Berlusconi pronuncia l’editto bulgaro

L’uso che Biagi… Come si chiama quell’altro? Santoro… Ma l’altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.
(Silvio Berlusconi, 18 aprile 2002)

Queste le parole che presero il nome di editto bulgaro. Un’espressione singolare, che entrò nell’uso comune a indicare una serie di fatti che coinvolsero l’allora Presidente del Consiglio e tre conduttori televisivi. Ma partiamo dalla locuzione in sé.

Secondo la Treccani, con editto s’intende un’ “ordinanza emanata da un’autorità, particolarmente in Roma antica”. Dunque, un ordine di un’istituzione. Daniele Luttazzi, comico satirico destinatario di tale pronuncia, preferì definirla ukase bulgaro, rinviando ai decreti dell’impero russo: il paragone col dispotismo zarista era chiaro. Più tardi, Simone Collini de l’Unità diede il suo contributo alla formula, creando l’espressione diktat bulgaro. Con tale locuzione è chiaro il riferimento alle atmosfere belliche: diktat indica spesso, infatti, i trattati di pace imposti alle nazioni sconfitte. Vale a dire, più in generale, “ogni imposizione unilaterale di volontà che esclude la possibilità di negoziati”.

L’aggettivo bulgaro poi, formalmente dovuto al luogo in cui fu pronunciato l’editto stesso, nasconde un significato analogo al primo termine. Riguardo la collocazione geografica, è facile il riferimento alla situazione geopolitica risalente ai regimi di socialismo reale, laddove il totalitarismo politico della seconda metà del ‘900 imponeva una significativa restrizione delle libertà e dei diritti civili. Di più, proprio il termine bulgaro acquisì, nel medesimo periodo, una connotazione di senso figurato relativa, ancora una volta, al blocco sovietico e alla sua politica chiusa e dogmatica. Si parla, infatti, di percentuali, maggioranze ed elezioni bulgare.

Quanto ai fatti, si svolsero perlopiù in seguito alle parole di Berlusconi. Di lì a poco, infatti, Il fatto, Sciuscià e Satirycon, i relativi programmi, tutti in onda su Rai1 e Rai2, furono cancellati. I conduttori, allontanati dall’azienda. A nulla valsero i soddisfacenti risultati in termini di ascolti e share: il ritorno in Rai sarebbe stato lungo e doloroso. Intanto, a poche ore di distanza dal diktat, Biagi, in apertura della propria trasmissione, lo commentò così:

Il presidente del Consiglio non trova niente di meglio che segnalare tre biechi individui: Santoro, Luttazzi e il sottoscritto. Quale sarebbe il reato? […]. Poi il presidente Berlusconi, siccome non intravede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione, lascerebbe intendere che dovrebbero togliere il disturbo […]. Lavoro qui in Rai dal 1961, ed è la prima volta che un Presidente del Consiglio decide il palinsesto […]. Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare a prezzo di certi patteggiamenti.

L’inconveniente tecnico e l’intervallo, per usare le parole del giornalista, durarono cinque anni: Biagi apparì nuovamente in Rai nell’aprile 2007, a pochi mesi dalla morte, avvenuta nel novembre seguente. Per Santoro, l’attesa fu leggermente più breve: Annozero andò in onda su Rai2 a fine 2006.

Infine, il comico. Ebbe sicuramente vita più difficile, considerando che, ad oggi, non è ancora tornato in Rai. Eccezion fatta, ovviamente, per quindici minuti di monologo in Rai per una notte, durante i quali recuperò ampiamente tutto il tempo perduto. Un buon esempio ne è il seguente passaggio, relativo al cosiddetto Trani-gate: 

L’uso che Minzolini… Come si chiama quell’altro? Masi… No, ma quell’altro… Berlusconi… hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso.

 

Alessio Gaggero

Il prezzo del conflitto: il mediatore familiare e “l’ostinazione” delle parti

Capita di frequente che il mediatore familiare si trovi davanti dei coniugi, che per giustificare il prezzo del conflitto che essi e i loro figli stanno pagando, si richiamano, esplicitamente ed implicitamente, ad alcuni principi (morali, religiosi o etici). E spesso lo fanno per spiegare la fondamentale correttezza e inevitabilità dei loro comportamenti.

Sul piano della relazione in corso in quel momento tra essi e il mediatore, non occorre particolare intuito per supporre che quei genitori, con le loro argomentazioni stiano cercando di ottenere da lui un’approvazione per le proprie azioni e per giustificare il prezzo del conflitto da quelle derivante.

Su un altro piano, però, le cose sono un po’ meno scontate. È il piano delle reazioni emotive, cognitive e comportamentali del mediatore di fronte alla concretezza di quel prezzo del conflitto che i due coniugi e i loro figli stanno sostenendo. Ciò apre, correlativamente, il discorso ai margini di manovra entro cui il mediatore si può muovere.

Prendiamo un caso concreto, gestito in uno dei nostri Servizi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti oltre 15 anni fa. Dopo aver svolto dei colloqui individuali (su questa rubrica, Riflessioni, ne abbiamo parlato nel post La mediazione come ascolto e confronto), come previsto dalla metodologia applicata dall’Associazione Me.Dia.Re., entrambi i coniugi, in fase di separazione, avevano espresso l’intenzione di incontrarsi al tavolo della mediazione per confrontarsi sulle loro divergenze radicali.

Il richiamo ai principi, da parte dei coniugi in conflitto, per sostenere la loro condotta e contestare quelle dell’altro

In quella sede uno dei coniugi si impegnava con energia nello spiegare le ragioni della propria condotta severa verso i figli e dell’adozione da parte sua di uno «stile educativo orientato ad una spiccata moderazione nei consumi». Insisteva fermamente sul valore pedagogico del rifiuto di «una mentalità (e di una società) fondata sull’apparire e sull’avere invece che sull’essere». L’altro genitore, che si sentiva attaccato sul piano morale da queste affermazioni, replicò: «non bisogna essere tirchi con i propri figli». E aggiunse: «la difficoltà nel comprare regali e pensierini ai figli, anche al di fuori di feste e compleanni, riflette la difficoltà di dare amore».

Si potrebbe pensare che entrambe le riflessioni in astratto siano valide, purché le condotte ad esse ispirate non sconfinino nell’esagerazione. Il punto è che entrambi i genitori giudicavano la condotta altrui come un’estremizzazione di valori e principi teoricamente condivisibili. E ciascuno dei due rispondeva alle critiche dell’altro con argomentazioni che, a volerle giudicare in un’ottica razionale, sarebbero suonate a dir poco stravaganti.

Non meno bizzarri, però, sono gli innumerevoli esempi della storia anche recente assai di cui sono protagoniste persone delle quali non si è messo in alcun modo in dubbio né l’intelligenza né la capacità di governare i propri sentimenti.

I genitori in conflitto non hanno l’esclusiva dell’irrazionalità del conflitto

Infatti, se si volge lo sguardo ad un panorama più ampio, forse, possono suonare un po’ meno stupefacenti le argomentazioni proposte, con rabbiosa e dolorosa fermezza, da quei due genitori. Entrambi i quali, in definitiva, cercavano di scaricare sulla responsabilità dell’altro l’esorbitante prezzo del conflitto.

In altri termini, se paiono irrazionali i ragionamenti e le prese di posizione conflittuali di quei genitori, occorre anche rammentare che non si tratta di un’irrazionalità di cui hanno l’esclusiva. Pensiamo, infatti, a quanto la logica del conflitto sia capace portare dei governanti, la cui tenuta emotiva non viene messa in forse, ad accettare il rischio di far corrispondere il prezzo del conflitto politico, in cui sono avviluppati, a milioni di persone e ad intere generazioni.

Così, tanto per dire, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Jimmy Carter, in un’intervista del 1998, ammise che era una menzogna la versione ufficiale secondo la quale gli USA avevano fornito aiuti militari all’opposizione afgana soltanto dopo l’invasione sovietica del ’79. Egli spiegò che gli aiuti statunitensi ai fondamentalisti islamici mujaheddin era iniziata sei mesi prima che l’esercito russo si muovesse e aveva proprio lo scopo preciso di favorire una decisione in tal senso da parte dell’URSS. Ebbene, quando a Brzezinski fu chiesto se rimpiangeva tale decisione, egli rispose:

«Rimpiangerla? Quell’operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di trascinare i russi nella trappola afghana (…) Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine scrissi al presidente Carter: “Abbiamo l’opportunità di dare ai russi la loro guerra del Vietnam”. In effetti Mosca ha dovuto portare avanti per quasi dieci anni una guerra che il governo non poteva sostenere, un conflitto che ha portato alla demoralizzazione e finalmente al crollo dell’impero sovietico» [1].

Se è opinabile che vi sia una connessione diretta tra la guerra condotta dai russi in Afghanistan e il crollo dell’URSS, è certo che quella guerra ha avuto dei costi impressionanti: un massacro di enormi proporzioni (oltre un milione di morti, 5 milioni di rifugiati e 3 milioni resi disabili); persone sottoposte a torture spaventose, incluse quelle commesse dai mujaheddin, che gli stessi funzionari americani definirono «orrori indescrivibili»; sofferenze inconcepibili procurate dal regime dei talebani. E sono certe la profondità e la durata delle conseguenze di quella guerra per quasi l’intero pianeta, visto che le rileviamo ancora oggi.

I genitori in conflitto non solo i soli ad anteporre le loro dinamiche conflittuali al benessere delle persone di cui devono prendersi cura

Se è naturale, a proposito della ricaduta negativa delle reciproche contrapposizioni tra i genitori sulla serenità dei figli, porre in luce come sia la loro mutua ostilità a determinare in concreto il prezzo del conflitto gravante sui loro bambini. Pensiamo a quanto accadde durante la trasmissione 60 Minutes del 12 maggio del 1996. In quell’occasione la giornalista Lesley Stahl, in relazione agli effetti delle sanzioni contro il regime di Saddam Hussein, aveva chiesto a Madeleine Albright, all’epoca ambasciatrice degli Stati uniti presso l’ONU, se la popolazione civile non stesse pagando un prezzo troppo alto. Era emerso infatti che quelle misure avevano causato la morte di mezzo milione di bambini iracheni e, quindi, più di quelli uccisi dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. La Albright rispose:

«Penso che sia una scelta molto difficile, ma il prezzo… noi riteniamo che il prezzo sia giusto».

Perché il prezzo del conflitto con Saddam Hussein era ritenuto giusto? Perché, secondo le previsioni, avrebbe consentito di acquisire determinati risultati: isolare politicamente ed economicamente il regime di un dittatore dalle mani fradice di sangue e ridurre la portata del consenso interno alla sua politica.

Le difficoltà del mediatore, consapevole del prezzo del conflitto, rispetto all’ostinazione delle parti

Tornando a quello specifico percorso di mediazione familiare, vale la pena ricordare che, una delle difficoltà incontrate da chi aveva il ruolo di mediare quel conflitto, consisteva proprio nel resistere alla tentazione di cercare di indurre i coniugi a rivedere criticamente il loro comportamento e i ragionamenti che vi erano sottesi. Il farlo, si sapeva, non sarebbe servito a nulla, se non a farli sentire giudicati e a determinare un probabile ulteriore irrigidimento (si veda il post La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto). Il mediatore lo sapeva, ma era troppo forte la pressione, che gli cresceva dentro, di farli ragionare sul costosissimo prezzo del loro conflitto. Cedette. E fallì.

Infatti, nel momento in cui vi fu un, appena percettibile, cedimento da parte del mediatore a questa tentazione, il coniuge cui era indirizzata questa implicita e discreta sollecitazione, in quel contesto, si sentì giudicato. E lo comunicò apertamente. Mentre l’altro coniuge si sentì dapprima spiazzato da un intervento che pareva dargli ragione o almeno supporto argomentativo. Poi, cercò di cavalcare quel vantaggio.

«…è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente…» (John Locke)

Una riflessione celebre su questo aspetto era stata svolta da John Locke nel “Saggio sull’Intelletto Umano”, pubblicato per la prima volta nel 1690, nel capitolo Sul grado dell’assenso. Ne riportiamo alcuni passi:

« (…) per gli uomini l’abbandonare le loro precedenti opinioni o il rinunciarvi (di fronte ad un argomento cui non possono immediatamente rispondere o di cui non possono dimostrare subito l’insufficienza) porta con sé un’imputazione troppo grave di ignoranza, di leggerezza o di stupidità (…)».

La citazione delle parole di Locke non vale ad esortare a tenersi alla larga dalle discussioni, ma a sottolineare come all’interno di un percorso di mediazione il tentativo di correggere il pensiero altrui comporti la concreta possibilità che l’altro si senta giudicato. E non è una sensazione che favorisce il sorgere di un sentimento di fiducia, né, ancor prima, la sensazione di essere accettati e riconosciuti per come si è, né la disponibilità a mettersi in discussione.

Recuperare la fiducia di quei genitori circa l’imparzialità e l’avalutatività dell’atteggiamento del mediatore (ne abbiamo parlato in questo post) non fu semplicissimo. Dovette “rispecchiare” ad entrambi che si erano sentiti osservati e valutati. Fu soltanto quando tra il mediatore e i coniugi si riparò la fiducia compromessa che quella mediazione riprese a “funzionare”, favorendo in entrambi i genitori la sensazione di essere compresi dal terzo. Ciò permise il prodursi, in entrambi, di un ripensamento autentico delle rigidità della loro contrapposizione e l’assunzione delle responsabilità sul prezzo del conflitto che l’intera famiglia aveva sopportato fino ad allora.

Il mediatore ebbe la conferma che, in fondo, non aveva avuto torto Locke nell’affermare:

«Faremmo bene (…) a non trattar subito gli altri da ostinati e perversi solo per il fatto che non rinunciano alle loro opinioni per accettare le nostre, o almeno quelle che vorremmo imporre loro, quando è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente nel non accettare alcune delle loro».

Alberto Quattrocolo

[1] Blum W., Con la scusa della libertà, Marco Troppa Editore s.r.l., Milano, 2002

 

Rielaborazione da:

 

1995, assassinio di Iqbal Masih, dodicenne attivista e sindacalista pakistano

Nel 1995, Iqbal Masih ha dodici anni. In alcune parti del mondo potrebbe essere un bambino. In Pakistan, dov’è nato, è già stato povero, schiavo, ribelle, sindacalista, attivista per i diritti dei bambini, celebrità internazionale. Il 16 aprile di quell’anno viene ucciso in una sparatoria dai contorni mai chiariti: alcuni testimoni parlano di proiettili esplosi da una macchina dai finestrini oscurati, la polizia locale attribuisce tutto sbrigativamente a “un contadino” con cui Iqbal aveva litigato; “complotto della mafia dei tappeti”, sentenzia il suo vecchio amico Ullah Khan, attivista e fondatore del Bonded Labour Liberation Front (BLLF).

Nato da famiglia poverissima in un piccolo paese rurale del Pakistan, quando il fratello maggiore, nel rispetto della tradizione locale, è spinto a sposarsi, il piccolo Iqbal diviene oggetto di una transazione commerciale piuttosto comune in quel contesto: il padre Sahif, che peraltro ha abbandonato la famiglia da tempo, non può sostenere le ingenti spese per il matrimonio, perciò ottiene un prestito di 600 rupie (circa 12 dollari) dal prestasoldi del paese, proprietario di una fabbrica tessile, in cambio di Iqbal, che all’epoca ha quattro o cinque anni e fornirà manodopera gratuita tessendo manualmente pregiati tappeti fino al ripianamento del debito. Si potrebbe parlare di riduzione in schiavitù e usura, considerato l’ammontare di interessi e “spese di mantenimento” che vanno a incrementare la cifra iniziale, ma per le consuetudini locali è semplicemente un paishgee, un prestito.

In quegli anni, i bambini pakistani che mantengono la famiglia con il loro lavoro superano gli otto milioni, con un’età media tra i dieci ed i quattordici anni, e il loro sfruttamento è tollerato; un ragazzo su cinque non viene nemmeno iscritto alle scuole, come Iqbal, mentre il 50% circa abbandona gli studi dopo pochi anni. Grazie a questi piccoli schiavi, l’economia del Paese cresce a ritmi vertiginosi, mentre un terzo della popolazione urbana continua a vivere sotto la soglia di povertà con tassi di mortalità infantile di circa il 15%.

Iqbal lavora 10-12 ore al giorno, i turni non conoscono soste per sei giorni a settimana; i bambini sono richiesti poiché le loro mani sono piccole e riescono a lavorare i tappeti più facilmente. Iqbal non è diverso dai tanti bambini lavoratori del suo paese.

La sua storia però diviene rapidamente emblematica e fa il giro del mondo. Tutto inizia il giorno in cui, nel 1992, un attivista del BLLF spiega ai ragazzi che lavorano alla fabbrica di tappeti che la loro condizione è illegale e potrebbero andarsene in qualsiasi momento: è la prima volta che Iqbal sente parlare di diritti. Quando il BLLF indice una manifestazione per i minori sfruttati, il bambino, che all’epoca ha nove anni, esce di nascosto dalla fabbrica per prendervi parte; quelle lotte condurranno, pochi mesi dopo, alla legge di abolizione dell’impiego di manovalanza coatta.

Iqbal rientra in fabbrica e rifiuta di tornare al lavoro, viene percosso e il padrone impone alla famiglia Masih un incremento cospicuo della cifra totale da restituire, pretendendo inoltre il rimborso dello scarso nutrimento fornito a Iqbal e i costi dei certi presunti errori di lavorazione.

Gli attivisti del BLLF non lasciano solo Iqbal: o la sua libertà, o una tempesta giudiziaria e a mezzo stampa contro il padrone. Ma per quest’ultimo lasciar andar via Iqbal significa perdere credibilità e mettere a rischio il consolidato approvvigionamento di manodopera a basso costo. Così, mentre Iqbal viene notato da Eshan Ullah Khan (leader del BLLF), per timore di rappresaglie la famiglia Masih decide di abbandonare il villaggio; Iqbal, ospitato in un ostello gestito dalla stessa organizzazione, porta i segni dello sfruttamento e delle pessime condizioni patite negli anni della fabbrica, e all’età di dieci anni ha la statura e il peso di un bimbo di sei.

Ricomincia a studiare senza interrompere il suo impegno di piccolo sindacalista. Dal ‘93, appoggiato da Ullah Khan, incomincia a viaggiare e partecipa a conferenze internazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti negati dei bambini lavoratori pakistani e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti internazionali dell’infanzia.

Nel ‘94 è a Stoccolma per partecipare a una campagna di boicottaggio dei tappeti pakistani, nel corso della quale afferma che “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite.”. In quello stesso anno, presso la Northeastern University di Boston, ottiene il premio Reebok Human Rights Award, nella categoria istituita a riguardo della sua giovanissima età, “Youth in Action”: con i 15.000 dollari ricevuti decide di finanziare una scuola in Pakistan. Rifiuta una borsa di studio che lo avrebbe condotto in America, per proseguire la sua campagna in patria.

Sia per la pressione internazionale che per l’attivismo locale, le autorità pakistane iniziano ad assumere provvedimenti, tra cui la chiusura di decine di fabbriche di tappeti, e circa tremila piccoli schiavi possono uscire dalla loro condizione. Nel febbraio ’95 Iqbal partecipa a un incontro dai toni aspri tra rappresentanti del BLLF e dell’industria dei tappeti, su invito del giornale The Nation.

Due mesi dopo viene ucciso, e le circostanze del delitto non sono mai state accertate. Iqbal diviene un simbolo internazionale della lotta contro il lavoro e lo sfruttamento minorile: nel 2000 gli sarà conferito alla memoria il premio World’s Children’s Prize per i diritti dei bambini e il 16 aprile è stato dichiarato Giornata contro la schiavitù infantile.

Secondo il rapporto Unicef  “I bambini che lavorano”, del 2007, nel mondo sono più di 150 milioni (215, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 2013) i bambini intrappolati in impieghi che mettono a rischio la loro salute mentale e fisica e li condannano ad una vita senza svago né istruzione. Concentrati prevalentemente in Asia, Africa e America Latina, milioni di bambini fra i 5 e i 15 anni (età minima di ammissione al lavoro stabilita dalla convenzione dell’OIL n. 138 del 1973) si alzano presto, mangiano un po’ di zuppa della sera prima e partono ad affrontare una giornata di lavoro che può durare anche 18 ore e che nel 50% dei casi è malsana e pericolosa.

L’Unicef considera due categorie di bambini lavoratori: a) quelli che aiutano all’interno della famiglia contadina o artigiana che lavora in proprio e, per povertà, mancanza di infrastrutture e tutele sociali, ha bisogno di braccia infantili; il minore può lavorare qualche ora e andare a scuola o in altri casi lavora tutto il tempo, ma non si può parlare di sfruttamento, solo di miseria; b) quelli che vengono sfruttati da un padrone, magari una multinazionale.

Si stima che 74 milioni di bambini siano impiegati in varie forme di lavoro pericoloso, come il lavoro in miniera, a contatto con sostanze chimiche e pesticidi agricoli o con macchinari pericolosi. Tra le peggiori forme di lavoro minorile rientrano il lavoro di strada, dalla raccolta di rifiuti da riciclare alla vendita di cibo e bevande, e lo sfruttamento sessuale a fini commerciali, che coinvolge un milione di bambini ogni anno. Una tipologia di lavoro minorile più di altre è caratterizzata dall’invisibilità e sfugge a una valutazione statistica: il lavoro domestico e familiare, in cui sono impiegate soprattutto le bambine.

È l’Asia il continente dove il lavoro infantile è non solo numericamente maggiore, ma rappresenta un vero modello produttivo: a parte il lavoro agricolo nell’ambito di un’economia familiare di sussistenza, i bambini asiatici si dedicano a ogni tipo di produzione, in genere nel settore cosiddetto informale, cioè del lavoro nero e di subappalto; contribuisce non poco a questo fenomeno la delocalizzazione operata dalle multinazionali occidentali in vari settori produttivi. In Asia si concentra il maggior numero di stati in cui il lavoro infantile, almeno oltre i 12 anni, è permesso. In Africa lavora un bambino su tre, prevalentemente nell’agricoltura familiare e nel piccolissimo commercio; il degrado dell’economia – con l’aumento del debito estero, la caduta dei prezzi dei prodotti di base e la riduzione delle spese sociali – ha favorito il lavoro infantile nel settore informale. In America Latina lavora il 15 – 20% dei bambini al di sotto dei 15 anni e non pochi di loro sono anche ragazzi di strada.

Sorprendono i dati dagli Stati Uniti, dove lavorerebbe il 28% dei ragazzi di meno di 15 anni, e dall’Europa, dove gli ultimi anni di crisi, con la riduzione dell’occupazione e quindi del reddito degli adulti, hanno portato a una ripresa del fenomeno anche nella stessa Gran Bretagna, che fu il primo paese a regolare il lavoro infantile nel 1833.

In Italia, secondo un recente rapporto di Save the Children, i bambini che lavorano sono il 5,2% del totale, nella fascia di età 7-15 anni, senza differenze di genere; tra i 260.000 pre-adolescenti lavoratori, si registra un rapporto con la scuola che non ha funzionato, oppure l’esigenza di far fronte da soli ai propri bisogni; fra i 30.000 compresi tra 14 e15 anni, ci sono moltissimi impegnati in lavori pericolosi e notturni, per i quali appare definitivamente compromessa ogni possibilità di andare a scuola gli studi, oltre ad avere inibito ogni piccolo spazio per il divertimento o il riposo. Il picco (18,4%) si registra fra i 14 e 15 anni, età di passaggio dalla scuola media a quella superiore, nella quale si materializza in Italia uno dei tassi di abbandono scolastico più elevati d’Europa.

Un minore su 4 lavora per periodi fino a un anno e c’è chi supera le 5 ore di lavoro quotidiano. La cerchia familiare è l’ambito nel quale si svolgono la maggior parte delle attività, ma esiste un 14% di minori che presta opera a persone estranee all’ambito familiare, perlopiù nella ristorazione. Ciò che emerge dalla ricerca è lo scarso valore delle attività svolte, che non possono essere messe a capitale per una futura professione. Meno della metà degli intervistati dichiara di ricevere un compenso e l’indagine mette in evidenza come la crisi economica in atto renda ancora meno negoziabili le condizioni di lavoro dei minori. Nonostante orari in alcuni casi pesantissimi, paghe risibili e rischi per la salute, la maggioranza dei minori raggiunti con la ricerca non ha la consapevolezza di essere sfruttata, e non sa nemmeno cosa sia un contratto di lavoro. Nell’indagine è stata ricostruita una mappatura delle aree a maggior rischio di lavoro minorile in Italia: il rischio più elevato è concentrato nel Mezzogiorno, ma non sono escluse zone del Centro-nord. Un monitoraggio nazionale del fenomeno, più volte invocato dalle associazioni del settore, ancora oggi non esiste.

Silvia Boverini

Fonti:
“Bambini e adolescenti. Quando il lavoro non nobilita”, www.larepubblica.it; www.it.wikipedia.org; “Iqbal aveva 150 milioni di fratelli” e G. Alessandroni, “Il tessitore dei diritti umani”, www.peacelink.it; “I bambini che lavorano”, Unicef, 2007; D. Lugli, “La schiavitù di oggi. Siamo uomini o caporali?”, www.azionenonviolenta.it; https://iqbalmasih.solidaridad.net; www.iltimone.org; A Giunti, “Lavoro minorile: l’Italia è il paese dei piccoli schiavi”, http://espresso.repubblica.it

L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa

L’ odio religioso fu un’arma che di cui si servì spietatamente Italia fascista nella sua opera di sottomissione del popolo libico, prima, e di quello dell’Etiopia, poi. In quest’ultima l’idea dei vertici militari italiani e di Mussolini era quella di impiegare, soprattutto come macellai furibondi, animati da un odio coltivato per anni, e non soltanto come impavidi combattenti, i libici musulmani. Questi, inseriti nella Divisione Libia, nel corso della lunghissima e sanguinosa occupazione italiana di quel Paese, avevano diversi motivi per nutrire un odio religioso, e non solo, nei confronti dei cristiani copti etiopici. Infatti, l’odio religioso era già stato utilizzato da parte del governo Mussolini e dei suoi vertici militari, nella repressione della resistenza libica all’occupazione italiana. Qui, infatti, gli strateghi italiani si erano serviti di cristiani eritrei dell’altopiano di Amhara, arruolati nelle truppe coloniali, per massacrare i rivoltosi libici [1].

La strumentalizzazione dell’ odio religioso tra cristiani e musulmani in Libia

In Libia, prima, in Etiopia, poi, il ricorso all’ odio religioso tra cristiani e musulmani fu deciso per rimediare agli insuccessi, alle lentezze o alle frustrazioni di conquiste che stentavano a compiersi a dispetto della superiorità negli armamenti e della totale violazione di ogni norma di diritto bellico da parte italiana.

Abbiamo già ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, che l’Italia aveva invaso la Libia nel 1911, portandovi orrore e morte. Ma l’impresa si era rivelata più complessa e incerta di quanto fosse stato previsto dal governo Giolitti, che aveva avviato questa conquista coloniale a spese dell’Impero ottomano (si veda anche il post: 18 ottobre 1912: l’armistizio e il macello “umanitario e sentimentale” in Libia). Le truppe italiane, infatti, erano state messe in serissima difficoltà dalla resistenza dei libici [2].

Massacri e deportazioni dei libici ai tempi di Giolitti

Giolitti stesso aveva ordinato dall’Italia di fucilare e deportare senza risparmio (si veda questo post). Così vennero massacrati sul posto migliaia di persone, e migliaia di altre furono deportate in strutture di detenzione in Italia (alle Tremiti, a Caserta, a Gaeta, a Favignana e su Ustica), molte delle quali arrestate a caso, anziani e bambini inclusi. In questi luoghi di detenzione i deportati morivano come le mosche [3]. Poiché questi comportamenti inutilmente crudeli alimentavano l’odio della popolazione, il controllo italiano del territorio libico si era ridotto alla sola fascia costiera, dove le truppe italiane si erano ritirate e venivano continuamente attaccate. Finita la Prima Guerra Mondiale, veniva avviata la riconquista della Libia, una sanguinaria impresa che si protraeva lungo tutti gli anni Venti e la cui conduzione, dalla fine di ottobre del 1922, passava nelle mani del governo Mussolini [4].

La ferocia della riconquista fascista della Libia

Per soffocare la resistenza ancora attiva in Cirenaica, il generale Graziani, nel 1930, fece deportare l’intera popolazione dell’altopiano del Gebel in campi di concentramento collocati sulla costa del golfo della Sirte: su 100.000 abitanti dell’altopiano cirenaico, morirono di violenze, stenti e malattie 60 000 persone, soprattutto donne e bambini. Un numero imprecisato morì durante le rappresaglie e l’operazione di deportazione.

L’uso dell’odio religioso delle truppe cristiano copte eritree nei confronti dei musulmani libici

Il governo Mussolini, però, aveva avuto anche l’idea di sfruttare a proprio vantaggio l’odio religioso. In particolare, aveva trasferito in Libia un contingente di ascari eritrei (l’Eritrea, di cui un terzo della popolazione era di religione cristiana copta, era una colonia italiana dagli anni 80 del XIX secolo, e gli ascari erano militari eritrei che facevano parte dei Regi Corpi Truppe Coloniali, le forze coloniali italiane in Africa), che erano cristiani copti, per utilizzarli contro i ribelli musulmani. Incaricati di mantenere l’ordine e di reprimere la ribellione libica, lo fecero spietatamente. L’ odio religioso nutrito dagli ascari eritrei nei confronti dei libici, di religione islamica, non soltanto rese ancor più dura la dominazione italiana in Libia, ma rimase impressa anche in quei libici che collaborarono con le forze di occupazione italiane.

 

Libici musulmani nell’occupazione dell’Etiopia cristiano-copta

I battaglioni amhara-eritrei, infatti, non risparmiarono alcuna energia nell’eseguire gli ordini dei loro comandanti italiani. E le sofferenze da essi inflitte al popolo libico erano ben note a quei libici che facevano parte del Regio Corpo Truppe Coloniali della Libia, quando, nel 1935, furono inseriti nei reggimenti di fanteria della “Divisione Libia”, sotto il comando del generale Guglielmo Nasi e di ufficiali italiani, in preparazione della guerra d’Etiopia [5]. Questo odio religioso si manifestava fin dal primo momento sul fronte meridionale dove il gen. Rodolfo Graziani tentava di portare a successo l’invasione dell’Impero etiope partendo dalla colonia della Somalia italiana [6].

15 aprile 1936 le truppe libiche contro le forze etiopi

Il 15 aprile del 1936, la divisione Libia veniva impiegata contro l’esercito etiopico, che, fin dall’ottobre del ’35, al momento dell’aggressione da parte dell’Italia (si veda il post Quando l’Italia portò l’orrore in Etiopia), teneva testa all’invasore italiano, nonostante questo potesse contare su armi e mezzi di gran lunga superiori e facesse ampio e crudele ricorso all’uso dei gas contro i combattenti e contro i civili (lo abbiamo ricordato qui). Lo scontro più cruento in quella battaglia si ebbe lungo il fiume Corràc, sul fronte meridionale, dove gli etiopici si erano fortificati e resistevano con accanimento, nonostante il ricorso degli italiani all’uso dei lanciafiamme e soprattutto dei mitragliamenti e dei bombardamenti aerei e dell’artiglieria, che non lesinavano neanche nell’uso dell’arsine (un gas infiammabile ed altamente tossico composto da arsenico ed idrogeno). Ma per battere gli etiopici e costringerli alla ritirata furono fondamentali i libici del I e del VII battaglione della Divisione Libia. Guadato il fiume ingrossato dalle piogge, tagliarono la via di fuga degli avversari. E li massacrarono.

«Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche» (Rodolfo Graziani)

Le truppe libiche fecero letteralmente scempio degli etiopici in rotta. La battaglia era costata loro 700 morti. Così sul terreno lasciarono 3000 cadaveri etiopici.

«Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche», scriveva in un telegramma il generale Rodolfo Graziani al ministro delle Colonie Alessandro Lessona e a Pietro Badoglio comandante del corpo di spedizione in Etiopia.

100 lire per arginare l ’odio religioso

Il generale Nasi, per tentare di fermare il massacro, prometteva 100 lire agli ascari libici per ogni prigioniero etiopico che avessero consegnato vivo. Ma era troppo tardi per poter contenere l’ odio religioso scatenato. Infatti, il massacro continuava. E proseguì anche a guerra finita, quando vennero condotte le operazioni di grande polizia coloniale contro i resti dell’esercito etiopico.

L’auto-assoluzione italiana rispetto all’uso dell’ odio religioso tra musulmani libici e cristiani etiopici

Il generale Nasi, che già aveva condotto all’assalto in Libia i battaglioni amhara-eritrei contro i mujaheddin musulmani, scrisse:

«Si tenga conto che gli ascari libici avevano dei vecchi conti da regolare contro gli etiopici, che in Libia con i battaglioni misti (amhara-eritrei), lasciarono nella popolazione un tremendo ricordo».

Parrebbe un “mea culpa” o almeno un “nostra culpa”, quello di Nasi, ma non lo è. Infatti, prosegue con un’argomentazione spudoratamente razzista che, almeno, nelle sue intenzioni, esonera da responsabilità gli italiani e la loro condotta cinica e crudele.

«Le truppe indigene, anche regolari, non fanno prigionieri, ma passano per le armi chi comunque è catturato, senza eccezione neanche per i feriti, perché non hanno quel sentimento dei popoli civili per i quali il ferito è sacro». Nasi evidentemente aveva rimosso i massacri di fattura italiana commessi in Libia e in Etiopia [7].

In realtà, Graziani aveva lucidamente stabilito di sfruttare l’ odio religioso nei confronti dei cristiani etiopi da parte degli islamici.

La manipolazione dell’ odio religioso dei musulmani Oromo contri i cristiani copti etiopici

L’Etiopia, uno degli Stati più antichi al mondo e l’unico dell’Africa subsahariana nel quale la religione cristiana era riuscita a resistere alla diffusione dell’Islam, la cui Chiesa era stata la prima a svilupparsi e a diffondere il messaggio cristiano ben prima che arrivassero i missionari europea, essendo sorta ben prima di tante cristianità ‘occidentali’, aveva al suo interno anche una minoranza musulmana. E su questa minoranza il governo fascista italiano contava non poco, sapendo che avrebbe potuto facilmente approfittare dell’odio religioso, alimentandolo se necessario[8]. Del resto, contro l’esercito etiope (cristiano) si era già efficacemente servito di interi battaglioni di musulmani Oromo.

Il tentativo di Graziani di ingraziarsi i musulmani per liquidare tutti i cristiani etiopici

L’11 ottobre 1936, nel frattempo divenuto Viceré, Graziani, già famoso per la crudeltà riversata sui libici islamici, promise ai musulmani etiopici la costruzione di una nuova moschea ad Adis Abeba, l’apertura di scuole e centri culturali islamici ovunque fosse presente una popolazione musulmana, e la trasformazione di Harar, città sacra dei musulmani d’Etiopia, in un grande centro per lo studio della civiltà islamica e del Corano [9]. Ovviamente, non si trattava di un tentativo di contenimento dell’ odio religioso ed etnico tra la minoranza musulmana e la maggioranza cristiano copta, dato che Graziani con un telegramma raccomandava al governo Mussolini di

«Perseguire sempre più decisamente politica musulmana mettendo gradatamente fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneamente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio».

Mussolini, il Protettore dell’Islam

Il 18 marzo del ’37, Mussolini, in visita in Libia, durante una cerimonia accuratamente preparata, ricevuta la Spada dell’Islam, in qualità di Protettore dell’Islam, dalle mani del capo berbero Jusuf Kerbisch, grandi sostenitori dell’alleanza con gli italiani, disse solennemente:

«L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».

Quanto fosse autentica questa amicizia, oltre che pensando al sangue libico versato dai fascisti italiani, lo si può apprezzare, ponendo mente a quel che nell’aprile del ’37, il Graziani scriveva al generale Pietro Maletti. Definiti i cristiani copti come «infidi», e i musulmani come elementi «di sicura fede» verso l’Italia fascista, aggiungeva:

«I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».

Va ricordato che l’imperatore etiope Hailé Selassié, quando poté tornare in Etiopia, ordinò al suo popolo di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite:

«In modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case…».

Il vecchio imperatore sollecitava i suoi sudditi a non fare agli italiani quel che gli italiani, per ordine di Mussolini e, spesso, spontaneamente, ma con la sua approvazione, avevano fatto agli etiopici (si vedano ancora i post La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana e Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi).

Alberto Quattrocolo

[1]L’Eritrea fu la prima colonia che l’Italia acquisì in Africa.

[2] La violenza feroce dispiegata dagli italiani non era servita a sottomettere i libici, i quali, del resto, visti i propositi dell’invasore, non potevano accoglierli come liberatori dalla dominazione turca. I beduini, poi, erano corsi ad arruolarsi nelle file dei ribelli per vendicare i parenti e gli amici assassinati dagli italiani con fucilazioni, impiccagioni e massacri vari. La successiva reazione del governo liberale italiano era stata all’insegna della rappresaglia più spietata.

[3] Ad Ustica, ad esempio, il colera uccise nelle prime settimane 500 deportati. Non migliore sorte ebbero coloro che furono deportati altrove. Si consideri che soltanto tra il 25 e 30 ottobre 1911 almeno quattromila furono rinchiusi alle Tremiti.

[4] Il governatore Pietro Badoglio tra il 1930 ed il 1931, affidava il comando delle truppe al generale Rodolfo Graziani, che si avvaleva della cavalleria indigena e dei meharisti integrati nelle “colonne mobili” e riportava importanti conquiste, sicché restavano soltanto da sterminare i ribelli della Cirenaica.

[5] Alle dipendenze di Nasi erano stati posti, infatti, un reggimento di fanteria d’Africa, formato da italiani, e due reggimenti di fanteria libica, formati da battaglioni del Regio Corpo Truppe Coloniali della Libia, quindi con truppa libica e ufficiali italiani

[6] La loro ostilità, infatti, non era indirizzata verso gli italiani, che si erano serviti delle truppe amhara eritree per sottometterli, ma verso i cristiani copti abissini. Del resto, i libici erano arruolati dagli italiani e da questi erano pagati, sicché la loro sete di vendetta si volgeva verso quei cristiani copti provenienti dall’Africa Orientale che tante violenze avevano commesso nei confronti delle loro famiglie.

[7] Come abbiamo visto in altri post su Corsi e Ricorsi, mai gli italiani nel corso delle loro invasioni della Libia e dell’Etiopia avevano dato prova di alcun sentimento dei popoli civili, visto che non si erano fatti scrupoli nel massacrare con qualsiasi mezzo uomini e donne, anziani e bambini, oltre che coloro che si opponevano con le armi alla loro invasione, feriti inclusi.

[8] I musulmani dell’Impero etiopico, in effetti, avevano visto nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani.

[9] Graziani dichiarò che aveva imparato a conoscere e apprezzare la ‘razza’ araba durante i quattordici anni trascorsi in Libia.

Fonti

Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, Roma, 1996

Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano 1997

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005,

Alberto Elli, Storia della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia, Edizioni Terra Santa, 2017

Nicola La Banca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Il Mulino, Bologna, 2011

Frank Serpico e quegli altri soli contro tutti

Sette anni fa, Frank Serpico disse a Paolo Mastrolilli de La Stampa:

«Mi accolgono meglio all’estero che nella mia città. Una volta ero a Roma, e una signora mi venne incontro. Pronunciò solo due parole: “È vero!”. […]. La gente pensa ancora che io sia solo un film».

Frank Serpico non è Al Pacino

In effetti, è quasi impossibile non associare il nome di Serpico al film di Sidney Lumet (Serpico, 1973) e soprattutto alla straordinaria interpretazione che ne diede Al Pacino, candidato all’Oscar e vincitore del Golden Globe e del David di Donatelle per quel ruolo [1].

In anni più recenti Frank Serpico sulla prestazione di Al Pacino ha detto:

«interpretò Serpico molto meglio di quanto abbia fatto io nella realtà» [2].

Frank Serpico, però, è un essere umano vero. Una persona reale. È nato il 14 aprile del 1936, a New York. Suo padre, Vincenzo, calzolaio, era originario di Marigliano, in provincia di Napoli, come sua madre Maria Giovanna. Ma lei era nata in America. Poi era rientrata in Italia, quindi era ripartita per gli Stati Uniti quando era già incinta del suo primo figlio. Venne battezzato come Francesco Vincent, in una chiesa del Bronx, dove vivevano i suoi genitori e dove egli crebbe, ma presto il suo nome divenne per tutti Frank. Per tutti, ma non per i suoi colleghi poliziotti di New York. Per costoro diventò unrat”, un topo di fogna, un traditore.

Fin da bambino Frank Serpico voleva diventare poliziotto

Quand’era bambino Frank Serpico sognava ad occhi aperti che da grande avrebbe fatto il poliziotto. Arruolatosi diciottenne nell’esercito, fu destinato per due anni in Corea, una volta congedato, finì il college, lavorando part-time come detective privato. Poi nel ’59, finalmente, concretizzò il suo sogno. A ventitré anni, entrato nel dipartimento di polizia di New York, esordì con la sua divisa blu nelle strade del Bronx, all’81° Distretto, quello che veniva soprannominato “Fort Apache”. Qui, subito si scontrò con la differenza tra la sua idealizzazione e la realtà. Questa era assai più prosaica di come l’aveva immaginata da bambino. Immediatamente, infatti, iniziò a rendersi conto di quanto i suoi colleghi fossero propensi all’uso arbitrario della forza, a maltrattare i fermati, specie se appartenenti a minoranze, e quanto fossero diffuse tra di loro la negligenza e la propensione a lasciarsi corrompere. Resistette per due anni, poi, accolse di buon grado il trasferimento al Bureau of Criminal Identification, dove si occupava soprattutto dell’identificazione delle impronte digitali. Un lavoro monotono e alienante che durò circa 4 anni.

«È una cosa buffa, ma io mi sento un criminale perché non prendo i soldi»

Nel ’65, infatti, venne trasferito al 70° Distretto. Doveva lavorare in borghese. Anche qui, però, i colleghi erano particolarmente propensi all’estorsione di bustarelle, non disdegnando la violenza. E la stessa aria tirava al 90° Distretto. Fino ad allora Serpico si era limitato a rifiutare le bustarelle e a svolgere con impegno e con uno spiccato spirito di iniziativa il suo lavoro, alienandosi le simpatie di colleghi più interessati ad arrangiarsi e ad arrotondare illecitamente lo stipendio che al servizio.

Ma la corruzione organizzata e sistematica riscontrata all’interno del distretto lo portarono a rivolgersi al comandante di polizia Cornelius J. Behan, con cui aveva studiato anni prima all’università. Costui riuscì a farlo trasferire al 7° Distretto, assicurandogli che era cristallino.

L’informazione, però, era alquanto errata. I suoi colleghi del 7°, invece, avevano ricevuto un’informazione corretta su di lui: Frank Serpico non accettava mazzette. E ciò lo rendeva sospetto.

Nel film di Sidney Lumet, il Frank Serpico interpretato da Al Pacino spiega alla sua ragazza:

«È una cosa buffa, ma io mi sento un criminale perché non prendo i soldi».

La rivolta di Frank Serpico

Serpico e gli altri poliziotti avrebbero dovuto combattere il traffico di droga e i giri delle scommesse clandestine. I suoi colleghi, però, facevano accordi con i criminali e li lasciavano operare, in cambio di mazzette e di forniture gratuite di stupefacenti. Serpico decise di fare giustizia. Trovato un appoggio nel collega David Durk, tenne duro nonostante il fallimento di diversi tentativi di denunciare il malaffare diffuso tra i poliziotti ai suoi superiori, a partire dal commissario John F. Walsh fino al sindaco di New York, John Lindsay. Poi, rientrando da un viaggio in Europa, sperimentò sulla propria pelle un palese tentativo di intimidazione. La polizia doganale di New York lo sottopose senza motivo ad un pesante interrogatorio. Invece, di lasciarsi intimidire, Serpico, dato l’esito infruttuoso dei tentativi più istituzionali di denunciare la corruzione, decise di rivolgersi al New York Times. Ottenne così che le informazioni che aveva raccolto sulla corruzione nel dipartimento di polizia divenissero di pubblico dominio, suscitando lo scalpore da egli auspicato e la reazione politica che si attendeva: John Lindsay si trovò costretto a incaricare il giudice Whittmann Knapp di presiedere un’apposita commissione d’inchiesta.

«Ogni volta che schiudo una porta, vedo la canna della pistola che mi sparò in faccia».

Nel 2010 raccontò:

«Ho ancora incubi. Ogni volta che schiudo una porta, vedo la canna della pistola che mi sparò in faccia».

La notte del 3 febbraio del ’71, infatti, entrò in un edificio di Brooklyn per fermare lo scambio di 10 chili di eroina. Lo spacciatore gli sparò in faccia.

I colleghi, però, non si mossero e, invece di invocare nei walkie-talkie e nelle autoradio il “Codice 10-13”, (agente a terra colpito), restarono fermi. Fu un vecchio, un immigrato clandestino messicano, che da un appartamento vicino chiamò i soccorsi. Finalmente un’autopattuglia lo piazzò sul sedile posteriore e lo portò al Greenpoint Hospital. Il proiettile era penetrato nella guancia sinistra. Uno dei frammenti si era fermato a mezzo centimetro dalla carotide. Serpico rimase sordo all’orecchio sinistro e con dei frammenti di proiettile in testa, che sono ancora lì da quasi cinquant’anni.

La testimonianza di Serpico davanti alla Commissione Knapp

Qualche mese dopo Serpico testimoniò di fronte alla Commissione Knapp. Concluse con questa dichiarazione

«Grazie alla mia testimonianza di oggi, spero che gli agenti di polizia in futuro non debbano più sperimentare le stesse frustrazioni e ansie che sono toccate a me durante gli ultimi 5 anni, a opera dei miei superiori e come conseguenza dei tentativi da me compiuti di denunciare la corruzione. Mi è stato fatto chiaramente capire che io avevo affidato ai miei superiori un compito indesiderato. E, a tutt’oggi, il problema resta lo stesso: manca un’atmosfera in cui un funzionario di polizia onesto possa agire senza paura di incorrere nel ridicolo o nelle rappresaglie dei suoi colleghi. In altre parole, si è venuta a creare un’atmosfera tale per cui l’agente onesto teme il disonesto, anziché avvenire l’opposto, come dovrebbe» [3].

Quelli per cui Frank Serpico è un traditore, un “Serpirat”

Frank Serpico lasciò la divisa, con una medaglia d’onore, la placca d’oro di detective e una pensione di invalidità. Collaborò con Peter Maas alla scrittura del libro su di lui, e i diritti d’autore gli assicurarono una più che dignitosa sicurezza economica.

Il best seller di Peter Maas nel ’73 divenne il film di Lumet, ma per diversi anni Frank Serpico non se la sentì di guardarlo [4].

Nel novembre del 2012, l’ex detective,76enne, ritiratosi a vivere nella campagna a nord di New York, dopo aver soggiornato in Svizzera, apprese che David Durk, il suo alleato nella lotta per denuncia della corruzione al Dipartimento, era morto. Frank Serpico non lesse soltanto gli elogi funebri sui giornali, ma anche i commenti sui siti internet frequentati da poliziotti. Frequentati, quindi, anche da quelli che ancora oggi lo odiano. Uno diceva:

«Segui il tuo mentore, ratto schifoso». Un altro inventava un neologismo «Serpirat!».

Serpico spiegò:

«Il problema è che molti cercano ancora di distruggere l’onore di quanto ho fatto. Personalmente mi interessa poco, ma non posso lasciare che i giovani crescano pensando che chi fa il proprio dovere, chi denuncia la corruzione, è un traditore malfattore».

Quelli come Frank Serpico: soli contro tutti

La vicenda di Serpico, che fu intervistato anche da Enzo Biagi, come accennato, interessò moltissimo il regista Sidney Lumet. Questi, era, sì un regista, ma anche un intellettuale, interessato all’esplorazione di temi quali la giustizia, la responsabilità individuale, il razzismo e il conformismo. Inoltre, come tantissimi liberal era ancora dilaniato dalla vergognosa piaga del maccartismo (ne abbiamo parlato più volte nelle rubrica Corsi e Ricorsi, e in maniera più estesa nel post A cavallo della paranoia).

L’atmosfera maccartista, la campagna di Nixon su “Legge e Ordine e il caso di Daniel Ellsberg

Un clima maccartista si era riproposto, in quei primi anni Settanta, sotto la presidenza del repubblicano Richard M. Nixon, con la sua lista segreta di persone invise al presidente (l’abbiamo ricordata nel post Paul Newman, un uomo oggi[5]. E durante il maccartismo chi si ergeva contro quella paranoica caccia alle streghe si trovava davvero solo contro tutti.

L’esperienza di Serpico ricordava anche quella di Daniel Ellsberg, il funzionario del Ministero della Difesa, che tra il ’69 e il ’71 fotocopiò 7000 pagine coperte dal segreto di Stato, sulle strategie del governo americano in Vietnam (i cosiddetti Pentagon Papers), e le consegnò al New York Times. Anch’egli aveva deciso che andava messa in piazza la verità, per scomoda, imbarazzante e politicamente esplosiva che fosse. Lo decise e lo fece, anche se ciò implicava sentirsi definire una minaccia per la sicurezza del Paese e rischiare di essere accusato di spionaggio e tradimento e, per queste gravissime ipotesi di reato, condannato.

Il parallelo con la vicenda dei Pentagon Papers di Ellsberg pone in rilievo anche la dimensione del complesso intreccio di connivenza, omertà, complicità e interessi politici contro cui sbatteva la determinata onestà di Frank Serpico. Non va trascurato, inoltre che erano, quelli, gli anni in cui Richard Nixon aveva svolto e vinto la campagna elettorale proponendosi come il paladino della «della legge e dell’ordine». E ciò imponeva che non vi fossero deviazioni dalla linea dura verso la criminalità urbana e dal sostegno incondizionato alle forze di polizia.

Ambrosoli e Ilaria Cucchi: anche loro soli contro tutti

Ma la lotta di Serpico contro la corruzione e la reazione punitiva che si scatenò contro di lui, potrebbero far pensare anche a fatti del nostro Paese. Ad esempio, alla battaglia di Giorgio Ambrosoli per la verità e la legalità (lo abbiamo ricordato qui)  Anche nei confronti di Ambrosoli, prima di ucciderlo, furono realizzati diversi tentativi di fermarlo, perché rappresentava un pericolo non soltanto per Sindona. La sua attività costituiva un fattore di destabilizzazione per il sistema finanziario e politico marcio che stava scoperchiando. Come ebbe a dire Serpico riguardo alla propria esperienza:

«Ho rotto una macchina da soldi perfettamente oliata. E non parliamo di qualche dollaro. Un capitano ha dichiarato: “Se non fosse per quel figlio di puttana di Serpico oggi sarei milionario”. Mi accusano di aver buttato un sasso negli ingranaggi, di aver rovinato l’immagine del mio Paese per aver esposto il giro di mazzette. Ma quelli che parlano così sono parte del problema. Sono gli stessi che mangiano grazie alla corruzione».

Venendo ai giorni nostri, un’altra associazione mentale è quella con il caso di Stefano Cucchi.

L’ex-poliziotto di New York commentò i tentativi di demolizione della sua reputazione con queste parole:

«Intaccare la credibilità di chi non si fa comprare è una pratica diffusa per screditare i nemici»

In queste parole viene riassunto ciò che ha implicato la lotta decennale svolta dalla sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, contro alte muraglie di silenzi e di depistaggi e contro costanti e pesantissimi tentativi di delegittimazione [6]. Il tema dell’isolamento dell’agente onesto, che arriva a temere quello disonesto, esplicitato da Frank Serpico davanti alla commissione Knapp, riecheggia nella testimonianza resa dal carabiniere Francesco Tedesco sui maltrattamenti subiti da Stefano Cucchi. L’8 aprile del 2019, Tedesco ha spiegato in tribunale quanto accaduto la notte del 15 ottobre 2009 e i successivi tentativi di depistaggio e di costringerlo al silenzio.

«Dire che ebbi paura è poco: ero letteralmente terrorizzato», ha detto Tedesco in aula. «Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato».

Alberto Quattrocolo

[1] Serpico (1973, di Sidney Lumet) si collocava in una cornice cinematografica precisa. Infatti, fin dagli anni Quaranta, Hollywood, accanto ad opere celebrative dell’attività delle forze dell’ordine contro il crimine, aveva prodotto una nutrita serie di pellicole che esploravano il fenomeno della corruzione e degli abusi delle forze dell’ordine. In alcune il protagonista era un poliziotto onesto e corretto in lotta contro la criminalità organizzata, e le sue coperture politiche, e contro la corruzione di alcuni o molti colleghi. Tra le più note si possono ricordare: La gang (1951, di John Cromwell), Furore sulla citta (1952, di William Dieterle) e Il grande caldo (1953, di Fritz Lang). Quest’ultimo esplorava il tema preferito dal regista, la vendetta, ponendo come protagonista un poliziotto, in lotta contro un boss e contro i colleghi collusi con esso. Altri film avevano come protagonisti dei poliziotti anti-eroi, o addirittura criminali. Ad esempio, Sui marciapiedi (1950, di Otto Preminger) e Neve rossa (1952, di Nicholas Ray) avevano portato sullo schermo dei poliziotti brutali o perfino sadici, il cui contatto con il crimine e la violenza li contagiava fino a renderli disumani. Sciacalli nell’ombra (1951, di Joseph Losey), frutto della collaborazione tra due vittime del maccartismo (il regista, Losey, e lo sceneggiatore Dalton Trumbo), tratteggiava una figura di poliziotto assassino, intento a perseguitare una donna. Mentre Criminale di turno (1954, di Richard Quine), Il colpevole è tra noi (1954, di Howard Koch e Edmond O’Brien), Senza scampo (1954, di Roy Rowland) e Trappola mortale (1965, di Burt Kennedy) portavano sullo schermo figure di poliziotti che non si facevano troppo scrupoli nel commettere crimini, pur di realizzare i loro sogni di affermazione borghese e di assicurarsi il possesso dei relativi status symbol. Il film di Lumet su Frank Serpico, però, rientrava anche nella rinascita del cinema poliziesco, che, inauguratasi con La calda dell’ispettore Tibbs (1967, di Norman Jewison), di cui abbiamo parlato qui, stava sviluppandosi lungo gli Anni Settanta, con un tale successo commerciale da spingere anche le emittenti televisive ad investire in questo genere (ne sortirono serie di enorme presa sul pubblico come quelle di Starsky e Hutch, di Kojak, di Hill Street –giorno e notte, ecc.). Tale revival del genere poliziesco nelle sale cinematografiche aveva visto emergere tre diversi filoni. Da un lato, film intenti a promuovere un messaggio garantista e legalitario, in cui si esplorava la disumanità e l’inefficacia dei metodi brutali dispiegati dai poliziotti, per promuovere l’idea che il rispetto delle garanzie dei sospettati assicurava maggiori possibilità di pervenire alla verità dei fatti indagati e a fare davvero giustizia. In tale ciclo si collocavano successi di cassetta quali il sopra citato film di Jewison, interpretato da Sidney Poitier, nonché Inchiesta pericolosa (1968, di Gordon Douglas), interpretato da Frank Sinatra, nei panni di un investigatore onesto e leale, che induce con estenuanti pressioni psicologiche un uomo a confessare un omicidio, per poi scoprirne l’innocenza, mettersi in discussione e riuscire a scoprire il vero criminale. L’altro filone, invece, glorificava la figura del poliziotto, ponendone in luce la lotta solitaria contro il crimine e contro l’indulgenza della legge e dei tribunali. Il film più emblematico è costituito da Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (1971, di Don Siegel). Queste pellicole riscuotevano un notevole successo commerciale ed erano prodotte in maggior numero rispetto a quelle “garantiste”, anche se spesso con budget contenuti. Il terzo filone costituiva una via di mezzo tra le due opposte tendenze descritte, talvolta con esiti volutamente ambigui. Appartenenti a questo filone erano film di immenso successo come L’uomo dalla cravatta di cuoio (che ispirò la serie televisiva Uno sceriffo a New York) e Squadra omicidi, sparate a vista (che generò la serie TV Madigan), entrambi di Don Siegel, e Bullit (di Peter Yates), tutti e tre del ’68, e Il braccio violento della legge (1972, di William Friedkin). Anche Sidney Lumet, prima del film dedicato a Frank Serpico, si era cimentato con Riflessi in uno specchio scuro (1972). In quest’opera, di ambientazione inglese, Sean Connery interpretava un poliziotto, onesto ma impulsivo e tormentato, che, per indurlo a confessare, picchiava a morte un uomo innocente sospettato di pedofilia. Prima di Serpico, però, un solo altro film aveva offerto uno sguardo così totalmente pessimista sulle forze di polizia: Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, di Elio Petri). Questo film, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 23º Festival di Cannes e del Premio Oscar al miglior film straniero nel 1971 (nonché candidato per la migliore sceneggiatura originale agli Oscar dell’anno successivo), aveva avuto una grossa risonanza internazionale, ma, a differenza del film di Lumet, sviluppava la sua denuncia su di un registro maggiormente politico e con uno stile più incline al grottesco che al severo realismo. Il registro realistico e di denuncia, però, era totalmente assente nella serie televisiva Serpico, di 15 episodi, trasmessa tra il ’76 e il ’77, generata dal successo commerciale del film con Al Pacino. Va annotato infine che Sidney Lumet restò nei paraggi di Serpico con il successivo Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), che lo vide dirigere nuovamente Al Pacino, questa volta, però, nei panni di un rapinatore. La pellicola, ispirata ad un fatto reale, non offriva certo un’immagine tranquillizzante dell’operato delle forze di polizia.

[2] Anche Al Pacino è di origini italiane (i genitori erano figli di immigrati siciliani) e, come Frank Serpico, è nato e cresciuto in una zona difficile di New York: ad East Harlem

[3] Numerosi testimoni deposero davanti alla Commissione Knapp, e molti furono gli agenti condannati per corruzione e tangenti. La commissione diede poi vita a una serie di iniziative di “pulizia” del dipartimento di polizia

[4] Nel dicembre del 2017 fu presentato al Tribeca Film Festival di New York il documentario Frank Serpico di Antonino d’Ambrosio, realizzato con la collaborazione dell’ex poliziotto.

[5] Come Frank Serpico e gli altri poliziotti onesti, isolati e minacciati dai loro colleghi, nonché costretti al silenzio dai loro superiori, così, in termini più vasti, vent’anni prima, nell’epoca maccartista, venivano emarginate e considerate perfino filocomuniste, cioè sovversive, le poche persone che si indignavano per «quell’ondata di fascismo». Esse venivano azzittite o almeno delegittimate dalla convinta reazione di chi era contagiato dalla paranoia anticomunista ed osteggiate da chi suggeriva un atteggiamento omertoso, scaturito dalla paura di mettersi contro la maggioranza e la mentalità dominante. Marginalmente si fa notare che lo sceneggiatore di Serpico (1973, di Sidney Lumet), Waldo Salt, negli anni del maccartismo non sfuggì alla lista nera e fu costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Nel 1938, infatti, convinto che fosse l’unica vera organizzazione politica antifascista e antinazista, si era iscritto al Partito Comunista Americano, uscendone poi con la firma del patto Ribbentrop-Molotov. Salt rientrò negli USA, dopo la fine del maccartismo e si meritò due Oscar, uno per Un uomo da marciapiede (1970, di John Schlesinger) e l’altro per Tornando a casa (1978, di Hal Ashby), di cui abbiamo parlato nel Tornando a casa per fare i conti con se stessi.

[6] Provenissero da politici di alto livello, da giornalisti, commentatori e opinionisti, oppure da cittadini comuni sui social, questi attacchi, tesi a screditare Ilaria Cucchi, non risparmiavano il piano degli affetti famigliari e includevano i tentativi di trasformare il fratello da vittima in colpevole (in quanto tossicodipendente e autore di illeciti).

 

Fonti

Gualtiero De Santi, Sidney Lumet, Editrice Il Castoro s.r.l, 1987

Peter Maas, Serpico, Rizzoli, Milano, 1973

https://www.taxidrivers.it/90644/festival/tribeca-film-festival-frank-serpico-antonino-dambrosio.html

https://www.lastampa.it/2012/12/24/esteri/serpico-al-pacino-interpreto-il-mio-personaggio-meglio-di-me-yS4gyFDrvjMrohWnn5iI3O/pagina.html

http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201001articoli/51567girata.asp

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/15/parla-serpico-se-sei-marcio-ti-premiano-questa-e-lamerica/656739/

http://www.repubblica.it/persone/2010/01/25/news/serpico_vero-2065507/

Mikhail Gorbaciov riconosce il massacro di Katyn’

Polonia, settembre 1939. L’invasione russo-tedesca piega le forze del paese, i cui numeri bellici erano ridicoli se paragonati a quelli delle due potenze (allora) alleate. La sconfitta conduce migliaia di militari e cittadini polacchi in diversi campi di detenzione sparsi sul territorio. Purtroppo per loro, il soggiorno in quegli enormi carceri durerà poco.

Sei mesi dopo, infatti, le alte sfere sovietiche diedero ordine di giustiziare i prigionieri. La motivazione, resa nota in seguito, risiedeva nella volontà di assoggettare completamente i Polacchi: molti dei detenuti facevano infatti parte della classe dirigente del paese. Molti altri, però, no, ma questo non fu sufficiente ad evitare il massacro.

Katyn’ era il nome della foresta, limitrofa ad alcuni dei campi in questione, dove furono ammassati i corpi senza vita dei giustiziati. In realtà, il terribile gesto fu compiuto in diverse zone, anche lontane tra loro, ma Katyn’ funge oggi da nesso commemorativo. Se avesse senso un paragone, il numero di vittime farebbe impallidire gli aguzzini delle Fosse Ardeatine (che abbiamo ricordato qui): si va oltre i 22.000 corpi.

Ovviamente, Stalin e compagni mantennero segreta l’operazione, che venne alla luce per la prima volta nel 1943, quando Barbarossa (nome in codice per l’invasione tedesca della Russia) era iniziata già da tempo. I Nazisti, avanzando in territorio bolscevico, trovarono quelle migliaia di cadaveri proprio vicino a Katyn’, e non persero l’occasione per volgere la scoperta a proprio vantaggio. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, diffuse la notizia tramite Radio Berlino, sperando di creare una spaccatura nella nuova alleanza tra oriente e occidente.

Va da sé, i Sovietici negarono ogni responsabilità, che venne interamente scaricata sui Tedeschi. Su proposta di questi ultimi, fu quindi istituita una commissione internazionale d’inchiesta, sotto il patrocinio della Croce Rossa Internazionale. I rappresentanti di dodici paesi presero parte alle indagini e decretarono che il massacro poteva essere stato commesso esclusivamente dall’Armata Rossa.

L’URSS non riconobbe la veridicità del verdetto, continuando a sostenere la propria tesi. Si susseguirono, negli anni a venire, numerosi tentativi di insabbiamento e mistificazione, compresi omicidi, minacce e intimidazione nei confronti dei membri della commissione.

Si arriva, così, al 13 aprile 1990: Gorbaciov, all’indomani della caduta del muro di Berlino, porse  scuse ufficiali alla Polonia, riconoscendo la responsabilità del proprio paese per l’accaduto. Vent’anni più tardi, nell’ottica di riappacificare i due popoli sulla questione, il parlamento russo approvò una dichiarazione nella quale si afferma che il massacro fu ordinato direttamente da Stalin.

Alessio Gaggero

Il primo uomo nello spazio

Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.

Figlio di un falegname e di una contadina, Jurij Alekseevič Gagarin trasformò la sua passione per il volo in un passaggio storico per la nostra specie: la prima uscita dall’atmosfera terrestre. Fino ad allora, nessun uomo si era mai spinto tanto in alto. E’ plausibile che il conflitto (più o meno) sotterraneo di quegli anni abbia giocato un ruolo determinante nel portare l’essere umano oltre i propri limiti. I risultati in campo aerospaziale furono un’ottima dimostrazione del conflitto come dinamica non nociva.

Siamo, infatti, all’inizio degli anni sessanta, quando la guerra fredda rischia di spazzare via la vita umana dal pianeta. L’URSS ha già segnato un punto importante nella corsa allo spazio: nel 1957, Sputnik fu il primo satellite mandato in orbita intorno alla Terra. Per quasi tre mesi di attività ricordò agli Americani che erano rimasti un passo indietro: avevano perso la supremazia tecnologica.

Nello stesso anno, Gagarin, a 23 anni, si diplomò a pieni voti presso l’Accademia aeronautica sovietica di Orenburg. Al termine di un ulteriore addestramento in Ucraina, entrò a far parte di quel ristretto gruppo di piloti che avrebbero puntato più in alto del cielo: sarebbero diventati dei cosmonauti. Tra i venti aspiranti, fu scelto lui per abbattere l’ultimo confine umano.

Così, quel 12 aprile 1961 entrò nella capsula Vostok 1. Alle 9.07 iniziò il viaggio, che in pochi minuti lo portò nello spazio. Rimase in orbita per quasi due ore, dopodiché, come programmato, iniziò il rientro a casa. Ad attenderlo, milioni di Russi che ancora speravano nel progetto di quella enorme nazione.

L’impresa ebbe ovviamente eco mondiale, ma in patria, Gagarin fu addirittura nominato Eroe dell’Unione Sovietica e decorato con l’Ordine di Lenin, la massima onorificenza.

Alessio Gaggero

1987, muore lo scrittore Primo Levi

Scrivere è mettere in pratica una resistenza. Chi scrive lo fa per sopravvivere a qualcosa.
(Jhumpa Lahiri, convegno su Primo Levi)

L’11 aprile 1987, a Torino, lo scrittore Primo Levi viene trovato morto, a seguito di una caduta, alla base della tromba delle scale, nel condominio in cui dal 1919, anno della nascita, aveva sempre abitato. L’assenza più lunga era stata dal 1942 all’ottobre ‘45, e la raccontò nei suoi libri: un anno a Milano in una fabbrica di medicinali, qualche mese da partigiano in Val d’Aosta, l’arresto e la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli e poi ad Auschwitz, per undici mesi, infine altri nove sulla via del ritorno. In alcune interviste successive avrebbe definito il periodo di Auschwitz come l’unico “in technicolor” di una vita altrimenti in bianco e nero.

Qualche mese prima Einaudi gli aveva offerto la presidenza della casa editrice, ma Levi aveva rifiutato perché non se la sentiva; la moglie avrebbe confermato che era depresso da tempo. Sebbene alcuni sostengano che la caduta possa essere stata provocata dalle vertigini, di cui soffriva, da subito viene valutata l’ipotesi del suicidio. Nel 1978, ricordando sulla Stampa Jean Améry, un altro grande scrittore deportato ad Auschwitz, Primo Levi aveva scritto che nessuno, neppure il suicida, conosce le ragioni della propria morte.

Perché io sono sopravvissuto e gli altri no? Secondo molti, questa domanda lo assillava dai tempi del suo ritorno dall’orrore della Shoah. Probabilmente, come ebbe a dire un amico, Levi era sopravvissuto perché in quanto scrittore aveva il compito di raccontarlo, ma col tempo gli era divenuto insopportabile il sentire di aver ricevuto in dono qualcosa di terribile, dover raccontare ciò che aveva vissuto e così rivivere all’infinito la sofferenza dei lager, nel ruolo doloroso di eterno testimone.

Nato da una famiglia di origini ebraiche, il suo rapporto con le radici è laico, costruito negli anni su base culturale e intellettuale più che religiosa, e tornerà dalla deportazione ancor più convinto dell’inesistenza di Dio:

C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.

Dopo gli studi classici, affascinato dalle scienze, si iscrive al corso di laurea in Chimica: “per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo.”. Si laurea con lode nel ’41, nonostante le difficoltà dovute all’entrata in vigore delle leggi razziali, e il diploma riporta la scritta “di razza ebraica”:

le leggi razziali […] costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo. Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo (quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da vederne quello sciocco.

Le difficoltà economiche familiari lo inducono ad accettare un lavoro a Milano, dove entra in contatto con gli ambienti antifascisti e, dopo l’8 settembre, si unisce alla Resistenza in Val d’Aosta; non parlerà volentieri di quei mesi di militanza, segnati da episodi che lo scoraggiano. Arrestato sul finire dell’anno, sceglie di farsi identificare come ebreo anziché partigiano, e nel febbraio successivo è deportato ad Auschwitz, dove rimane fino alla liberazione, il 27 gennaio ’45. Sopravvive grazie alla generosità di alcuni internati e ai suoi studi, che gli consentono di essere destinato al lavoro nella fabbrica chimica Buna che, come altre, prosperava sfruttando la manodopera gratuita del campo.

Il lager è per lui un’esperienza fondamentale, una “seconda università”, come dirà in numerose interviste. Con la disposizione naturalistica del chimico, Levi è animato dalla curiosità di capire quanto lo circonda, nonostante la violenza della fame, del freddo, delle percosse e di un lavoro che non poteva definirsi tale, ma “una pena, come prendere frustate”. Pur descrivendo la sua come una forza passiva (“quella con cui uno scoglio sopporta l’urto dell’acqua di un torrente”) ad Auschwitz lo scrittore conserva la capacità di pensare; vuole raccontare e testimoniare, negare il proprio consenso al silenzio e all’opera di distruzione e demolizione dell’umano voluta dai nazisti:

Appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere.

Tuttavia, dentro di sé teme che la verità, anche tra le persone più care, possa incontrare rifiuto e indifferenza: è il senso di totale abbandono del prigioniero, dimenticato dal mondo, isolato in una pena non raccolta a cui nessuno pone fine.

Levi parla di Auschwitz come di un esperimento, una gigantesca esperienza biologica e sociale. “Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi e siano quivi sottoposti a un regime di vita identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto  di  più  rigoroso  uno  sperimentatore  avrebbe  potuto  istituire  per  stabilire  che  cosa  sia essenziale  e  che  cosa  acquisito  nel  comportamento  dell’animale-uomo  di  fronte  alla  lotta  per  la vita.”.

In base alla propria esperienza, Levi afferma che i Lager tedeschi non erano un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi), bensì i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo, in cui alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente, mentre altre (slavi)

sarebbero state asservite e sottoposte a un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.

Levi ci ricorda che in ogni forma di fascismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e a un tempo di negargli ogni valore umano; la celebre frase “Arbeit macht frei”, che campeggiava all’ingresso di Auschwitz, secondo lo scrittore avrebbe dovuto suonare pressappoco così:

Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte.

Lo scrittore rifiuta le risposte facili basati su esami frettolosi, non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga sui significati, sapendo che le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e la storia si ripete: “A molti individui o popoli  può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente.”.

Al centro della sua riflessione pone la dignità e la mancanza di dignità degli esseri umani, l’animo corruttibile dell’individuo ordinario. Non si stanca di ripetere che il mondo del lager non era facilmente divisibile in carnefici e vittime. Gli aguzzini del lager “erano della nostra stessa stoffa, esseri medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi […] ma erano educati al male”. All’altro capo della scala gerarchica, i “sommersi”, prigionieri distrutti dal duro lavoro, dalle percosse e dalle privazioni, nel gergo del campo i “Muselmänner”: “la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. Nel mezzo, i “salvati” del lager, che

non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio[…]. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.

Riportiamo di seguito un estratto da un articolo di Fiorenza Loiacono:

Levi dissolve la visione illusoria e rassicurante di un mondo rigidamente diviso fra bene e male, tra buoni e cattivi, introducendo l’immagine di un’ampia fascia di contiguità fra vittime e carnefici, dove lo spazio appare più sfumato, una “zona grigia” di ambiguità e mediocrità, di corruzione, compromesso e asservimento al potere, dove molti perseguitati collaborano con l’autorità nell’opera di annientamento sistematico dei compagni, quei sommersi che – sottolinea Levi – naufragavano senza che nessuno tendesse loro una mano. Auschwitz era il luogo delle schiene voltate, del crollo delle relazioni e del linguaggio, dove “la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente infinitamente solo”, uno strumento o una cosa agli occhi degli altri. Le anime erano state rese “rotte” e “vuote”, dominate; incapaci di “atti di rivolta” e di “parole di sfida”, persino di uno “sguardo giudice” sollevato contro gli aguzzini.

Levi restituisce la sua esperienza perché ritiene necessario un lavoro di consapevolezza, una riflessione accurata sull’origine e il dispiegamento della violenza di massa, alla cui base si trovano il conformismo e l’ubbidienza acritica all’autorità, e l’ambiguità su cui continuamente inciampano gli esseri umani. Secondo Levi, man mano che le condizioni di oppressione si fanno più stringenti e feroci tanto più gli individui si sopraffanno a vicenda, dimenticando la condizione di vulnerabilità che li accomuna, superabile solo attraverso il vincolo morale della solidarietà.

Levi sottolinea come il momento della liberazione, accompagnato dal ripristino del precedente sistema di riferimento morale, non fu né lieto né spensierato ma intaccato dalla vergogna, per quanto, “sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi” dato lo stato di estrema costrizione che schiacciava i prigionieri.

Nella sua analisi lucida e precisa, Levi non escluse dunque la riflessione su se stesso, sulle sue risorse e sulle sue mancanze, costruendo e lasciando in eredità un ampio e prezioso quadro interpretativo su un sistema infernale di iniquità e ingiustizia, che chiuso in se stesso rappresentava “l’estremizzazione della società tout court”, dove nessun limite, nessun correttivo veniva posto al privilegio e all’esercizio della violenza.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; G. Papi, “Gli ultimi giorni di Primo Levi”, www.ilpost.it; www.fanpage.it; https://biografieonline.it; www.letteratura.rai.it; F. Loiacono, “L’uomo che conservò la capacità di pensare nell’inferno di Auschwitz”, www.tpi.it; “Primo Levi: non dimenticatemi!”, https://lapoesiaelospirito.wordpress.com; “Etica e condizioni estreme”, www.assemblea.emr.it P. Levi, “Arbeit macht frei”, http://www.primolevi.it, “Se questo è un uomo”, “I sommersi e i salvati”, Einaudi

Gian Luigi Banfi si spegne a Mauthausen-Gusen

Il giorno prima di morire è sceso dal suo letto ed è venuto da me: “Perché ti alzi? Riposati”, gli ho detto. Lui mi ha guardato e basta, con degli occhi, è difficile dire che occhi: certamente disumani; non c’era né dolore né terrore; erano terrorizzanti. Non terrorizzati, terrorizzanti. Poi è tornato al suo letto a castello.

Così ne descrive gli ultimi momenti Aldo Carpi nel “Diario di Gusen”, pubblicato nel 1993 dall’Einaudi. Architetto milanese, socio fondatore dello studio BBPR del capoluogo lombardo, tentò, con i colleghi, di combattere il regime dall’interno.

Inizialmente illusi di poter giocare un ruolo significativo attraverso l’opera culturale e teorica del loro campo (testimonianza ne è il palazzo delle Poste all’EUR di Roma, costruito a cavallo tra il ’39 e il ’40), si dovettero presto ricredere.

In occasione del precipitare della situazione politica e degli avvenimenti bellici, i BBPR cambiarono radicalmente rotta. Lo studio divenne uno dei punti di riferimento per la Resistenza milanese e per il movimento “Giustizia e Libertà”.

Banfi si iscrisse anche al Partito d’Azione e prese parte alla diffusione clandestina de “L’Italia libera”, il giornale ufficiale del partito, che doveva farne conoscere il programma. Durante gli ultimi mesi, si occupò dell’espatrio verso la Svizzera di gruppi di ebrei e di antifascisti (tra cui il socio Ernesto Nathan Rogers), curando inoltre la redazione di mappe topografiche a uso degli aerei alleati. Di più, mise a disposizione della resistenza la propria villa in provincia di Como, che divenne un centro attivo di resistenza e di smistamento di fuorusciti.

Fu una delazione a condannare Banfi e Belgioioso, altro collega dello studio, il  21 marzo 1944. L’accusa: spionaggio e complotto. Dovettero trascorrere tre mesi nel carcere di San Vittore, per poi essere trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli e, infine, a Mauthausen-Gusen. Qui resistette fino al 10 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.

Alessio Gaggero

 

A cavallo della paranoia

La paranoia nelle società, spesso, è stata creata a tavolino. Scelto il gruppo di persone da far temere e detestare, si tratta di svolgere una comunicazione martellante tesa a delegittimarlo, accusandolo di ogni misfatto e delle più inquietanti intenzioni maligne. Generati dei dubbi, occorre trasformarli in sospetti e far diventare l’allerta una paura. E questa spingerla verso la paranoia. A tal fine si deve rappresentare quel gruppo come un nemico del popolo. Quindi va descritto come subdolo, come segretamente sostenuto da potenti alleati e come intimamente intenzionato, o disponibile, ad affermare un sistema e una società da incubo. Così, si ottiene la paranoia: una paura irrazionale, mescolata con un’indignazione e un’ostilità viscerali verso i presunti traditori. I quali, a quel punto, non trovano più quasi nessuno disposto a credergli e neppure ad ascoltarli, quando si difendono.

La paranoia nutrita dalle fake-news del senatore repubblicano Joseph McCarthy

Il 9 aprile del 1950 il senatore repubblicano Joseph McCarthy tenne un discorso che si potrebbe collocare in un’ottima posizione all’interno di un’ipotetica classifica delle mosse politiche tese a seminare una paranoia popolare prefabbricata. Questo discorso costituì, infatti, un’efficacissima delegittimazione dell’avversario politico, mediante la strumentalizzazione delle preoccupazioni e delle frustrazioni collettive. Cosa disse Joe McCarthy di così potentemente corrosivo nei confronti del Partito Democratico, che governava gli Stati Uniti ininterrottamente dal 1932 (con i 4 mandati consecutivi di Franklin Delano Roosevelt come presidente, seguito da Harry Truman)? Disse una balla gigantesca. Cioè:

«Ho qui una lista di 205 persone, che sono note al Segretario di Stato per essere membri del Partito Comunista e che, nonostante questo, ancora lavorano al Dipartimento, formandone la politica».

Joe McCarthy non aveva alcuna lista di comunisti dipendenti del Dipartimento di Stato, Né, quindi, conosceva i nomi che sarebbero stati noti al Governo degli Stati Uniti, nella persona della sua seconda carica più importante, dopo quella del Presidente, il Segretario di Stato, Dean Acheson. Il quale, peraltro, era uno degli ideatori del Piano Marshall, della NATO e della Dottrina Truman, sul ruolo da protagonista degli USA nel contrasto all’espansione comunista nel mondo. Era tutto inventato ciò che aveva affermato McCarthy. Di reale non c’erano che illazioni non collegabili tra di loro e men che mai idonee a fornire la minima verosimiglianza razionale a quella spettacolare bugia [1].

La diffusione della paranoia attraverso la diffamazione e la distruzione della credibilità degli avversari.

Chiunque, in qualsiasi altro momento, avesse calunniato un governo che era legittimamente in carica, in virtù di una schiacciante vittoria elettorale, accusandolo senza prove di coltivare al proprio interno il tradimento e la sovversione, sarebbe stato sbugiardato, svergognato unanimemente e pubblicamente, pagando il prezzo del biasimo collettivo. Ma McCarthy non corse minimamente quel rischio [2]. Il clima politico e, soprattutto, la condizione emotiva del popolo americano lo mettevano al sicuro.

La “Guerra Fredda” e la “paura rossa”

Finita la Seconda Guerra Mondiale ebbe termine anche la collaborazione tra Unione Sovietica, da una parte, e Stati Uniti e Gran Bretagna dall’altra, ed iniziò la “Guerra Fredda”. Se questa si concretizzò in sofferenze inaudite, non soltanto per gli abitanti dell’U.R.S.S., ma anche tutti i popoli sottoposti alla sua dominazione, negli USA e nel resto dell’Occidente crebbero rapidamente i timori per l’avanzata comunista.

Alcuni eventi sensazionali destarono la preoccupata attenzione pubblica americana. Tra questi, parallelamente alla produzione della bomba atomica da parte dell’Unione Sovietica (ne abbiamo parlato in un post di Corsi e Ricorsi, dedicato a Sakharov), che poneva fine al monopolio americano sulle armi nucleari, il processo clamoroso a Julius ed Ethel Rosenberg, per tradimento (di cui abbiamo parlato nel post Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente), e la condanna per spergiuro di Alger Hiss, un importante funzionario del Dipartimento di Stato, sospettato di “intelligenza con il nemico rosso”.

Parola d’ordine: delegittimare il New Deal

Già nel 1945 era “risorta” la Commissione per le attività antiamericane del Congresso degli Stati Uniti (House on Un-American Activities Committee – HUAC), istituita nel ’38 [3]. E molti repubblicani e alcuni democratici conservatori, nonché altre associazione e comitati smaccatamente reazionari, per screditare i democratici e soprattutto gli ideali e il pensiero progressista, che si era affermato a partire dal New Deal di Roosevelt, avevano iniziato a diffondere voci su infiltrazioni comuniste nelle agenzie governative, specie nel Dipartimento di Stato. Voci, però, che avevano un’eco assai ridotta, non riuscendo a scalfire significativamente la fiducia nel presidente Harry Truman e nella sua amministrazione.

Maggiore attenzione la destavano due autorevolissime figure. Il direttore dell’F.B.I., J. Edgar Hoover, il quale aveva dichiarato che non meno di 100.000 persone in America intendevano rovesciare il governo. E il cardinale Richard Spellman di New York, secondo il quale gli USA erano in un imminente pericolo di un colpo di Stato comunista. In ogni caso, nel novembre del ’46, i repubblicani ottennero per la prima volta dal 1928 la maggioranza sia al Congresso che al Senato.

Il tentativo dell’amministrazione democratica di battere la destra sul suo terreno: l’anti-comunismo

Mentre l’opinione degli americani circa la loro insicurezza cresceva e astuti demagoghi alimentavano un subdolo un sentimento di paranoia incentrato sull’inevitabilità di una guerra nucleare con l’URSS e sull’idea di una vasta cospirazione di spie e di simpatizzanti comunisti, Harry Truman, in vista della campagna per la rielezione del ’48, corse al riparo. Cioè, in politica estera, proponendo di stanziare 227 milioni di dollari per prevenire in Italia il rischio dell’affermazione del Fronte Popolare (composto da comunisti e socialisti) alle elezioni politiche del 1948, le prime della neonata Repubblica, e ammettendo 18.000 profughi polacchi, ex militari perseguitati dal governo filosovietico. In politica interna, l’amministrazione Truman, cercando di arginare la paranoia, con la tattica del «far scappare il diavolo fuori dal Paese», varò il Federal Employees Loyalty and Security Act [4].

«Un’ondata di fascismo» sotto l’etichetta di “americanismo”

Eleonore Roosevelt, la vedova del presidente, disse:

«È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto»,

Non aveva torto. Infatti, come nel caso del fascismo, l’affermazione della paranoia anticomunista si sviluppava sulla direttrice doppia della campagna di paura e d’odio, a base di falsità spudorate, e del rivolgersi alla pancia dell’elettorato. Con quest’ultima funzionava da sempre l’esaltazione del patriottismo, ma ancor di più portava voti il definirsi “veri americani” e il richiamarsi a qualcosa di indefinito, ma assai suggestivo, “l’americanismo[5].  Se “l’americanismo” funzionava come sentimento e come ideale di stampo positivo, di cui proporsi quali alfieri, la trasformazione degli avversari in nemici demoniaci serviva per manipolare la paranoia [6].

La crescente paranoia nel popolo americano

Nonostante l’inattesa vittoria schiacciante del democratico Harry Truman sul suo rivale repubblicano, nell’elezione presidenziale del novembre 1948, a gennaio del 1949 un sondaggio Gallup rivelava che:

  • l’83% degli americani era favorevole alla schedatura dei comunisti presso il dipartimento della Giustizia;
  • l’87% avrebbe voluto il licenziamento dei comunisti impiegati nelle industrie che lavoravano per la difesa;
  • l’80% era favorevole al giuramento di fedeltà dei leader sindacali.

Il metodo di Goebbels

Il metodo con cui la destra americana operava, sembrava, in effetti, avere un crescente successo. Come osservò John F. Kennedy, all’epoca membro del Congresso, i repubblicani seguivano

«la linea di Hitler: per quanto grossa sia la bugia, ripetila abbastanza spesso e me masse crederanno che sia la verità».

In effetti, osservata da vicino, quella propaganda, tesa all’escalation della paranoia anticomunista, come altre declinate nel nostro Paese anche attualmente, seguiva con sistematicità lo schema descritto da Jospeh Goebbels (riportato nella nota [7]).

La paranoia e l’ignoranza

Nel corso della campagna per il Senato del 1950, ad esempio, il senatore democratico Claude Pepper, in corsa per la rielezione, essendo un noto ideologo del New Deal e un sostenitore determinato del Welfare State, era uno dei bersagli preferiti della destra che lo chiamava «Red Pepper» e lo definiva «il portavoce di Stalin al Senato». Il suo avversario, il repubblicano George Smathers, ne approfittò e, a corto di argomenti, sfruttò l’ignoranza e la paranoia popolare, dicendo che Pepper

era «un estrovertito» che aveva praticato «il nepotismo» con la cognata e «il celibato» prima del matrimonio e che la sorella lavorava su «un carro di Tespi» al Greenwich Village. Non da meno, fu Richard Nixon, che batté la candidata democratica liberal Helen Gaghan Douglas, definendola «compagna di strada dei comunisti» e «Pink Lady».

I fallimentari tentativi di sedare la paranoia assecondandola con moderazione

Uno degli effetti delle campagne di delegittimazione è che chi ne è oggetto non può infischiarsene. Deve reagire. Può farlo contrattaccando e sbugiardando i diffamatori seguaci delmetodo Goebbels” (nota 7). Oppure può tentare di attutire l’urto, facendosi interprete moderato delle istanze politiche, morali e sociali che la campagna di paura e odio sbandiera. I democratici al Congresso e al Senato, prevalentemente, optarono per questa seconda strada, come del resto faceva il presidente Truman. Il quale, in privato, definiva McCarthy

«un artista delle strombazzate pubblicitarie».

Il Tydings Committee e le bugie che il popolo americano si rifiutò di riconoscere

Così, quando, nel febbraio 1950, la maggioranza repubblicana istituì il Tydings Committee, un sottocomitato del Senate Foreign Relations Committee, deputato a svolgere «…uno studio completo ed esaustivo su quali siano gli individui traditori degli Stati Uniti che abbiano avuto o hanno un ruolo all’interno del Dipartimento di Stato», il Presidente del sottocomitato, il senatore democratico Millard Tydings, disse a McCarthy:

«Voi siete l’uomo che ha dato vita a queste udienze, e finché sarò coinvolto in questo comitato avrete una delle più complete indagini mai viste nella storia di questa Repubblica, fino a dove le mie capacità mi permetteranno».

I democratici speravano in tal modo di vanificare la propaganda denigratoria di cui erano fatto segno, ma non funzionò: quando Truman pose il veto alla legge McCarran, che prevedeva la schedatura dei comunisti e delle organizzazioni filocomuniste e l’internamento dei sospetti comunisti in caso di emergenza nazionale, la maggior parte degli americani disapprovò il presidente.

I fanatici del patriottismo cui non importa di minare la fiducia nella democrazia pur di fare carriera

Le udienze del Comitato Tydings durarono dall’apertura, l’8 marzo 1950, fino al 17 luglio dello stesso anno. E fu in tale periodo, il 9 di aprile che il senatore McCarthy dichiarò al Club delle Donne Repubblicane di Wheeling (West Virginia) di avere la lista dei 205 comunisti interni al Dipartimento di Stato e noti al Segretario di Stato, Dean Acheson. Come detto, era una bufala di proporzioni immense, propalata per cinico e spietato calcolo politico, ma la destabilizzazione che creava e la sfiducia che generava nelle istituzioni democratiche erano un regalo favoloso per l’Unione Sovietica.

Millard Tydings, infatti, al termine dei lavori, qualificò le accuse di McCarthy al Dipartimento di Stato come fraudolente e ingannevoli. E accusò a sua volta il senatore repubblicano di

«…confondere e dividere il popolo americano[…] a un livello ben maggiore di quello in cui speravano i comunisti stessi».

MCarthy, però, non ne risentì politicamente. Ormai il sentimento dominante nel popolo americano era dalla sua parte. Nel 1952 venne rieletto al Senato. C’era riuscito. E in tale veste, dal 1953, presiedette il sottocomitato investigativo Senate Committee on Government Operations. Ora poteva sperare di salire qualche altro gradino, magari anche quelli della Casa Bianca. Nel frattempo i repubblicani avevano ottenuto la presidenza degli Stati Uniti, grazie alla candidatura del generale Dwight Eisenhower, che aveva sconfitto il candidato democratico, Adlai Stevenson. Gradito all’ala sinistra del partito, era sgraditissimo agli anti-comunisti, che lo attaccarono definendolo un alleato di Mosca e lo demonizzarono con una ferocia simile a quella con cui avevano denigrato l’ex ministro dell’Agricoltura di Roosevelt, Henry Wallace, che nel ’48 si era dimesso dal partito Democratico, per fondare il partito Progressista, per conto del quale si era candidato alle presidenziali di quell’anno.

Una paranoia difficile da curare

Anche se le denunce costantemente sventolate da McCarthy erano non soltanto prive di prove ma palesemente false, nel loro contenere dati contrastanti sul numero dei funzionari governativi sovversivi, ancora nel novembre del ’53 il 46% dei cittadini riteneva che i repubblicani avrebbero dovuto sollevare nuovamente la questione della presenza dei comunisti nel governo durante gli anni dei governi Roosevelt e Truman. Nel mese di dicembre la maggioranza era ancora convinta che il più urgente provvedimento per il bene del Paese era la cacciata dei comunisti dal governo. E il 50% approvava McCarthy. Poi McCarthy perse buona parte del suo consenso popolare, ma il “maccartismo” durò più a lungo di lui. E, in qualche subdolo modo riemerse sotto la presidenza di Richard M. Nixon.

La paranoia come fabbrica di nemici e strumento di controllo

Del resto ancora nel ’54 solo il 29% degli americani disapprovava il maccartismo. E tra costoro erano pochi quelli appartenenti alle classi meno abbienti, per lo più schierati al fianco dei diffusori della paranoia. Inoltre erano filo-maccartiste buona parte della Chiesa Cattolica e delle comunità italiane e irlandesi, nonché di quella tedesca. Tra gli elettori democratici il dissenso verso il maccartismo non superava il 38% (il 39% era favorevole) e tra quelli repubblicani era appoggiato dal 69%. Per qualsiasi candidato, come confessò poi John Kennedy, opporsi fermamente al maccartismo equivaleva a compiere un suicidio politico. La gran parte degli americani, dunque, non pensava al fatto che le persone imprigionate erano ormai nell’ordine delle centinaia. Per loro, quei “rossi” se lo meritavano. Erano dei traditori, dei sovversivi. Non degli esseri umani come tutti gli altri. Erano sovversivi, traditori. Le vittime, nella mente e nel cuore di milioni di persone, diventavano carnefici. E la loro emarginazione era considerata sacrosanta.

Nessuna pietà per le vittime della paranoia

Decine di migliaia avevano perso il lavoro, semplicemente per il fatto di essere sospettate dalla HUAC, o da altri comitati reazionari, di simpatizzare con i comunisti? Ebbene, che problema c’era? Si trattava soltanto di comunisti. Se l’erano cercata! Anzi, il Paese era fin troppo indulgente nei loro riguardi. Soltanto una minoranza degli statunitensi si indignava per il fatto che liste di sospetti comunisti fossero presenti in quasi tutti gli ambiti lavorativi, nell’università e nelle amministrazioni statali, dove il controllo sconfinava nel parossismo, fino all’industria del cinema e quella della televisione [8].

Né la maggioranza era preoccupata per il fatto che chiunque non fosse corrispondente al conformismo dominante rischiava una denuncia anonima come comunista e, quindi, un’inchiesta basata sulla presunzione di colpa.

Contro le libertà costituzionali e contro ogni ragionevolezza

Non aveva alcun rilievo il fatto che il partito Comunista Americano, anche al momento del suo apogeo, corrispondente all’affermarsi del nazi-fascismo in Europa (ma prima del patto Ribbentrop – Molotov), non fosse mai stato che un partito di nicchia, con un numero di iscritti e di militanti insignificante. Del resto, secondo il pensiero dominante, l’omosessualità, ad esempio, era sinonimo di comunismo. Come lo erano i movimenti per i diritti civili, le critiche al consumismo, il pacifismo, le analisi sociologiche sul disagio sociale, il pensiero liberal, i romanzi e i film, o le opere teatrali, di denuncia, e ogni forma di messa in discussione dell’ “american way of life”. Con buona pace dei principi sanciti dalla Costituzione, comitati spontanei di cittadini e organizzazioni varie effettuavano incursioni nelle biblioteche e nelle librerie per mettere all’indice autori e testi “sovversivi(peraltro, già schedati, come i loro lettori, dall’FBI). Vennero considerati sospettabili di contenere una celata propaganda filo-comunista,  alcuni romanzi noir di Horace McCoy, capolavori come Furore (The Grapes of Wrath) di John Steinbeck , e furono perseguitati (anche dall’FBI) romanzieri e commediografi di successo come Norman MailerArthur Miller, Lillian HellmanDashell Hammett e Bertolt Brecht. Venivano tacciati come radicali o simpatizzanti comunisti perfino personaggi pubblici improbabili come Albert Einstein, Bertrand Russell e la stessa Eleonore Roosevelt. E, se la Commissione per i libri di testo dello Stato dell’Indiana bandiva Robin Hood, perché «rubava ai ricchi e dava ai poveri», e i rapporti Kinsey finivano nel mirino, perfino a Charlie Chaplin, che aveva la cittadinanza inglese, il ministero della Giustizia americano aveva negato il permesso di rientrare negli USA.

Non per nulla “maccartismo” e “caccia alle streghe” divennero nel secolo scorso sinonimi.

Alberto Quattrocolo

[1] Di fatto McCarthy non disponeva di nomi di persone definibili come filosovietiche o comuniste. Le sue “prove” per l’inesistente lista provenivano dagli elenchi dei fascicoli riguardanti il grado di lealtà del Dipartimento di Stato  – si veda più avanti nel testo e nella 4) il riferimento al Federal Employees Loyalty and Security Act -, dai quali questi nomi erano stati cancellati.

[2] Già in passato, durante la campagna elettorale per il Senato degli Stati Uniti, le aveva sparate grosse contro i suoi avversari (ad esempio, rinfacciando a Robert M. La Follette Jr., noto repubblicano progressista, di non avere combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, anche se all’epoca dell’attacco giapponese alla base di Pearl Harbour, costui aveva già 46 anni). Così come nel suo primo giorno da senatore, quando aveva convocato una conferenza stampa per proporre di far cessare un lungo sciopero dei minatori del carbone, arruolandoli forzatamente nell’esercito, così da poterli sottoporre alla corte marziale in caso di rifiuto a riprendere il lavoro.

[3] Dal ’47, sotto la presidenza di J. Parnell Thomas, raggiunse le vette della visibilità prendendo di mira soprattutto Hollywood, dove lavoravano molti artisti europei costretti a emigrare negli States dopo l’avvento del nazismo (ne abbiamo parlato in moli post, inclusi quelli su Spencer Tracy, Richard Widmark e Paul Newman). Tra i membri della Commissione mosse i primi passi, il deputato della California, Richard M. Nixon.

[4] Questo programma di fedeltà degli impiegati federali fece diventare, da un giorno all’altro, “sospetti” ben 2.500 dipendenti pubblici, cui fu richiesto di sottoporsi ad uno speciale procedimento ispettivo di sicurezza.

[5] Il termine era già stato usato dal repubblicano Warren G. Hardings, che lo aveva usato vittoriosamente nella sua corsa alla presidenza del 1920. Quando fu chiesto al repubblicano Boise Penrose il significato di “americanismo”, la risposta fu: «Che mi venga un accidente se lo so! Ma state certi che gli porterà un sacco di voti».

[6] Questa trovava alimento in fatti reali, quali: il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia (lo abbiamo ricordato rievocando la morte di Jan Palach), che rafforzava il controllo sovietico nell’Europa orientale; la fisiologica lentezza con cui il Piano Marshall portava la ripresa economica nell’Europa occidentale, facendola percepire come vulnerabile alla seduzione comunista; la vittoria di Mao in Cina contro le forze nazionaliste di Chang Kai-shek, ritiratosi a Formosa.

[7] Joseph Goebbels (di cui abbiamo parlato nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista), dal 1933 al 1945 Ministro della Propaganda del Terzo Reich, fissò alcuni principi per la propaganda. Il Principio della semplificazione e del nemico unico: è necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali. Il Principio del metodo del contagio: riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo. Il Principio della trasposizione: caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. E se non si possono negare le cattive notizie, ne vanno inventate di nuove per distrarre. Il Principio dell’esagerazione e del travisamento: trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave. Principio della volgarizzazione: tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria. Principio di orchestrazione: la propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”. Il Principio del continuo rinnovamento: Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse. Principio della verosimiglianza: costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie. Principio del silenziamento: passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario. Principio della trasfusione: svolgere la propaganda sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o di un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi. Principio dell’unanimità: portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

[8] Per quanto riguarda la lista nera di Hollywood, si stima che più di 300 tra attori e registi furono allontanati dall’industria cinematografica e addirittura dagli stessi Stati Uniti.

Fonti

Andrea Barbato, Come si manipola l’informazione, Editori Riuniti, Roma, 1996

Robert Dalleck, John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2004

Sciltian Gastaldi, Assalto all’informazione. Il maccartismo e la stampa americana, Lindau s.r.l., Torino, 2004.