocutore diretto, in particolare per farsi approvare alcune richieste (il famoso “papello” di Ciancimino), tra le quali l’annullamento del 416 bis e la revisione della sentenza del maxi-processo. Nel biennio ‘92-93 numerosi eventi criminosi possono inscriversi in questo disegno: i falliti attentati ai danni di personalità di spicco, gli omicidi Lima e Salvo, le stragi di Capaci e via d’Amelio, gli attentati a Firenze, Roma e Milano, il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma.

Il pentito Giovanni Brusca ha spiegato che fino al luglio del ’92 gli obiettivi di Cosa Nostra erano sempre stati uomini delle istituzioni e mai si era pensato a un attacco al patrimonio artistico e storico. Fu un oscuro personaggio, Paolo Bellini, estremista nero, assassino, ladro di quadri e di oggetti di antiquariato, informatore dei carabinieri e probabile collaboratore dei servizi segreti, a far comprendere ai mafiosi che l’attacco ai tesori d’arte avrebbe potuto piegare lo Stato: “Se tu a Pisa vai a togliere la torre, è finita Pisa”, ovvero, ucciso un giudice o un poliziotto questi viene sostituito, ma distrutta la torre di Pisa va distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato. E proprio in questa ottica e a conferma di un disegno criminoso volto a condizionare il funzionamento degli istituti democratici e la vita civile del Paese, seguendo le medesime modalità esecutive, la mafia fa seguire alla strage di via de’ Georgofili quella al Padiglione di Arte Contemporanea a Milano, il 27 luglio, e, il giorno successivo, a distanza di cinque minuti, gli attentati ai danni della Basilica di San Giovanni e della chiesa di San Giorgio a Velabro a Roma.

Nel ‘94 la Procura di Firenze acquisisce tutte le indagini sugli attentati di Roma, Firenze e Milano, condotte dal procuratore capo Pier Luigi Vigna e dai sostituti procuratori Fleury, Chelazzi e Nicolosi, basandosi soprattutto su analisi di tabulati telefonici e sulle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia. Nel ’98 le prime sentenze della Corte d’Assise di Firenze affermano la colpevolezza di molti nomi eccellenti di Cosa Nostra, tra cui Provenzano e Messina Denaro, e due anni dopo saranno condannati per i medesimi fatti anche Totò Riina e Giuseppe Graviano, le cui posizioni erano state stralciate dal processo principale. Nel 2011, grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, condannato nel ’98 e divenuto collaboratore di giustizia dieci anni dopo, sono condannati per la strage di Firenze ulteriori uomini di Cosa Nostra, tra cui il palermitano Francesco Tagliavia.

Già nel ’94 lo stesso pool di magistrati fiorentini apre un secondo filone d’indagine parallelo, per accertare le responsabilità negli attentati del ‘93 di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all’organizzazione mafiosa, i cosiddetti “mandanti occulti”: “Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato, dando vita a quello che ben può definirsi “potere criminale integrato” […]. Gli investigatori hanno notato che le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non sembrano il semplice frutto della mente di un criminale comune, sia pure mafioso: si riconosce in queste operazioni di analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi delle comunicazioni di massa e anche una capacità di sondare gli ambienti politici e di interpretarne i segnali. Si potrebbe pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari.”. Vengono iscritti nel registro degli indagati anche esponenti politici, tra cui Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri, ma nel 2008 la Procura di Firenze, in assenza di ulteriori risultati investigativi, archivia l’inchiesta.

Le indagini sugli attentati del biennio ’92-93 gettano luce su uno scenario ancor più complesso. La motivazione della sentenza di primo grado del processo del ’98 ritiene sufficientemente provati i contatti tra Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo e riconosciuto interlocutore di Cosa Nostra) e il ROS, basandosi sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Brusca, del generale Mario Mori e del capitano De Donno, i quali sostennero di avere preso l’iniziativa per riuscire a catturare qualche latitante e cercare di impedire altre stragi: la sentenza afferma esplicitamente che si trattò di una “trattativa”. Nel 2011 il collegio giudicante di Firenze, nel condannare una quindicina di boss per la strage di via dei Georgofili, dedica cento pagine della motivazione della sentenza esclusivamente al movente degli attentati in continente e alla trattativa tra uomini di stato e mafiosi. Si legge nella prima pagina: “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.

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L’inchiesta sulla trattativa, avviata a Firenze, viene trasferita alle Procure di Caltanissetta e Palermo e conduce al rinvio a giudizio per dodici imputati, tra cui i capimafia Riina e Provenzano, ma anche gli ex ufficiali del ROS Mori e Subranni, i senatori Dell’Utri e Mannino, accusati di attentato a un corpo politico. L’ex ministro dell’Interno Mancino risponde per falsa testimonianza, mentre Giovanni Conso, Adalberto Capriotti e Giuseppe Gargani sono accusati di aver dato false informazioni ai pubblici ministeri. Il 20 aprile 2018 viene pronunciata la sentenza di primo grado, con la quale vengono condannati a dodici anni di carcere Mori, Subranni, Dell’Utri, Cinà, a otto anni De Donno, a ventotto anni il boss Leoluca Bagarella; sono prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, e viene assolto Nicola Mancino.

Al netto delle condanne (non definitive) e del controverso dibattito sulla trattativa presso le istituzioni e la società civile, il processo mette anche in luce il ruolo assunto da forze politiche emergenti nei primi anni Novanta, su tutte Forza Italia e le “leghe autonomiste” siciliane, nel proporsi come nuovi referenti istituzionali per i clan mafiosi dopo lo scompiglio politico causato dall’inchiesta Mani Pulite.

Qualche anno fa, in occasione della laurea di Francesca Chelli, ferita nell’attentato di Firenze, la madre Giovanna, presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime di quella strage, ebbe a dire:

Questa laurea di mia figlia è la rivincita su quei 300 chili di tritolo usato sulla pelle di innocenti per nascondere ancora una volta le miserie di chi ha dato alla mafia la possibilità di andare in Parlamento.

 

Silvia Boverini

Fonti: www.it.wikipedia.org; W. Fortini, “Prima e dopo la strage dei Georgofili: Palermo, Capaci e poi gli attentati a Roma e Milano”, http://www.toscana-notizie.it; www.strageviadeigeorgofili.org; F. Selvatici, “Così la mafia colpì Firenze. Georgofili, storia di una strage”, https://firenze.repubblica.it; G. Maggiani Chelli, “Strage via dei Georgofili, la sentenza d’appello conferma: trattativa ci fu”, www.ilfattoquotidiano.it; A. Pacini, “La strage di via dei Georgofili”, http://www.cosavostra.it; G. Pellini, “Cosa successe a Firenze 23 anni fa. La strage di via dei Georgofili e la «Falange Armata»”, https://left.it; A. Pettinari, “Strage dei Georgofili, 25 anni dopo si riparte dai ”mandanti esterni”” e L. Baldo, “Strage dei Georgofili: una verità (ancora) a metà”, www.antimafiaduemila.com; www.ilpost.it; www.interno.gov.it

Quel discorso dell’Ascensione che andava preso sul serio

Nel tristemente celebre discorso dell’Ascensione (26 maggio 1927), Mussolini disse:

«L’opposizione non è necessaria al funzionamento di un sano regime politico. L’opposizione è stolta, superflua in un regime totalitario, com’è il regime fascista».

Non a caso un anno dopo, il 17 maggio 1928 entrò in vigore una nuova riforma elettorale, con la quale gli elettori erano chiamati unicamente a dire “SI”o”NO”ad una lista già decisa dal Gran Consiglio del Fascismo.

Le elezioni, rese di fatto inutili, furono del tutto abolite nel 1939, con l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, i cui membri erano nominati dal Governo, mentre il Senato rimaneva di nomina regia.

Come si era arrivati al discorso dell’Ascensione? Un passo dopo l’altro. Neanche troppo inavvertitamente, tranne per chi non aveva voluto avvedersene. Per stoltezza, ignoranza, interesse, ottusità… E per tutte queste cose – e altre ancora – insieme.

Il fascismo tra rivoluzione e restaurazione dell’ordine

Benito Mussolini era al vertice del governo ormai da quasi cinque anni quando pronunciò il discorso dell’Ascensione. Alla fine della prima guerra mondiale, infatti, si era affacciato sulla scena come leader di una forza politica nuova. A capo di questa, da un lato, aveva saputo cavalcare efficacemente il grave disagio sociale nonché la diffusa delusione per i risultati dei trattati di pace e, dall’altro, aveva saputo proporsi come bastione rispetto alla crescita di consensi delle organizzazioni socialiste. Il nascente fascismo, inoltre, aveva saputo giocare abilmente la carta della propria incerta definizione ideologica, potendo presentarsi come insieme di tendenze e convincimenti, che pur contrastanti, erano capaci di procurare approvazione e sostegno in vasti settori della borghesia media e piccola, quel ceto, cioè, che nel dopoguerra riteneva di aver pagato pesantissimi costi economici e di aver subito una forte perdita di peso politico. A questa classe sociale il fascismo si presentava come la sola forza capace, contestualmente, di procurare cambiamenti radicali e di ripristinare l’ordine indebolito dai movimenti di sinistra e dalla conflittualità sociale, emersi prepotentemente nel dopoguerra. che era stato sconvolto dal conflitto (si poneva nello stesso tempo come rivoluzionario e restauratore dell’ordine. La combinazione di questi e altri fattori, aveva fatto sì che, dopo la marcia su Roma,  il 31 ottobre del 1922, in conformità ai meccanismi istituzionali, conformi alla costituzione vigente, si insediasse il primi governo Mussolini (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, lo abbiamo ricordato nel post Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini). Considerato un argine utile all’avanzata del movimento operaio e contadino, il fascismo aveva trovato il sostegno non soltanto di una consistente parte della borghesia industriale, dei grandi proprietari terrieri, di molti degli organismi statali e dei massimi vertici dello Stato, incluso il re Vittorio Emanuele III, che non ne avevano bloccato le azioni illegali e violente, e di una parte della classe politica liberale, convinta di utilizzarlo per ostacolare l’avanzata dei partiti popolari e poi di neutralizzarlo o normalizzarlo.

Dal regime liberale allo Stato fascista

Nominato dal re Presidente Del Consiglio, Mussolini aveva subito avviato una serie di riforme finalizzate ad assicurare a sé e al suo partito quella salda e definitiva presa del potere che nel giro di pochi anni gli avrebbe consentito di dire, senza timore di smentita, nel discorso dell’Ascensione che nel regime fascista non vi era alcuno spazio pensabile per un’opposizione (si veda il post 3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteri). Con le elezioni del 1924, contrassegnate da una violenza fascista, che ormai era diventata violenza di Stato, Mussolini aveva assicurato 374 seggi ai suoi fascisti. A quel punto la strada era spianata, e Mussolini poteva imporre le “leggi fascistissime” (che abbiamo ricordato qui), grazie alle quali, non soltanto il Presidente del Consiglio diventava Capo del Governo e a quest’ultima era concessa un’ampia facoltà di emanare decreti, presentabili per la conversione in ben 2 anni, ma si dava veste giuridica ad ogni opposizione antifascista a livello politico, sindacale, sociale, culturale, mediatico ed intellettuale. Venivano soppresse, infatti, libertà democratiche come libertà di stampa e di riunione, mentre erano istituiti, accanto la confino di polizia, il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e l’O.V.R.A., vale a dire la polizia politica. Questi ultimi servivano a garantire l’effettività della messa fuori legge di tutti i partiti e tutte le organizzazioni politiche, tranne il partito fascista, e l’irrogazione delle lunghe pene detentive previste per chi ricostituiva le organizzazioni disciolte o si affiliava ad esse. Inoltre, la Camera dei Deputati era stata sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la quale era composta solo da fascisti.

In breve, Benito Mussolini, che aveva potuto fare politica e poi diventare Presidente del Consiglio dei Ministri grazie ai diritti e alle libertà democratiche assicurate dal sistema costituzionale del regime liberale, appena ottenuto il potere, aveva concentrato tutti i suoi sforzi per togliere agli italiani tutti i diritti che costituivano i pilastri degli stati liberali.

Gli anti-fascisti e gli a-fascisti nel discorso dell’Ascensione

D’altra parte, già nel febbraio del 1922, quindi otto mesi prima della marcia su Roma, aveva apertamente dichiarato il suo proposito di conseguire un potere assoluto.

«La giustizia democratica del suffragio universale è la più clamorosa delle ingiustizie;il governo di tutti […] conduce in realtà al governo di nessuno», aveva affermato Mussolini, rivelando le aspirazioni totalitarie che caratterizzavano il movimento fascista fin dai suoi albori.

Queste affermazioni, che Mussolini aveva potuto pronunciare grazie ai diritti politici assicurati dal regime liberale, erano esplicitamente richiamate nel suo discorso dell’Ascensione del 26 maggio del 1927. Infatti, quel giorno davanti ad una Camera dei deputati ormai tutta fascistizzata, mentre iniziava la discussione generale del disegno di legge sullo “Stato di previsione della spesa del Ministero dell’Interno per l’esercizio finanziario dal 1° giugno 1927 al 30 giugno 1928”, Mussolini delineò, assai efficacemente, la sua concezione dello Stato e della politica.

«Quindi, nessuno speri che, dopo questo discorso, si vedranno dei giornalisti antifascisti, no: o che si permetterà la resurrezione di gruppi antifascisti: neppure. Si ritorna al mio discorso tenuto prima della rivoluzione in un piccolo circolo rionale di Milano, l’ “Antonio Sciesa”»

Per prevenire il rischio che qualcuno potesse farsi ancora qualche illusione, Mussolini aggiunse:

«In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti e per gli a-fascisti, quando siano dei cittadini probi ed esemplari».

Gli anti-fascisti si erano già accorti da alcuni anni quanto andasse preso sul serio il divieto di non essere conformi al fascismo, viste le violenza squadristiche e poliziesche subite e le condanne erogate.

Militarismo, maschilismo e razzismo nel discorso dell’Ascensione

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Nel discorso dell’Ascensione Mussolini, però, non si era limitato ai temi sopra indicati. Tra i molti argomenti affrontati vi erano anche quelli relativi alla politica fascista sulla maternità e l’infanzia. Una politica che rientrava nell’ambito di un progetto più ampio avente lo scopo di riportare l’Italia ai fasti della Roma imperiale, cioè di restituirle il ruolo centrale che, secondo Mussolini, ad essa spettava nello scacchiere internazionale. Il militarismo e il razzismo che caratterizzano l’ideologia fascista, nonché l’aggressiva politica imperialistica del regime, che già si dispiegava in Libia e che presto si sarebbe scatenata in Etiopia (abbiamo dedicato numerosi post ai crimini contro l’umanità commessi dal regime in entrambe le colonie, su Corsi e Ricorsi), erano strettamente connessi infatti al progetto di tipo antropologico, di rigenerare la popolazione italiana, creando un «uomo nuovo fascista», adatto a dominare le altre «razze».

Non per caso il 5 settembre del 1934, un anno prima dell’invasione fascista dell’Etiopia, su La Stampa, venne pubblicato un suo articolo intitolato “La razza bianca muore?” nel quale affermava che per «l’Italia e per gli altri Paesi di razza bianca è una questione di vita o di morte. Si tratta di sapere se davanti al progredire in numero e in espansione delle razze gialle e nere, la civiltà dell’uomo bianco sia destinata a perire». E già in precedenza aveva dato voce al suo timore per quel che riteneva essere l’imminente decadimento demografico della «intera razza bianca, la razza dell’Occidente, che può venir sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla nostra. Negri e gialli sono dunque alle porte.

 «La battaglia demografica»

Il discorso dell’Ascensione era alquanto esplicito in questo senso. Partendo dalla premessa che fosse compito dello Stato occuparsi della salute della sua popolazione, Mussolini si permetteva di assimilare il corpo sociale e i corpi degli italiani e la salute ‘morale’ e quella fisica. Dopo il trionfalistico elenco dei risultati ottenuti con l’eliminazione delle “infettive” opposizioni politiche, osservava, tuttavia, che lo stato di salute degli italiani non è ancora soddisfacente. Secondo lui, oltre ai problemi sanitari, vi erano altri e ben più gravi problemi morali che rendevano malsana la «razza italiana»: le nefaste influenze di certe culture straniere liberali e «decadenti» e, ovviamente del bolscevismo. Tra le colpe delle culture liberali, vi era quella – secondo Mussolini – di aver posto in secondo piano il ruolo della famiglia, di aver tollerato l’omosessualità e di aver parzialmente dato alla donna il diritto di autodeterminazione, in materia di procreazione e la possibilità di dedicarsi ad attività extrafamiliari, prettamente “maschili”, come il lavoro fuori casa. Per rettificare tali “deviazioni” e anomalie importate dall’estero nel discorso dell’Ascensione il duce lanciò ufficialmente la cosiddetta «battaglia demografica», per procurare un aumento forzato della popolazione.

La donna e la famiglia fascista nello Stato fascista

Fu quindi introdotta la tassa sul celibato (i celibi vennero definiti i «disertori della paternità») e sul matrimonio tardivo, mentre già dal 1925 era un crimine diffondere informazioni sui metodi contraccettivi e l’aborto e vendere farmaci contraccettivi. Poi il Codice Rocco del 1930 incluse la contraccezione e l’aborto tra i crimini «contro l’integrità della stirpe». Intanto si interveniva sulle norme relative al mercato del lavoro in modo che le donne fossero gradualmente escluse sia dal settore pubblico che privato.

Si annunciava, quindi, nel discorso dell’Ascensione una trasformazione radicale rispetto al passato, cioè una degenerazione. Infatti, si ponevano le basi per la cancellazione del confine tra la sfera pubblica e quella privata, trasformando,  legislativamente, la famiglia in un’istituzione statale, sociale e politica e rendendo la riproduzione un dovere verso lo Stato – e la mancata riproduzione in un reato.

Del resto in quel discorso dell’Ascensione Mussolini disse anche:

«se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia».

Per portare a compimento la rivoluzione fascista, infatti, occorreva generare dei figli. Dei figli che andassero come soldati al fronte o nelle colonie. E dal giugno del 1940 ne gettò moltissimi, di figli italiani, nel macello della Seconda Guerra Mondiale, accanto alle truppe hitleriane. Li spedì ad ammazzare e a farsi ammazzare, dopo aver cercato di forgiare la tempra fascista del «nuovo italiano» nelle criminali imprese coloniali della Libia e dell’Africa Orientale, nonché nella guerra civile spagnola, al fianco delle forze falangiste e naziste.

Alberto Quattrocolo

 

Darwin e la libertà d’insegnamento

Spiegare la teoria di Darwin sull’evoluzione della specie all’interno di un’aula scolastica fu il crimine commesso da John Thomas Scopes, ventiquattrenne allenatore di football americano, mentre faceva una supplenza di biologia nella scuola pubblica di Dayton, nel Tennessee.

Il processo alla scimmia

ll 25 maggio 1925, John T. Scopes fu accusato e processato per violazione del Tennessee’s Butler Act, la legge che vietava l’insegnamento di ogni teoria diversa da quella biblica sulla creazione dell’uomo. Veniva, quindi, proibita severamente la spiegazione della teoria di Darwin. Il farlo equivaleva a corrompere la gioventù. Il processo contro Scopes ebbe subito un’impressionante risonanza in tutti gli Stati Uniti. Fu chiamato “Scopes Monkey Trial” (“Processo della Scimmia di Scopes“).

A prendere le difese dell’insegnante accorse il celebre avvocato Clarence Darrow, insieme ad altri membri dell’American Civil Liberties Union (ACLU).

Invece, a supporto dell’accusa intervenne nientemeno che William Jennings Bryan. Costui, già tre volte candidato, e sconfitto, alla presidenza degli Stati Uniti (1896, 1900, 1908), vantava un curriculum politico, oltre che forense, di tutto rispetto. Era stato, infatti, Segretario di Stato sotto la Presidenza del democratico Woodrow Wilson.

William Jennings Bryan sosteneva che

«Tutti i mali di cui soffre oggi l’America si possono far risalire alla teoria dell’evoluzione. Sarebbe meglio distruggere tutti i libri che sono stati scritti e salvare unicamente i primi tre versetti della Genesi».

In virtù di tale convinzione, William Jennings Bryan aveva intrapreso, insieme ai conservatori religiosi, un durissimo e sistematico attacco a coloro che erano favorevoli al libero insegnamento della teoria di Darwin nelle scuole. La mastodontica propaganda, condotta senza quartiere, era esitata nell’introduzione di norme “antievoluzionistiche“, portando proprio, nel 1925, all’approvazione nel Tennessee di una legge, ai sensi della quale costituiva reato l’insegnamento nelle scuole pubbliche di qualsiasi teoria evoluzionistica. In altre parole, ad esempio, alla domanda da parte degli studenti sull’origine dell’uomo, gli insegnanti, non soltanto quelli di biologia, avrebbero dovuto rispondere, senza fare alcun riferimento a Darwin, con una spiegazione conforme alla narrazione della creazione proposta dal libro della Genesi. John T. Scopes, quindi, era stato arrestato per aver consapevolmente violato tale proibizione.

Dalla repressione della libertà d’insegnamento a quella della libertà di pensiero, tramite la messa al bando di Darwin

Contro l’eminente consulente dell’accusa, come detto, però, si era schierato, in difesa dell’imputato, oltre che della libertà di insegnamento il più illustre patrocinatore del Paese, l’avvocato Clarence Darrow. Un altrettanto determinato difensore dei diritti civili. Costui, infatti, non potendo scagionare dall’accusa il suo assistito, che riconosceva di aver commesso il fatto imputatogli e non era disposto a fare ammenda, aveva una sola strada disponibile: mostrare il lato grottescamente liberticida dell’intera faccenda. Si trattava, però di una strada in salita, per non dire sbarrata, dal momento che non venivano ammessi a titolo probatorio i libri e i testimoni proposti da Darrow per illustrare la compatibilità tra la teoria di Darwin e il credo religioso.

Per Darrow e per Scopes in ballo c’era molto di più della libertà personale di quest’ultimo, sul quale gravava in teoria il rischio di una sanzione detentiva. Pertanto, furono concordi nel tenere duro e nel condurre in aula una battaglia culturale e politica, prima che giudiziaria. Dal loro punto di vista, il divieto di insegnare una teoria scientifica costituiva la più radicale negazione dei principi costituzionali degli Stati Uniti, a partire da quelli relativi alla libertà di pensiero e alla libertà religiosa.

L’angosciata avversione di William Jennings Bryan alla teoria di Darwin

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Per William Jennings Bryan, in realtà, la questione centrale nel processo non era tanto quella della presunta inconciliabilità tra la religione e la teoria di Darwin, ma un’altra dimensione. Si deve considerare che la sua esperienza di Segretario di Stato accanto a Woodrow Wilson lo aveva segnato profondamente. Non aveva soltanto ben presente l’immensa devastazione della Prima Guerra Mondiale (abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio del 1915 nel post Oh, che bella guerra), ma ricordava anche la delusione del suo ex presidente, deceduto quindici mesi prima, il 3 febbraio 1924, per il fallimento della sua azione politica volta ad assicurare una nuova pace fondata sua una vera stabilità europea. William Jennings Bryan, dunque, aveva stabilito una connessione tra una certa propensione guerrafondaia e autodistruttiva dell’umanità, di cui il mondo aveva fatto esperienza diretta pochi anni prima, e le implicazioni culturali e morali della diffusione della teoria di Darwin:

«Mi oppongo alla teoria Darwiniana, fino a quando non sarà portata una prova più conclusiva, perché temo che perderemo la coscienza della presenza di Dio nella nostra vita quotidiana, se dobbiamo accettare la teoria che nel corso di tutte le epoche nessuna forza spirituale abbia toccato la vita dell’uomo o abbia plasmato il destino delle nazioni. Ma c’è un’altra obiezione. La teoria Darwiniana rappresenta l’uomo mentre raggiunge la sua attuale perfezione attraverso l’azione della legge dell’odio – la spietata legge per la quale il forte scaccia il debole e lo uccide. […] Preferisco credere che l’amore, piuttosto che l’odio, sia la legge dello sviluppo».

La guerra, Darwin e il processo alla Scimmia

Quel che angosciava il consulente dell’accusa nel processo contro Scopes era il compiersi definitivo e irreversibile di una svolta di tipo antropologico caratterizzata dal dominio della “legge dell’odio”. Si può, quindi, supporre che Bryan fosse in lotta non tanto contro quell’imputato e, forse, neanche contro Darwin in sé, ma che si battesse contro una visione del mondo, contro un’ideologia, che si era rivelata funzionale alla giustificazione della guerra. In particolare, della guerra intesa come operazione di radicale e totale eliminazione dell’avversario. Del resto Bryan non era il solo a ritenere che fossero state le teorie di Darwin a dare un contributo decisivo alla deflagrazione del conflitto mondiale. Tra gli altri anche G.B. Shaw, uno dei fondatori della Fabian Society e della London School of Economics, aveva sostenuto in “Back to Methuselah” che la Prima Guerra Mondiale poteva essere interpretata come un tentativo realizzato dagli Stati di assicurarsi il “predominio del più forte”, seguendo un criterio ispirato al meccanismo della selezione teorizzato da Charles Darwin.

Per Clarence Darrow e John Scopes la mancata difesa del diritto-dovere di insegnare Darwin equivaleva ad autorizzare l’affermazione di uno Stato illiberale, cioè, di uno Stato fascista o comunque autoritario, vale a dire di un regime inteso ad impedire agli individui di pensare con la propria testa, così da poterli abbindolare con una propaganda sfacciata, colma di distorsioni e menzogne, e spingerli ad odiare qualcuno e scaraventarli con qualche slogan in guerre insensate.

Commedie e film ispirati al Processo alla Scimmia.

 

Al processo alla Scimmia fu ispirata l’opera teatrale Inherit the Wind di Jerome Lawrence e Robert E. Lee.  Tale opera si distanziò sotto diversi aspetti dalla vicenda reale e cambiò i nomi dei veri protagonisti, così come l’ambientazione, collocata nella fittizia città di Hillsboro. La commedia ebbe una validissima trasposizione cinematografica nel 1960 (… e l’uomo creò Satana), da parte di Stanley Kramer, nelle vesti di produttore e regista, e con Spencer Tracy, nel ruolo di Darrow, e Frederic March, in quello di Bryan. Il film (di cui abbiamo parlato nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First), apertamente schierato dalla parte dei principi liberali, a partire dalla libertà di insegnamento e dalla laicità dello Stato, era co-sceneggiato da Nedrick Young, all’epoca incluso nella “lista nera” di Hollywood, che negava il lavoro ad artisti e professionisti accusati di avere legami con il Partito Comunista. Infatti, Young firmò la sceneggiatura con lo pseudonimo di Nathan E. Douglas (alla lista nera e alla caccia alle streghe anticomunista abbiamo dedicato diversi post, tra i quali: La vita spericolata di Sterling Hayden, A cavallo della paranoiaQuei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente,  John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante,  Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood).

Anche Henry Fonda interpretò a teatro il difensore di Scopes nel dramma Clarence Darrow, scritto da David W. Rintels.

Darwin e la libertà di insegnamento oggi

Su iniziativalaica.it si legge:

«La lotta fra creazionisti ed evoluzionisti negli Stati Uniti continua ancora adesso con sporadici scontri. Va ricordato fra l’altro che solo nel 1957 venne distribuito in parte dei distretti scolastici statunitensi, con la forte avversità dei cristiani più conservatori, un testo comprendente la teoria di Darwin. Solo nel 1968 la Corte Suprema decretò che la legge dell’Arkansas era inconciliabile con il primo emendamento della Costituzione americana, che vieta agli stati (e quindi alle scuole statali) di promuovere una particolare religione. In alcuni stati si richiede agli editori dei libri di testo di anteporre ai capitoli sull’evoluzione avvertenze simili alle nostre sui pacchetti di sigarette. Un documento per impedire l’insegnamento dell’evoluzione fu approvato nel Kansas nel 1999, ma in seguito fu abrogato con un referendum.
Sara Capogrossi Colognesi riporta in un articolo/saggio questa conclusione: “Il risultato è che oggi negli USA, la nazione leader nel mondo politico e scientifico, circa il 47 per cento della popolazione – un quarto della quale proveniente dai college – crede che l’uomo non sia il risultato di un processo evolutivo, ma sia stato creato da Dio poche migliaia di anni fa”».

Nel nostro Paese la libertà di insegnamento è garantita dall’art. 33 della Costituzione che, al primo comma, recita:

«l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».

La libertà di insegnamento rappresenta «quasi una prosecuzione ed espansione» della libertà della scienza e dell’arte, come spiegò  la Corte Costituzionale nella sentenza n. 240 del 1972. Tale libertà vale per tutti i docenti, di qualunque ordine e grado.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Dal processo Scopes all’Intelligent Design: evoluzione del creazionismo, Relatore: Prof. Guido Barbujani. Studente (autore): Antonio Scalari. Università degli Studi di Ferrara
Master di I livello in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza. http://pikaia.eu/dal-processo-scopes-allintelligent-design-evoluzione-del-creazionismo/

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. II., Istituto geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

 

Miceal Kerbel, Henry Fonda, Milano Libri Edizioni, Milano, 1976.

Romano Tozzi, Spencer Tracy, Milano Libri Edizioni, Milano, 1976.

https://it.wikipedia.org/

 

Oh, che bella guerra

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra, in quella che sarebbe diventata la Prima Guerra Mondiale.

L’Italia tra la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa

La Prima Guerra Mondiale (alla quale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, sono stati dedicati numerosi post), che coinvolse le principali potenze mondiali e molti Stati minori, rivelandosi il più grande conflitto armato mai combattuto fino ad allora, era iniziata il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra avanzata dall’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia, a seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, avvenuto un mese prima, il 28 giugno 1914, a Sarajevo. La dinamica delle alleanze, sviluppatesi  negli ultimi decenni del 1800, aveva portato ad una reazione a catena, che aveva determinato lo schierarsi in campo delle maggiori potenze mondiali, e poco per volta delle rispettive colonie. Si erano, così, costituiti due blocchi contrapposti: da una parte, gli Imperi centrali (vale a dire la Germania, l’Impero austro-ungarico e l’Impero ottomano); dall’altra, gli Alleati rappresentati principalmente da Francia, Regno Unito, Impero russo (la Triplice Intesa)

Il 24 maggio del 1915, un anno dopo l’inizio del conflitto in Europa, l’Italia, fin lì rimasta neutrale, fece il suo ingresso in questo immenso mattatoio, al fianco della triplice Intesa.

La neutralità del Regno d’Italia, pur essendo parte della Triplice Alleanza

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Il Regno d’Italia aveva conservato al neutralità trattando per un certo tempo, a volte anche contemporaneamente, sia con gli Imperi centrali, che con la Triplice Intesa. Infatti, l’Italia il 20 maggio 1882 a Vienna aveva firmato con gli imperi di Germania e Austria-Ungheria (che già formavano la Duplice alleanza) un patto militare con il quale si era costituita la Triplice Alleanza. Però, in virtù dell’art. 4 del trattato, nel 1914, aveva potuto dichiararsi neutrale. Il Consiglio dei Ministri del 2 agosto 1914 aveva preso questa decisione e l’aveva diramata la mattina del 3:

«Trovandosi alcune potenze d’Europa in istato di guerra ed essendo l’Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno l’obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale».

Dieci mesi dopo, il 23 maggio del 1915 il Regno d’Italia abbandonò definitivamente lo schieramento della Triplice Alleanza e la neutralità, dichiarando guerra all’Austria-Ungheria. Il giorno dopo avviò le operazioni belliche, per poi dichiarare guerra anche all’Impero ottomano, il 21 agosto 1915, che nel frattempo aveva preso il posto dell’Italia nella Triplice Alleanza, al Regno di Bulgaria, il 19 ottobre 1915, e all’Impero tedesco, il 27 agosto 1916.

La fatale decisione di tre uomini

La drammatica, gravissima, decisione di entrare in guerra contro l’Impero austro-ungarico annunciata il 23 maggio 1915 e messa in pratica il 24 maggio, non venne presa dal Parlamento italiano, dopo un ampio ed esauriente dibattito, ma soltanto da tre uomini: il presidente del Consiglio dei Ministri, Antonio Salandra, il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, e il re Vittorio Emanuele III. La maggioranza del Paese, pur spaccata tra interventisti e neutralisti, era, comunque, avversa alla guerra e, in particolare, lo erano le donne, che erano prive del diritto di voto. La neutralità aveva ottenuto inizialmente un consenso pressoché unanime. Poi l’insuccesso dell’offensiva tedesca contro gli Alleati, sulla Marna, diffuse i primi dubbi in Italia sulla invincibilità tedesca. Così, già, dei gruppi interventisti cominciarono a farsi sentire nell’autunno 1914, crescendo in  pochi mesi. La tesi degli interventisti era che l’Italia, se fosse rimasta neutrale, avrebbe perso prestigio, credibilità e potere sul piano internazionale. Se avesse vinto la Triplice Intesa, sarebbe stata fuori dai giochi e avrebbe potuto scordarsi le mire su quanto le interessava, vale a dire il Trentino, le isole della Dalmazia, Gorizia, Gradisca e un «primato» sull’Albania. Se avessero vinto la guerra gli Imperi centrali, pensavano gli interventisti, si sarebbero vendicati dell’Italia, considerandola traditrice di un’alleanza trentennale. Per un intervento a fianco dell’Intesa erano schierati, i nazionalisti, la destra conservatrice, il centro sinistra repubblicano e radicale, il socialismo riformista e l’anarco-sindacalismo. Contro la guerra erano schierati i ceti borghesi, al cui vertice c’era il loro leader Giovanni Giolitti, il mondo cattolico e i socialisti. Se in termini numerici i contrari alla guerra erano una netta maggioranza, il loro peso politico era sminuito da vari fattori. Tra questi, c’era quella della natura non altisonante né demagogica dei loro argomenti. Tutti fondati sull’esame di realtà, sulla razionalità e sui principi umanitari.

La debolezza politica della maggioranza neutralista

Mentre gli interventisti potevano far vibrare corde emotivamente più potenti: il patriottismo, l’onore, l’identità nazionale, l’orgoglio, le aspirazioni coloniali, funzionavano efficacemente come argomenti per le persone di destra, mentre  la parte progressista sentiva sollecitati gli ideali della democrazia e della lotta alle monarchie autocratiche degli Imperi centrali, che venivano connessi e alla liberazione di Trento e Trieste. Inoltre, i neutralisti non potevano contare su organi ed istituzioni politiche in grado di smuovere le masse. A tale riguardo, va detto che il governo e il re, di certo, non consultarono la massa contadina, afflitta dalla miseria. Né, a conti fatti, lo fecero altri. Però furono i contadini, poveri e in gran parte analfabeti, a sopportare il sanguinoso peso della guerra. E lo fecero con passiva rassegnazione. Del resto, coloro che avrebbero potuto dare voce alla contrarietà alla guerra delle masse contadine, i socialisti, non vi riuscirono. Pur essendo numerosi, e in larga parte fino alla fine decisamente ostili alla guerra, subirono una scissione da parte di coloro che come il deputato socialista trentino, Cesare Battisti, sostenevano che il socialismo non poteva ignorare le radici nazionali e le ragioni dell’appartenenza nazionale.

«Il vecchio anti-patriottismo è tramontato» (Benito Mussolini)

Fatto ancor più significativo il direttore dell’Avanti!, giovane leader del partito, Benito Mussolini, non soltanto abbandonò prima il giornale, ma anche il partito stesso, giungendo a dichiarare il 10 novembre del 1914: «il vecchio antipatriottismo è tramontato». Cinque giorni dopo, sul primo numero de Il Popolo d’Italia, da lui fondato, fece uscire il pezzo «Audacia», con cui esprimeva tutto il suo entusiasmo per l’entrata in guerra.

L’ambivalenza dei liberali

Per quanto riguarda la corrente liberale, Salandra, perseguendo la sua ambizione di spostare il partito liberale a destra, aveva dapprima moderatamente appoggiato la causa neutralista, per poi passare sul fronte interventista, convinto a fare ciò anche dal ministro Sonnino. Costui, infatti, stava conducendo una serie di trattative segrete con entrambi gli schieramenti in guerra. E, il 26 aprile 1915,  firmava il Patto di Londra, impegnando l’Italia ad entrare in guerra entro un mese al fianco dell’Intesa.

Le «aspirazioni nazionali»

In realtà, le trattative con Vienna si erano protratte fino all’11 maggio di quell’anno fatale, il 1915. E l’Austria aveva concesso alle richieste dell’Italia, definite dagli italiani «aspirazioni nazionali», una parte del Trentino, una parte del Litorale adriatico e la piena autonomia municipale di Trieste. Il governo italiano e il monarca, però, avevano obiettivi imperialistici altri e ulteriori, che non potevano essere definiti, onestamente, delle mere «aspirazioni nazionali». Il desiderio e la pretesa di annettere all’Italia territori abitati da forti minoranze tedesche, slovene e croate, suscettibili di suscitare in costoro moti irridentistici nei confronti del dominio italiano, poco c’entravano con i miti risorgimentali. Tuttavia a quella visione risorgimentale si richiamava, esplicitamente e con un certo successo, la propaganda dei favorevoli alla guerra, cioè degli interventisti.

Così ad un accordo con l’Impero austro-ungarico, Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele III, che non avrebbe provocato il sacrificio di nessuna vita, preferivano un’altra soluzione. Quella bellica.

L’infinito macello della guerra «patriottica»

Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui oltre 9 milioni furono massacrati sui campi di battaglia. Altri 7 milioni di persone furono spazzate via dalle conseguenti carestie ed epidemie. All’Italia, la decisione di partecipare alla guerra avrebbe procurato 652.000 morti, 450.000 invalidi, un onere finanziario di 157 miliardi di lire, che avrebbe gravato lo Stato di un debito pubblico colossale, la distruzione delle conquiste sindacali, l’intensificazione dello sfruttamento del proletariato nelle fabbriche, oltre che nelle trincee.

Eppure, tolti gli intossicati dalla propaganda sulla bella guerra, i vertici dello Stato avrebbero dovuto sapere che si apprestavano a scaraventare il Paese in un vortice di atrocità. Da un anno era evidente a tutte le parti in conflitto che quella guerra era un immenso mattatoio. Per la prima volta si usavano armi micidiali, come l’aeroplano, il carro armato, il lanciafiamme, le bombe a mano, le bombarde, i gas asfissianti e vescicanti. Da un anno gli eserciti contrapposti si immolavano nell’inferno, prima sconosciuto, delle trincee.

Soprattutto, è sconcertante pensare come la decisione di entrare in guerra non fosse stata trattenuta dalla consapevolezza della debolezza delle forze armate italiane e della scarsità delle risorse.

L’avanzata contro l’Austria-Ungheria del 24 maggio del 1915, non soltanto gettò gli italiani in un macello epocale, ma pose le basi alla nascita del di poco successivo totalitarismo. Fu da quella guerra «patriottica», infatti, che sarebbero sorti tutti i totalitarismi, fascismo, bolscevismo e nazismo.

Alberto Quattrocolo

Lo spirito di servizio di Giovanni Falcone

«In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere»
(Giovanni Falcone, “Cose di Cosa Nostra”, 1991).
Il 23 maggio del 1992, alle 17:56, insieme a Giovanni Falcone, nella strage di Capaci, furono uccisi sua moglie Francesca Morvillo e tre degli agenti di scorta.
Giovanni Falcone era nato il 18 maggio del 1939. Aveva, quindi, da poco compiuto 53 anni, quando venne assassinato.
Francesca Morvillo ne aveva quarantasei.

Rocco Dicillo aveva 30 anni; avrebbe dovuto sposarsi due mesi dopo.
Antonio Montinaro aveva 29 anni, era sposato e aveva due figli. 
Vito Schifani, ventisettenne, anch’egli sposato, aveva un figlio di 4 mesi.
«Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare. Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare», aveva sostenuto Giovanni Falcone.
Quando gli venne chiesto «ma chi glielo fa fare», sorrise e rispose: «soltanto lo spirito di servizio».
Ma questo spirito di servizio di Giovanni Falcone, evidentemente, dava intollerabilmente fastidio non soltanto agli uomini di Cosa Nostra.
Lo stesso Giovanni Falcone, rispetto al fallito attentato all’Addaura nel giugno del 1989, aveva affermato che dietro vi erano  delle «menti raffinatissime». Non è innaturale chiedersi, quindi, se gli stessi ispiratori, quelle menti raffinatissime, abbiano giocato qualche ruolo anche nella strage di Capaci. Analogamente inquieta il non sapere chi abbia manomesso i supporti informatici di Falcone presenti nel suo ufficio al Ministero di Grazia e Giustizia. Ci si chiede ancora oggi, inoltre, perché il telecomando utilizzato per la strage di Capaci fu consegnato da Pietro Rampulla, un esponente storico dell’estrema destra, a Giovanni Brusca, che lo azionò. E anche perché Rampulla non partecipò all’esecuzione materiale dell’attentato, com’era previsto, ma adducendo una scusa, ne restò alla larga.
Altro quesito irrisolto: di chi era e cosa significava il foglietto trovato dalla scientifica sul cratere di Capaci, poche ore dopo la strage, in cui erano annotati dei numeri telefonici riconducibili al servizio segreto, cioè al Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (S.I.S.De.) di Roma e al capocentro del S.I.S.De. di Palermo?
Nelle sentenze sull’attentato del 23 maggio, come nelle motivazioni del processo Capaci bis, si legge che «ambienti esterni a Cosa nostra» sembra «si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni».
Anche nel caso di Paolo Borsellino sparirono dei documenti chiave. Soprattutto, l’agenda rossa in cui, probabilmente, erano scritti i suoi appunti sulle indagini che stava conducendo. Forse anche le sue intuizioni sulla strage di Capaci. Anche in tal caso non furono gli uomini di Cosa Nostra a far sparire l’agenda dalla sua borsa.
«Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini», affermò Giovanni Falcone. 
Aveva paura? Certo, ma non era questo il punto. «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza», spiegò.
Alberto Quattrocolo

La vita spericolata di Sterling Hayden

Sterling Hayden fu e fece tante cose. In ordine cronologico: mozzo, pescatore, capitano di marina, imprenditore navale fallito, modello, stuntman, attore cinematografico di secondo piano, marito di una superstar internazionale, agente dell’O.S.S. (Office of Strategic Service, la futura C.I.A.), combattente sul fronte italiano e, accanto ai partigiani comunisti, su quello jugoslavo, contro le truppe hitleriane; membro del Partito Comunista Americano e star hollywoodiana in ascesa; oppositore della  Commissione d’indagine per le Attività Anti-americane, poi collaboratore con essa e delatore; alcolista e attore svogliato di film di serie B; di nuovo divo, perfino di respiro internazionale, sotto la direzione di maestri come Nicholas Ray, Stanley Kubrick, Robert Altman e Bernardo Bertolucci; esule in fuga dal fisco, romanziere.

Sterling Hayden si spense il 23 maggio del 1986, a settant’anni, per un tumore alla prostata.

La sua vita vale la pena di essere ricordata.

«… be’, non puoi che mandare al diavolo questo fottuto sistema»

Sterling Hayden venne battezzato con il nome di Sterling Relyea Walter. Alla morte del padre George Walter, a 9 anni, venne adottato da James Hayden. La nuova famiglia fece diversi traslochi (New Hampshire, Massachusetts, Pennsylvania, Washington D.C.), prima di stabilirsi nel Maine, dove Sterling Hayden terminò gli studi. A 17 anni si imbarcò come mozzo. Amava il mare, e la lettura dei romanzi di Robert Louis Stevenson e di Joseph Conrad lo aveva portato a sognare una vita da marinaio. Iniziò come mozzo su un peschereccio, facendo avanti e indietro tra le coste della California – quindi, sul Pacifico – e quelle del Connecticut, sull’Atlantico. Poi trovò lavoro come pescatore sull’isola canadese di Terranova. Fu svolgendo questo lavoro, che iniziò a sviluppare un’avversione verso il sistema capitalista.

«Quando peschi un maledetto pesce sputando sangue e te lo pagano due centesimi per poi rivenderlo a cento a tua madre, be’… non puoi che mandare al diavolo questo fottuto sistema», spiegò in seguito.

Da pescatore a capitano e da imprenditore a modello

Passò, quindi, a lavorare su delle grandi navi da pesca. In quel periodo fece undici volte viaggi per Cuba, con l’incarico di pompiere. Dopo il diciannovesimo compleanno fu nominato secondo ufficiale. Quando ne compì venti divenne capitano su navi da crociera. Aveva già fatto due volte il giro del mondo. Ma voleva mettersi in proprio. Così, con i risparmi messi da parte  acquistò una nave da traghetto per aprire una linea di navigazione. Purtroppo la nave fece naufragio. Naufragò così anche il suo progetto imprenditoriale. Sterling Hayden si ritrovò spiantato. Fece, allora, ricorso all’ultima risorsa economica che gli era rimasta. Il proprio aspetto fisico. Era alto quasi due metri , aveva un corpo asciutto e muscoloso, e la sua era una faccia che non poteva passare inosservata. Iniziò a lavorare come modello. Così, una delle maggiori compagnie cinematografiche americane, la Paramount, lo notò e lo assunse. Dapprima, per un brevissimo periodo, come controfigura, poi come attore di secondo piano in un paio di film. Sul set del secondo di questi, il non eccelso Passaggio a Bahama (1942, di Edward H. Griffith), conobbe Madeleine Carroll. Era un’attrice inglese di talento e di indiscutibile fascino. Avendo interpretato due ottime pellicole del “periodo inglese” di Alfred Hitchcock Il club del trentanove (1935) e Amore mistero (1936) -, era stata chiamata ad Hollywood, diventando nel 1938, senza essere una sex-symbol, l’attrice meglio pagata al mondo. Aveva affiancato divi come Gary Cooper (in due film), TyronePower, Ronald Colman e Henry Fonda. Ma si innamorò dello sconosciuto Sterling Hayden. I due si sposarono quasi subito.

L’amore, la guerra contro il nazismo e l’adesione Partito Comunista americano

Madeleine Carroll, in quel periodo, aveva messo da parte il suo impegno cinematografico. La sua unica sorella, Margaret, era morta in Gran Bretagna sotto le bombe dell’aviazione tedesca. La Carroll, quindi, si dedicava quasi a tempo pieno al lavoro in diversi ospedali della Croce Rossa. Sterling Hayden, già, antifascista, fece propria la causa anti-nazista della moglie. Entrati in guerra gli Stati Uniti, dopo l’attacco a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, Sterling Hayden entrò nel C.O.I. (Coordinator of Information), che presto si trasformò nell’O.S.S. (Office of Strategic Service), un organismo di intelligence esclusivamente dedito ad azioni di guerra (destinato a diventare l’attuale C.I.A.). Mentre la moglie operava come volontaria curando i soldati americani feriti sul fronte italiano, egli, entrato nei Marines sotto un altro nome (John Hamilton), combatteva le truppe naziste su quel fronte e poi, come agente segreto, sul fronte jugoslavo. Paracadutato in aiuto dei patrioti croati, compì azioni belliche tali da meritarsi la “Stella d’argento” e la “Arrowhead device” dalle forze armate americane ed un particolare riconoscimento dal Maresciallo Tito in persona.

Nel 1946, rientrato negli USA, l’ammirazione per i patrioti comunisti, la condivisione del pacifismo e della lotta alle diseguaglianze lo spinsero ad iscriversi al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Vi restò poco. Ma quel gesto gli condizionò l’intera esistenza.

La giungla d’asfalto e la caccia alle streghe

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L’adesione al Partito Comunista, infatti, e alcuni comportamenti pubblici di contrasto alla persecuzione anticomunista sviluppatasi negli USA alla fine della Seconda Guerra Mondiale, minarono seriamente la sua carriera cinematografica e gli costarono un tormento personale che non lo lasciò più. Nel ’47, lasciato dalla Carroll e sposatosi con Betty De Noon, era tornato sui set della Paramount e aveva partecipato ad alcuni film a budget medio o basso, come comprimario, proprio mentre iniziava ad operare sinistramente la Commissione per le attività antiamericane (HUAC). Dichiaratamente intenta a smascherare gli aderenti al Partito Comunista, considerati a priori dei sovversivi e delle spie, perseguitava, in realtà, chiunque avesse idee progressiste, mettendolo al bando. Sterling Hayden, allora attore di secondo piano, pur avendo già lasciato il partito, si unì ad un folto gruppo di star e registi, tra i quali Katharine Hepburn (ne abbiamo parlato qui), Danny Kaye, Richard Conte, Paul Henreid, Groucho MarxWilliam WylerJohn HustonJohn Ford, Anatole LitvakHumphrey Bogart e Lauren Bacall, che si opponevano fermamente alla persecuzione di artisti “colpevoli” di aver fatto parte del Partito Comunista o anche solo di aver appoggiato iniziative o organizzazioni di sinistra. Per quanto fossero amate quelle celebrità, premiati e visti da milioni di spettatori i loro film, la gran parte del popolo americano era del tutto contagiato dal clima della Guerra Fredda e ossessionato dalla paura del comunismo. Sicché l’appello ai principi costituzionali da parte di quel nutrito gruppo di nomi noti non ebbe l’effetto di far comprendere la natura illiberale e antidemocratica della Commissione e della politica che intendeva imporre al Paese. La Commissione anticomunista, tuttavia, per quanto riguardava Hollywood, se l’era presa fino a quel momento soltanto con registi e sceneggiatori, tralasciando gli attori. E come attore Sterling Hayden era sul punto di affermarsi. John Huston, uno dei registi più apprezzati tra quelli emersi negli ultimi dieci anni, gli aveva offerto il ruolo da protagonista nella trasposizione cinematografica di un romanzo noir, un best seller, del romanziere e sceneggiatore W. R. Burnett. Il film, Giungla d’asfalto (1950, di John Huston), ebbe un successo di pubblico e di critica impressionante e divenne immediatamente un classico intramontabile.

Sterling Hayden e la Commissione per le attività antiamericane. 

Quell’anno, però, come abbiamo ricordato su questa rubrica, emerse la figura demagogica e spregiudicata del senatore repubblicano Joseph McCarthy (si veda il post A cavallo della paranoia), che scatenò un’ondata devastante di persecuzione verso chiunque avesse mostrato pubblicamente una certa sensibilità per i temi della pace, dei diritti civili o della giustizia sociale. Sterling Hayden, che fino a quel momento l’aveva scampata, finì nel mirino della nuova ondata di indagini svolte dalla Commissione nel mondo del cinema. Questa erano presi di mira proprio gli attori. Nel frattempo, il 5 aprile 1951 i coniugi Rosenberg, giudicati colpevoli di essere spie dell’Unione Sovietica, furono condannati a morte (abbiamo dedicato a questo fatto il post Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente).

Da eroe a traditore

Cinque giorni dopo, il 10 aprile 1951 Sterling Hayden fu chiamato a deporre davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Altri attori si erano esposti quanto lui contro la marea demagogica e anticostituzionale montante. Stelle sulla breccia da molti anni, come Spencer Tracy (l’abbiamo ricordato nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First), erano, però, troppo universalmente amate perché fosse conveniente perseguitarle. E altre celebrità in ascesa, di idee liberali, come Richard Widmark (si veda il post Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood), era meglio lasciarle stare se non si volevano mettere in difficoltà le case di produzione che su di esse stavano investendo. Ma per la Commissione Sterling Hayden era un soggetto assai meno problematico. Non era soltanto un progressista. Aveva un passato recente, per quanto breve come membro del Partito Comunista. Così lo braccò. L’audizione fu segreta, poiché, egli a differenza di altri, incluso John Garfield (come abbiamo ricordato nel post John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante), era disposto ad autodenunciarsi. Questo, infatti, non gli costava troppo, perché dal Partito, che non aveva preso le distanze dallo stalinismo, era uscito piuttosto in fretta. Del resto a lui interessava la realizzazione di una società più giusta e non di una società comunista. Però alla Commissione questo ravvedimento politico non bastava. Perciò, sempre, segretamente, Sterling Hayden diede alla Commissione quel che essa chiedeva come prova della veridicità del suo pentimento: denunciare altri comunisti o presunti tali. Venne avvicinato da uno psicoanalista per gestire lo stress, in realtà, era un collaboratore della Commissione preposto ad aumentare la pressione e a smorzare il senso di colpa dei testimoni reticenti. Sterling Hayden cedette e fece dei nomi. Anche se, secondo Betty De Noon, disse solo nomi già in possesso della Commissione, quella decisione fu per lui come il salto nella scialuppa di salvataggio, l’abbandono della nave in pericolo, compiuto dal protagonista del romanzo di Jospeh ConradLord Jim. Da quell’abisso morale in cui si era lanciato, comprese che non sarebbe mai più riemerso.

Un mare di vergogna e di sensi di colpa

Nella sua autobiografia intitolata Wanderer (Vagabondo), scrisse.

«Non avete la più pallida idea del disprezzo che ho avuto per me stesso il giorno che feci quella cosa».

Nel ’57, quando la circostanza divenne di pubblico dominio, si sentirono traditi sia i suoi vecchi compagni comunisti sia i suoi colleghi contrari alla caccia alle streghe. Ma non era il loro biasimo a tormentarlo. Era il senso di vergogna. Si attaccò, quindi, alla bottiglia.

Non aveva, sostenne, una vera passione per la professione di attore, la considerava soltanto un mezzo per guadagnare i soldi per vivere viaggiando sul mare. Nel frattempo, però, dopo alcuni anni sprofondato in pellicole di scarso impegno produttivo, anche se alcune apprezzabili, il regista Nicholas Ray, un altro ribelle, un liberal inviso alla Commssione e agli anticomunisti sfegatati, gli offrì un ruolo immortale. Quello di partner della diva sul viale del tramonto, Joan Crawford, moglie del regista, nel western dichiaratamente antimaccartista Johnny Guitar (1954, di Nicholas Ray). A questo cult senza tempo, seguì un’altra performance efficacissima in un thriller a sfondo politico, tristemente profetico, su un complotto per assassinare il presidente degli Stati Uniti, accanto a Frank Sinatra: Gangsters in agguato (1956, di Lewis Allen). E in mezzo ad altre pellicole di interesse relativo, un ruolo roccioso nel secondo film di un genio emergente della Settima Arte, Stanley Kubrick.  Sotto la sua direzione, Sterling Hayden impersonò il rapinatore disilluso di Rapina a mano armata (1955).

La riemersione della sua natura ribelle e la rivincita “politica”

Nel 1959, dopo un amarissimo divorzio, che gli pose severi limiti nella possibilità di vedere i propri figli, reagì alla depressione, prendendo con sé tutti e quattro i suoi bambini e partì per Tahiti, sfidando le decisioni del Tribunale. Quindi, nel 1960 si sposò con Catherine Devine McConnell, che rimase la sua compagna fino alla fine e che gli diede altri due figli. Restò lontano da Hollywood per altri quattro anni, tormentato dal fisco, visse a Parigi in un barcone, passando il tempo a scrivere quella che sarebbe diventata la sua autobiografia. Poi rispose alla richiesta di Kubrick di entrare nel cast di Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964, di S. Kubrick). Recitando accanto a Peter Sellers (impegnato in ben tre ruoli) e a George C. Scott, Sterling Hayden si prese una sublime rivincita politica. Impersonò un generale dell’aviazione, che imputava le proprie defaillances sessuali con la giovane amante ad un complotto comunista. In questa commedia apocalittica, egli seppe dare una credibilità quasi commovente ad un militare paranoico che scatena la terza guerra mondiale, nucleare (!), essendo convinto che la propria impotenza sessuale sia dovuta ad un folle sabotaggio ordito dai sovietici, i quali avrebbero contaminato l’acqua potabile negli Stati Uniti.

Uno splendido tramonto tinto di rosso

Partecipò negli anni Sessanta ad alcuni prodotti di qualità, continuando a navigare in giro per il mondo, tra una produzione e l’altra, ma ritornò in auge nei primi anni Settanta. Dapprima, grazie ad una parte di contorno ne Il padrino (1972), il capolavoro di Francis Ford Coppola, in cui interpretava McCluskey il poliziotto corrotto ucciso da Al Pacino, alias Michael Corleone. E subito dopo, interpretando un ruolo in cui c’era molto di suo, il romanziere ubriacone e suicida di Il lungo addio (1973, di Robert Altman), duettò superbamente col protagonista Elliot Gould. Inoltre ebbe un momento di popolarità partecipando ad un seguitissimo show televisivo della NBC, nel corso del quale raccontò molte delle sue disavventure. Poi, nel 1975, dovette rinunciare alla parte poi andata a Robert Shaw, ne Lo squalo (1975, di Steven Spielberg). Era, infatti, uscito dagli Stati Uniti per sfuggire al fisco americano. Ma nel suo soggiorno forzato in Europa Bernardo Bertolucci lo arruolò nel ricchissimo cast di Novecento (1976), che comprendeva Robert De Niro, Gerard Depardieu, Dominique Sanda, Romolo Valli, Donald Sutherland, Stefania Sandrelli, Alida Valli,  Laura Betti, Stefania Casini e Burt Lancaster. In particolare, Bertolucci gli affidò la parte di Leo Dalcò, il patriarca della famiglia contadina. E Sterling Hayden fu di un’efficacia sconcertante nell’interpretare questo contadino (socialista) emiliano. Vi mise una forza e un’autenticità uniche. Sembrava davvero non aver mai fatto altro che il bracciante nella bassa emiliana. Ogni suo gesto e ogni suo sguardo esprimevano una dignità e un’autorevolezza naturali e antiche.

Quello stesso anno pubblicò il suo secondo libro, un romanzo storico intitolato Voyage: A Novel of 1896, che ebbe un buon successo.

Sterling Hayden visse, dunque, da protagonista le più macroscopiche contraddizioni del Novecento. L’amore per una donna e per la causa della libertà, insieme allo spirito d’avventura, lo resero un eroe della Seconda Guerra Mondiale. L’isteria e la paranoia collettive e il carattere grigio e subdolo della Guerra Fredda lo resero un traditore. Furono la scrittura e l’amore per il mare, oltre a quello per i figli, a salvarlo dalle forze autodistruttive generate dalla vergogna e dal senso di colpa. 

Per sublime ironia, quanto aveva appreso all’O.S.S. gli fu utile anche negli anni di andata e ritorno da Hollywood: per tutta la sua carriera cinematografica, Sterling Hayden continuò segretamente la sua lotta al «fottuto sistema»: divenuto sindacalista, infatti, promosse e organizzò gli scioperi di attori e, soprattutto, maestranze a Hollywood, battendosi per il riconoscimento della dignità dei lavoratori.

Alberto Quattrocolo