Il buio oltre la siepe e l’umile forza dell’empatia

Il buio oltre la siepe può far paura. Perché ciò che non conosciamo e che ci sembra oscuro, inclusa la diversità dell’altro, può farci sorgere il sospetto di una minaccia incombente. L’inquietudine può farci stare in guardia, tenerci lontano, renderci diffidenti e metterci sulla difensiva. A meno che non si riesca ad accostarsi a quel “buio” con un po’ d’empatia.

«Se riesci ad imparare una cosa sola, vedrai che ti troverai molto meglio anche a scuola. Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di vedere le cose anche dal suo punto di vista», dice il padre, Atticus. «E cioè?», chiede Scout, la bambina. «Devi cercare di metterti nei suoi panni e andarci a spasso».

In questo scambio di battute c’è, se non tutto, molto del senso de Il buio oltre la siepe. Sia del romanzo, di forte ispirazione autobiografica, di Harper Lee, sia del film su quello basato, girato nel 1962 da Richard Mulligan. Il libro aveva procurato alla Lee il premio Pulitzer. Il film ottenne l’8 aprile del 1963 tre premi Oscar.

 

L’antiretorica de Il Buio oltre la siepe

Come il romanzo anche il film non è declamatorio. Non è un trattato, è una storia. Racconta le esperienze di due bambini – Scout, la bambina, di 6 anni, e suo fratello Jem, di 11, figli dell’avvocato Atticus Finch -, in una piccola città dell’Alabama nei primi anni Trenta, senza mettere mai in bocca ai personaggi frasi altisonanti. Fin dalle prime sequenze Il buio oltre la siepe è, infatti, un saggio di toccante understatement, sul piano visivo, e di naturale calore umano, sul piano dei dialoghi e dei rapporti tra i personaggi. Personaggi molto umani, che, come tali, sbagliano e vengono sconfitti, ma che sanno apprendere dai loro errori e tentano di superare le loro paure, imparando ad ascoltare e riconoscere sia le loro emozioni che quelle degli altri. Perché, in fondo, è questa una delle due cose che Atticus trasmette ai bambini, in modo non didattico, ma con la spontaneità del suo comportamento quotidiano. L’altra è che, per non perdere il rispetto di se stessi, occorre rispettare gli altri e sforzarsi di conoscerli, rendendo, così, il mondo un posto migliore. Un po’ più equo ed umano. Anche se ciò implica lottare e patire tante dolorose sconfitte e amarissime delusioni.

Il vero e pericoloso buio oltre la siepe è quello dell’ignoranza, del pregiudizio e dell’odio

Le vicende raccontate, infatti, sono permeate da un costante rapportarsi con le diverse forme che l’ingiustizia e la violenza possono assumere nella vita di tutti i giorni. E, in questo caso, la quotidianità è quella di una piccola città, immaginaria, del profondo sud degli Stati Uniti, in cui la Grande Depressione continua a produrre povertà e diseguaglianze, non solo in senso economico.

Un padre affettuoso e un po’ grigio che sostiene i loro figli nell’attraversamento del buio oltre la siepe

Qui vivono Jem e Scout, orfani di madre, e il loro affettuoso padre, Atticus Finch, che a loro sembra, in effetti, un po’ troppo tranquillo. Un padre, però, che imparano a conoscere meglio, come imparano a conoscere meglio se stessi, riuscendo, sorretti dalla sua calma presenza, a varcare il buio oltre la siepe. Un buio, che scoprono, non è, in realtà, quello che si trova oltre la siepe del giardino in cui sorge la casa del loro misterioso vicino. Cioè, dove il giovane Boo Radley  vive recluso dalla sua famiglia, per via del disturbo mentale da cui è affetto, e che suscita nei due bambini, tanta paura e tanta incontrollabile curiosità.

Il vero buio oltre la siepe è il lato oscuro della comunità bianca

Il vero buio oltre la siepe è quello creato dagli altri abitanti della cittadina, quello che si traduce in una rigida segregazione razziale. È il buio del razzismo e dell’ottusità, che criminalizzano chi ha una pelle più scura, così da poterlo ammazzare sena rimorsi, anzi sentendosi e proponendosi come giustizieri e come difensori della comunità. Ed è il lato oscuro di questa comunità, dalla pelle bianca, che Jem e Scout verranno a conoscere.

Infatti, è ad Atticus che il giudice affida la difesa d’ufficio di Tom Robinson, un giovane uomo di colore, accusato ingiustamente di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca. E i bambini vivranno, non limitandosi ad assistervi, la lotta del loro papà alle prese con il pregiudizio e con la disapprovazione prepotente di molti concittadini.

È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” (Albert Einstein)

Ma Atticus fallisce. Non perché non riesca a provare l’innocenza di Tom Robinson, ma perché la razionale dimostrazione della realtà dei fatti, nulla può contro l’ottusità di chi ha dei pregiudizi. Chi ha un pregiudizio, nella vita vera come nella storia de Il buio oltre la siepe, rifiuta le informazioni che lo contraddicono, ignorandole o respingendole come false, e accoglie solo quelle che lo confermano. Sicché la sconfitta della verità risulta fatale. Mentre l’umanità finisce ammazzata. E, con essa, la giustizia.

To Kill a Mockingbird

Il titolo originale del libro come della pellicola è To Kill a Mockingbird. In un certo senso, anche Tom Robinson è un usignolo.

Non si uccide un usignolo

In una scena Atticus racconta ai figli di quando suo padre gli diede un fucile.

«Me lo ricordo quando mio padre mi regalò quel fucile; mi disse […] di ricordarmi che era peccato sparare a un usignolo […] perché sono uccellini che non fanno niente di male, cantano e fa piacere sentirli, non mangiano le sementi, non fanno il nido nelle madie, non fanno altro che rallegrarci con il loro cinguettio».

Tom Robinson non ha fatto niente di male. Anzi, ha tentato di dare un aiuto a chi gli sembrava stesse soffrendo. Perché condannarlo, allora? Perché Tom Robinson, agli occhi della giuria, e non solo di chi lo accusa sapendolo innocente, non è un essere umano. È un negro. Contro questa de-umanizzazione si scontra Atticus.

Il buio oltre la siepe è la paura, e il rifiuto, del confronto

Atticus Finch ha dimostrato che Tom Robinson non soltanto è innocente del reato di cui è accusato, ma che è un uomo buono. È un nero che è stato capace di empatia verso una ragazza bianca. E per i razzisti dell’Alabama di ieri, come dell’Europa e dell’Italia di oggi, questa rivelazione di umanità non si può accettare né lasciare impunita. Farlo significherebbe ammettere non tanto che possa esistere, eccezionalmente, un nero buono e altruista, ma riconoscere che un nero è un essere umano, proprio come lo sono loro, e che in quanto tale, può essere paragonato a ciascuno di loro, osservando da vicino il suo carattere e la sua condotta. Equivarrebbe a riconoscere che bianchi e neri stanno sullo stesso piano. Quello umano. Il che è, appunto, inaccettabile per i razzisti bianchi. Per i pochi benestanti bianchi e per i tanti più o meno poveri bianchi. Perché, per entrambi, citando un altro film (Mississipi Burning- Le radici dell’odio, 1988, di Alan Parker), vale il principio per cui, «se non sei meglio di un negro, figliolo, allora non sei proprio meglio di nessuno», non vali nulla.

Il buio oltre la siepe che abbiamo davanti tutti i giorni, oggi.

L’illustrazione semplice non declamatoria del razzismo, e di ciò che lo sottende, proposta da Il buio oltre la siepe è valida anche oggi e si può tranquillamente applicare alla realtà italiana, dove essere nero significa essere diverso nel senso peggiore. Cioè, essere pregiudizialmente considerato un criminale per naturale attitudine, un soggetto geneticamente pericoloso, così come succedeva nell’Alabama del 1932. Perché qui come là, per tanti bianchi, la loro presunta superiorità è così indiscutibile e indispensabile, che non possono ammettere che i neri, e gli immigrati in generale, vivano se non in modo indegno.

Il buio oltre la siepe resta ancora attuale, però, anche nel suo risvolto di speranza. Scout e Jem arrivano a comprendere che ciò che c’è al di là della siepe non è oscuro o terribile, ma umano, e perfino rassicurante e protettivo. È un pezzo di realtà non ancora esplorato, un angolo della vita non ancora svoltato. Dice la voce narrante di Scout:

«I vicini portano da mangiare quando muore qualcuno, portano dei fiori quando qualcuno è ammalato, e altre piccole cose in altre occasioni. Boo era anche lui un nostro vicino, e ci aveva dato due pupazzi fatti col sapone, un orologio rotto con la catena, un coltello… e le nostre vite. Una volta Atticus mi aveva detto: “Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di metterti nei suoi panni, se non cerchi di vedere le cose dal suo punto di vista”. Ebbene, io quella notte capii quello che voleva dire. Adesso che il buio non ci faceva più paura, avremmo potuto oltrepassare la siepe che ci divideva dalla casa dei Radley, e guardare la città e le cose dalla loro veranda. Accadde tutto in una notte, la notte più lunga, più terribile… e insieme la più bella di tutta la mia vita»

L’empatia e l’amicizia, dietro le quinte,

Tutto ciò è narrato in maniera strabiliante. La regia di Robert Mulligan, equilibrata ed essenziale, sa porsi ad altezza di bambino. Ed è con gli occhi di Scout e di Jem che tante volte guardiamo i personaggi adulti del film. E se l’interpretazione di Gregory Peck fu così maiuscola, lo è perché egli non sembrava mai recitare. Peck “ era ” Atticus. E come Atticus sapeva anche lui mettersi ad altezza di bambino. Sapeva ascoltare sia Mary Badham che Phillip Alford, i due bravissimi interpreti di Scout e Jem.

In effetti, Gregory Peck si calò così bene nei panni del protagonista, che Harper Lee volle regalargli l’orologio di suo padre, per ringraziarlo di essere riuscito a farlo rivivere. Del resto, mentre assisteva alle riprese, Harper Lee si commosse e, quando Gregory Peck le si avvicinò, spiegò che, guardandolo, aveva rivisto il suo papà. Restarono amici per tutta la vita. Così come restarono molto legati Gregory Peck e Mary Badham, Costei continuò a chiamare Peck, con il nome del suo personaggio, Atticus. Se un altro legame si stabilì tra Peck e Robert Mulligan, tanto che tornarono a lavorare insieme, un’amicizia vera sorse anche tra Gregory Peck e Brock Peters, l’efficacissimo interprete di Tom Robinson. Tanto che nella scena del pianto di quest’ultimo in tribunale – pianto che gli venne spontaneamente un po’ prima di quanto previsto dal copione -, Peck dovette evitare di guardarlo per evitare di avere gli occhi pieni di lacrime.

Ci credevano tutti a ciò che stavano facendo

L’8 aprile del 1963 Il buio oltre la siepe veniva premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista, la migliore sceneggiatura non originale e la migliore scenografia. Competeva con altri film, alcuni dei quali capolavori assoluti. Per l’interpretazione maschile Peck, doveva vedersela con le straordinarie prove di Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia (di David Lean, che vinse l’Oscar per la regia), Jack Lemmon in I giorni del vino e delle rose (di Blake Edwards), Burt Lancaster in L’uomo di Alcatraz (di John Frankenheimer) e Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana (di Pietro Germi). Ed era convinto, Gregory Peck, che Jack Lemmon avrebbe ottenuta la statuetta.

Si potrebbe credere che il film risentisse del clima del periodo. E che questo abbia giovato al suo successo di pubblico, favorendolo anche agli Oscar. Erano gli anni delle lotte contro la segregazione razziale e per i diritti civili. Erano gli anni della Nuova Frontiera di John F. Kennedy (lo abbiamo ricordato nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»). Gregory Peck lo appoggiava convintamente, come poi farà con suo fratello Robert. E come appoggiava e amava Martin Luther King. Ne condivideva così tanto le convinzioni che l’8 aprile del 1968, convinse l’Academy Award e soprattutto gli sponsor a rinviare la cerimonia degli Oscar, svolgendosi quel giorno il funerale di Martin Luther King (abbiamo parlato del suo assassinio qui). Gregory Peck, infatti, era un liberal realmente impegnato, sia in quegli anni che in quelli successivi (come altri attori che abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e RicorsiSpencer Tracy Richard Widmark, Paul NewmanSidney Poitier, Marlon Brando).

Ma, il punto è che lo spettatore di oggi, come quello di 57 anni fa, guardando Il buio oltre la siepe, ha davanti a sé qualcosa che va oltre la fiction. Perché non soltanto Alan J. Pakula (produttore e in seguito regista di valore) e Robert Mulligan credevano profondamente nel progetto della trasposizione cinematografica del romanzo di Harper Lee, ma ci credevano fortemente anche Gregory Peck e Brock Peters. E non di meno ci credeva Robert Duvall, allora esordiente, nei panni del misterioso Boo Radley. Tutti loro erano convinti che non si potesse più rimandare il momento di gettare lo sguardo oltre la siepe, di illuminare il buio e di superare la propria ignoranza e i pregiudizi che quella alimenta.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

La visione del film

John Griggs, Gregory Peck, Gremese Editore, Roma, 1984

Tony Thomas, Gregory Peck, Milano Libri Edizioni, Milano, 1980

http://www.lachiavedisophia.com

La strage nazifascista della Benedicta

Dalle belle città date al nemico fuggimmo via su per le aride montagne cercando libertà tra rupe e rupe contro la schiavitù del suol tradito

Con queste parole si apre “I ribelli della montagna”, uno dei pochi canti originali partigiani, composto collettivamente dai soldati del 5° distaccamento della III Brigata Garibaldi “Liguria”; l’autore del testo, il comandante Emilio Casalini, “Cini”, fu ucciso nel corso degli eventi noti come Strage della Benedicta, avvenuta tra il 6 aprile e l’11 aprile 1944.

Fin dai primi giorni dopo l’8 settembre 1943, la zona compresa tra la Valle Stura e la Valle Scrivia (tra la Liguria e la provincia di Alessandria) ‒ e in particolare le vallate intorno al monte Tobbio ‒ furono meta di soldati sbandati e poi di renitenti alla leva fascista.

Nella primavera ‘44 vi operavano due formazioni partigiane, la III Brigata Garibaldi “Liguria” e la brigata Autonoma “Alessandria”, male armate e ancora impegnate in una delicata fase di addestramento. Anche il territorio, montagnoso e relativamente brullo, non era ottimale per le esigenze della guerriglia, salvo per la presenza di casolari che potevano offrire rifugio, tra cui, appunto, quello detto Benedicta, originariamente un monastero, dove si era insediata l’intendenza della Brigata “Liguria”.

Nonostante le difficoltà logistiche, i partigiani delle due brigate organizzarono svariati attacchi a caserme e presidi fascisti della zona, allo scopo di procurarsi armi e munizioni, e tesero diverse imboscate ad automezzi tedeschi in transito. La presenza nazifascista nella zona era legata alla necessità di controllare il Novese, scelto come quartier generale dal maresciallo Graziani, e i collegamenti stradali e ferroviari tra Liguria, Piemonte e Lombardia e tra La Spezia e Savona, porti fondamentali della zona.

Per quanto forti complessivamente di circa mille uomini, le due formazioni non costituivano per i tedeschi un pericolo immediato, poiché i loro effettivi, scarsamente armati (la maggior parte dell’armamento era costituito da fucili da caccia a pallettoni e cimeli familiari risalenti al Risorgimento), erano suddivisi in molti distaccamenti, dispersi su un territorio vasto e assai accessibile; ma avrebbero potuto diventare pericolose, per l’importanza delle posizioni occupate, nel caso di un paventato sbarco degli Alleati sulle coste liguri.

Il comando della Wehrmacht, infatti, riteneva probabile uno sbarco angloamericano nel Mediterraneo nordoccidentale, nella Francia meridionale oppure sulle coste ligure o toscana settentrionale e, in questa eventualità, i luoghi minacciati sarebbero stati quelli dotati di una buona attrezzatura portuale: Genova o Livorno. L’annientamento delle formazioni partigiane in quella zona non era necessario tanto per la loro pericolosità, quanto per l’esigenza di non avere ostacoli nell’eventualità di dover transitare con la massima celerità attraverso quelle montagne, sulle strade che collegavano il litorale con l’entroterra.

Perciò, tra il 3 e 6 aprile ’44, reparti tedeschi appoggiati da quattro compagnie della Guardia Nazionale Repubblicana italiane (provenienti da Alessandria e Genova) e da un reparto del reggimento di Granatieri di stanza a Bolzaneto accerchiarono la zona del Tobbio. Si calcola che abbiano partecipato non meno di cinquemila uomini, appoggiati da autoblindo, carri armati, pezzi di artiglieria e un aereo “Cicogna”.

Il 6 aprile iniziarono gli scontri armati e, mentre la Brigata Liguria ruppe l’assedio dividendo i propri uomini in piccoli gruppi, la Brigata Autonoma Alessandria cercò una disperata difesa alla Benedicta e a Pian degli Eremiti.

Il monastero della Benedicta, in cui si erano rifugiati gli uomini disarmati o meno esperti, fu minato e fatto esplodere. Circa centocinquanta i partigiani fucilati, sepolti in fosse comuni, e oltre duecento i prigionieri; sbandati e dispersi tutti gli altri, contro quattro morti e ventiquattro feriti lamentati dai rastrellatori.

Dei morti partigiani, trenta morirono in combattimento; gli altri, spogliati di ogni effetto personale, furono fucilati in diverse località dai Granatieri della RSI., in ottemperanza al bando emanato dal maresciallo Graziani che prevedeva per i renitenti alla leva la pena di morte da eseguire “se possibile, nel luogo stesso di cattura del disertore”; alla Benedicta, in particolare, furono fucilati settantacinque partigiani, perlopiù giovani sui 19-20 anni. Dei prigionieri, diciassette furono trasferiti nelle carceri di Genova e poi fucilati al passo del Turchino il 19 maggio successivo, come rappresaglia per un attentato contro alcuni soldati tedeschi; centonovantuno uomini vennero inviati pochi giorni dopo al campo di concentramento di Mauthausen e solo una trentina sopravvisse.

Per quegli eventi, e altri eccidi di cui fu riconosciuto responsabile, fu condannato all’ergastolo l’ufficiale tedesco a capo delle operazioni militari, il comandante delle SS Siegfried Engel, con sentenza pronunciata dal Tribunale Militare di Torino nel 1999, oltre mezzo secolo dopo la strage.

Questa paradossale dilazione temporale, connessa a ragioni di politica internazionale e interna, ha inciso pesantemente sulla possibilità di pervenire a una più chiara disamina dell’occupazione tedesca e dei rapporti tra le sue strutture di comando e la RSI, e ha contribuito alla creazione di meccanismi degenerativi di rimozione o falsificazione della memoria, in gran parte impedendo l’operazione “pedagogica” consistente nell’evidenziazione degli orrori del nazifascismo attraverso le ricostruzioni processuali, e soprattutto mediante le narrazioni, in sede dibattimentale, dei testimoni, vittime di tali orrori.

La mancanza di un processo unitario per le stragi nazifasciste ha comportato la dispersione dell’attenzione processuale nei rivoli rappresentati da vicende giudiziarie slegate fra loro, frammentate nel tempo e nello spazio: mancò una visione d’insieme e uno sforzo interpretativo volto a dar conto in una chiave complessiva dell’intero fenomeno. Eppure, già all’epoca, da parte degli Alleati fu osservato che i vari eccidi perpetrati nella nostra penisola apparivano non già frutto di ideazioni fra loro slegate, né conseguenza di ordini provenienti da comandanti sadici o crudeli, ma erano invece riconducibili entro lo schema unitario della “machinery of reprisals” (rappresaglia), al fine di terrorizzare le popolazioni civili e indurle ad abbandonare ogni collaborazione con il movimento resistenziale.

In tale ottica, venne decisa la “centralizzazione”, presso la Procura generale del Tribunale Supremo militare, di tutto il materiale investigativo raccolto fino a quel momento. Tuttavia, le elezioni amministrative dell’aprile ’46 e ancor più l’esito del referendum istituzionale del 2 giugno avevano palesato la consistenza del cosiddetto “blocco delle sinistre”, accrescendo un sentimento di timore, soprattutto da parte britannica, sull’evoluzione politica del nostro Paese.

Inoltre, si andava sviluppando un generale contrasto tra gli angloamericani, propensi alla celebrazione di processi unitari, gestiti da organi giudiziari internazionali o da Corti militari alleate, e i sovietici, favorevoli invece al riconoscimento del diritto in capo ai vari Stati di processare autonomamente i criminali nazisti responsabili di stragi commesse nell’ambito dei rispettivi territori.

Nella stessa direzione giocò il timore d’incrinare i rapporti tra il nostro Stato e la Germania Federale e di danneggiare l’immagine del popolo tedesco, che si apprestava ad assumere un ruolo di rilievo all’interno dei nuovi assetti del blocco occidentale.

Si aggiunse poi l’indisponibilità a veder processati all’estero tutti i presunti criminali di guerra italiani, tra i quali, oltre a individui che avevano ricoperto cariche significative sotto il passato regime, andavano annoverati pure personaggi che avevano un ruolo di spicco nel nuovo assetto istituzionale del Paese: non poteva apparire credibile una politica di rigore giudiziario a senso unico, concernente solo “gli altri”, i tedeschi, e non i nostri concittadini.

Va inoltre sottolineato che nella magistratura ordinaria o militare mancò qualsiasi segnale di “rottura” al momento del passaggio dal precedente regime al nuovo ordinamento costituzionale, e

l’amministrazione della giustizia si trovò ad affrontare i temi cruciali connessi alle immani e tragiche vicende del conflitto mondiale, della guerra civile […] e del crollo del regime in un contesto di sostanziale continuità con l’ordinamento giudiziario, le prassi di gestione e gli atteggiamenti culturali ereditati dal regime fascista”.

Paradossalmente, i processi celebrati dalla magistratura ordinaria nell’immediato dopoguerra a carico dei criminali nazifascisti risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quelli concernenti i presunti illeciti commessi dai partigiani durante la lotta resistenziale.

Nel 1960 la Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, al fine di dare una parvenza di legalità a una situazione di assoluto stallo investigativo, adottò provvedimenti abnormi di “archiviazione provvisoria.

Tutti gli incartamenti relativi alle stragi naziste perpetrate nel nostro Paese vennero poi rinvenuti nel 1994 nel cosiddetto “armadio della vergogna”, posto in una stanza da anni vuota e inutilizzata, e le cui ante, quasi simbolicamente, erano rivolte contro il muro.

La mancata celebrazione di processi a carico dei criminali nazisti ebbe un ulteriore effetto perverso, in quanto contribuì a determinare nell’opinione pubblica il convincimento che in guerra ogni comportamento posto in essere dal nemico possa considerarsi pienamente legittimo e che le stragi dei civili costituiscano un portato inevitabile del conflitto, sottratto all’area di competenza della giustizia.

D’altro canto i parenti delle vittime, constatando che l’apparato giudiziario non si indirizzava contro gli autori delle stragi, spesso finirono per ritenere che la responsabilità degli eccidi dovesse essere sostanzialmente attribuita a coloro che, con le loro azioni di guerriglia, avevano determinato tali cruenti reazioni. In altre parole, come scrisse lo storico Giovanni Contini,

poiché “quasi mai si erano processati e condannati i colpevoli, i superstiti furono incapaci di dimenticare, obbligati a ripensare ancora e ancora le azioni passate […] per comprendere perché la strage fosse avvenuta; crebbe così un racconto incessante, fatto di lunghe catene causali che venivano reiteratamente raccontate, con il quale si cercava di identificare il senso di quegli eventi terribili e che spesso individuò il colpevole, un capro espiatorio trovato di norma all’interno della comunità stessa. E non c’è dubbio che i partigiani, per colpire i quali spesso le stragi erano state compiute, si prestassero molto bene ad incarnare quel ruolo.”.

Silvia Boverini

Fonti:

www.it.wikipedia.org;

www.benedicta.org;

P. P. Rivello, Il processo Engel, Le Mani;

www.polcevera.net;

G. Adiamoli, “In Liguria ordinò la strage della Benedicta”,

https://ricerca.repubblica.it;

www.memoranea.it;

www.storiaxxisecolo.it

In Albania non portammo ordine, giustizia e pace

Cosa aveva fatto di male il governo dell’ Albania a quello dell’Italia? Niente. Quali erano i torti commessi dal suo popolo nei confronti di quello italiano? Nessuno. Però il 6 aprile del 1939, un anno prima di entrare in guerra al fianco di Hitler, l’Italia invase l’ Albania.

I trattati di amicizia con il Regno di Albania

Il Regno di Albania era stato un protettorato italiano temporaneo verso la fine della Prima Guerra Mondiale. Poi, con i trattati del 20 luglio e del 2 agosto del 1920, l’Italia aveva riconosciuto l’indipendenza e la piena sovranità dell’ Albania, ritirando le proprie truppe dal suolo albanese e conservando solo l’isolotto di Saseno, come garanzia del controllo militare italiano sul canale di Otranto. Ma con l’avvento al potere di Benito Mussolini, non solo per gli italiani, ma anche per gli albanesi iniziarono i guai.

Dal trattato segreto del 1925 all’inaccettabile patto del ‘39

Già nel ’25 Mussolini diede attuazione alle sue mire espansionistiche verso i Balcani interfacciandosi con Ahmed Zog, già primo ministro, divenuto presidente della neonata Repubblica albanese. Costui firmò una serie di accordi con l’Italia, tra cui anche un trattato miliare segreto in virtù del quale metteva a disposizione dell’Italia il suo territorio nel caso in cui Mussolini avesse mosso guerra alla Jugoslavia. Con la successiva (1933) trasformazione da parte di Zog della Repubblica in una monarchia, con lui stesso come sovrano, l’intensità dei rapporti con il governo di Mussolini crebbe ulteriormente [1]. Il 25 marzo del 1939 Mussolini mise ancor di più alle strette Ahmed Zog con una proposta di trattato irricevibile. Di fatto l’Albania doveva diventare una sorta di protettorato italiano e per di più l’art. 8 prevedeva, sia pur implicitamente (ma i funzionari albanesi degli Esteri e Zog se ne accorsero subito), una colonizzazione da parte dei cittadini italiani, che avrebbe reso gli albanesi dei soggetti di secondo livello a loro asserviti.

Il turno dell’ Albania

Mussolini, in realtà, da tempo cercava una scusa per prendersi l’ Albania. Come per l’Etiopia (ne abbiamo parlato qui, all’interno di questa rubrica) si trattava di dare corso al suo sogno di ripristinare i fasti dell’Impero Romano. Inoltre, era frustrato dalla competizione con Adolf Hitler, che stava imponendo il proprio dominio o divorando territori a spese degli stati limitrofi, Austria e Cecoslovacchia incluse, senza patire conseguenze di rilievo da parte della comunità internazionale. Però, molte risorse italiane erano state destinate fino a quel momento non solo nell’occupazione criminale dell’Etiopia (l’abbiamo ricordata qui, qui e qui), ma anche dalla partecipazione alla guerra civile spagnola ( si veda questo post), perciò il duce nostrano preferì temporeggiare. Terminata quella guerra, il 6 aprile del ’39, però, venne il turno dell’Albania. Infatti, il 2 aprile, non avendo ricevuto risposta dall’Albania, il governo italiano ripresentò la proposta. Questa volta sotto forma di ultimatum, imponendo come scadenza il 6 aprile. Il giorno prima del termine il governo albanese rese nota la sua opposizione, seguito dal parlamento il giorno successivo. In quasi tutte le città dell’ Albania si ebbero manifestazioni nelle quali il popolo chiedeva di essere armato per combattere il nemico che stava per invadere la sua terra.

Da stato indipendente a Protettorato Italiano

Le truppe italiane ebbero gioco facile nell’impossessarsi del territorio albanese. L’operazione costò infatti soltanto 93 morti tra i 22.000 militari italiani, a causa di una resistenza armata improvvisata e inadeguata [2]. L’8 aprile i giornali italiani titolavano le loro prime pagine con esultanti dichiarazioni quali:

«Le armi dell’Italia in Albania recano l’ordine, la giustizia, la pace.»

Immediatamente fu costituito dagli italiani un governo fantoccio che, 6 giorni dopo (il 12 aprile) approvò una nuova Costituzione, in base alla quale l’ Albania cessava di uno stato indipendente diventando il Protettorato Italiano del Regno d’Albania, il cui trono veniva assegnato al Re d’Italia Vittorio Emanuele III.

La colonizzazione italiana

Subito Mussolini spedì 11.000 coloni dal Veneto e dall’Italia meridionale nelle zone di Durazzo, Valona, Scutari, Porto Palermo, Elbasani e Santi Quaranta. A costoro, un anno dopo, si aggiunsero altri 22.000 italiani spediti in Albania nell’aprile 1940 per modernizzare, a beneficio degli interessi italiani, inclusi quelli bellici, un Paese che a tutti gli effetti era diventato una colonia. Vennero, perciò, costruite infrastrutture, strade e ferrovie.

Lo sfruttamento dell’ Albania

Durante il periodo della stabilizzazione del regime fascista, nel paese vi furono molte rivolte e scioperi degli operai che lavoravano nelle aziende italiane sorte in Albania. Gli operai richiedevano migliori salari, rivendicavano migliori condizioni di lavoro e una riduzione delle tasse. Inoltre, sentivano il peso della discriminazione, visto che le autorità italiane accordavano un trattamento di favore ai lavoratori italiani rispetto agli operai di nazionalità albanese.

L’ Albania e «le reni della Grecia»

Ma oltre alle loro più immediate finalità economiche, tali opere avevano anche un altro significato. Per Mussolini l’ Albania non era soltanto un altro lembo di terra altrui da aggiungere ai domini italiani. Era anche un grimaldello per spalancare la porta ad una, a lungo pregustata, ben più vasta espansione nei Balcani. Un anno dopo, infatti, il ruolo assegnato da Mussolini all’ Albania divenne chiaro: era la base da cui muovere alla conquista della pacifica Grecia. Non per caso si trovavano in Albania fin dal 1939 circa 100.000 soldati italiani.

I bagni di sangue in Albania per soffocare la resistenza

La guerra di Grecia, però, rivelò tutta la cialtronaggine del regime fascista e la debolezza militare italiana. Anziché “rompere le reni alla Grecia“, come aveva solennemente annunciato Mussolini, i greci non solo resistevano, ma ricacciavano gli attaccanti italiani da dove erano partiti: l’ Albania. I partigiani albanesi non tardarono a prenderne atto e a farsi coraggio. Ma le truppe di occupazione italiane, come fecero poi in altre parti dei Balcani e come già avevano mostrato in Etiopia e in Spagna, non esitarono a dimostrarsi capaci di una criminale brutalità contro i civili. Rastrellamenti e razzie, impiccagioni e uccisioni arbitrarie, incendi di villaggi e devastazione dei campi e delle greggi.  Tra i tanti vergognosi bagni di sangue, si possono ricordare quelli del luglio ‘43, allorché vennero rasi al suolo 80 villaggi e fu commesso l’eccidio di Mallakasha. Questo sarà ricordato come la “Marzabotto albanese”.

Rappresaglie, fucilazioni, impiccagioni, torture, deportazioni e campi di concentramento

In realtà, la popolazione albanese aveva già riconosciuto il volto spietato dell’occupazione, ancor prima che l’Italia entrasse nella Seconda Guerra Mondiale, al fianco della Germania nazista. Il 2 giugno del 1939, a meno di due mesi dall’invasione, era stato costituito il partito fascista albanese, sottoposto direttamente allo stesso Mussolini. Il giorno dopo un decreto aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici di giurare fedeltà al re d’Italia e ai suoi discendenti, pena la sospensione dal lavoro. Inoltre, già il 12 maggio 1941, la fucilazione del giovane operaio albanese Vasil Laci, autore del fallito attentato contro il Re Vittorio Emanuele III, a Tirana, aveva provocato una rivolta popolare contro gli invasori italiani. L’esercito, le milizie fasciste e il governo collaborazionista albanese immediatamente avevano reagito con cruente e numerose rappresaglie sulla popolazione civile.

Stupisce poco, quindi, che oltre alle centinaia di civili uccisi nell’episodio di Mallakasha, gli italiani arrestassero, torturassero, impiccassero in piazza, deportassero nelle carceri di Bari e Brindisi o rinchiudessero nei campi di concentramento presenti sul territorio albanese chiunque fosse, anche solo vagamente, sospettabile di simpatizzare con i partigiani o con gli oppositori politici.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Già si era verificato una sorta di colonizzazione sotterranea in ambito finanziario e petrolifero, ma a partire dall’agosto del ’33, la penetrazione italiana si si ebbe anche sul piano culturale: divenne obbligatorio l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua in tutte le scuole del regno.

[2] Il Re Zog e il suo governo ripararono in Grecia.

Fonti

Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della «brava gente» (1940-1943), Odradek, Roma,  2008.
Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

https://razzismocolonialevenezia.wordpress.com/2017/01/11/loccupazione-italiana-dellalbania/

http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenza/resistenzaeuro9.htm

L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First

 

Nasceva il 5 aprile del 1900, Spencer Tracy, uno dei più grandi attori di tutti i tempi, non a caso collocato dall’American Film Institute tra le 100 più grandi star della storia del cinema.

Oggi, sebbene siano trascorsi quasi 52 anni dalla sua morte (morì il 10 giugno del ’67), e 100 dal suo esordio sulle scene teatrali, Spencer Tracy non può ancora dirsi superato. Certo visse calato nella sua epoca, ma le battaglie politiche, sociali e culturali che scelse di combattere, dentro e fuori dal set, non sono tramontate, come non lo sono i problemi e i conflitti con cui si misurò. Era diventato una star, sì, ma, fino alla morte, seppe restare un essere umano.

Il carattere attuale e addirittura profetico di molti film con Spencer Tracy

Nel post del 3 aprile su questa rubrica abbiamo ricordato la sua ultima interpretazione, Indovina chi viene a cena (1967, di Stanley Kramer), ma molti altri sono i suoi film entrati a pieno titolo nella Storia del Cinema. Però, delle 74 pellicole interpretate in 37 anni di carriera cinematografica ce ne sono alcune che, riviste oggi, sembrano dirci cose terribilmente vere e oltremodo scomode per i nostri tempi. Si tratta di film “politici”, anche se realizzati nella speranza che ottenessero successo.

La denuncia della deriva fascista e del suprematismo bianco dell’America First

Prigioniera di un segreto (1942, di George Cukor), pur nei moduli del film di suspense e del dramma psicologico, non ha esitazioni nel denunciare gli obiettivi fascistoidi e gli strumenti di manipolazione di leader politici “carismatici” e populisti, svelando come l’esaltazione delle paure e dei sentimenti identitari corrisponda a disegni autoritari e regressivi di estrema destra [1]. Inoltre, Tracy e la Hepburn sono molto efficaci nel mostrare come anche persone colte e avvedute possano, smarrendo il senso critico, finire (momentaneamente) così irretiti dall’abile e mastodontica propaganda identitaria da non scorgere al primo colpo d’occhio le pur evidenti affinità tra un progetto fascista mascherato e una propaganda all’insegna di un “suprematismo bianco” implicito. In parte, il film si ispirava alla figura di Gerald L. K. Smith, fondatore del partito isolazionista e ultrareazionario America First.

Uno studio sull’ordinaria disumanità del nazismo

Due anni dopo, Tracy, saldamente piantato in cima alle vette del box-office, decise di appoggiare la produzione di La settima croce (1944, di Fred Zinnemann) [2]. Tracy era George Heisler, un intellettuale socialdemocratico, fuggito da un campo di concentramento nazista nella Germania del 1936 [3]. Drammaticissimo e serrato, il film non scendeva a compromessi nell’illustrare il diffuso consenso per il nazionalsocialismo sviluppatosi nella classe operaia, e in quella media, tedesca. Illuminante è il rapporto tra il personaggio di Tracy e quello impersonato da Hume Cronyn, l’operaio che, pur impaurito, per pura lealtà amicale, lo aiuta, senza capire, però, almeno inizialmente, perché mai non si dovrebbe apprezzare il regime hitleriano [4]. Presto anche Hume Cronyn si accorgerà degli abissi di disumanità cui può essere portata una nazione dalle campagne d’odio, dalla concessione di contentini al popolo, dal razzismo e dalla persecuzione dei capri espiatori e dei dissidenti.

La parità tra uomo e donna e la denuncia del maschilismo oltre che del consumismo

Dopo la guerra, in mezzo ad altre pellicole, tra cui un film non del tutto riuscito di Elia KazanIl mare d’erba (1947) – e alcune opere non memorabili, Spencer Tracy, Katharine Hepburn e George Cukor realizzarono insieme due commedie entrate a buon diritto tra le più amate e studiate di sempre [5]. Erano, infatti, anche esplorazioni problematiche sul rapporto tra i sessi, in particolare nell’ambito della vita coniugale. E smontavano con raffinata ironia stereotipi e pregiudizi sul ruolo ancillare della donna, mettendo in discussione il maschilismo imperante. Non meno riuscita fu la sottile parodia della società consumistica, denunciata ne Il padre della sposa (1951, di Vincent Minnelli) [6].

Due volte candidato onesto e competente e sconfitto da populisti e incompetenti

Molti americani, tra la metà degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, pensavano che, se Spencer Tracy si fosse dato alla politica, pur essendo cattolico e di origine irlandese, avrebbe potuto facilmente sbaragliare ogni concorrente. Ma Tracy, che sostenne John Kennedy, fin dai tempi della sua candidatura al Senatoera del tutto privo di ambizioni politiche personali. Preferiva fare politica come privato cittadino, partecipando alle lotte per difendere le fondamenta di una società libera e democratica. E, in tale prospettiva, appoggiava e finanziava i movimenti per diritti civili, incluso e per primo quello di Martin Luther King (come facevano altre star più giovani quali, Burt Lancaster, Charlton Heston, James Garner, Harry Belafonte, Richard Widmark, Marlon Brando, Sidney Poitier e Paul Newman). Inoltre, invece di mettersi in politica, preferiva interpretare film in cui si riaffermavano i principi e i valori liberal-democratici.

L’imprenditore idealista strumentalizzato come uomo-immagine

Due piacevolissime commedie drammatiche, dirette da due giganti della regia, Frank Capra e John Ford, infatti, mettevano in rilievo le possibili erosioni del sistema democratico da parte di forze politiche spregiudicate. Quelle la cui ricerca del consenso si basa su di un uso, tanto cinico e spregiudicato quanto martellante, dei moderni mezzi di comunicazione e sull’assecondare la pancia degli elettori. Ne Lo stato dell’Unione (1948, di F. Capra), Tracy e la Hepburn interpretano, rispettivamente, un industriale di successo (molto noto e apprezzato per il suo idealismo e per le sue opinioni sulle ingiustizie sociali e su come risolverle), cui il Partito Repubblicano ha chiesto di candidarsi per la Presidenza, e la moglie, che lo aiuta a ribellarsi alle meschinità del comitato repubblicano [7].

Il sindaco, esperto e progressista, calunniato dalla campagna mediatica dell’avversario

Anche L’ultimo hurrah (di John Ford), ispirato alla vita del sindaco di Boston James M. Curley, vede Tracy impegnato in una competizione elettorale, come sindaco uscente, che amministra, da anni, con saggezza e competenza, una città del New England, cercando di realizzare, senza clamori, accorte politiche di Welfare State. Contro di lui è schierato un novizio della politica, supportato dalla stampa reazionaria e da un comitato che usa con sapienza i nuovi mass-media. Denigrato da una campagna di delegittimazione, tutta tesa a farlo apparire come maneggione corrotto (una denigrazione così efficace che in un primo tempo convince anche suo nipote, cronista sportivo del giornale di destra che lo attacca da sempre), verrà sonoramente sconfitto.

Al fianco delle vittime della caccia alle streghe

In quegli anni Spencer Tracy, come altri attori (soprattutto democratici di area liberal, ma anche qualche repubblicano moderato), scese in campo contro la perversione della caccia alle streghe anticomunista [8]. I cacciatori di streghe, intenti a demonizzare le idee liberali e progressiste, tacciando i loro sostenitori riformisti di filocomunismo, non riuscirono mai ad incastrarlo, ma ne furono fortemente tentati – come lo furono, vanamente, anche nel caso del suo fedele ammiratore e poi amico personale Richard Widmark (ne abbiamo parlato nel post Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood) e di altri tre suoi amici registi Fred Zinnemann, Stanley Kramer e John Sturges. Tuttavia erano finite vittime dirette della persecuzione anticomunista, venendo condannati al carcere o essendo inseriti nella cosiddetta Black List, molti amici e conoscenti progressisti di Tracy e della Hepburn [9]. Di questi, alcuni erano persone che Tracy amava o di cui aveva stima, mentre con altri era meno amico o perfino in conflitto, ma ne rispettava le capacità artistiche e le opinioni politiche. Tra i primi figuravano senz’altro celebri sceneggiatori come Donald Ogden Stewart, Ring Lardner Jr. e Dalton Trumbo, nonché l’attore più sovversivo dell’epoca, il “ribelle-con-una-causa” John Garfield [10]. Tra i secondi, al primo posto, c’era Fritz Lang (cui abbiamo dedicato il post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista), seguito a ruota da Micheal Curtiz [11].

Con John Sturges per il garantismo e contro il razzismo

In quel periodo Spencer Tracy collaborò con un altro regista non ancora affermato, come già aveva fatto con Fred Zinnemann per La settima croce. Si trattava di John Sturges, il quale era stato toccato, ma fortunatamente non bruciato dalla persecuzione nei confronti dei progressisti di Hollywood, contro la quale si oppose pubblicamente. Insieme, Tracy e John Sturges, realizzarono prima un dramma giudiziario, a basso costo (Omertà, 1951), in cui si sottolineavano le storture derivanti dal giustizialismo, poi il più significativo e celebre Giorno maledetto (1955) [12]. A questo film abbiamo dedicato un post, già un paio di anni fa, sulla rubrica Politica e conflitto. Qui si ricorda soltanto che il film propone le disavventure di un reduce della Seconda Guerra Mondiale, privo di un braccio, Macreedy (Spencer Tracy), recatosi in una cittadina sperduta nel deserto per cercare il padre di un suo commilitone, un nippo-americano morto in Italia sul campo di battaglia. Scoperto che il vecchio giapponese era stato bruciato vivo da un gruppetto di razzisti, Macreedy avrà a che fare con questi violenti razzisti, autoproclamatosi difensori della patria.

Il sodalizio con Stanley Kramer per la laicità e la difesa della dignità umana

Il rapporto più importante sul piano politico-cinematografico di Spencer Tracy con un regista fu quello sviluppatosi con Stanley Kramer. Oltre all’ultima pellicola interpretata dall’attore, essi realizzarono insieme altre tre opere. … e l’uomo creò Satana (1960). Sceneggiato sotto falso nome da un’altra vittima della caccia alle streghe, Nedrick Young, era basato su di una celebre commedia, ispirata al “Processo della scimmia di Scopes“, che nel 1925, a Dayton, nel Tennessee, vide gli avvocati William Jennings Bryan e Clarence Darrow (quest’ultimo difensore dell’insegnante John Scopes) fronteggiarsi in un caso riguardante la legge che vietava l’insegnamento di qualsiasi aspetto della teoria evoluzionistica. Il film era apertamente schierato dalla parte dei principi liberali, a partire dalla libertà di insegnamento e dalla laicità dello Stato [13]. L’opera successiva, il monumentale e riuscitissimo Vincitori e vinti (1961), affrontava lo scottante processo di Norimberga. Più che una requisitoria sulle responsabilità dei vertici politici, amministrativi e militari del Terzo Reich, si trattava di una disanima sulla facilità con la quale, in nome del patriottismo, anche chi non è affetto da fanatismo può trasformarsi in complice della disumanità più atroce [14]. Tracy fu diretto da Kramer, oltre che nella colossale satira dell’avidità umana Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (1963), anche, come abbiamo ricordato, nel suo ultimo film Indovina chi viene a cena (1967).

Il miglior Spencer Tracy del mondo

All’indomani della nomination all’Oscar per Il padre della sposa, Spencer Tracy, che già ne aveva ottenuti due, in due anni consecutivi (in ciò raggiunto solo da Tom Hanks), per Capitani coraggiosi (1937, di Victor Fleming) e La città dei ragazzi (1938, di Norman Taurog), fu definito dalla stampa americana, “il miglior attore cinematografico del mondo”.

«Io ci metto Spencer Tracy. Nessun altro potrebbe metterci Spencer Tracy perché non è me».

Molti suoi colleghi concludevano tale definizione. Non la condivideva lui, però:

«Come si può dichiarare che io sono il migliore attore del mondo? È piuttosto sciocco. Come questa faccenda dell’Oscar. Io sono terribilmente contento di essere stato inserito fra i candidati, tutti attori meritevoli. È già un onore per me. Ma, se dovessi vincere, forse che questo mi renderebbe migliore degli altri? Naturalmente no. Una buona interpretazione dipende dalla parte e da ciò che l’attore ci mette di se stesso. E da lui solo. Io ci metto Spencer Tracy. Nessun altro potrebbe metterci Spencer Tracy perché non è me. Certo, io sono il migliore Spencer Tracy del mondo. Se vogliono darmi un premio per questo, allora me lo sono meritato davvero».

La naturalezza di Spencer Tracy

In effetti, Spencer Tracy aveva la qualità rara d’essere naturale. Aveva il dono di recitare senza averne l’aria. Sapeva sempre nascondersi dentro il personaggio. E anche se spesso parlava male dell’arte dell’attore, definendola un mestiere scelto perché gli assicurava la possibilità di guadagnare bene, senza richiedergli troppo sforzo, egli, in realtà, metteva una coscienziosità meticolosa, una concentrazione e uno studio accuratissimi in ogni sua interpretazione. Ed era vero che la sua professione l’aveva reso ricco, ma solo dopo anni di duro lavoro e di sofferenze personali.

«Non mi sono mai sentito realmente a mio agio».

Nato a Milwaukee, nello stato del Wisconsin, il 5 aprile del 1900, secondogenito di un venditore di camion (che morì nel 1928), da ragazzino fu espulso da non meno di quindici scuole per al sua condotta ribelle. Trovò la pace solo in un liceo di gesuiti, dove si appassionò alla teologia. Poi al college si avvicinò alla recitazione. Iniziò così una lunghissima gavetta. Nel corso della quale, nel ’23, conobbe su un taxi, Louise Tredwell, una giovane attrice, che si innamorò di lui all’istante. Si sposarono nel settembre di quell’anno e ed ebbero un figlio (John), il 26 giugno del ’24.

Un uomo tormentato

Qualche mese dopo si resero conto che il piccolo John era sordo. Spencer Tracy, convinto che la sordità fosse dovuta ad una sua tara genetica, sprofondò nel senso di colpa e si diede al bere. Poi si riprese. Restò sempre vicinissimo al piccolo John, lavorando forsennatamente per garantirgli le cure. Nel ’42 Spencer e Louise fondarono una clinica per sperimentare nuove tecniche di educazione per sordomuti e per sostenere e formare i loro genitori e insegnanti. Tracy, senza pubblicità, se ne occupò per il resto dei suoi giorni, attribuendo sempre il merito del progressi della clinica a Louise. Come ricordato nel post su Indovina chi viene a cena, nel ’42 conobbe e si innamorò di Katharine Hepburn. Il legame con Louise era così saldo che restarono amici, conservando la capacità di essere solidali nella genitorialità (nel frattempo avevano avuto una figlia). Ma la bottiglia continuò ad essere un problema per Tracy.

Jekyll e Hide?

Qualcuno sosteneva che avesse una gamma interpretativa limitata. Forse non ricordano la varietà dei ruoli interpretati da Spencer Tracy Qualcuno sosteneva che avesse una gamma interpretativa limitata. Forse non ricordano la varietà dei ruoli interpretati da Spencer Tracy [15]. Chester Herskine, il regista teatrale che portò Tracy alla celebrità con una commedia a Broadway, un giorno gli suggerii che, poiché il mestiere dell’attore impone un distacco tra il personaggio e l’interprete, forse egli rischiava dia vere una doppia personalità. Tracy, sorridendo, osservò:

«Jekyll e Hide? Ho interpretato quella parte. Potrebbe essere, Come può darsi che recitare non sia un lavoro da adulti. Non mi sono mai sentito realmente a mio agio». Poi confessò: «Ma non farei nient’altro per nessuna cosa al mondo».

Alberto Quattrocolo

 

[1] Fu il secondo dei 9 film interpretati insieme da Spencer Tracy e Katharine Hepburn e il primo dei 4 in cui i due attori furono diretti dall’amico George Cukor (uno dei pochi che, a quel tempo, non faceva mistero della propria omosessualità). Si trattava di una sceneggiatura di Donald Ogden Stewart (a partire dal romanzo di I.A.R. Wylie), un intellettuale, di idee democratiche e progressiste, come anche la Hepburn e Tracy, che, avendo ben compreso il pericolo rappresentato dal dilagare del fascismo in Europa, aveva aderito immediatamente alla Hollywood Anti-Nazi League. Si era così collocato nel novero di quegli intellettuali impegnati al seguito dei quali, con l’entrata in guerra degli USA contro le potenze  nazifasciste dell’Asse, si era schierata quasi l’intera nazione. Durante il periodo della “caccia alle streghe” in chiave anticomunista, iniziato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’avvio della Guerra Fredda, tuttavia la Hollywood Anti-Nazi League fu, piuttosto assurdamente, sospettata di simpatie comuniste e di finalità sovversive. Così Donald Ogden Stewart, nel 1950, finì nella cosiddetta lista nera (quella dei sospettati di essere anti-americani) e dovette trasferirsi in Inghilterra, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel ’75. Donald Ogden Stewart era stato un apprezzatissimo sceneggiatore hollywoodiano fin dagli anni Trenta, allorché aveva realizzato anche alcune delle sceneggiature più interessanti e di maggiore successo critico e commerciale in cui aveva lavorato Kate Hepburn. Prima di finire nella lista nera aveva firmato altri tre copioni interpretati da Spencer Tracy. Prigioniera di un segreto era quello che meglio esprimeva le sue preoccupazioni di liberale. Tracy, infatti, interpreta un reporter americano che, alla fine degli anni Trenta, rientra negli USA, dopo esser stato cacciato dalla Germania per le sue inchieste scomode sulle malefatte naziste, ma si consola al pensiero che la sua patria è e resterà una vera e forte democrazia, grazie a uomini come Forrester. Costui, considerato un nuovo Abraham Lincoln ed esaltato da milioni di americani, incluse foltissime schiere di giovani, per il suo abilmente sbandierato americanismo, si scopre, aveva costruito a tavolino la propria immensa popolarità per preparare l’affermazione graduale di un regime fascista, intriso di “suprematismo bianco”, negli Stati Uniti.

[2] Il film, a costo relativamente basso, diretto da Fred Zinnemann, un austriaco poi naturalizzato americano, sfuggito per un soffio al nazifascismo dilagante in Europa, era tratto dal romanzo di una profuga tedesca, Anna Seghers, e sceneggiato da Helen Deutsch. Fred Zinnemann, il regista, con La settima croce era alla sua prima prova in un film di serie A. Avvierà così una lunga, luminosa e pluripremiata carriera (inclusi due Oscar per la regia), costellata di opere apprezzabilissime o addirittura leggendarie, quali Atto di violenza (1948), Uomini (1950), Mezzogiorno di fuoco (1952), Da qui all’eternità (1953), Un cappello pieno di pioggia (1957), Storia di una monaca (1959), I nomadi (1960). E venne il giorno della vendetta (1964), Un uomo per tutte le stagioni (1966), Il giorno dello sciacallo (1973), Cinque giorni, un’estate (1982).

[3] Disperato, solo e braccato, il personaggio di Spencer Tracy ricorda molto quello che l’attore aveva interpretato 8 anni prima, in Furia (1936), il primo film americano diretto da Fritz Lang, sfuggito alle grinfie dei nazisti la sera del 30 marzo 1933 (lo abbiamo ricordato nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista). Anche qui Spencer Tracy era un uomo braccato dalla folla, un povero diavolo scambiato per un efferato criminale, vittima di un tentativo di linciaggio.

[4] Chi mai, dice sostanzialmente Cronyn, aveva dato dignità al lavoratore tedesco prima di Hitler? Con lo svilupparsi della vicenda, anche vedendo cosa i nazisti riservano a chi come Tracy non si adegua ai voleri del regime, Cronyn scoprirà il vero volto, disumano, del Terzo Reich.

[5] Il primo fu La costola di Adamo (1949), con una bravissima Judy Holliday, accusata di tentato uxoricidio. Il secondo fu Lui e lei (1952), che, sia pure nei modi della commedia, esplorava le ricadute sull’autostima di una donna (K. Hepburn) della costante svalutazione e denigrazione nei suoi riguardi (ciò che oggi definiamo violenza psicologica) inflitte dal marito (interpretato da un più che convincente Aldo Ray).

[6] Il film ebbe un tale successo commerciale che immediatamente fu preparato il sequel, Papà diventa nonno (1951, di V. Minnelli). In entrambi i film la figlia di Tracy era interpretata da una giovanissima ma già affermata Elizabeth Taylor.

[7] Avendo realizzato che, in realtà, il suo ruolo non è che quello di una rotella nella gigantesca macchina propagandistica creata, Tracy rinuncerà in diretta televisiva alla candidatura, denunciando la corruzione cui si stava prestando.

[8] Considerando un’aberrazione la Commissione d’Inchiesta sulle Attività Anti-Americane (HUAC) e giudicando delle violentissime pagliacciate anti-democratiche le udienze che questa teneva per “espellere” i comunisti dai più diversi settori amministrativi e produttivi, inclusa l’industria cinematografica, non esitò a schierarsi. Insieme a Tracy e a Katharine Hepburn, tra coloro che attivamente ed esplicitamente avversarono, mobilitandosi di persona, la deriva fascista della caccia alle streghe vi erano attori come Laureen Bacall, Humphrey Bogart, Danny Kaye, Gregory Peck, Paul Henreid e Richard Conte. Tra i registi figuravano autori come William Wyler, George Cukor, George Stevens, John Huston e Joseph Mankiewicz.

[9] Come abbiamo visto nel post a lui dedicato (Paul Newman, un uomo oggi), accadde anche alla famiglia di Paul Newman di venire toccato dall’anticomunismo isterico di quegli anni.

[10] Dalton Trumbo, lo sceneggiatore più apprezzato e meglio pagato di Hollywood, aveva scritto le sceneggiature di due film bellici, apertamente propagandistici, girati durante la Seconda Guerra Mondiale e premiati da un grandissimo successo di pubblico, entrambi interpretati da Spencer Tracy. In particolare, Joe, il pilota (1943, di Victor Fleming), di cui Steven Spielberg fece un remake negli anni Ottanta, e Missione segreta (1944, di Mervyn Leroy), di cui abbiamo parlato nel post Quel bombardamento su Tokio di “incoraggiamento”. Ring Lardner Jr, giornalista notissimo e sceneggiatore di fama, aveva scritto il primo film girato insieme da Kate Hepburn e Spencer Tracy, La donna del giorno (1942, di George Stevens). Lardner, interrogato dalla Commissione fu tra quelli che rifiutarono di rispondere a qualsiasi domanda appellandosi al Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Venne perciò accusato di oltraggio al Congresso, condannato a un anno di prigione e al pagamento di una multa. Una volta scarcerato, essendo inserito nella lista nera degli Studios, venne licenziato dalla 20th Century Fox e andò a vivere in Gran Bretagna. Tramontato il maccartismo, nel ’71 gli fu attribuito l’Oscar per la sceneggiatura di M.A.S.H. (1970, di Robert Altman). Era una star amatissima John Garfield, ma il suo essere schierato apertamente a sinistra, lo aveva reso particolarmente inviso all’HUAC e al famigerato, all’epoca potentissimo, senatore Joseph McCarthy (a costui abbiamo dedicato il post: La fine della caccia alle streghe moderna: il maccartismo). I cacciatori di streghe e l’FBI molestarono John Garfield per anni. Nel ’52 fu chiamato dalla Commissione a testimoniare contro se stesso o contro altri progressisti di sua conoscenza. Morì di infarto, per la tensione, poco prima dell’udienza, a soli 39 anni. Aveva interpretato al fianco di Spencer Tracy una commedia picaresca, tratta da John Steinbeck, Gente allegra (1942, di Victor Fleming).

[11] Micheal Curtiz, nato in Ungheria, la cui intera famiglia d’origine fu annientata ad Aushwitz, era stato autore di una nutrita serie di successi in tutti i generi cinematografici, da quello strepitoso del prototipo di tutti i film di pirati, Capitan Blood (1935) al primo film sonoro su Robin Hood, La leggenda di Robin Hood (1938), fino al leggendario Casablanca (1942). Nel 1932 aveva diretto Tracy nel ruolo di un detenuto in Ventimila anni a Sing Sing.

[12] Spencer Tracy fu diretto da John Sturges anche in Il vecchio e il mare (1958), dal romanzo breve di Ernest Hemingway.

[13] Stanley Kramer mise Tracy nei panni di Clarence Darrow (nel film, però, si chiama Henry Drummond) e il suo vecchio amico Frederic March in quelli del suo fanatico e bigotto rivale, (ribattezzato nell’opera Matthew Harrison Brady). Frederic March, divo fin dagli anni Trenta, era stato anch’egli una vittima della Commissione d’Inchiesta sulle Attività Anti-Americane. Aveva evitato sia il carcere che la lista nera, dichiarandosi anticomunista e mostrandosi collaborativo con la Commissione.

[14] Particolarmente interessanti sono i passaggi in cui l’opera si sofferma sui meccanismi mentali di autogiustificazione che non solo gli imputati del film ma tutte le persone sono capaci di attivare per restare indifferenti o addirittura favorire o perpetrare le più spaventose negazioni dell’umanità.

[15] Nel ’30 esordì nel ruolo di un carcerato sullo schermo in una commedia diretta da John Ford (Up the river, 1930), seguirono moltissime parti, interpretate senza sosta, alla Fox, finché nel ’35, stanco dei ruoli un po’ stereotipati con cui si cimentava, passò alla Metro Goldwyn Mayer. Qui, venne affiancato più volte alla super-star della casa, Clark Gable. Per quanto fossero film di grandissima presa sul pubblico e ottimamente realizzati (da San Francisco, 1936, di W. S. Van Yke III, a La febbre del petrolio, 1940, di Jack Conway), Tracy era insoddisfatto. Ma, grazie all’intuito del produttore Irving Thalberg, riuscì a dimostrare di essere un buon richiamo per gli spettatori anche nelle pellicole in cui era il protagonista. Insomma, divenne una star e lo restò fino alla morte. Non soltanto, ma ebbe anche la possibilità di recitare sotto la direzione di quasi tutti i più grandi registi della storia del cinema hollywoodiano. Da John Ford a Henry King, da William A. Wellman a Frank Capra, da King Vidor a Raoul Walsh, da Micheal Curtiz a Fritz Lang, da Frank Borzage a Clarence Brown, da Sam Wood a Victor Fleming, da George Stevens a Mervyn Leroy, da George Cukor a Vincent Minnelli, da Elia Kazan ad Edward Dmytryk, da John Sturges a Stanley Kramer. Tra quelli che si affermarono già all’epoca del muto e lavorarono fino agli anni Cinquanta e Sessanta gli unici maestri con cui non ebbe la possibilità di lavorare, forse, sono soltanto Henry HathawayHoward HawksAlfred Hitchcock e William Wyler. Interminabile è, invece, la lista delle attrici e degli attori superlativi con cui collaborò.

Fonti

La visione dei film citati

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. II., Istituto geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

Paola Cristalli, Commedia americana in cento film, Le Mani, Genova, 2007.

Claudio G. Fava, Guerra in cento film, Le Mani, Genova, 2010

Josè Maria Latorre, Avventura in cento film, Le Mani, Genova, 1999

Romano Tozzi, Spencer Tracy, Milano Libri Edizioni, Milano, 1976.

Martin Luther King: Sono un uomo!

Free at last

(“Finalmente libero”, epitaffio per Martin Luther King)

È il 4 aprile del 1968, al Lorraine Motel di Memphis. Una camera del secondo piano, la 306, sempre la stessa. Il letto sfatto e una valigia ancora da aprire. Martin Luther King si affaccia al balcone e chiede a un sassofonista nel cortile di suonare il suo gospel preferito, “Take My Hand, Precious Lord”. Dall’altro lato della strada qualcuno imbraccia un fucile di precisione e prende la mira: sono le 18:01. Il sangue, i soccorsi, il St. Joseph’s Hospital. Un’ora dopo l’icona dell’America nera si spegne.

Nei giorni successivi i tumulti infiammano le principali città degli Stati Uniti, si conteranno 46 morti, 2.600 feriti e 21.000 arresti: l’omicidio viene interpretato come “una dichiarazione di guerra al popolo afroamericano”. In contrasto con tali eventi, il funerale di King, il 9 aprile, si svolge con la semplicità da lui stesso richiesta quand’era in vita: due asinelli trasportano la bara, il sermone funebre non menziona premi e onori ricevuti, ma lo ricorda come l’uomo che aveva cercato di dare da mangiare agli affamati, coprire coloro che non avevano i vestiti, essere chiaro e duro sulla questione della guerra in Vietnam e infine “amare e servire l’umanità”.

Un killer solitario?

Il delitto è risolto in tempi brevissimi: viene individuata la traiettoria del proiettile, identificato l’occupante della stanza da cui presumibilmente era partito lo sparo, rinvenuta l’arma abbandonata e piena d’impronte digitali, e nel giro di due mesi viene arrestato a Londra James Earl Ray, un pregiudicato con simpatie segregazioniste, condannato l’anno successivo a 99 anni di reclusione come unico colpevole.

La famiglia di King ha sempre sostenuto che Ray non fosse l’assassino, ma un capro espiatorio trovato al momento giusto. Sia la scelta del motel Lorraine sia l’assegnazione della solita stanza erano state effettuate all’ultimo minuto, non programmate; diversi testimoni avevano indicato un punto di partenza dello sparo molto lontano da quello acquisito agli atti; la circostanza dell’abbandono dell’arma del delitto recante tracce inequivocabili appariva sospettosamente propizia all’inchiesta; la fuga e breve latitanza del presunto killer, in possesso di documenti falsi riconducibili a persone veramente esistenti e a lui somiglianti, facevano pensare a una rete organizzata di appoggi eccellenti.

No, una cospirazione

Come già accaduto per JFK, come avverrà poco dopo per Bobby Kennedy, anche per la morte di Martin Luther King le autorità, guidate nelle indagini dal capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, apparivano determinate nel dimostrare al popolo americano e al mondo che il killer fosse uno squilibrato solitario e disorganizzato. A distanza di anni, la Commissione del Congresso, pur non riuscendo a trovare le prove, scriverà che nel caso di JFK, così come di MLK, non fu una persona sola ad agire ma probabilmente si trattò di una cospirazione, di cui però non si indicavano i mandanti. Loyd Jowers, proprietario del ristorante nei pressi del motel Lorraine, rilascerà nel 1983 un’intervista circa l’esistenza di una cospirazione nata con l’intento di eliminare King; nel 1999 una giuria decreterà che King fu vittima di una cospirazione che includeva lo stesso Jowers.

Dal National Association for the Advancement of Colored People al Southern Christian Leadership Conference

Una persona che secondo coscienza infrange una legge ingiusta e accetta di finire in prigione perché la comunità si renda conto dell’ingiustizia, in realtà manifesta il più alto rispetto per la legge stessa.

Attorno a questo principio si dipana la breve vita e l’esperienza politica di Martin Luther King, figlio del profondo sud degli States (Georgia). Cresciuto nel quartiere borghese di Atlanta noto come “Paradiso Nero per gli eletti della razza inferiore”, non sfugge alle discriminazioni ancora consolidate negli anni Quaranta e Cinquanta della sua giovinezza.

Laureato in Teologia e sposato con Coretta, a venticinque anni diviene il pastore di una delle città dove la situazione razziale era tra le più dure, Montgomery; entra a far parte della sede locale del NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e diventa vicepresidente del Consiglio dell’Alabama per i rapporti umani.

Nel ’55 a Montgomery esplode il caso Rosa Parks, la donna afroamericana che rifiutò di cedere il posto in
autobus a un passeggero bianco: il pastore è tra i promotori di un’estenuante protesta non violenta, basata sul boicottaggio degli autobus locali da parte della comunità nera, conclusasi, dopo incidenti e arresti (compreso quello dello stesso King), solo nel ‘56, quando la Corte Distrettuale e la Corte Suprema degli Stati Uniti stabiliscono che la segregazione forzata di passeggeri neri e bianchi sugli autobus operanti a Montgomery viola la Costituzione Americana.

Nel ’57 King fonda la “Southern Christian Leadership Conference“, un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva:

siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione”.

Le prime campagne erano incentrate sull’abolizione di quel sistema di norme segregazioniste vigenti in particolare negli stati del Sud, note informalmente come “Leggi Jim Crow”. Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni finiscono con violenze e arresti di massa, egli stesso subisce minacce e attentati; ottiene però riconoscimenti sempre più ampi e supporti politici e materiali, anche all’estero.

Nel ’60 incontra J. F. Kennedy, ottenendone dichiarazioni di sostegno; alle elezioni Kennedy conquista il
settanta per cento dei voti della comunità nera e nella sua agenda entrano di prepotenza i temi dei diritti civili (voto, lavoro, pari opportunità) per gli afroamericani. Grazie anche all’appoggio della Casa Bianca, King e gli altri leader della SCLC proseguono le loro campagne, soprattutto in Alabama, Mississippi e Georgia.

Nel ’63 inizia a Birmingham, in Alabama, una campagna per eliminare le politiche sociali, civili ed economiche segregazioniste del paese, ormai divenuto simbolo della più feroce discriminazione razziale. Il Reverendo Fred Shuttlesworth, prima di invitare Martin Luther King nella “città più segregata l’America“, si è rivolto ai tribunali, chiedendo che i parchi siano aperti a bianchi e neri; ha vinto, ma la città ha chiuso i parchi. Ai sit-in e alle marce la polizia risponde con gli arresti e il tribunale con un’ingiunzione vieta ogni manifestazione. La risposta è la disobbedienza civile: violare le leggi che si ritengono ingiuste, subendone le conseguenze penali. Così, il 12 aprile, Venerdì Santo, King, Shuttlesworth e altre 50 persone marciano per i diritti civili dei neri e vengono arrestati.

Il nemico è l’uomo bianco medio, che sacrifica la giustizia sociale sull’altare dell’ordine pubblico

Dal carcere King scrive la famosa lettera in cui cita Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino, rimarcando che il suo movimento stava violando leggi ingiuste, facendo notare come il tanto celebrato Boston Tea Party del ‘700 – quando un gruppo di coloni americani gettò in mare il carico di tè di una nave diretta in Inghilterra – fosse un atto illegale all’epoca, mentre tutto quello che fece Hitler in Germania fu completamente legale.

Nello stesso scritto propone anche una visione della lotta per i diritti civili inedita: il nemico, l’oppressore, non è il governo o il Ku Klux Klan. Il nemico è l’uomo bianco medio, che sacrifica la giustizia sociale sull’altare dell’ordine pubblico. L’uomo bianco che da un lato dice di condividere il fine del movimento, mentre dall’altro guarda con paternalismo i neri dall’alto in basso e ne critica i metodi della protesta.

Dovete attendere un momento migliore” dice l’uomo bianco all’uomo di colore, si legge nella lettera.

Dopo 8 giorni King esce di prigione e la campagna si riorganizza, si preparano i manifestanti alla protesta non violenta, si raccolgono soldi per pagare gli avvocati. Il 2 maggio sfilano migliaia di adolescenti, è la Crociata dei bambini. A centinaia vengono portati via dalla polizia, il più giovane ha solo otto anni; il giorno dopo le
forze dell’ordine usano idranti e cani contro i ragazzi, sotto gli occhi di tutto il mondo. Ormai le carceri sono piene e iniziano le trattative. Alla fine di maggio il tribunale Supremo rimuove lo sceriffo e l’intero Consiglio Comunale e le leggi segregazioniste vigenti nella città vengono eliminate, ma si susseguono attentati e minacce contro gli attivisti del movimento.

I have a dream

Sull’onda dell’indignazione per i fatti di Birmingham, il presidente Kennedy presenta al Congresso un
provvedimento che sancisce pari diritti per bianchi e neri d’America: l’idea è fortemente osteggiata dagli stati del Sud. King, insieme ai leader delle sei principali organizzazioni per la lotta per i diritti civili dei neri, guida verso Washington la celeberrima “marcia per il lavoro e la libertà” (28 agosto 1963) in cui circa 250.000 persone, di cui 50.000 afroamericane, si radunano per celebrare la proclamazione di emancipazione di Lincoln. Kennedy, inizialmente timoroso, appoggia infine la manifestazione: la folla assiste alla stretta di mano tra il presidente e i leader della SCLC e al celebre discorso “I have a dream” di King, che diviene il discorso-simbolo della marcia e uno dei più famosi della storia oratoria americana.

Nel ’64 gli viene conferito il premio Nobel per la Pace per l’impegno nella lotta contro il razzismo attraverso la protesta non violenta, ma in patria le battaglie, gli arresti, gli attentati contro il pastore e gli attivisti proseguono.

Il 7 marzo 1965, giorno noto come “Bloody Sunday” (l’abbiamo ricordato in questo post di Corsi e Ricorsi), gruppi di bianchi segregazionisti e polizia impediscono la marcia da Selma a Montgomery e gli scontri si protraggono per giorni: le immagini e le testimonianze delle brutalità della polizia fanno il giro degli Stati Uniti, rendendo partecipe gran parte dell’opinione pubblica dell’entità della questione sollevata dal movimento. La marcia si tiene due settimane dopo e il presidente Johnson annuncia la presentazione della legge sul diritto al voto, la Voting Rights Act, firmata in agosto.

Sono un uomo!

È una vittoria storica. Ma King non lotta solo per le persone di colore, combatte per un mondo migliore. Nel
1966 si trasferisce a Chicago e modifica parte della sua impostazione politica, entrando direttamente in conflitto con la Casa Bianca: si dichiara contrario alla guerra del Vietnam e si astiene dal condannare le violenze delle organizzazioni estremiste, denuncia le condizioni di miseria e degrado dei ghetti delle metropoli e avvia la Poor People’s Campaign, domandando aiuti economici per le fasce sociali più deboli, composte da afroamericani, ma anche da indiani, portoricani e minoranze in genere.

E poi il tema dei morti sul lavoro: per questo Martin Luther King si trova a Memphis il giorno in cui viene ucciso. Il primo febbraio ‘68 due spazzini muoiono schiacciati dal loro camion a causa di un guasto; ne scaturisce uno sciopero di protesta, i cartelli recano la scritta “Sono un uomo!”. King decide di andare sul posto per dare visibilità nazionale alla mobilitazione. La sera del 3 aprile, di fronte ai netturbini in rivolta, tiene il suo ultimo discorso, profetico ma anche denso di inquietante premonizione, diventato celebre come il discorso dalla “Cima della montagna”.

Il giorno dopo, lo sparo che, commenta il giornalista Furio Colombo, rivela

un’America più grande di quella che la cultura, la sociologia e la politologia americana avevano ritenuto di identificare. Da quegli spari si va direttamente, attraverso i decenni, all’incredibile sorpresa dell’elezione di
Donald Trump […]: non ricordo alcun americano […] che [ne] avesse previsto la vittoria. Questo ci dice che la gravità del movimento sotterraneo di opposizione di suprematismo bianco e di opposizione all’evoluzione dell’America verso la parità dei diritti era molto grande, ed è ancora molto grande, più grande di quanto la cultura americana sia stata in grado di percepire e raccontare”.

Silvia Boverini

 

Fonti: www.it.wikipedia.org;
S. Vaccara, “Martin Luther King, il “patsy” James Earl Ray e il giornalista che sapeva troppo”, www.lavocedinewyork.com;
L. Marfé, “Martin Luther King: cinquant’anni fa moriva il mito”, www.ilmattino.it;

https://biografieonline.it; “Il Re dell’Amore è morto”, www.rainews.it;

D. Ruzza, “Il sogno di Martin Luther King, a 50 anni dalla sua morte”, https://left.it

L’attualità e la verità di Indovina chi viene a cena

Il 3 aprile del 1968, usciva nelle sale cinematografiche italiane Indovina chi viene a cena (1967, di Stanley Kramer). Era una commedia, un film pensato per divertire, commuovere e fare riflettere. Infatti, Indovina chi viene a cena mostrava come i pregiudizi e la violenza morale, propri del razzismo, possono influenzare anche chi razzista non è. Il film, quindi, conserva tutta la sua attualità nel rappresentare come, pure in coloro che sanno che esiste una sola razza, quella umana, il sapersi circondati da concittadini pieni di odio razziale significhi rischiare di subire un sotterraneo ricatto morale. Un condizionamento inconsapevole, che riduce la libertà di scegliere perfino a chi volere bene.

Indovina chi viene a cena: una commedia sui pregiudizi inconsapevoli e sulle paure di chi con i pregiudizi altrui si deve misurare

La trama, arcinota, la sia può condensare in poche parole: una coppia di San Francisco (Matt e Christina Drayton, interpretati da Spencer Tracy e Katharine Hepburn), che vive in una casa magnifica la cui terrazza si affaccia sul Golden Gate, una coppia altoborghese e progressista, liberal, apprende improvvisamente che la loro giovane (ventitreenne) e bellissima figlia (Joanna, interpretata da una nipote della Hepburn, Katharine Houghton), intende sposare la settimana dopo un uomo, conosciuto in una vacanza alle Hawaii, il dottor John Prentice (Sidney Poitier) [1].

Gli esseri umani sono tutti uguali ma non sposare qualcuno con una pelle di un altro colore

Katharine, anche dopo aver appreso che il dott. Prentice è un afro-americano, viene contagiata dall’entusiasmo della figlia. E dice al suo corrucciato marito che, quando hanno educato Joanna ai valori dell’uguaglianza tra gli esseri umani, non hanno aggiunto la postilla ma non sposare uno con una pelle di colore diverso.

«Lei ha imparato quelle cose che le abbiamo insegnato, e cioè che era ingiusto ritenere che i bianchi fossero, non si sa per quale ragione, superiori ai negri, così come ai rossi e ai gialli naturalmente. E che quelli che la pensano così sono in errore, alcuni per malvagità, altri per stupidità, ma sempre sempre in errore. Questo le abbiamo detto. E quando l’abbiamo detto non abbiamo aggiunto: “Però non ti innamorare di un uomo di colore!”», ricorda la Hepburn a Tracy.

I principi e la realtà

A favore dei matrimoni misti è anche il loro amico di famiglia, il cattolico monsignor Ryan (interpretato dal grande caratterista Cecil Kellaway). Entrambi, ma soprattutto la moglie, fanno presente a Matt che se non si può essere anti-razzisti soltanto a parole.

E Matt? Matt è angosciato, e l’angoscia lo rende irritabile, anzi lo chiude in una sorta di mutismo risentito e angosciato. Confida al prete la sua rabbia, ma anche il suo senso di solitudine. Ha la sensazione di essere il solo a conoscere e ponderare la reale dimensione di quanto sta accadendo. E, in modo, aggrovigliato, maldestro ed inefficace, tenta di spiegarlo all’amico:

«Se Joey avesse portato a casa uno sciancato e avesse detto “mamma, questo è l’uomo che amo”, Christina avrebbe detto “oh, davvero, ma che bellezza! Facciamo una festa per celebrare l’avvenimento!».

«Quanto a voi due e ai problemi che dovrete affrontare, mi sembrano quasi inimmaginabili».

Il vecchio amico Mike, però, non lo fa sentire ascoltato, ma giudicato. Sicché sbotta:

«Visto che tu fai il prete, visto che figli non ne hai, mi domando come cavolo fai a sapere cosa prova un padre in una situazione come quella in cui mi trovo io! Non puoi saperlo!!».

Non gli è da meno, del resto, il reverendo Mike, il quale, temendo che Matt sia in procinto di negare il suo assenso, arriva a dirgli:

«Mio caro amico, io vorrei con tutto il cuore poterti convincere, e se avessi dieci anni di meno, per impedirti di andare giù con queste intenzioni forse arriverei al punto di sbarrarti la strada con la forza!».

Il fatto è che il conflitto interno di Matt non sorge tanto, in realtà, dal disagio vissuto di fronte alla concretezza dell’unione tra sua figlia e un nero. Sorge dall’angoscia di un padre consapevole che la cattiveria e l’ottusità del mondo non conoscono limiti e che andranno certamente a colpire, violentemente e profondamente sua figlia, l’uomo che lei ama e i loro figli.

L’attualità di Indovina chi viene a cena

Come abbiamo ricordato in un altro post su questa rubrica Indovina chi viene a cena costituì il terzo successo mondiale conseguito quell’anno dal quarantaduenne Sidney Poitier (gli altri due enormi successi furono La calda dell’ispettore Tibbs, di Norman Jewison, e La scuola della violenza, del romanziere e regista britannico James Clavell) [2]. La critica, però, specie nel decennio dei Settanta, strapazzò molto il film [3]. Veniva contestato, soprattutto, da sinistra. In particolare, Indovina chi viene a cena era considerato una commedia sdolcinata, che edulcorava la realtà e non si soffermava su altri e ben più gravi problemi culturali, sociali e politici. Oggi, però, quelle critiche paiono perdere un po’ di consistenza. Anche se è vero che c’è un lieto fine sulle note di The Glory of Love e che Matt nel finale afferma:

«Quanto a voi due e ai problemi che dovrete affrontare, mi sembrano quasi inimmaginabili. Ma tra questi io non ci sono».

Indovina chi viene a cena e la violenza razzista in Italia

Tuttavia, ora come cinquantatre anni fa, “i problemi” di queste coppie sono forse inimmaginabili. Immaginabili, però, sono di sicuro i comportamenti e gli atteggiamenti di violentissima cattiveria razzista cui vanno incontro (qui se ne riporta uno soltanto tra i tantissimi). E che soffrono i loro figli. Da alcuni anni crescono dismisura, in Italia, le aggressioni razziste contro chi ha la pelle scura, si tratti di italiani o stranieri, o di figli di coppie composte da italiani e stranieri, come non si contano le violenze e le discriminazioni ai danni di italiane e italiani che “osano” avere relazioni affettive o di semplice e dichiarata solidarietà verso una/o straniera/o con la pelle scura (immigrato o meno). Neppure il Coronavirus, del resto, ha messo la sordina a questa bestialità razzista, dal momento che per alcune settimane numerosissime sono state le manifestazioni di violenza verbale e fisica ai danni di cinesi  e, perfino, di filippini e giapponesi che venivano scambiati per cinesi. Quando, cinquantadue anni fa, Indovina chi viene a cena fu proiettato in prima visione nei cinema italiani, i temi che sollevava, credevamo, non ci riguardavano [4]. Potevamo illuderci di essere immuni da quell’odio razzista che, invece, imperversava negli Stati Uniti, dove fino al 12 giugno 1967 i matrimoni misti (tra bianchi e neri) erano vietati per legge in 17 stati. Ma, oggi, nel 2020, una versione italiana di Indovina chi viene a cena susciterebbe picchetti razzisti davanti alle sale e, se fosse un film televisivo prodotto dalla RAI, forse anche qualche ostacolo alla sua trasmissione.

«E adesso io credo che, non importa qualunque obiezione possa fare un bastardo contro la vostra intenzione di sposarvi…»

Si pensi, infatti, alla parte finale del monologo di Tracy:

«Voi però lo sapete, e io so che lo sapete che cosa sfidate, ci saranno 100 milioni di persone qui negli Stati Uniti che si sentiranno disgustate, offese, provocate da voi due e dovrete conviverci. Magari ogni giorno, per il resto delle vostre vite. Potrete cercare di ignorarne l’esistenza o potrete sentire pietà per loro e per i loro pregiudizi, la loro bigotteria, il loro odio cieco e le loro stupide paure. Ma quando sarà necessario dovrete saper stare stretti l’uno all’altra e mandare al diavolo questa gente. Chiunque potrebbe farne un dannato caso del vostro matrimonio. Gli argomenti sono così ovvi che nessuno deve sforzarsi di cercarli. Ma siete due persone meravigliose, a cui è capitato di innamorarsi e a cui è capitato di avere una diversa ‘pigmentazione’. E adesso io credo che, non importa qualunque obiezione possa fare un bastardo contro la vostra intenzione di sposarvi, solo una cosa ci sarebbe di peggio: se sapendo ciò che voi due siete, sapendo quello che avete, sapendo ciò che provate… non vi sposaste».

La stretta relazione tra fiction e realtà

Nel finale di Indovina chi viene a cena, in quel discorso che Matt rivolge a tutti i presenti, inclusi i genitori del dott. Prentice, venuti apposta da Los Angeles, vi era anche molta realtà personale. Vi è un passaggio assai significativo in tal senso nel quale Matt si rivolge alla sua futura suocera (Beath Richards), la quale, favorevole senza esitazioni al matrimonio, gli aveva polemicamente rinfacciato di non ricordare più cosa significa essere innamorati.

«Lei ha torto, signora; ha torto assolutamente. Ammetto di non averlo considerato, di non averci nemmeno pensato, ma so esattamente cosa prova per lei e non c’è nulla, assolutamente nulla che suo figlio provi per mia figlia che io non abbia provato per Cristina. Vecchio? Si. Idiota? Sicuramente. Ma posso dirle che i ricordi sono ancora qui, chiari, intatti, indistruttibili. E resteranno qui anche se arriverò a 110 anni. Credo che John abbia sbagliato nel dare troppo peso a ciò che io e mia moglie avremmo potuto pensare. Perché nell’analisi finale, non importa un cavolo di ciò che noi pensiamo, l’unica cosa che conta è quello che loro provano, e quanto amore provano l’uno per l’altro. E se è anche solo la metà di quello che abbiamo provato noi… [guardando la Hepburn] allora è tutto».

L’amore vero tra Katharine Hepburn e Spencer Tracy

Anche Spencer Tracy e Katharine Hepburn, mentre giravano Indovina chi viene a cena, ricordavano tutto e si amavano, tantissimo e profondamente come venticinque anni prima [5]. I due erano stati amanti per anni, ma non si erano potuti sposare, perché Tracy era già sposato ed era cattolico (irlandese di origine), e la Chiesa non ammetteva il divorzio. Però vivevano come marito e moglie. Indovina chi viene a cena era il nono film che interpretavano insieme. Ma sapevano che sarebbe stato l’ultimo. Tracy era già seriamente malato da circa 4 anni [6]. Furono la convinzione sull’importanza del messaggio di Indovina chi viene a cena e l’amore della Hepburn, non solo a motivarlo, ma anche a sorreggerlo nella lavorazione. Tracy, Poitier la Hepburn e il regista erano amici e condividevano le stesse idee e lo stesso impegno politico.

Il comune impegno politico, l’amore e l’amicizia

Stanley Kramer aveva già diretto Tracy in tre film e tra i due c’era una fiducia totale [7]. Inoltre aveva diretto Poitier, anch’egli convintissimo della validità del progetto, in un’altra celebre opera antirazzista, La parete di fango (1958), affiancandolo ad un bravissimo Tony Curtis. Ma Kramer si fidava anche ciecamente anche della Hepburn, che da quattro anni si era allontanata totalmente dal lavoro e si era data anima e corpo al suo compagno, prendendosene cura con amore infinito. Così, non solo era vero il Parkinson ormai incontrollabile che la Hepburn non poteva non mostrare nei primi piani, ma lo erano anche quegli occhi lucidi con cui guardava il suo amato Tracy in Indovina chi viene a cena.

La verità di quegli occhi lucidi

Spencer Tracy miracolosamente sopravvisse allo sforzo delle riprese (durate dal 19 febbraio al 26 maggio 1967) e morì due settimane dopo (il 10 giugno, alle sei del mattino per un attacco cardiaco). Non vide mai il film. Neppure la Hepburn lo guardò mai. Non ci riusciva perché le ricordava troppo Tracy.  Quando ritirò l’Oscar Kate dichiarò che lo considerava un riconoscimento per entrambi, per lei e per Spencer [8].

Alberto Quattrocolo

[1] La ragazza, però, non pensa di informarla del fatto che Prentice è un afro-americano. Infatti, la prima cosa che il dott. Prentice dice a Christina è: «Signora, io sono medico, quindi spero che lei non si offenda se le dico di sedersi prima di cadere». In effetti, egli è un medico. Un medico affermato, anzi un organizzatore umanitario e uno scienziato, con un curriculum degno di un premio Nobel e di Albert Schweitzer. Ed è anche un uomo sensibile, che ha sofferto (è vedovo) e che conosce la vita e il mondo in cui egli vive. Infatti, se Joanna, al settimo cielo, non si accorge del disagio di papà e mamma, egli si sente in dovere di comunicare in privato a Matt che è consapevole delle difficoltà che i pregiudizi diffusi creeranno loro e soprattutto che non sposerà la ragazza senza il consenso suo e di Christina.

[2] Indovina chi viene a cena fu candidato a 8 Oscar (incluso una postuma per S. Tracy, come migliore attore protagonista) e lo ottenne per la migliore attrice protagonista (K. Hepburn) e la migliore sceneggiatura originale (di William Rose). La statuetta come migliore attore protagonista andò a Rod Steiger per La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967, di Norman Jewison)

[3] Lo bollò come “ipocrita”, “mendace” e, perfino, come “spazzatura”.

[4] Ne abbiamo parlato anche in questo post della rubrica Riflessioni: Gran brutta malattia, il razzismo, più che altro strana…). Indovina chi viene a cena uscì negli USA il 12 dicembre del 1967 ed ebbe subito un successo di pubblico straordinario. Un successo poi replicato in Europa e altrove.

[5] Quando si erano conosciuti sul set de La donna del giorno (1942, di George Stevens), la Hebpurn aveva mormorato al regista che l’attore era un po’ troppo basso per lei. Si era sentita rispondere di non preoccuparsi che ci avrebbe pensato Tracy ad abbassarla un po’.

[6] Le sue condizioni erano così brutte che aveva dovuto rifiutarsi di interpretare almeno due film che lo avevano interessato moltissimo: Il grande sentiero (1964, di John Ford) e Cincinnati Kid (1966, di Norman Jewison). Del primo lo attirava terribilmente la possibilità di partecipare ad un film riparatore dei tanti torti cinematografici rivolti ai nativi-americani e di essere diretto dal più grande maestro del cinema: John Ford. Del secondo lo attiravano le caratteristiche del personaggio che avrebbe dovuto interpretare e la possibilità di lavorare con Steve McQueen, astro ribelle in ascesa.

[7]  … E l’uomo creò Satana (1960) Vincitori e vinti del ’61 (ne abbiamo parlato nel post su Richard Widmark, un attore, come abbiamo scritto, che amava moltissimo Tracy) e Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (1963)

[8] Spencer Tracy fu candidato in tutto sette volte al premio Oscar e lo ottenne due volte: una come migliore attore non protagonista per Capitani coraggiosi (1937, di Victor Fleming) e uno come miglior attore protagonista per La città dei ragazzi (1938, di Norman Taurog).

Fonti

La visione del film

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

Paola Cristalli, Commedia americana in cento film, Le Mani, Genova, 2007.

Romano Tozzi, Spencer Tracy, Milano Libri Edizioni, Milano, 1976.

 

Quel bombardamento su Tokio di “incoraggiamento”

ll 2 aprile del 1942 iniziò una complessa operazione aereonavale americana finalizzata a realizzare il primo bombardamento su Tokio. Il 2 aprile, infatti, salpò dal porto di Alameda in California, la portaerei Hornet. Portava sedici bombardieri dell’USAAF (United States Army Air Force). La loro missione era colpire Tokio. Ma il loro obiettivo andava molto più in là, ed era assai più psicologico e politico, che non strategico. Ciò che contava, infatti, non erano i danni che si sarebbero prodotti nella capitale dell’impero del Sol Levante. Non si dava neppure grande importanza all’effetto shock sul popolo giapponese. I vertici politici e militari americani era più che consapevoli che i giapponesi non si sarebbero fatti impressionare troppo da questa violazione del loro territorio. Anzi, si sarebbero stretti intorno all’imperatore, senza deprimersi, come, invece, avrebbe potuto accadere ad altri popoli, non così pervasi di nazionalismo e non così inclini ad una forte e salda identificazione con il loro governo. Lo scopo del bombardamento su Tokio era un altro: incoraggiare il popolo americano.

Il bombardamento su Tokio come risposta alla disfatta di Pearl Harbour del 7 dicembre 1941

Il bombardamento su Tokio, infatti, fu ideato come risposta all’attacco giapponese sulla base di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941.

Appena 120 giorni prima che la Hornet salpasse da Alameda, infatti, si consumò quello che il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva definito

«il giorno dell’infamia».

L’attacco nipponico verificatosi il 7 dicembre del ’41 alle Hawaii, era stato condotto, com’è noto, in assenza della dichiarazione di guerra da parte giapponese, che fu formalizzata soltanto ad attacco più che iniziato.

La risoluzione di quei 27 mesi di “camminate sulle uova”

Gli Stati Uniti fino a quel momento si erano tenuti fuori da secondo conflitto mondiale. Le pressioni di coloro (la maggioranza del Congresso e dell’opinione pubblica) che erano per una politica isolazionista erano state tali da non consentire a Roosevelt di tradurre le proprie convinzioni antifasciste – e le sue previsioni sulla volontà dei dittatori italo-tedeschi e di dominare il mondo intero -, entrando in guerra accanto all’impero britannico. Così come doveva astenersi dallo schierarsi contro le forze dell’Asse (Germania e Italia), in Europa, gli era anche precluso contrastare militarmente l’espansionismo giapponese, che si era concretizzato, già dal ’31, con l’occupazione della Manciuria e, dal ’37, con l’invasione della Cina settentrionale, collegandosi a quello nazifascista con la firma del patto Tripartito con Hitler e Mussolini [1]. Dall’inizio della guerra in Europa e fino al 7 dicembre ’41 erano iniziati i 27 mesi in cui, come si espresse Roosevelt, il governo degli USA, dovette

«camminare sulle uova».

Si limitava, cioè, a supportare economicamente e materialmente la Gran Bretagna, che era rimasta sola a fronteggiare le armate naziste dilaganti in Europa e in Africa e che per buona parte della prima parte del 1940 aveva seriamente rischiato di essere invasa dalle armate tedesche (ne abbiamo parlato in questo post di Corsi e Ricorsi).

L’attacco a Pearl Harbour

Alle 7,55 di domenica 7 dicembre 1941, le esitazioni degli Stati Uniti cessarono. A quell’ora, infatti, le forze aeronavali giapponesi attaccarono la flotta e le installazioni militari statunitensi stanziate nella base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, provocando l’affondamento o il danneggiamento di 8 corazzate, di 3 cacciatorpediniere, di altre 4 navi, di 3 incrociatori e la distruzione di quasi 200 aerei, nonché la morte di 2.402 militari e il ferimento di altri 1.247. Inevitabilmente ne seguì, parallelamente alla vertiginosa crescita nell’opinione pubblica americana di un forte sentimento di odio verso i giapponesi, l’ingresso nella seconda guerra mondiale degli Stati Uniti, il cui governo immediatamente dichiarò guerra al Giappone e poi all’Italia e alla Germania.

Il bombardamento su Tokio nella prospettiva del “su col morale”

I giapponesi, però, non si erano limitati a devastare, sia pur non completamente, le forze americane nel Pacifico stanziate alle Hawaii. La loro espansione pareva inarrestabile, invincibile. Le Indie Olandesi e la Nuova Guinea erano sostanzialmente crollate. La capitale birmana, Rangoon, era caduta nelle loro mani. Era ormai segnata la sorte delle truppe statunitensi e filippine che, pressate dalle forze nipponiche, si erano asserragliate nella penisola di Bataan, nell’isola di Luzon. Insomma, la cronaca bellica per il popolo americano non era che un lungo elenco di sconfitte e di morti. La Casa Bianca sapeva che per tornare a vincere al fronte occorreva che gli americani avessero fiducia in se stessi e fede nella vittoria finale. Ma Roosevelt sapeva anche che i suoi discorsi, come quelli dei suoi ministri, e la propaganda in generale non erano sufficienti.

La valenza psicologica del bombardamento su Tokio e il suo valore propagandistico

Il bombardamento su Tokio, perciò, fu concepito proprio più per il suo effetto sul morale del popolo americano che per il suo valore tattico o strategico. Doveva, certamente, servire a far comprendere ai giapponesi, o almeno suggerire loro l’idea che gli Stati Uniti avrebbero combattuto fino alla fine. Ma, soprattutto, mirava a risollevare il morale del popolo e delle truppe statunitensi. E ciò spiega anche il carattere avventuroso, per certi versi, eroicamente improvvisato che lo caratterizzò, nonché l’ampia risonanza che non soltanto i giornali e la radio, ma anche il cinema diedero a questo primo bombardamento su Tokio [2].

Il Tenente Colonnello James Harold Doolittle, ideatore e conduttore del primo bombardamento su Tokio

Del valore simbolico dell’impresa era ben consapevole anche il 45enne tenente colonnello James Harold (Jimmy) Doolittle. Costui aveva iniziato la sua carriera di aviatore come istruttore di volo militare alla fine della prima guerra mondiale. Poi nel ’32, pur datosi al mondo degli affari, essendo appassionato di volo, aveva partecipato alle gare aeree di velocità, battendo il record mondiale di velocità. Aveva anche contribuito a inventare “il volo cieco”. Quindi rientrò nella United States Army Air Force e, visto il disastro di Pearl Horbour, concepì il piano del bombardamento su Tokio. E lo condusse personalmente. L’idea, però, di far decollare aerei con le dimensioni e il peso necessari allo scopo venne al capitano della marina Francis Low. Costui si era persuaso che, in particolari condizioni, un bombardiere bimotore avrebbe potuto farcela nonostante la limitata lunghezza del ponte di una portaerei.

Un’impresa disperata

Il 2 aprile del ’42, Doolittle e gli equipaggi dei 16 bombardieri B-25, a bordo della Hornet, iniziavano il loro pericolosissimo viaggio per andare ad effettuare il bombardamento su Tokio, dopo due mesi circa di duro addestramento. Per quanto preparati, però, la loro, era un’impresa consapevolmente azzardata. Erano assai di più le cose che potevano andare storte di quelle che si poteva pensare sarebbero andate per il giusto verso [3]. Infatti, la mattina del 18 aprile un aereo nemico avvistò la portaerei il cui ponte era occupato dai 16 B-25. Questa era accompagnata da un’altra portaerei la Enterprise, i cui caccia dovevano appunto proteggere la Hornet da eventuali attacchi giapponesi. L’aereo nipponico, in effetti, fu abbattuto, ma si ritenne che avesse fatto in tempo a dare l’allarme via radio. Benché fossero ancora a 370 km dal punto in cui i B-25 avrebbero dovuto decollare per andare a compiere il bombardamento su Tokio, Doolittle e il comandante della Hornet decisero che i bombardieri si alzassero immediatamente in volo.

L’esito del bombardamento su Tokio e il destino dei 16 bombardieri

L’aggiunta di quei quasi 400 km al loro percorso e il successivo peggioramento delle condizioni meteo ebbero conseguenze nefaste. I bombardieri riuscirono ad arrivare sui loro obiettivi (oltre che su Tokio il bombardamento doveva insistere anche su Yokohama, Kōbe, Osaka e Nagoya) e a sganciare le bombe, procurando in verità danni relativi (ma, come s’è visto, non erano i danni materiali che importavano al governo americano) e colpendo anche insediamenti civili, ma poi iniziarono i guai veri per loro. Il piano prevedeva che volassero sul Mare Cinese Orientale e che atterrassero in Cina, dove le forze antigiapponesi avevano allestito delle basi per accoglierli. Gli equipaggi, però, si resero conto che era quasi impossibile arrivare a quelle basi. Quindici equipaggi scelsero di lanciarsi col paracadute o di tentare un atterraggio di fortuna sulle coste cinesi. Un equipaggio, invece, nonostante il consiglio contrario di Doolittle, raggiunse Vladivostok, in Russia [4]. Doolittle e i suoi uomini, lanciatisi con il paracadute in Cina, vennero messi in salvo dal missionario americano John Birch. Ma due equipaggi, cioè 10 uomini ebbero un destino avverso. Due di essi perirono nel tentativo di atterrare, mentre altri 8 furono catturati e torturati dai soldati giapponesi. Di questi solo 4, pur terribilmente malridotti, sopravvissero alla prigionia. Tre, infatti, furono fucilati il 15 ottobre. Mentre uno morì a dicembre per gli abusi patiti. Doolittle temendo di aver perso tutti e 16 gli aerei e che i danni inflitti fossero minimi, pensava di meritarsi la corte marziale una volta tornato negli Stati Uniti, ma il successo della missione risollevò così tanto il morale americano che non vi furono esitazioni da parte di Roosevelt nell’insignirlo della Medal of Honor, né ve ne furono nel promuoverlo al grado di brigadiere generale, saltando il grado di colonnello. Gli furono assegnati, poi, i comandi della 12th Air Force in Nord Africa, la 15th Air Force nel Mediterraneo e l’8th Air Force in Inghilterra nei successivi tre anni [5]. I civili giapponesi che persero la vita o restarono ustionati o mutilati sotto quel bombardamento finirono, invece, nel dimenticatoio. Non erano altre che vite perdute nel delirio di sangue e fiamme generato dalle spinte nazionaliste e dall’odio che avevano stravolto il mondo, spazzandone l’umanità.

Alberto Quattrocolo

1] Dopo l’invasione giapponese della Cina, Roosevelt a Chicago, in un famoso discorso (“il discorso della quarantena“), aveva chiesto «una quarantena internazionale contro i Paesi aggressori», cioè un embargo generalizzato contro il Giappone, per la sua aggressione alla Cina e contro la Germania, e l’Italia, per la loro partecipazione alla guerra civile spagnola (e la Germania anche per la rioccupazione della Renania e l’Italia anche per l’invasione dell’Etiopia), in affiancamento alle forze franchiste intente a rovesciare il legittimo governo repubblicano. Il presidente americano disse che occorreva evitare che «il morbo» della guerra infettasse l’intero emisfero occidentale. Ma l’opinione pubblica reagì con tale disapprovazione per le sue parole, che da quel momento Roosevelt preferì tenere per sé le proprie convinzioni antifasciste.

[2] Hollywood, infatti, produsse ben tre kolossal diversamente celebrativi, ottimamente diretti e interpretati, i quali riscossero un impressionante successo commerciale in patria e in Inghilterra: Destinazione Tokio (1943, di Delmer Daves), sulla missione del sommergibile Coppefin (vedi nota 3), interpretato da Cary Grant e John Garfield, prodotto dalla Warner Bros.; Missione segreta (1944, di Mervyn Leroy), con Spencer Tracy nei panni di Doolittle, di Van Johnson in quelli del tenente Ted Lawson, di Robert Walker nei panni del caporale Dave Thatcher (vedi nota 5) e di Robert Mitchum in quelli del ten. Gray, prodotto dalla Metro Goldwyn Mayer; Prigionieri di Satana (1944, di Lewis Milestone), con Richard Conte, Dana Andrews e Farley Granger, nei panni di alcuni degli avieri che dopo il bombardamento vennero catturati dai giapponesi, prodotto dalla 20th Century Fox.

[3] . Già era stata quasi miracolosa la riuscita della missione svolta dal sommergibile Copperfin, che era riuscito ad entrare di nascosto nella baia della capitale giapponese, per fare i rilevamenti necessari al successivo bombardamento su Tokio

[4] Ma l’URSS aveva firmato con il Giappone un patto di non aggressione, perciò quel B-25 fu sequestrato e i membri dell’equipaggio vennero internati, per non provocare una reazione dei giapponesi. Nel 1943, però, furono trasferiti ad Ashgabat, in Turkmenistan, e qui il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, l’NKVD, rilasciò segretamente i piloti, i quali passarono Iran con l’aiuto di un contrabbandiere.

[5] Il mitragliere-ingegnere caporale Dave Thatcher ricevette la Silver Star, a tutti gli altri fu consegnata la Distinguished Flying Cross. Coloro che erano stati feriti (come il ten. Lawson, cui era stata amputata una gamba) o uccisi ricevettero la Purple Heart.

Fonti

Clayton K.S. Chun, Le grandi battaglie della seconda guerra mondiale. Il raid di Doolittle; Incursione aerea sul Giappone. Tokyo, 1942, RBA Italia Srl., Milano, 2008

Peter Herde, Pearl Harbor, Rizzoli, Milano, 1986

Basil Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2009

Carl Smith, Tora, tora, tora – Il giorno del disonore, RBA Italia Srl., Milano, 2009

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Il 1° aprile, il Mein Kampf e il boicottaggio nazista del commercio ebraico

Il 1° aprile decisamente non è un gran giorno del calendario per gli ebrei. Si commemora giustamente la Shoah il 27 gennaio, essendo stato liberato il 27 gennaio del 1945 il campo di sterminio nazista di Aushwitz dalle truppe sovietiche. Il 1° aprile, invece, non si collega ad alcuna liberazione, ma alla persecuzione degli ebrei d’Europa. E questa connessione si presentò due volte a distanza di 9 anni, in stretta relazione proprio con il percorso politico di Adolf Hitler, dalla sua incarcerazione, a seguito del fallito “Putch della Birreria“, fino alla nazificazione della Germania, avviata dal momento della sua presa del potere.

Il 1° aprile 1924 e il “Mein Kampf”

Il 1° aprile 1924 Hitler venne condannato a 5 anni di reclusione, a seguito del fallito “putch della Birreria“, il colpo di Stato che aveva tentato di realizzare a Monaco. Nel carcere di Landsberg, dov’era detenuto, iniziò immediatamente la stesura del “Mein Kampf”, scritto da Rudolph Hess sotto sua dettatura. La stesura del “Mein Kampf” proseguì ben oltre il 20 dicembre 1924, giorno della scarcerazione anticipata di Hitler. In realtà, pare che quand’era recluso, nella stesura del testo Hitler sia stato aiutato dal cappellano del carcere Bernhard Stempfle. Costui ne corresse ed eliminò molti errori, ovvietà infantili e passaggi eccessivamente prolissi. E pagò con la vita questo suo contributo. Finì, infatti, ucciso nella notte dei lunghi coltelli del 1934, così da evitare che potesse rivelare i limiti, come autore, di Hitler, nel frattempo diventato il Führer del Terzo Reich.

L’antisemitismo.

L’opera, iniziata in concomitanza con il suo ingresso in carcere in quel 1° aprile del ’24, proprio non poteva essere accusata di reticenza o elusività, rispetto alla ferocia dei progetti hitleriani. Nel “Mein Kampf”, Hitler, partendo dal falso storico dei protocolli dei Savi di Sion, sviluppò le sue tesi sull’esistenza di un «pericolo ebraico», cioè di una cospirazione ebraica internazionale, intesa a dominare il mondo. Non sono molte le opere che, come le pagine del “Mein Kampf”, offrono spunti così efficaci a chi fosse intenzionato a demonizzazione un gruppo di persone. Ad esempio, particolarmente “interessanti” sono le pagine in cui, dopo aver spiegato che egli era cresciuto con una mentalità liberale e tollerante, Hitler descriveva l’effetto che ebbe quando incontrò per la prima volta, a Vienna, un ebreo.

«Ma costui è tedesco?», raccontava, nel “Mein Kampf”, di essersi chiesto.

Quindi passava a narrare la sensazione di soffocamento provata a Vienna, per quella che chiamava

«la miscela di boemi, di polacchi, di ungheresi, di ruteni, di serbi, e di croati … e soprattutto quei funghi che prosperano sempre nelle crepe dell’umanità: ebrei, sempre ebrei».

Nel “Mein Kampf”, Hitler sosteneva che gli ebrei non erano che un peso per la società: dei parassiti, dei criminali per natura. E non lesinava allusioni a turpi ebrei che seducevano innocenti fanciulle inquinando il sangue della razza ariana. Ancora, più di vent’anni dopo quel 1° aprile del ’24, nel suo testamento politico, scritto poco prima di suicidarsi, Adolf Hitler, nella parte riservata all’appello ai posteri, denuncerà ancora il complotto giudaico internazionale, accusandolo di essere il vero e solo responsabile della Seconda Guerra Mondiale. Anche qui, come nel “Mein Kampf”, non mancheranno i ripetuti ed espliciti riferimenti alla finanza internazionale e a quelle che egli definiva le sue macchinazioni per corrompere la purezza della razza ariana.

L’anti-comunismo e l’anti-liberalismo

L’antisemitismo, inoltre, si collegava con l’anticomunismo e l’antiliberalismo. Nel “Mein Kampf”, infatti, Hitler rappresentava il comunismo e l’ebraismo come i due mali gemelli del mondo. Ma ce l’aveva anche e parecchio con la socialdemocrazia e i suoi rappresentanti. Non in quanto socialisti, ma in quanto democratici. Non a caso attaccava la concezione liberale dello Stato, di cui detestava sia il principio della divisione dei poteri sia il sistema parlamentare e gli altri principi fondamentali. Coerentemente nel “Mein Kampf” annunciava il suo proposito di totale cancellazione del sistema parlamentare. Come abbiamo ricordato in altri due post (Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione e La democrazia in fumo), Hitler raggiunse il potere proprio grazie al meccanismo della democrazia rappresentativa, cioè del sistema parlamentare di quella Repubblica che intendeva cancellare.

1° aprile 1933, il boicottaggio del commercio ebraico

C’era scritto tutto nel “Mein Kampf”. Tutto ciò che poi fu crudelmente e sanguinosamente realizzato. Però, a prenderlo sul serio, in Germania e all’estero, furono troppo pochi tra i già non molti non-nazisti che lessero quel testo. Ad esempio, sul piano dell’antisemitismo, i provvedimenti adottati fin da subito dal governo nazista e poi le di poco successive leggi razziali innegabilmente rispecchiavano con fedele precisione le idee espresse nel “Mein Kampf”. Il boicottaggio del  1 aprile 1933, si collocò proprio in questa cornice. E, del resto, anche in quella più ampia della nazificazione della Germania, che il nuovo governo intendeva inesorabilmente e immediatamente realizzare. Come abbiamo ricordato, rievocando l’incontro del 30 marzo tra Joseph Goebbels e il più ammirato regista del cinema tedesco, Fritz Lang (Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista), il partito nazionalsocialista non mirava solo al governo, ma intendeva plasmare la mente e lo spirito dei tedeschi. E intendeva farlo sia direttamente che indirettamente, cioè in modo più o meno velato [1].

La spontaneità artificiale del boicottaggio del 1° aprile 1933.

 Il Partito Nazionalsocialista (NSDAP), infatti, concepì il boicottaggio come parte rilevante di una massiccia campagna propagandistica antisemita, avente lo scopo di giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica interna ed internazionale, la necessità di adottare in Germania una legislazione restrittiva nei confronti degli ebrei. Tentò, pertanto, di far apparire questa campagna, accuratamente preparata dalla direzione del partito, come “spontanea”. Così, dovendo essere percepita come una manifestazione di popolare avversione nei confronti degli ebrei, nel comitato organizzativo del boicottaggio del 1 aprile 1933, costituitosi nominalmente il 29 marzo, si era deciso che non figurassero membri del governo [2].

Le azioni di boicottaggio antisemita del 1° aprile

Il comitato organizzò in tutte le città tedesche azioni di boicottaggio e soprusi vari contro il commercio e le altre attività svolte da ebrei. Le SA trascinavano professionisti e commercianti in strada per costringerli a sfilare con loro addobbandoli con cartelli denigratori. Facevano dei picchetti davanti ai negozi gestiti da ebrei, per impedire ai clienti di entrarvi, e diffondevano volantini sul dovere di ogni bravo cittadino di combattere la penetrazione ebraica nella vita economica tedesca. La Stella di David veniva dipinta in giallo e nero su migliaia di porte e finestre, con l’accompagnamento di slogan antisemiti. Sui muri erano appesi cartelli con scritte come:

«Die Juden sind unser Unglück!» («gli ebrei sono la nostra disgrazia»), «Kauf nicht bei Juden!» («non comprate dagli ebrei») e «Geh nach Palästina!» («tornate in Palestina»).

Joseph Goebbels: il governo prende atto di radicati sentimenti antisemiti nel popolo tedesco

Il governo ufficialmente non sostenne queste manifestazioni antisemite. Il ministro della Propaganda e della Cultura Popolare, Joseph  Goebbels, però, intento com’era ad organizzare meticolosamente l’immensa macchina della propaganda di regime, non trascurò di affermare, in un comizio al Lustgarten di Berlino, che il governo prendeva atto del fatto che il popolo tedesco nutriva radicati sentimenti antisemiti.

Il boicottaggio nazista del 1°aprile 1933 e l’escalation delle persecuzioni antisemite

Il boicottaggio nazista del commercio ebraico iniziato il 1º aprile 1933, nominalmente realizzato in risposta al boicottaggio ebraico di merci tedesche, avviato poco dopo il giuramento di Adolf Hitler come cancelliere, il 30 gennaio 1933, non ebbe, tuttavia, il successo sperato. Non inizialmente. Infatti, i tedeschi continuarono ad avvalersi dei prodotti e dei servizi offerti dalle imprese condotte da ebrei. Ma il boicottaggio del 1° aprile non fu che la prima delle tante misure persecutorie che il Terzo Reich adottò contro gli ebrei tedeschi prima di arrivare a sterminarli, potendo contare, a quel punto, sull’indifferenza o sul plauso del popolo tedesco . Questa iniziale campagna di persecuzione si sviluppò attraverso sempre più violente e frequenti vessazioni, arresti arbitrari, saccheggi sistematici, espropri di beni e attività degli ebrei a favore di membri del partito nazista, nonché con l’omicidio dei proprietari ebrei.

Tedesco = ariano; non-ariano = anti-tedesco

Una settimana dopo, il 7 aprile 1933, la legge per la restaurazione del servizio civile professionale limitò agli “ariani” l’occupazione nel settore pubblico, vietando di fatto ad ogni ebreo di prestare servizio come insegnante, professore, giudice, o di avere altri ruoli nella pubblica amministrazione. I dipendenti pubblici ebrei vennero licenziati, inclusi gli insegnanti, i docenti universitari e, poi, i medici . Nel 1935, le leggi di Norimberga tolsero a tutti gli ebrei la cittadinanza tedesca e stabilirono che:

«Una persona è da considerarsi non ariana se discende da non-ariani, e soprattutto da genitori o nonni ebrei. È sufficiente che un genitore o un nonno sia non-ariano. Questo deve essere assunto in particolare quando un genitore o un nonno era di religione ebraica».

In tal modo, non solo gli ebrei cessavano di essere tedeschi, ma si stabiliva che i soli veri tedeschi erano gli ariani e che essere non ariani equivaleva ad essere anti-tedeschi. In linea con tale assunto, prima del genocidio e dei relativi forni crematori, ci furono anche i roghi in piazza dei libri scritti da autori ebrei.

Alberto Quattrocolo

[1] Il boicottaggio antisemita del 1° aprile si svolse ad appena tre mesi dalla nomina di Hitler alla Cancelleria del Reich, e neanche un mese dopo elezioni che avevano confermato il Partito Nazista come la formazione politica più votata (44% dei voti) e avevano fornito una legittimazione elettorale definitiva ad Adolf Hitler, cui il presidente della Repubblica, l’anziano Hindenburg, per l’appunto, aveva già affidato il 30 gennaio l’incarico di cancelliere.

[2] Ne facevano parte, tuttavia membri di primo piano del NSDAP o di organizzazioni a quello collegate, tra i quali: Julius Streicher (il presidente), Robert Ley, Heinrich Himmler (riguardo al suo ruolo nell’Olocausto si vedano questo e quest’altro post, nonché quello sulla deportazione degli ebrei del ghetto di Roma), Hans Frank (abbiamo ricordato la sua parte nello sterminio degli ebrei polacchi nel post Quelli del ghetto di Varsavia). Si trattava di una mascherata che nessuno poteva prendere sul serio, visto che fin dal giorno dopo le elezioni di quel marzo del ’33 erano vertiginosamente cresciute le violenze dei nazisti ai danni degli ebrei, assassinii inclusi. Inoltre le SA avevano impedito agli avvocati ebrei di raggiungere le sedi dei tribunali.

Fonti

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962

www.lanzone.it/Shoah/Schede/boycot.htm

ww.it.wikipedia.org