30 aprile ’45: la morte e l’auto-assoluzione di Hitler

Il 30 aprile del 1945, mentre le truppe dell’Armata Rossa combattevano con gli sparuti residui dell’esercito nazista, in una Berlino ridotta in macerie, Adolf Hitler, che la notte prima aveva sposato Eva Braun, con lei si toglieva la vita. Lasciava ai posteri la dimestichezza con l’orrore più profondo che l’umanità avesse mai conosciuto e un “testamento politico” che ancora oggi presenta degli spunti interessanti. E non soltanto per il carattere auto-assolutorio di cui è intriso, ma anche perché rivela come la de-umanizzazione dell’altro permetta la pianificazione e la realizzazione dei peggiori crimini immaginabili, senza l’intralcio di significativi rimorsi di coscienza.

Il suicidio di Hitler ed Eva Braun del 30 aprile 1945

Dall’inizio del 1945 l’esercito del Terzo Reich era sempre più sull’orlo del collasso totale. Occupata la Polonia, le forze sovietiche si apprestavano ad attraversare il fiume Oder, tra Küstrin e Francoforte, con l’obiettivo di occupare Berlino. Qui dal 16 gennaio Adolf Hitler si era ritirato nel suo Führerbunker, avendo ormai compreso che la battaglia di Berlino sarebbe stata la battaglia finale della guerra  [1]

La battaglia di Berlino

L’11 aprile 1945 gli americani attraversavano l’Elba, circa 100 chilometri a ovest da Berlino, che iniziava a essere bombardata dall’artiglieria sovietica per la prima volta nove giorni dopo, mentre la sera del 21 aprile i carri armati dell’Armata Rossa raggiungevano la periferia della città. Il pomeriggio del 22 aprile, Hitler, durante una delle sue sfuriate per la prima volta ammise quel che era evidente a tutti: la guerra era perduta. Poi annunciò che sarebbe rimasto a Berlino fino alla fine dei combattimenti, per poi togliersi la vita. In meno di una settimana la battaglia di Berlino era conclusa. Il 27 la città era ormai tagliata fuori dal resto della Germania. Il giorno dopo ormai la battaglia infuriava intorno alla Cancelleria.

Gli ultimi atti di Hitler del 29 e 30 aprile 1945

Dopo la mezzanotte del 29 aprile 1945, Hitler sposò Eva Braun in una piccola cerimonia e consumò un modesto pranzo di nozze con lei. Poi dettò alla sua segretaria, Traudl Junge, il suo testamento e alle 04:00 andò a dormire. Nel corso del 29 aprile 1945, Hitler apprese che Benito Mussolini e Claretta Petacci erano stati giustiziati dai partigiani italiani e che i loro corpi era stati oltraggiati dalla folla (lo abbiamo ricordato, in Corsi e Ricorsi, nel post 29 aprile 1945: il bagno di sangue continua). Non volendo che al suo cadavere e a quello della moglie toccasse un’analoga sorte, alle 15,30 del 30 aprile, il fondatore e il capo del nazismo, dopo aver ingerito il veleno, si sparò alla testa. Con lui si suicidò anche Eva Braun. Alle 16,30, secondo le sue istruzioni, venne dato fuoco ai loro corpi, che alle 18,30 furono inumati in un cratere provocato da una bomba.

Il testamento di Hitler

Come per ogni conflitto, così anche rispetto alla Seconda Guerra Mondiale, vale la regola secondo la quale, nessuna delle parti è disposta ad assumersi spontaneamente la responsabilità dell’inizio delle ostilità. Quindi anche delle inconcepibili atrocità e del planetario bagno di sangue, che quel conflitto comportò, nessuno o quasi era disposto a riconoscere di essere stato il promotore. Meno di tutti gli altri lo era Adolf Hitler, che di quella devastante ondata di crimini era il principale artefice.

 

«La guerra è stata voluta e provocata esclusivamente da uomini politici internazionali di origine ebraica o da agenti al servizio di interessi ebraici»

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Nel dettare il suo testamento politico, quella notte di fine aprile, nella parte relativa all’appello ai posteri, Adolf Hitler, determinato a togliersi la vita il giorno dopo, 30 aprile, negò ogni sua partecipazione all’innesco del conflitto. Come se le aggressioni della Germania alla Cecoslovacchia, prima, e alla Polonia, poi, con le annesse stragi e deportazioni, non fossero stati da lui pianificate e attuate con calibratissima premeditazione.

«È falso che io o qualcun altro in Germania abbia voluto la guerra nel 1939. La guerra è stata voluta e provocata esclusivamente da uomini politici internazionali di origine ebraica o da agenti al servizio di interessi ebraici. Io mi sono fin troppo adoperato per il raggiungimento della limitazione degli armamenti – e i posteri non potranno mai dimenticarlo – perché si possa far ricadere su me la responsabilità per lo scoppio di questa guerra. Io non ho mai desiderato che, dopo la spaventosa prima guerra mondiale, ve ne fosse una seconda contro l’Inghilterra o l’America».

«… risorgerà sempre l’odio verso i veri responsabili di questo conflitto… gli esponenti del giudaismo internazionale e i loro adepti»

Dunque, neanche Adolf Hitler era disposto considerarsi come “il cattivo della vicenda. E la sua mente svolgeva un costante e riuscito tentativo di auto-assoluzione. Questo tipo di meccanismo mentale può consistere nel: rifiutarsi di pensare di avere qualcosa a che fare con il dolore altrui, preferendo, invece, attribuire alla vittima la colpa delle atrocità contro di essa commesse. In questo caso, la colpa era degli ebrei e di coloro che si erano opposti alle sue farneticazioni antisemite. I colpevoli, per lui, erano quei milioni di bambini e di adulti che egli aveva massacrato.

La colpevolizzazione delle vittime è ribadita nelle successive frasi dettate a Traudl Junge:

«I secoli passeranno, ma dalle rovine delle nostre città e dei nostri monumenti risorgerà sempre l’odio verso i veri responsabili di questo conflitto. Sono essi coloro che dobbiamo ringraziare: gli esponenti del giudaismo internazionale e i loro adepti».

Prima e dopo quel 30 aprile del 1945, quanti attacchi terroristici, quanti altri orrori bellici e quanti criminali episodi di razzismo sono stati giustificati dai loro autori con analoghi ragionamenti: incolpando la vittima, che così cessa di essere tale, per diventare la sola responsabile del “giusto” male che le è inflitto?

La demonizzazione della vittima come motore e come giustificazione ex post della violenza

Non vi è motivo di dubitare che Hitler, perfino al momento del suo crepuscolo, quel 30 aprile, si sentisse fondamentalmente sincero e, soprattutto, dalla parte della ragione e della giustizia nel sostenere menzogne così spudorate, nel proporre distorsioni tanto macroscopiche della realtà e così inzuppate di pregiudizi e paranoia come quelle citate. E come quelle che seguono:

«Io mi sono fin troppo adoperato per il raggiungimento della limitazione e del controllo degli armamenti, e i posteri non potranno mai dimenticarlo -, perché si possa far ricadere su di me la responsabilità dello scoppio di questa guerra […] la cricca che era al governo in Inghilterra voleva la guerra. In parte per ragioni commerciali, in parte perché influenzata dalla propaganda ordita dal giudaismo internazionale».

Non sarebbero altrettanto angoscianti queste falsità, se egli avesse scritto simili deliranti bugie allo scopo di difendersi in qualche tribunale. Ma Hitler non cercava di convincere una corte giudiziaria ad essere clemente con lui o ad assolverlo. Scriveva essenzialmente per coloro che la pensavano come lui. Scriveva per se stesso. E ribadiva, in questo testamento politico, gli “argomenti” che aveva scritto nel Mein Kampf vent’anni prima (lo abbiamo ricordato qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Queste idee, questi pensieri, e i sentimenti ad essi correlati, erano il motore della sua azione persecutoria verso ebrei, zingari, slavi e chiunque non fosse “ariano”, erano la spinta alla sua politica dittatoriale e guerrafondaia. Quindi, non erano soltanto una giustificazione creata ex post, per azzittire una coscienza tormentata.

La colpevolizzazione della vittima, come abbiamo visto anche in altri post (Colpa della vittima?, Un’altra violenza sulla vittima), pubblicati su altre rubriche (Politica e Conflitto e Riflessioni) di questo blog di Me.Dia.Re., non soltanto legittima a valle, ma autorizza e supporta anche a monte la violenza dell’aggressore.

Così è per il rapinatore, per il bullo, per lo stalker, per i sempre più numerosi autori di gravi atti di violenza il razzista e per i ragazzi che hanno perseguitato e infine ucciso un anziano a Manduria Così è per gli autori degli attentati del 21 aprile 2019, il giorno di Pasqua, in Sri Lanka, contro tre chiese e tre hotel, rivendicati dall’Isis e costati la vita a 253 persone. Così è stato per  Anders Behring Breivik, l’autore della strage del 22 luglio 2011 (l’abbiamo ricordata qui), contro esponenti e giovanissimi militanti del partito laburista in Norvegia (77 morti, la maggior parte dei quali ragazzi), come per coloro che, il 15 marzo 2019, in Nuova Zelanda, a Christchurch, hanno massacrato 49 persone intente a pregare in due moschee (l’abbiamo commentata qui, nella rubrica Politica e Conflitto). In questi due casi gli attentatori si definivano patrioti intenti a fermare la sostituzione etnica e a difendere la cristianità. E così era per gli italiani che, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, approvarono le leggi razziali del 1938 e perseguitarono gli ebrei, o per quelli che massacrarono i libici e gli etiopici, gli sloveni e gli albanesi. Ma così era anche per quei milioni di tedeschi che attuarono i programmi di Adolf Hitler. Il quale, nell’ultima parte del suo testamento politico, scriveva:

«Soprattutto, ordino al governo e al popolo di mantenere in pieno vigore le leggi razziali e di combattere inesorabilmente l’avvelenatore di tutte le nazioni, l’ebraismo internazionale».

 

Alberto Quattrocolo

Fonti

Alberto Quattrocolo, Non sono pazzi ma razzisti pieni di odio, 15 marzo 2019, https://www.me-dia-re.it/politica-e-conflitto/

Alberto Quattrocolo, Due stragi, che non vanno dimenticate, compiute da razzisti di estrema destra, entrambe il 22 luglio, la prima nel 2011 e la seconda nel 2016, 22 luglio 2018, https://www.me-dia-re.it/corsi-e-ricorsi/

Alberto Quattrocolo, Sostituzione irrazionale, 18 gennaio 2018, https://www.me-dia-re.it/politica-e-conflitto/

Alberto Quattrocolo, Autorizzazione della violenza, 3 novembre 2017, https://www.me-dia-re.it/politica-e-conflitto/

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi, editore s.p.a., Torino, 1957, p. 1215

[1] Ad Ovest, infatti, le forze tedesche, sconfitte dagli Alleati nell’ultima disperata e quasi riuscita l’offensiva scatenate nelle Ardenne, avevano di fronte a sé le forze britanniche e canadesi che attraversavano il Reno, immergendosi nel cuore industriale tedesco della Ruhr, mentre più a sud le forze statunitensi, occupata la Lorena, avanzavano verso Magonza, Mannheim e il Reno. Anche in Italia l’esercito tedesco ripiegava verso nord, spinto dall’avanzata degli statunitensi e dalle truppe del Commonwealth che avanzavano attraverso il fiume Po e nelle Prealpi.

 

29 aprile 1945: il bagno di sangue continua

Il 29 aprile 1945 viene ricordato per l’esposizione dei corpi di Benito Mussolini e della sua amante Claretta Petacci in piazzale Loreto a Milano. Il 29 aprile 1945 viene anche ricordato perché quel giorno, nella Reggia di Caserta, veniva firmata la resa delle armate tedesche presenti Italia e delle truppe fasciste della Repubblica Sociale Italiana (RSI), che sarebbe entrata in vigore il 2 maggio.

Questi due fatti, nel ricordo, si collegano al 25 aprile, la data nella quale si celebra ogni anno l’anniversario della Liberazione. Ma gli orrori non cessarono in quel giorno del ‘45. E il 29 aprile 1945, oltre al Comunicato del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) relativo alla fucilazione di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi della RSI, fu una giornata in cui il sangue continuò a scorrere. Infatti, tra il 25 aprile e il 1° maggio perdevano la vita, tra gli altri, 4.000 partigiani, vale a dire il 10% delle perdite dell’intera guerra di liberazione.

Vediamo alcuni dei fatti di quel tormentato 29 aprile 1945 (per una sintesi rapidissima del “come ci si era arrivati”, si veda la nota [1]).

La fuga di Mussolini verso la Svizzera che finì a Piazzale Loreto il 29 aprile 1945

Sperando di scampare alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, trattando un accordo di resa condizionata, Mussolini aveva abbandonato il 18 aprile 1945 Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si era trasferito presso il palazzo della prefettura di Milano. Qui il 22 aprile aveva pronunciato un discorso a beneficio di un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana.

Si concludeva così:

«Se la Patria è perduta è inutile vivere».

Un’ora senza fine

Il pomeriggio del 25 aprile (i cui fatti abbiamo ricordato qui, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi) con l’intermediazione del cardinale-arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, si era svolto nell’arcivescovado, una delegazione fascista, composta da Mussolini, il sottosegretario Barracu, e dai ministri della RSI, Zerbino e Graziani, aveva incontrato una delegazione del Comitato di Liberazione Nazionale. Durante l’incontro Mussolini aveva appreso che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN, ricevendo da questo solo la possibilità di una “resa incondizionata”, accompagnata, però, da alcune garanzie per la tutela dell’incolumità dei fascisti e dei loro familiari. Mussolini e i suoi si erano presi un’ora per riflettere e avevano lasciato l’arcivescovado per tornare in prefettura. In Arcivescovado non si era più fatti vedere. Verso le 20, i capi della resistenza, davano l’ordine dell’insurrezione generale e Mussolini lasciava Milano e partiva con l’amante Claretta Petacci in direzione di Como, protetto da una corta tedesca [2]. A Como alle 10 del mattino del 26 aprile erano affluiti 10 carrarmati, 4 autoblindo, 228 automezzi 6.694 uomini della RSI.

L’arresto e l’uccisione di Benito Mussolini e Claretta Petacci

Il progetto era quello di combattere un’ultima disperata battaglia nel ridotto della Valtellina. Ma Mussolini aveva respinto tale progetto e aveva lasciato la città per cercare scampo in Svizzera.

La battaglia della Valtellina non si svolse mai. La maggior parte dei fascisti in fuga si disperse in poche ore. Una quindicina di loro cadde a Dongo in cuna scaramuccia con i partigiani che bloccarono la colonna. Mussolini, che, per non essere riconosciuto dai partigiani, aveva indossato il cappotto e l’elmetto di un soldato tedesco, fu arrestato alle 16,30 del 27 aprile. Il 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci venivano abbattuti da una raffica di mitra a Giulino di Mezzegra. A Dongo alle 17 erano stati fucilati dai partigiani 16 degli alti gerarchi fascisti catturati.

L’esposizione di Mussolini, della Petacci e degli altri in Piazzale Loreto

Caricati su un camion, che recuperò anche i corpi di Mussolini e della Petacci, i cadaveri vennero scaricati in piazzale Loreto a Milano il 29 aprile alle 3,40 del mattino. Era domenica quel 29 aprile del 1945.

La strage di 15 partigiani in piazzale Loreto del 10 agosto del ’44.

Meno di un anno prima, il 10 agosto del 1944, alle 6,10 del mattino, quindici partigiani erano stati fucilati da militi del gruppo Oberdan della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti della RSI, eseguendo l’ordine del comando di sicurezza nazista. I 15 cadaveri, sorvegliati dai militi della Muti, che avevano impedito anche ai parenti di prendersene cura, erano stati esposti al pubblico fino alle 8 di sera, venendo vilipesi e oltraggiati in tutti i modi dai fascisti e dalle ausiliarie della RSI. Costoro avevano obbligato i cittadini tutti coloro che passavano da lì (fossero a piedi, in bicicletta o sul tram) a guardare quei corpi sotto il sole.

L’oltraggio ai cadaveri del 29 aprile 1945

Nelle prime ore del mattino di quel 29 aprile del 1945 una folla notevole cominciò ad accalcarsi davanti ai corpi dei fascisti. Che vengono calpestati, e sfigurati, insultati, presi a calci e coperti di sputi. Il corpo di Mussolini venne crivellato perfino da cinque colpi di pistola, da una donna che aveva perso cinque figli in guerra e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci. Alle 11 i Vigili del Fuoco lavarono i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi, poi tolsero dal centro della piazza i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Alessandro Pavolini, Paolo Zerbino, Ferdinando Mezzasoma, Marcello Petacci, Francesco Maria Barracu, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil , sita all’angolo tra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi a testa in giù.

La resa tedesca di Caserta e le stragi naziste di quel 29 aprile

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Mentre venivano compiuti quegli oltraggi in Piazzale Loreto, i tedeschi firmavano una resa incondizionata agli Alleati a Caserta, mentre altrove non lesinavano atrocità e massacri.

L’operazione Sunrise

Alle 14 di quel 29 aprile del 1945, intanto nella Reggia di Caserta si compiva l’Operazione Sunrise, ossia le lunghe e difficili trattative segrete tra l’OSS ( i servizi segreti americani guidati da Allen Dulles, futuro creatore della CIA) e il Comandante delle SS in Italia, Karl Wolff. A Caserta, infatti, le forze alleate ottenevano la resa di un esercito, ancora forte di 23 divisioni. Ovviamente, degli sviluppi positivi dell’operazione “Sunrise” era stato tenuto costantemente informato il CLNAI. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, infatti, non solo coordinava militarmente la lotta al nazifascismo dei suoi circa 60.000 partigiani, ma aveva assunto anche un ruolo d’interlocuzione politica. Quindi i partigiani resero possibile a Wolff di circolare liberamente per concludere la trattativa. Infatti, tra le altre cose, gli Alleati avevano preteso che l’atto di resa riguardasse anche le forze fasciste della Repubblica Sociale Italiana. Così il Maresciallo Rodolfo Graziani, Ministro delle Forze Armate della R.S.I., a Cernobbio, rilasciò al Generale Wolff la seguente delega:

«Con la presente io, Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, nella mia qualità di Ministro delle Forse Armate, do pieni poteri al Generale Karl Wolff, Capo supremo delle SS e della Polizia e Plenipotenziario delle Forze Armate germaniche in Italia, a condurre, per mio conto, trattative alle stesse condizioni praticate per le Forze Armate Germaniche in Italia con intese impegnative riguardo alle truppe regolari dell’Esercito Italiano, dell’Arma Aerea e della Marina, come pure Reparti militari fascisti».

Quell’atto di resa, che fissava a Rovereto la linea d’armistizio, prevedeva il cessate il fuoco in tutta Italia a partire dalle ore 18 del 2 maggio 1945, la data ufficiale della fine della guerra in Italia.

Le battaglie partigiane e le stragi nazifasciste del 29 aprile 1945

Il 29 aprile, quindi, i tedeschi e i fascisti continuavano non soltanto a combattere ma anche a massacrare.

La liberazione di Piacenza e Schio e la soppressione di oltre 40 internati in provincia di Bolzano

Quel giorno, infatti, i partigiani liberarono Piacenza dalle forze fasciste, impedendo ai tedeschi di entrarvi ed ebbe fine la battaglia per la liberazione di Schio dagli occupanti tedeschi, nella quale 42 partigiani persero la vita [3]. Ma nel frattempo, le SS fecero sparire in provincia di Bolzano il professor Mario Padoa, ordinario di chimica organica e inorganica dell’università di Modena e altri quaranta internati.

I massacri nazisti di Mondovì, Vicoforte e Grugliasco.

A Mondovì una pattuglia della 34^ divisione tedesca Brandenburg prima eliminò a raffiche di mitra il comunista Francesco Prato, la moglie Giovanna, la figlia, ventiduenne, Marcella e il figlio Franco di quattordici anni, poi fucilò altre sei persone, vicino al santuario di Vicoforte. A Casalmoro (MN) i tedeschi in fuga uccisero due donne e due partigiani loro parenti. In provincia di Torino una grossa colonna tedesca comprendente mezzi corazzati saccheggiava e incendiava paesi e villaggi, ,mentre nel capoluogo i partigiani cercavano di snidare gli ultimi irriducibili cecchini fascisti e temevano l’arrivo delle due divisioni tedesche (la 34^ e la 5^) del generale Schlemmer, per scongiurare il quale il colonnello Stevens, comandante della missione alleata, avrebbe voluto far saltare i ponti sul Po. Ma il comando partigiano si oppose sia a Stevens sia a Schlemmer, che aveva chiesto il via libera. Il generale tedesco verso le 21,30, si attestò nei pressi di Grugliasco, a pochi chilometri dal capoluogo piemontese. A Grugliasco, liberata dai partigiani, si decise far passare la colonna. I partigiani mandarono a parlamentare il parroco, ma i tedeschi, disarmati i partigiani, dopo averli fucilati e aver staccato le loro teste con calci alla nuca, saccheggiarono negozi e case. Poi verso la mezzanotte catturarono una trentina di persone, tra cui parecchi civili, sfuggite al rastrellamento e altre ancora verso le sei del mattino. Furono fatte passare per le vie del paese, ma esse, incluso il parroco, cantavano. I tedeschi, dopo averli suddivisi in tre gruppi e li fucilarono tutti e sessantasei.

I bagni di sangue in provincia di Treviso e la clemenza di una madre

A Castel di Godego e nella frazione di Cazzadora, i tedeschi in ritirata uccisero 80 civili, tutti maschi. Il più giovane aveva 15 anni. Mentre a Nervesa della Battaglia due tedeschi ammazzavano un altro civile Egidio De Sordi mentre si dirigeva alla casa di un amico per vegliarne la salma. Catturati dai partigiani, i due tedeschi furono portati alla madre dell’ucciso, che chiese di non fare vendetta, sicché i due furono poi consegnati agli americani. A Galliera Veneta alcuni tedeschi in ritirata assassinarono don Fausto Calegari, cappellano della parrocchia di San Niccolò, mentre andava a confortare due partigiani moribondi.

Battaglie e fucilazioni di civili in provincia di Udine e Vicenza

A Cervignano del Friuli una colonna di SS, dopo uno scontro con i partigiani lungo la strada da Grado, catturò ventidue civili e li eliminò a raffiche di mitra. In provincia di Vicenza, a Pedescala alle 5 del mattino, i paracadutisti tedeschi delle SS a bordo di un carro armato, aiutati da fascisti italiani con indosso la divisa delle SS, incendiarono le case e uccisero chiunque trovassero dentro poi, a pochi passi dalla chiesa, trucidarono ventisei uomini, tra cui il parroco don Fortunato Carlassare e suo padre. Quella soldataglia continuò ad assassinare, stuprare e a saccheggiare fino all’alba del 2 maggio, quando lascerà il paese, dopo aver 55 uomini e 9 donne.

Il comunicato del CLNAI del 29 aprile 1945

La sera del 29 aprile 1945 il CLNAI emanò un comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell’esecuzione di Mussolini. Questo era il testo del comunicato.

Il CLNAI dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale – che il fascismo per venti anni gli ha negato – se il CLNAI non avesse tempestivamente dimostrato la sua ferrea decisione di saper fare suo un giudizio già pronunciato dalla storia.

Solo a prezzo di questo taglio netto con un passato di vergogna e di delitti, il popolo italiano poteva avere l’assicurazione che il CLNAI è deciso a proseguire con fermezza il rinnovamento democratico del Paese. Solo a questo prezzo la necessaria epurazione dei residui fascisti può e deve avvenire, con la conclusione della fase insurrezionale, nelle forme della più stretta legalità.

Dell’esplosione di odio popolare che è trascesa in quest’unica occasione a eccessi comprensibili soltanto nel clima voluto e creato da Mussolini, il fascismo stesso è l’unico responsabile.

Il CLNAI, come ha saputo condurre l’insurrezione, mirabile per disciplina democratica, trasfondendo in tutti gli insorti il senso della responsabilità di questa grande ora storica, e come ha saputo fare, senza esitazioni, giustizia dei responsabili della rovina della Patria, intende che nella nuova epoca che si apre al libero popolo italiano, tali eccessi non abbiano più a ripetersi. Nulla potrebbe giustificarli nel nuovo clima di libertà e di stretta legalità democratica, che il CLNAI è deciso a ristabilire, conclusa ormai la lotta insurrezionale.

Il comunicato era firmato dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia e in particolare da:

Achille Marazza e Augusto De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Ferruccio Parri e Leo Valiani per il Partito d’Azione, Luigi Longo e Emilio Sereni per il Partito Comunista Italiano, Giustino Arpesani e Filippo Jacini per il Partito Liberale Italiano, Rodolfo Morandi e Sandro Pertini per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il 10 giugno del 1940, Mussolini, capo del Governo da 18 anni, impressionato dai successi bellici di Hitler le cui forze armate dilagavano in Europa, riuscendo a battere anche potenze quali la Gran Bretagna e la Francia, invadendo quest’ultima, aveva rinunciato alla posizione formalmente neutrale, schierandosi al fianco della Germania nazista. Ma presto diventava evidente la folle megalomania di quella decisione. Dopo i disastri subiti dalle truppe italo-tedesche in Russia e nell’Africa Settentrionale e Orientale, le forze anglo-americane sbarcavano in Sicilia, il 9 luglio del 1943, inducendo il Gran Consiglio del Fascismo, che aveva preso il posto della Camera dei Deputati, a sfiduciare Mussolini, che, per ordine del Re, Vittorio Emanuele III, veniva arrestato. Il regime fascista era finito e il governo veniva affidato al Maresciallo Pietro Badoglio, a giudizio del Re non troppo compromesso con il fascismo. L’Italia, però, restava alleata della Germania e continuava a combattere contro gli Alleati. Due mesi dopo, tuttavia, l’8 settembre, Badoglio informava il popolo italiano dell’avvenuto firma dell’armistizio con gli Alleati. Ciò significava voltare le spalle a Hitler, le cui truppe, però, erano già presenti in Italia. Alla violenta reazione tedesca, con l’occupazione di gran parte del paese e le brutali repressioni sulla popolazione, mentre il re, il governo e il Comando supremo lasciavano Roma, abbandonando il popolo italiano e l’esercito a se stessi, per andarsi a rifugiare nel Sud, dove, nel frattempo, a Salerno,  il 9 settembre erano sbarcati gli anglo-americani. Il 12 settembre, intanto, un commando di paracadutisti tedeschi liberava Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso e lo portava in Germania. Sei giorni dopo, Benito Mussolini annunciava su Radio Monaco la costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI). L’Italia si ritrovava spaccata in due. Il Sud era presidiato dagli Alleati, il Centro e il Nord sono occupati dai tedeschi che spadroneggiano con il loro “nuovo” alleato la RSI, detta anche Repubblica di Salò. I soldati tedeschi sono impiegati per lo più per arrestare la risalita delle truppe alleate lungo la penisola, mentre i soldati e i militi della RSI sono destinati prevalentemente a reprimere le forze partigiane costituitesi in questa parte d’Italia. Qui le truppe nazifasciste scatenavano una violenza feroce sia sui resistenti che sulla popolazione civile, che trovandosi in territorio nemico continuava a subire, oltre alla miseria generata dalla guerra, anche i bombardamenti angloamericani. Finalmente, all’inizio di aprile del 1945, mentre sui vari fronti, le forze armate tedesche si ritaravano progressivamente dai Paesi e dai territori che all’inizio del conflitto avevano fulmineamente occupato, ricacciate indietro a Est, dalle truppe sovietiche, dell’Armata Rossa, ormai in grado di minacciare direttamente il cuore della Germania e a Ovest dalle truppe americane e inglesi, sbarcate il 6 giugno del 1944 in Normandia, anche in Italia iniziava l’offensiva degli Alleati, che in pochi giorni, sfondavano la Linea Gotica, dietro la quale erano state bloccate dai nazifascisti. Liberavano Massa Carrara, Bologna, Ferrara e superavano il Po. I partigiani tra il 22 e il 25 aprile abbandonava le loro basi in montagna e attaccavano le località ancora in mano ai tedeschi e ai fascisti. Ma a discesa in pianura delle forze della Resistenza non era priva di ostacoli. C’erano ancora 135.000 soldati della Repubblica di Salò e 90.000 tedeschi, cui si aggiungevano quelli che si ritaravano dalla Linea Gotica. Il 23 aprile le truppe alleate erano entrate a Parma, il giorno dopo era stata liberata Genova. Il 25 aprile mattina gli operai, iniziarono a occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano. Qui su radio “Milano Libera”, alle 8 del mattino, Sandro Pertini, a nome del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), comunicava la proclamazione dello sciopero generale e l’insurrezione contro tedeschi e repubblichini.

[2] In tutto si trattava di trenta automobili, tre delle quali occupati da militari della gendarmeria tedesca, aperta da quattro motociclisti e scortata da un carro tedesco e da alcune autoblindo della famigerata Legione Muti. Sulle automobili i membri del governo quasi al completo, funzionari e personalità fasciste.

[3] Insieme a Genova, Schio è l’unico caso di resa incondizionata della Wehrmacht ai partigiani.

Fonti

Pierre Milza, Gli ultimi giorni di Mussolini, , Longanesi, Milano 2011

P. Milza, Mussolini, Carocci, Roma, 2000

G. Pisanò, Storia del Fascismo, Pizeta, Milano, 1990

http://anpi-lissone.over-blog.com

http://www.ilpostalista.it/tramonto_013003.htm

1967, Muhammad Ali rifiuta l’arruolamento per il Vietnam

La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera. Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza. Voi non mi sosterrete mai in America per il mio credo religioso. E volete che vada da qualche parte a combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?

Il 28 aprile 1967 Muhammad Ali rifiuta di combattere nella guerra del Vietnam, dichiarandosi pubblicamente obiettore di coscienza, e per questo viene arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi e della licenza per combattere sul ring. Una scelta coraggiosa sotto tutti i punti di vista: prima di essere riabilitato passano oltre tre anni, tra l’altro nell’età migliore per un pugile, dai venticinque anni ai ventotto, durante i quali perde ingaggi milionari e subisce il linciaggio mediatico di una grossa parte degli Stati Uniti, che lo giudica un vigliacco. Ma la sua battaglia lo rende un’icona nella controcultura degli Anni Sessanta e un simbolo per il popolo nero e per tutti gli oppressi della terra.

No, non andrò a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare e assassinare un’altra nazione povera solo per conservare la dominazione dei padroni bianchi sui popoli di pelle scura in tutto il mondo. […] Mi hanno avvertito che prendere questa posizione metterà a rischio il mio prestigio e potrebbe farmi perdere milioni di dollari che guadagnerei come campione di boxe. Ma non disonorerò la mia religione, la mia gente e me stesso per diventare uno strumento per la riduzione in schiavitù di coloro che stanno combattendo per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza.

Evita il carcere, ma al momento della sua dichiarazione non può esserne certo. Negli anni Cinquanta Elvis Presley aveva sfruttato la leva obbligatoria, che avrebbe potuto evitare facendosi assegnare ai servizi speciali, per rifarsi l’immagine; Ali potrebbe fare la stessa cosa, invece sceglie una strada che polarizza ancora di più la società americana.

Figura d’eccezione dello sport mondiale del XX secolo, il loquace Ali è solito parlare in un modo polemico (“le uniche cose più veloci dei sui pugni e dei suoi piedi erano la sua mente e la sua bocca”) che l’America tradizionale non è ancora pronta ad ascoltare dalla voce di un giovane nero. Porta il giocoso trash-talking della tradizione afro-americana fuori dal campo di basket e dagli angoli delle strade, mettendo in scena sui compassati media statunitensi le rime e il flow che, decenni dopo, diventeranno stilema dei rapper più famosi, e trasforma profondamente il ruolo e l’immagine dell’atleta afroamericano: secondo la scrittrice Joyce Carol Oates, fu uno dei pochi sportivi a “definire con i suoi termini la propria reputazione pubblica”.

Poco dopo aver sconfitto Liston, il 25 febbraio del ‘64, il nuovo campione dei pesi massimi annuncia di aver cambiato il suo “nome da schiavo”, Cassius Clay, in Muhammad Ali, quello scelto per lui dalla setta separatista di Elijah Muhammad, la Nation of Islam, che preoccupa i benpensanti e l’FBI (ma anche diversi attivisti per i diritti civili) per il suo rifiuto dell’integrazione razziale (aderirà in seguito all’Islam più tradizionale); ai molti giornalisti sportivi e rivali che rifiutano di rivolgersi a lui con il suo nuovo nome risponde: “So dove sto andando e so la verità e non devo essere quello che voi volete che io sia. Sono libero di essere quello che voglio.”.

Proprio nel ‘64 Ali era stato classificato ai test dell’U.S. Armed Forces come “abile ai servizi sedentari” in quanto “his writing and spelling skills wera sub-par” (gravi deficit nella lingua scritta); ma nel ‘67 la guerra in Vietnam è nel terzo anno di inutile escalation, i soldati impegnati oltre oceano sono 47.000 e non bastano a vincerla: perciò viene abbassata la soglia minima di punteggio ai test e l’ufficio leva di Louisville riclassifica Cassius Marcellus Clay come “immediatamente arruolabile”, inducendolo al clamoroso rifiuto.

Il suo pacifismo, la sua amicizia con Elijah Muhammad e Malcolm X, le sue dichiarazioni contro la guerra irritano politici, vertici militari e probabilmente anche il presidente Lindon Johnson, che ha ereditato da John Kennedy il problema-Vietnam e non sa più come risolverlo. L’opinione pubblica si indigna, mettere in discussione l’intervento militare è, come minimo, “mancanza di rispetto verso i ragazzi che muoiono laggiù”, e due leggendari campioni dei massimi (bianchi) dichiarano: “Clay ha disonorato il titolo e la bandiera americana” (Gene Tunney) e “Bisogna esiliarlo, cacciarlo dalla nostra terra” (Jack Dempsey).

Ma per molti giovani che cominciano a contestare l’intervento in Vietnam nelle università Muhammad Ali è un idolo: alla Howard University di Washington accorrono in 4000 ad ascoltare le sue parole contro il conflitto in corso; la sua presa di posizione contribuisce a incoraggiare Martin Luther King a schierarsi contro la guerra. Il filosofo Bertrand Russell gli scrive:

Nei prossimi mesi il suo governo cercherà indubbiamente di danneggiarla in tutti i modi, ma io so che lei si rende conto di parlare a nome della sua gente e degli oppressi di tutto il mondo. Cercheranno di spezzarla, perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere, cioè la ritrovata consapevolezza di un popolo deciso a non farsi più massacrare, degradare dalla paura e dall’oppressione. Lei ha il mio appoggio incondizionato.

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Alle 8.30 del 28 aprile 1967, Ali è convocato dalla Commissione Locale di Trasferimento. Test e visite, in fila con altri ragazzi pronti per l’arruolamento, poi alle 10 il tenente Steve Dunkley pronuncia la formula di rito: “Cassius Marcellus Clay, esercito, faccia tre passi avanti per prestare giuramento”. Ali resta nella fila. L’ufficiale ripete la formula. Stessa reazione. Un superiore chiama Ali in un’altra stanza, gli spiega che se rifiuta l’arruolamento lo aspetta il carcere. Il suo avvocato ha in mano una lettera riservata che gli garantisce la scappatoia di prestare servizio militare a Houston in attesa che si esauriscano i ricorsi. Lo riportano nell’altra stanza, dove sono arrivati anche due funzionari dell’FBI. Dunkley ripete per la terza volta la formula, Ali va alla scrivania e firma la dichiarazione di rifiuto. Appena le agenzie battono la notizia si scatena un pandemonio. La Commissione Pugilistica dello Stato di New York gli toglie la licenza di pugile.

Il 20 giugno, al processo, il pubblico ministero conclude: “Signor giudice, non possiamo lasciare andar libero quest’uomo. Se lui se la cava, tutti i neri diventeranno musulmani per passarla liscia allo stesso modo”. In pochi minuti una corte di uomini bianchi stabilisce che le motivazioni religiose non sono sufficienti per giustificare il rifiuto all’arruolamento e condanna Clay a 5 anni di carcere e 10.000 dollari di multa. La WBA lo dichiara immediatamente decaduto e vara un torneo per proclamare un nuovo campione. Muhammad Ali è sportivamente finito.

Cominciano i ricorsi: il 20 giugno ‘70 la Corte Suprema degli Stati Uniti decide con verdetto unanime che l’arruolamento possa essere rifiutato per motivi religiosi. L’opinione pubblica ormai è cambiata, l’America benpensante si è accorta che la guerra nel Sud Est asiatico non è come l’avevano dipinta politici e militari, e Muhammad Ali vince la sua battaglia, tuttavia sul piano sportivo le cose si muovono più lentamente: gli restituiscono il passaporto ma non la licenza pugilistica, perché la Commissione di New York non torna sulla decisione. Si trova una scappatoia nello stato della Georgia e in ottobre Ali riprende la sua luminosa carriera. E’ stato lontano dal ring per 3 anni, 7 mesi e 4 giorni, i migliori nella vita di un atleta, ha perso borse milionarie, ma è diventato un simbolo.

I suoi incontri con Foreman in Zaire (“the Rumbe in the Jungle”) e Frazier a Manila hanno acquisito valenza iconica per l’immaginario mondiale, non solo in ambito pugilistico; nominato “sportivo del secolo” dai maggiori media del pianeta, la sua figura carismatica è stata celebrata da innumerevoli pellicole e pubblicazioni. In una delle ultime apparizioni pubbliche, in veste di tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta nel ‘96, accende la fiamma olimpica scosso dai tremiti del morbo di Parkinson, mostrandosi al mondo per sensibilizzarlo sulle malattie genetiche e sulle discriminazioni nei confronti dei disabili. Continua fino all’ultimo a impegnarsi in azioni a sfondo umanitario; nel ‘90, grazie alla sua mediazione, quindici giovani soldati americani lasciano le carceri irachene, e nel 2000 l’ONU lo nomina Ambasciatore di Pace.

Ali muore il 3 giugno 2016. Come egli stesso ebbe a dire:

I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.radio24.ilsole24ore.com; V. Peroncini, “Cassius Clay, il gigante buono leggero come una farfalla, dentro e fuori”, www.artspecialday.com; L. Panella, “Morto Muhammad Ali, la leggenda del pugilato sempre in prima fila per i diritti civili”, www.repubblica.it; M. Rubin, “Muhammad Ali e i quattro modi in cui ha cambiato l’America”, www.rollingstone.it; D. Redaelli, “Boxe, 76 anni fa nasceva Ali. Quel no al Vietnam che gli costò una condanna”, www.gazzetta.it

Cirillo, la Camorra, le BR …

Era trascorso quasi un anno dal 27 aprile del 1981, giorno del rapimento di Ciro Cirillo, quando, il 16 marzo 1982, su L’Unità apparve una notizia sconvolgente firmata da Marina Maresca: detenuto nel carcere di Ascoli Piceno, Raffaele Cutolo, il boss della Nuova Camorra Organizzata, ha incontrato alcuni esponenti della DC e alcuni rappresentanti dei servizi segreti italiani, che hanno richiesto la sua collaborazione.

Già il fatto che membri del partito che governava l’Italia da oltre trent’anni e dei servizi di intelligence incontrassero segretamente in un carcere Cutolo era piuttosto inquietante. Ma ancora di più lo era il fatto che l’argomento del colloquio fosse un sequestro di persona compiuto dalle Brigate Rosse. E che la persona fosse Ciro Crillo.

Ciro Cirillo, già esponente della corrente di Antonio Gava della Democrazia Cristiana e negli anni sessanta  segretario provinciale del partito, dal ’69 al ’75 era stato Presidente della Provincia di Napoli, venendo poi eletto Presidente della Regione Campania nel 1979, e nel 1981, a sessant’anni era stato nominato assessore regionale ai lavori pubblici. Inoltre a seguito terremoto dell’Irpinia del 1980, Cirillo aveva assunto la carica di vicepresidente del Comitato tecnico per la ricostruzione.

Il sequestro di Ciro Cirillo

Il 27 aprile 1981, alle 21,45, mentre si trovava nel proprio garage di casa, in via Cimaglia, a Torre del Greco, l’assessore campano all’urbanistica Cirillo fu sequestrato dalle BR. Tre anni prima era stato sequestrato Aldo Moro.

L’agguato

Cirillo, il suo segretario Ciro Fiorillo, l’agente di scorta, maresciallo di P.S. Luigi Carbone, e l’autista Mario Cancello furono attaccati da un commando di cinque appartenenti alle Brigate Rosse. Nel conflitto fuoco furono uccisi Carbone e Cancello, mentre Fiorillo venne ferito alle gambe. Le BR che avevano rapito Cirillo erano capeggiate dal criminologo Giovanni Senzani.

Il fatto che Senzani fosse a capo del commando getta già di per sé un alone di ulteriore oscurità sulla vicenda. A costui si è già fatto riferimento su questa rubrica, Corsi e Ricorsi nel post dedicato all’omicidio del giudice Minervini (Il giudice Minervini, un uomo abbastanza serio da non prendersi troppo sul serio).

Senzani, il capo del commando brigatista: un brigatista “puro” o un uomo legato ai settori deviati del Sismi, legati alla P2?

Si era scritto, infatti, che il professore Giovanni Senzani era stato definito, nel 2000, da Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi e il terrorismo, sì, «il leader dell’ala più sanguinaria delle Br», ma anche una figura atipica del terrorismo di sinistra, «sia per l’alto livello culturale sia per la rete di amicizie intessute negli ambienti criminologici e universitari italiani e stranieri». E, soprattutto, «era il cervello politico delle BR e aveva rapporti forti anche con apparati». Senzani, infatti, era stato anche l’autore del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Minervini, aveva avuto non poche responsabilità negli omicidi del professore Vittorio Bachelet (12 febbraio del 1980), del generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi (31 dicembre del 1980) e verosimilmente anche in quello di Aldo Moro. Come spiegò Pellegrino, il dott. Arrigo Molinari, vice-questore vicario di Genova e poi direttore dell’Ufficio ispettivo della Polizia di Stato per l’Italia del Nord, riteneva plausibile che fin dall’ingresso nelle Brigate Rosse, alla metà degli anni Settanta, Senzani fosse «protetto dai settori deviati del Sismi, quelli legati alla P2».

I misteri sulla trattativa tra le BR, la Nuova Camorra Organizzata, politici DC e i Servizi Segreti per la liberazione di Cirillo

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Il 17 marzo del 1982, quindi, il giorno dopo il sopra citato articolo di Marina Maresca, L’Unità pubblica un documento esplosivo, con dicitura “MININTERN”, in cui si sosteneva che nel carcere di Ascoli, il 30 maggio del 1981, si fosse recato anche un politico di rilievo nazionale come Vincenzo Scotti (legato al più influente politico campano dell’epoca, Antonio Gava). Si arriva ad affermare che le richieste di collaborazione al boss della Nuova Camorra Organizzata sarebbero pervenute da: Antonio Gava (democristiano, predecessore di Cirillo come presidente della Provincia di Napoli, 13 volte ministro, che ebbe non poche traversie giudiziarie) Giuliano Granata (all’epoca sindaco di Giugliano, in Campania), Silvio Gava (ex ministro ed ex senatore della DC), Francesco Pazienza (all’epoca trentacinquenne, faccendiere e consulente del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare italiano, il SISMI, sarà poi condannato a 13 anni di carcere per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, per il crac del Banco Ambrosiano e per associazione a delinquere), Francesco Patriarca (anch’egli democristiano, della corrente di Antonio Gava, sarà condannato nel 2007 con sentenza definitiva a nove anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, essendo stato giudicato colpevole di aver reso sistematicamente favori al clan camorristico Alfieri-Galasso), Flaminio Piccoli (all’epoca segretario della DC) e Vincenzo Scotti (democristiano, più volte ministro tra il ’78 e il ’92, sottosegretario agli Esteri, tra il 2008 e il 2011, nel governo Berlusconi, infine fondatore e presidente della Link Campus University, anch’egli ha avuto complesse vicende giudiziarie: rinviato a giudizio per peculato e abuso d’ufficio per lo scandalo Sisde, nonostante le accuse penali siano poi decadute per prescrizione, è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire allo Stato 2.995.450 euro, per aver fatto acquistare un palazzo a Roma con fondi riservati del Sisde a un prezzo maggiorato di 10 miliardi di lire al fine della creazione di fondi neri).

Quel documento si rivelò poi falso. Ma ciò non bastò a chiarire opacità e misteri. Il documento era stato redatto dal noto criminologo Aldo Semerari, il quale, sempre su L’Unità, qualche giorno dopo, affermò di averlo redatto dopo aver raccolto quella testimonianza direttamente da Raffaele Cutolo. Davanti al “castello” di questi, ad Ottaviano, pochi giorni dopo, il 1° aprile del 1982, Semerari fu trovato decapitato nella sua automobile.

La liberazione di Cirillo

La liberazione dell’assessore napoletano Ciro Cirillo, da parte delle Brigate Rosse, avvenne il 24 luglio 1981. Davvero per Ciro Cirillo la Democrazia Cristiana aveva deciso di trattare con le BR? I vertici del partito, a partire da Flaminio Piccoli, hanno sempre rigettato con sdegno questa tesi. Tuttavia molte testimonianze, anche se punteggiate di omissis e colme di reticenze, confermerebbero l’attivazione di personaggi di rilievo della Democrazia Cristiana e di figure dei servizi segreti ai fini della liberazione di Cirillo. ll magistrato che per anni si occupò di questa intricata vicenda, Carlo Alemi, all’epoca giudice istruttore, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Il caso Cirillo. La trattativa Stato-BR-Camorra in cui si legge:

«Per la verità, dal primo momento in cui ho iniziato a indagare sul sequestro Cirillo, malgrado la DC avesse negato tale circostanza, si era diffusa la notizia secondo cui, per il rilascio del Cirillo, era stato pagato un riscatto di tre miliardi di lire, di cui metà sarebbe stata versata alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo (tale circostanza mi sarebbe poi stata confermata a verbale da diversi cutoliani)».

Alemi non ha dubbi sul fatto che ci sia stata una trattativa: «Le sentenze della Corte d’Appello e della Cassazione hanno sancito che ci fu una trattativa», ha dichiarato a Repubblica. Aggiungendo anche che a parere suo non si può dubitare che a trattare con le BR, mediante Cutolo, fosse lo Stato: «E non mi si venga a dire che quei soggetti non rappresentavano lo Stato: gli attori di questa vicenda erano ai vertici dell’amministrazione pubblica, dei servizi segreti, del ministero della Giustizia, del partito che aveva la maggioranza relativa in Parlamento». 

Sullo stesso piano si colloca il servizio di Sandro Ruotolo per Fanpage.it.

Inoltre, Carlo Alemi anche in quell’intervista ha spiegato perché, a parer suo, per Cirillo si negoziò la liberazione, mentre tale negoziato non venne portato a termine per Aldo Moro. «Cirillo gestiva la ricostruzione post terremoto, dunque serviva vivo alla Dc. Nessuno, invece, voleva che Aldo Moro rimanesse in vita. Non il suo partito, non gli americani e neppure i socialisti, che a parole erano per la trattativa ma temevano il compromesso storico».

Come ricorda Andrea Di Consoli su Il Sole 24 Ore, dopo 89 giorni di prigionia, Cirillo è liberato e mentre una pattuglia della Polizia sta per condurlo in Questura, tre volanti della stessa Polizia, al comando del vicequestore Biagio Ciliberti, bloccano i colleghi e, prelevato Cirillo, lo portano a casa e per ben tre giorni impediscono ai magistrati di interrogarlo. «E tutto questo mentre politici e amici si recano indisturbati nell’abitazione di Cirillo».

Che via sia stato o meno un accordo poi rispettato tra uomini della DC, servizi segreti, Nuova Camorra Organizzata e Brigate Rosse, queste ultime ottennero, tra le altre cose, dei soldi e l’eliminazione di alcuni investigatori. Mentre, scrive Alemi, tra i “favori” concessi dalle BR a Cutolo sarebbe possibile annoverare l’omicidio di Antonio Ammaturo: il 15 luglio 1982, il vicequestore Ammaturo, impegnato nella lotta alla camorra, venne ucciso, infatti, proprio dalle Brigate Rosse. Con lui scomparvero anche la relazione sul caso Cirillo che aveva trasmesso ai suoi superiori e la copia che aveva consegnato al fratello, il quale a sua volta finì vittima di uno strano incidente di caccia.

 

Alberto Quattrocolo

Fonti

Dario Del Porto, Il giudice Alemi: “Nel mio libro i segreti della trattativa Stato-camorra. Cirillo serviva vivo alla Dc”, https://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/06/24/news/alemi-199856291/

Andrea Di Consoli, Quando la DC decise di trattare con le BR per liberare Ciro Cirillo, www.ilsole24ore.com

Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Einaudi, Torino, 2000

M. Maresca, La DC trattò con le Br. Due esponenti da Cutolo per il riscatto Cirillo, in L’Unità, 16/03/1982, p. 1

Sandro Ruotolo, Sequestro Ciro Cirillo, Rosetta Cutolo: “Qua venivano i politici, andavano tutti da mio fratello”, https://youmedia.fanpage.it/video/aa/XFbHm-SwPNW2kSvthttps://youmedia.fanpage.it/video/aa/XFbHm-SwPNW2kSvt

www.antimafiaduemila.com

Guernica

Nel pomeriggio del 26 aprile 1937, ottantadue anni fa, la piccola città basca di Guernica fu quasi del tutto cancellata da uno dei bombardamenti più rappresentativi del XX secolo. La guerra civile spagnola era cominciata meno di un anno prima. I nazionalisti del generale Francisco Franco e i repubblicani guidati dal Fronte Popolare, la coalizione dei partiti di sinistra e estrema sinistra spagnoli, si fronteggiavano in un sanguinoso succedersi di battaglie e massacri. Nel 1931, infatti, era sorta, sulle ceneri del Regno di Spagna, la Seconda Repubblica Spagnola, guidata da repubblicani e socialisti, che avevano ottenuto una decisa vittoria elettorale nella consultazione nazionale di quell’anno. Dopo una serie di crisi governative, incluso un tentativo di colpo di Stato, avvenuto già nel ’32, e una vittoria elettorale della coalizione di centro-destra del ’33, si era giunti alle elezioni del 16 febbraio 1936. Queste avevano assegnato la maggioranza al Fronte Popolare, composto dai partiti della sinistra, con 4.838.000 voti contro i 3.996.000 conseguiti dalla destra. Ma le tensioni e le violenze non erano cessate. Contro il governo della Repubblica il generale di brigata Emilio Mola e altri militari, tra cui Francisco Franco, nel luglio del 1936 avevano organizzato un colpo di Stato, dando luogo, così, al conflitto tra le truppe fedeli al governo legittimo e quelle fasciste (franchiste), al fianco delle quali si erano schierati i governi di Benito Mussolini e di Adolf Hitler.

Il bombardamento del 26 aprile del 1937 sulla città di Guernica divenne il simbolo di quella guerra civile, ma fu anche l’anticipo lugubre delle stragi di civili che si compirono nella Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1937 Guernica contava appena settemila abitanti, ma si trovava a poche decine di chilometri da quel fronte lungo il quale si battevano le forze repubblicane contro quelle nazionaliste. Mentre il leader dei nazionalisti Franco, appoggiato dai fascisti italiani e dai nazisti tedeschi, puntava con un certo successo al controllo militare dell’estremo sud della Spagna e di un’area piuttosto grande nel nord-ovest spagnolo, al nord l’obiettivo era conquistare Bilbao, per poter sottomettere l’intera regione. I Paesi Baschi, infatti, avevano un proprio corpo militare, alleato del Fronte Popolare. E quell’anno questa regione era diventata una roccaforte repubblicana, circondata da territori in mano ai nazionalisti.

Guernica si trovava sulla strada per Bilbao e da lì sarebbero dovuti transitare i repubblicani nel caso fossero stati costretti alla ritirata. Guernica, tuttavia, non era un vero e proprio centro militare. Il piano della sua distruzione corrispondeva alla volontà delle forze franchiste di terrorizzare la popolazione civile spagnoli che appoggiava i repubblicani e, forse anche, di mandare un messaggio alle potenze straniere.

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Il 26 aprile del 1937, un lunedì, il mercato che normalmente si svolgeva, per precauzione, era stato sospeso dalle forze repubblicane. Ma i 31 bombardieri e i 42 caccia (di cui 28 bombardieri e 16 caccia, della Legione Condor, cioè della Luftwaffe, l’aviazione tedesca, e 3 bombardieri e 26 caccia dell’Aviazione Legionaria, cioè della Regia Aeronautica italiana), comandati da Wolfram von Richthofen riuscirono comunque a togliere la vita a moltissimi civili e a demoralizzare pesantemente i repubblicani.

Nella prima incursione, quella delle 16,30 circa, venne colpita la zona del ponte di Renteria, a est della città, che costituiva un importante obiettivo militare, essendo il passaggio obbligato per l’eventuale ritirata dei repubblicani. Poi, però, gli aerei nazifascisti tornano a Guernica, teoricamente per colpire la ferrovia e le fabbriche di armi. Buona parte della città fu devastata, ma le fabbriche d’armi non vennero seriamente danneggiate, così come non lo fu la Casa de Juntas, un monumento molto importante per la cultura basca. Ciononostante, l’effetto traumatico sugli abitanti e sulle forze repubblicane del bombardamento fu tale da consentire ai nazionalisti di prendere il controllo di Guernica, e nei mesi seguenti dell’intera regione.

George Stear, giornalista britannico inviato del Times, fu il primo straniero a dare la notizia del bombardamento su Guernica. Nel suo resoconto, che fu pubblicato anche dal New York Times, stimò che fossero morte diverse centinaia di persone. I repubblicani affermarono che i civili uccisi erano 2.000. I nazionalisti, dal canto loro, accusarono i repubblicani di aver esagerato i morti. E, viste le reazioni dell’opinione pubblica internazionale, giunsero perfino a sostenere  che il bombardamento su Guernica era stato compiuto dai repubblicani stessi. La stima più condivisa sostiene che i morti furono circa 300.

Se grazie al reportage di Steer, il bombardamento di Guernica attirò condanne dalla politica e dalla società civile occidentale, esso diventò un simbolo delle stragi di civili, nonostante le ben più devastanti atrocità della di poco successiva Seconda guerra mondiale, per merito di Pablo Picasso. Già pittore famosissimo, cui il governo repubblicano spagnolo aveva affidato il compito di realizzare un’opera da esporre nel padiglione della Spagna all’esposizione internazionale di Parigi, nel maggio del 1937, a pochi giorni dal bombardamento su Guernica, Picasso prese a dipingere una tela lunga quasi otto metri e alta tre e mezzo. Intitolò la sua opera Guernica. Per la capacità di rappresentare l’orrore, il caos e il terrore del bombardamento, è divenuta la più famosa opera d’arte di sempre sulla guerra. Oggi il quadro è esposto al museo Reina Sofia di Madrid.

Alberto Quattrocolo

25 aprile 1945

Il 25 aprile è in Italia la festa della Liberazione dal nazifascismo e della fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 25 aprile del 1945, in realtà, per quanto fortemente logorate le truppe tedesche, che occupavano ancora il Nord Italia, con l’appoggio di quelle fasciste, non terminò tutto in un solo giorno. Il 25 aprile del 1945, tuttavia, divenne “festa della Liberazione”, cioè “l’anniversario della Liberazione d’Italia”, in virtù di una decisione presa circa un anno dopo, il 22 aprile del 1946, dal governo italiano dell’epoca. Infatti, su proposta del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il re Umberto II, allora principe e luogotenente del Regno d’Italia (abbiamo ricordato in questo post la transizione dal Regno d’Italia alla Repubblica Italiana), il 22 aprile ’46 emanò un decreto legislativo luogotenenziale (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive“) in cui si stabiliva che:

«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale

La data del 25 aprile come festa della Liberazione fu fissata in modo definitivo con la legge n. 269 del maggio 1949, presentata da De Gasperi in Senato nel settembre 1948.

25 aprile del 1945: «Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista»

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire».

Con queste parole, trasmesse dalla radio “Milano Libera”, alle 8 del mattino del 25 aprile del 1945, il futuro presidente della Repubblica, allora partigiano e membro del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), Sandro Pertini, comunicava la proclamazione dello sciopero generale e l’insurrezione contro tedeschi e repubblichini. Lo faceva a nome del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), che aveva sede a Milano ed era composto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani. Il CLNAI, infatti, nel proclamare l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, cioè nel Nord Italia, ordinava a tutte le forze partigiane attive, facenti parte del Corpo Volontari della Libertà, di attaccare i presidi fascisti e tedeschi e di imporre loro la resa.

19 aprile 1945: il Proclama «Arrendersi o perire»

 Lo sciopero generale proclamato il 25 aprile faceva seguito, riprendendolo, al proclama diramato dal CLNAI e dal CVL il 19 aprile 1945 e diffuso tramite quotidiani e manifesti nel Nord Italia. Nel proclama si leggeva:

«Arrendersi o perire! La battaglia finale contro la Germania hitleriana volge a passi rapidi e sicuri verso il trionfo definitivo delle potenze alleate dei popoli democratici. La cricca hitleriana e fascista sente venire la propria fine e vuol trascinare nella rovina estrema le ultime forze che le restano e, con esse, il popolo e la nazione. È una lotta inutile ormai per i nazifascisti, è un suicidio collettivo. Una sola via di scampo e di salvezza resta ancora a quanti hanno tradito la patria, servito i tedeschi, sostenuto il fascismo: abbassare le armi, consegnarle alle formazioni patriottiche, arrendersi al Comitato di liberazione nazionale. Arrendersi o perire! È l’intimazione che deve essere fatta a tutte le forze nazifasciste, a quelle tedesche come a quelle italiane, a quelle volontarie fasciste come a quelle coscritte del cosiddetto esercito repubblicano. Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato. Sia ben chiaro per i componenti delle forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi in mano sarà fucilato. Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al Comitato di Liberazione Nazionale, consegna le armi – quante armi può – ai patrioti avrà salva la vita,se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti. Il Comitato di Liberazione Nazionale e le formazioni armate del Corpo dei Volontari della Libertà non accettano e non accetteranno mai – in armonia con le decisioni dei capi responsabili delle Nazioni Unite – altra forma di resa dei nazifascisti che non sia la resa incondizionata. Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza».

La sconfitta nazifascista

Il 24 aprile 1945 le forze anglo-americane avevano superato il Po e il giorno dopo, il 25 aprile i soldati tedeschi e quelli della Repubblica di Salò (in questo post abbiamo ricordato l’annuncio di Mussolini, il 18 settembre del ’43, su Radio Monaco della sua formazione) cominciarono a ritirarsi da Milano e da Torino. Le truppe tedesche avevano, infatti, iniziato a ritirarsi ovunque, tentando di sfuggire verso la Svizzera e l’Austria attraverso il Lago di Garda ed il Passo del Brennero. Bologna e Genova erano già state liberate rispettivamente il 21 e  il 23 aprile. La sera del 25 aprile, mentre le forze partigiane liberavano altre città, inclusi alcuni dei principali capoluoghi settentrionali, Benito Mussolini, travestito da soldato tedesco, abbandonava Milano per dirigersi verso Como. Sarebbe stato poi catturato dai partigiani due giorni dopo e ucciso il 28 aprile. Il termine effettivo della guerra sul territorio italiano, con la resa definitiva delle forze nazifasciste all’esercito alleato, si ebbe, però, solo il 3 maggio, come stabilito nella resa di Caserta firmata il 29 aprile 1945. Il 30 aprile, mentre l’Armata Rossa combatteva con quel che restava dell’esercito tedesco per le strade di una Berlino ridotta in macerie, Adolf Hitler, si suicidava nel Führerbunker a Berlino. Il fascismo e il nazismo erano stati sconfitti, ma lasciavano dietro di sé fiumi di sangue, miseria, rovine e orrori inimmaginabili.

«È  vero, abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere».

In un dialogo con Pietrangelo Buttafuoco riportato su Il foglio del 12 novembre 1999, Norberto Bobbio spiegò come meglio non si sarebbe potuto il significato intramontabile del 25 aprile del 1945.

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«Un giorno Giorgio Pisanò [ex repubblichino, senatore del Movimento Sociale Italiano poi fondatore nel ’91 del Movimento Fascismo e Libertà], incontrando Vittorio Foa [condannato nel 1936 a 15 anni di carcere per il suo antifascismo dal Tribunale Speciale Fascista, poi rappresentante del partito d’Azione presso il CLN], gli disse: “Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano”. Foa gli rispose: “È vero, abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere”. Ecco, ci rifletta. Ci rifletta un istante».

Il 25 aprile, quindi, è la celebrazione della libertà e non solo della liberazione. La libertà di cui tutti possiamo godere, finché viviamo in uno Stato democratico di diritto: uno Stato, cioè, all’interno del quale sono affermati e tutelati quei diritti che, per oltre vent’anni, il fascismo aveva soppresso. E lo aveva fatto, picchiando, terrorizzando, assassinando, imprigionando e inviando al confino coloro che quei diritti intendevano esercitare. Lo aveva fatto sopprimendo tutti i giornali anti-fascisti e non fascisti, dichiarando illegali tutti gli altri partiti e tutti gli altri sindacati, perseguitando e uccidendone i rappresentanti e i militanti. Su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo pubblicato numerosi post sulla nascita e sull’affermazione della dittatura fascista, così come sulle stragi nazifasciste commesse a danno di italiani. Ma andrebbero anche ricordati i crimini contro l’umanità commessi dal fascismo italiano in altri Paesi, sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla Libia all’Etiopia, dall’Albania alla Slovenia (e numerosi sono i post che abbiamo dedicato agli orrori commessi dagli italiani in Libia, Etiopia, Albania e Slovenia). Infatti, se è vero che anche altri paesi europei festeggiano in date diverse la fine dell’occupazione nazista, in Etiopia il 5 maggio è la festa della Liberazione, avvenuta nel 1941, dalla crudelissima e sanguinaria occupazione italiana iniziata nell’ottobre del ‘1935.

Alberto Quattrocolo

 

1955, si chiude la Conferenza afroasiatica di Bandung

Chi c’è stato, nei regni della fame, non può rimpatriare.
(Pier Paolo Pasolini, L’uomo di Bandung, 1964)

Il 24 aprile 1955 si concluse la Conferenza Afroasiatica di Bandung, iniziata una settimana prima nell’omonima città sull’isola di Giava e promossa da India, Pakistan, Repubblica popolare cinese, Indonesia, Birmania e Ceylon, al fine di inserire un cuneo nell’assetto rigidamente bipolare del mondo all’epoca della Guerra fredda, restituendo capacità e spazi d’iniziativa ai cosiddetti “paesi terzi”; gli scopi erano quelli di incentivare il processo di decolonizzazione e consolidare il fronte dei Paesi ex-dipendenti.

Nehru per l’India, Zhou Enlai per la Cina, Nasser per l’Egitto, Kwame Nkrumah per il Ghana, Tito per la Jugoslavia furono alcuni dei principali leader nazionalisti e anti-colonialisti invitati dall’allora Presidente indonesiano Sukarno per immaginare un nuovo mondo alternativo a quello dei vecchi imperi coloniali europei, ormai in fase di avanzato disfacimento. Sukarno e i suoi ospiti miravano anche a sviluppare una strategia comune ed efficace per la modernizzazione socio-economica dei propri Paesi, favorendone la cooperazione nel quadro di una coesistenza pacifica e andando al di là del dualismo capitalismo-comunismo proposto dalla Guerra Fredda.

Il poeta senegalese David Diop scrisse, a tale proposito:

Per la prima volta nella storia, uomini di razze e tendenze diverse, e tuttavia uniti dall’odio contro il colonialismo e dall’amore per la pace, hanno proclamato la loro volontà di combattere ovunque la tirannia e di difendere la loro indipendenza contro ogni ingerenza straniera.

La conferenza segnò l’affermazione del Terzo Mondo e del movimento dei non allineati sulla scena mondiale. Il termine “Terzo Mondo” era stato utilizzato per la prima volta nel ’52 dal geografo e giornalista francese Sauvy, senza una connotazione denigratoria, ma riprendendo il dibattito della Rivoluzione francese sul Terzo Stato, per indicare tutti quei paesi non aderenti al modello occidentale né a quello sovietico. La definizione venne fatta propria dagli stati che si riunirono a Bandung proprio per proporsi come concreta alternativa a tali modelli.

Per il primo appuntamento della storia fra i paesi africani e asiatici indipendenti non furono fatte troppe distinzioni; non fu invitata alcuna potenza occidentale, ma parteciparono alla pari ventinove stati, abitati da più della metà della popolazione della terra, che sino a dieci anni prima erano colonie o semicolonie dipendenti da stati europei: oltre ai neutralisti, presero parte alla Conferenza tanto paesi comunisti quanto alleati dell’Occidente e persino membri della Nato e dei patti disseminati in Medio Oriente e nel sud-est asiatico da Foster Dulles, il Segretario di Stato di Eisenhower.

In risposta allo scetticismo tinteggiato di razzismo del Segretario di Stato statunitense, che rifiutò di inviare degli osservatori ufficiali alla conferenza, Sukarno presentò il summit internazionale di Bandung come un consesso aperto e tollerante di Paesi alla ricerca di soluzioni eque e solidali ai maggiori problemi dell’età contemporanea, espressione di un sincero spirito internazionalista, non di semplici obiettivi razziali o locali:

[Questa conferenza] non è un club esclusivo […], un blocco che cerca di opporsi agli altri blocchi. È il corpo di illuminate e tolleranti opinioni che cercano di spiegare al mondo che tutti gli uomini e tutti i paesi hanno il diritto di avere il proprio posto al sole – di spiegare al mondo che è possibile vivere insieme, confrontarsi, parlarsi senza perdere la propria identità individuale; e che vuole contribuire alla comprensione generale dei problemi e delle preoccupazioni comuni, e sviluppare una vera coscienza dell’interdipendenza degli uomini e delle nazioni per il loro benessere e la sopravvivenza sulla terra.

I politici occidentali inizialmente si preoccuparono che da questa collaborazione potesse sortire un blocco afro-asiatico in cerca di un ruolo sulla scena internazionale. I pochi osservatori presenti entrarono in un mondo nel quale l’Occidente non agiva da arbitro e non riceveva l’attenzione centrale dei delegati, incentrata piuttosto su uno dei maggiori eventi del Novecento, ossia la transizione di milioni di persone dal colonialismo all’indipendenza. Riconobbero che le popolazioni di Africa e Asia avevano delle priorità diverse da quelle occidentali e compresero che la cooperazione tra i paesi in via di sviluppo non era soltanto una questione regionale, ma avrebbe determinato il destino di tutto il mondo. Il poeta afroamericano Richard Wright, presente a tutti i lavori del summit, fece propri i valori anti-razzisti e solidali di Bandung, diffondendoli negli Stati Uniti e trasformandoli in un importante sostegno ideologico al movimento dei diritti civili guidato da Martin Luther King.

La conferenza definì il colonialismo “in tutte le sue manifestazioni, un male che dovrebbe essere velocemente curato”, una dichiarazione ampia abbastanza da condannare sia il colonialismo occidentale che il controllo sovietico sui paesi dell’Est Europa. La “Dichiarazione per la promozione della pace nel mondo e la cooperazione”, comunicato finale in dieci punti, incluse impegni per la cooperazione economica e culturale, sostegni ai diritti fondamentali, all’autodeterminazione dei popoli e alla promozione della pace nel mondo e della cooperazione: principi che cercarono di stabilire una base comune nelle relazioni internazionali piuttosto che infiammare vecchie animosità.

Le risoluzioni della Conferenza di Bandung tracciarono una ferma condanna del colonialismo, del razzismo e della politica di segregazione e discriminazione tra gruppi etnici o culture differenti, cui furono riconosciuti pari doveri e bisogni, soprattutto in tema di sicurezza economica e sociale. Coerentemente, la Conferenza enunciò i principi di una politica d’indipendenza economica volta a superare l’egemonia occidentale: cooperazione economica tra paesi asiatici e africani per lo scambio di assistenza tecnica e finanziaria, incoraggiamento alla creazione di industrie nazionali, trasformazione sul posto delle materie prime sino a quel momento acquistate ai prezzi stabiliti dal mercato occidentale, creazione di banche autoctone. Sul terreno della politica internazionale, la Conferenza proclamò che gli stati asiatici e africani rifiutavano di essere trascinati in una guerra per l’una o l’altra delle due grandi potenze mondiali: posizione “neutralista” importante in quella congiuntura politica, perché conteneva l’affermazione di una politica ormai indipendente da parte di quelle nazioni che sino a quel momento avevano visto le potenze occidentali disporre liberamente dei loro destini. I delegati elaborarono inoltre linee guida per la nascita del futuro Movimento dei non allineati (NAM), avvenuta poi a Belgrado nel ‘61.

Dal ‘55 il numero di Stati indipendenti in Asia e in Africa si è quadruplicato, e alcune delle nazioni partecipanti alla Conferenza sono protagoniste dell’economia globale, ridisegnando gradualmente i rapporti di forza tra Nord e Sud del mondo. Dal punto di vista della sfida all’eurocentrismo del passato, Bandung è stata una scommessa sostanzialmente vinta, affermando con forza le voci e le potenzialità dei Paesi non occidentali a livello mondiale. Inoltre Asia e Africa hanno relazioni economiche, politiche e culturali sempre più strette, che promettono di rafforzare ulteriormente l’importanza di tali continenti nei prossimi decenni: l’Europa non è più il motore della storia mondiale.

D’altro canto, molti degli ambiziosi obiettivi della conferenza non si sono realizzati, soprattutto in ambito economico e sociale. La maggioranza dei Paesi afro-asiatici continua a non rispettare diritti umani essenziali; il divario tra ricchi e poveri al loro interno continua a crescere a ritmi vertiginosi; terrorismo e conflitti armati continuano a devastare buona parte dei loro territori. Il NAM e altre organizzazioni ispirate da Bandung faticano a trovare una loro dimensione ideologica e operativa efficace, mostrandosi incapaci di risolvere emergenze umanitarie o crisi diplomatiche internazionali. Inoltre, molte nazioni in Asia e in Africa rimangono pesantemente dipendenti dal potere finanziario degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, subendo forme di neocolonialismo economico come il land grabbing o la privatizzazione selvaggia delle risorse minerarie. L’emigrazione di massa verso l’Europa, provocata spesso dagli effetti di tale neocolonialismo, contribuisce all’ulteriore impoverimento dei Paesi afro-asiatici, privandoli delle energie e delle abilità delle generazioni più giovani. Potenze emergenti come la Cina espandono continuamente i propri interessi strategici, entrando in conflitto con altri Paesi e alzando i livelli di instabilità internazionale. I Paesi africani faticano a sviluppare in modo equilibrato le proprie economie, mentre Iran e Arabia Saudita si contendono i resti di un Medio Oriente dilaniato da tensioni e conflitti armati.

Insomma, il mondo di oggi è molto diverso da quello pacifico, equo e solidale sognato da Sukarno a Bandung. Tuttavia, lo “spirito di Bandung” continua ad animare le attività di numerose organizzazioni non governative e movimenti popolari in cerca di alternative democratiche e sostenibili all’attuale sistema internazionale; ignorata o dimenticata nelle alte sfere, la promessa di un futuro più equo riemerge con forza dal basso e non smette di agitare gli equilibri politici mondiali. È forse questa l’eredità più importante lasciata dalla storica conferenza del 1955 al mondo di oggi.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.treccani.it; S. Pelizza, “Lo spirito di Bandung: sessant’anni dopo”, www.ilcaffegeopolitico.org; www.ispionline.it; “I 60 anni della conferenza di Bandung”, https://ilmondocontemporaneo.wordpress.com; http://omero.humnet.unipi.it

John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante.

John Garfield per milioni di spettatori cinematografici era l’incarnazione della rivolta dell’uomo frustrato contro un sistema che lasciava troppe persone indietro. Garfield aprì la strada a Marlon Brando, James Dean, Paul Newman, Albert Finney, Richard Harris, e Steve McQueen. Ma fu un modello anche per attori successivi come Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman, fino a Sean Penn e oltre. A differenza di James Dean, però, egli era “il ribelle con una causa”. Sopravvissuto alla Grande Depressione del 1929, aveva fatto proprio gli ideali della giustizia e della libertà. Perciò fu perseguitato dai “cacciatori di streghe” che lo afferrarono il 23 aprile del 1951 e non lo mollarono più.

John Garfield, un figlio del ghetto

John Garfield era il suo nome d’arte, quello vero era Jacob Julius Garfinkle. Era nato a New York il 4 marzo del 1913. Suo padre David Garfinkle (1881 – 1942), ebreo della Crimea, arrivato negli Stati Uniti neanche un anno prima, era andato a vivere nell’East Side di New York, nell’affollato quartiere di Rivington Street, abitato prevalentemente da immigrati poverissimi. Dal suo matrimonio con Hannah Margolis (1881 – 1920), originaria dell’Ucraina, erano nati due: figli Jacob Julius, per tutti Julie, e cinque anni dopo Michael (Max).

La perdita della mamma

La madre morì due anni dopo [1]. Mentre Max riusciva grosso modo ad adattarsi a tutto, anche al fatto che l’anno seguente lui e il fratello fossero affidati a dei famigliari del padre, dopo il suo matrimonio con la lituana Dina Cohen, Julie, invece, traduceva il suo dolore in rabbia. Era affetto da una balbuzie ingombrante e traboccava di collera, che traduceva in violenza. Si mise nei guai con la legge e divenne in breve un capo di una baby gang, venendo espulso da diverse scuole [2].

L’affetto e la solidarietà di Angelo Patri

Nel 1926 al futuro divo teatrale e cinematografico John Garfield capitò un colpo di fortuna. Il padre lo iscrisse alla Publich School 45, nel Bronx. Era un istituto per ragazzi difficili, gestito dall’immigrato italiano Angelo Patri. Questo salernitano, che si ispirava a Maria Montessori, si affezionò subito Julie, aiutandolo a sfogare la propria aggressività con la boxe e a superare la balbuzie, facendolo recitare ad alta voce in classe e convincendolo a partecipare ad alcune commedie. Poi lo iscrisse alla Roosevelt High School e in seguito, grazie ad una borsa di studio, alla Heckscher Foundation, dove studiò recitazione e arte drammatica, ed infine all’American Laboratory Theatre, diretto da due meravigliosi artisti, anch’essi immigrati dell’Est, Maria Ouspenskaya e Richard Boleslawsky.

Da Julius Garfinkle a Julius Garfield

Iniziò così la gavetta teatrale. Piccole parti, anche a Broadway, altre più corpose. Iniziavano a notarlo. Ma era inquieto. A 18 anni iniziò a vagabondare per gli Stati Uniti, facendo l’autostop, viaggiando clandestinamente sui vagoni merci, finché giunse ad Hollywood. Ebbe una particina in un musical. Guadagnò qualche soldo, ma rifiutò le offerte di lavoro dell’industria cinematografica. Aveva deciso che il teatro era la sua vera strada. Era il 1934. Aveva cambiato il suo nome in Julius Garfield.

Il Group Theatre

Tornò a New York e qui fu accettato al Group Theatre. Il Group Theatre divenne una casa, una famiglia e un luogo di formazione, anche sul piano intellettuale e politico oltre che artistico [3]. Questo nucleo di attori, registi e commediografi (tra cui Clifford Odets) tentava di introdurre in America i metodi e precetti del Teatro d’Arte di Stanislavskij a Mosca, proponendo uno stile interpretativo, noto come Metodo [4]. Fu con il Group, presso il quale restò per cinque anni, che Julius Garfield si affermò come validissimo interprete teatrale, raggiungendo quella stabilità economica grazie alla quale poté sposare Roberta “Robbie” Seidman, un’attrice con cui era fidanzato da tempo [5].

Julius Garfield un Golden Boy provvisoriamente mancato

In breve, quelli del Group, il pubblico e i critici scoprirono in lui la stoffa del vero attore. Clifford Odets scrisse perfino un dramma pensando proprio a lui, “Golden Boy”. Julius Garfield si sentiva calzare quella parte a pennello e teneva enormemente ad interpretarla. In Joe Bonaparte, il protagonista, un figlio di immigrati italiani, incerto tra i soldi facile della boxe e la carriera di violinista, egli si rivedeva come in uno specchio. La parte, però, venne assegnata a Luther Adler. Amareggiato e deluso, Julius Garfield fece le valigie e andò ad Hollwood, dove, dopo qualche sballottamento tra offerte rifiuti, firmò un contratto con la Warner Bros. ed entrò nel cast di una commedia diretta da Micheal Curtiz, Quattro figlie (1938).

Il bravo attore teatrale Julius Garfield diventa il divo cinematografico John Garfield

La sua performance, sia pure in un ruolo da non protagonista, calamitò l’attenzione degli spettatori e rivelò la forza d’attrazione che la sua carica di sessualità aveva sul pubblico femminile. Il ribelle introverso e arrabbiato aveva un fascino genuino. Non pareva recitare. Ebbe la nomination all’Oscar per il migliore attore non protagonista. Visto il suo successo, la Warner estese il contratto a 8 anni e la moglie lo raggiunse. Quell’anno nacque la loro prima figlia, Katharine. Nel frattempo, però aveva dovuto cambiare nome. Julius Garfield, secondo i capi della Warner, sapeva troppo di ebreo. Il suo nuovo nome fu John Garfield [6].

John Garfield, l’antieroe proletario

Avendo fatto propri gli ideali di cui discutevano nel Group Theatre, prese ad occuparsi con maggiore dedizione alla politica, in particolare appoggiando le lotte per i diritti dei lavoratori e per la causa antifascista. Compatibilmente con i limiti imposti dall’industria dell’intrattenimento, John Garfield cercò di portare la sua sensibilità sociale e politica nei copioni da interpretare. Gli toccarono alcune valide prove in film a sfondo criminale urbano, oltre che in un sequel di Quattro figlie, che però ebbe un successo minore [7]. A quel punto la Warner si convinse ad impiegare John Garfield sistematicamente nel ruolo di ribelle. E ribelle egli lo era davvero. Così, se accettò di lavorare in Dust Be My Destiny (1939, di Lewis Seiler), fu anche perché era una sceneggiatura scritta da Robert Rossen, un autore di cui condivideva molte idee sulle lotte dei lavoratori e sulla devastante diffusione del fascismo in Europa [8].

John Garfield, la star ribelle e impegnata della Warner

La Warner, però, aveva deciso di sfruttare la figura di John Garfield, in ruoli sostanzialmente simili tra loro [9]. Egli alla fine accettò, ma a patto di interpretare una parte di secondo piano in Il lupo dei mari (1940, di Micheal Curtiz). Come nel caso di L’imperatore del Messico (vedi nota 6) non gli interessava, infatti, quanti minuti il suo personaggio fosse presente sullo schermo, ma ci teneva ad interpretare opere che sollecitassero il pubblico a preoccuparsi per la ventata di fascismo che soffiava sull’Europa. E quest’opera, tratta da un romanzo di Jack London, e sceneggiata da Robert Rossen, ne era una trasparente metafora.

Al fianco del governo USA contro il nazifascismo

Dopo due altri noir, di cui uno nuovamente sceneggiato da Rossen, l’attore, come il resto dei suoi concittadini, subì lo shock dell’attacco giapponese alla base di Pearl Harbour il 7 dicembre del 1941 [10]. Cercò di arruolarsi, ma alla visita medica non passò inosservato il vizio cardiaco di cui soffriva, sicché non fu accettato. Deluso ma non rassegnato, John Garfield decise che avrebbe fatto tutto il possibile per sostenere il suo Paese nella guerra contro Hitler, Mussolini e Hirohito, anteponendo questo impegno alla sua carriera. Così, trascorse tutto il 1942 a promuovere la vendita di “buoni di guerra” e ad intrattenere le truppe. Nel frattempo, morì suo padre.

L’impegno antifascista e patriottico sullo schermo

Nel 1943 tornò alla Warner per partecipare ad una grossa produzione, diretta da un grande regista Howard Hawks, Arcipelago in fiamme. Concepito come un film di propaganda si rivelò uno dei migliori film bellici realizzati in tempo di guerra. Subito dopo accettò di lavorare in un altro film di guerra, anch’esso costoso e spettacolare, che raccontava un aspetto dell’operazione Doolittle (di cui abbiamo parlato qui), Destinazione Tokio (1943, di Delmer Daves), la cui sceneggiatura era scritta dallo stesso regista, un liberal dichiarato e da un altro noto progressista, l’apprezzato sceneggiatore Albert Maltz. In entrambi i film di nuovo, non si preoccupò del fatto che non fosse il protagonista. Credeva nel fine patriottico e tanto gli bastava. Inoltre, insistette per interpretare un thriller antifascista. Il passo del carnefice (1943, di Richard Wallace).  Nel ruolo del tormentato reduce della Guerra di Spagna, fu semplicemente straordinario [11]. Quell’anno nacque il suo secondo figlio, David Patton [12].

La fiducia nel domani e il dolore

Nel ’45 tornò a collaborare con Delmer Daves e Albert Maltz (rispettivamente regista e sceneggiatore) per C’è sempre un domani. Venne considerata una delle opere più politicamente mature e sincere prodotte a Hollywood. Il film era ispirato alla vicenda vera del sergente Al Schmidt, un veterano rimasto cieco sul fronte del Pacifico [13]. La sua fu un’interpretazione da brividi. Ancor migliore di quella, pur ottima, fornita accanto a Lana Turner, in Il postino suona sempre due volte, uscito nel maggio del 1946 (di Tay Garnett). Rimuovi immagine in evidenzaSe questo ruolo lo rendeva immortale per milioni di spettatori e per generazioni di cinefili e quella di Al Schmidt lo aveva fatto amare dal popolo americano per la fiducia nel futuro postbellico che la sua interpretazione realistica infondeva, il 1945, fu, invece, un anno terribile sia per “Robbie” Seidman che per lui. Incontrarono il dolore più grande: la morte della loro bambina. Una reazione allergica provocò il decesso della primogenita Katharine, di appena sei anni. Ne furono quasi schiantati. Ma insieme decisero di reagire. Cercarono la vita. L’anno dopo ebbero un’altra figlia Julie.

Da amato patriota ad individuo sospetto

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La fine della Seconda Guerra Mondiale, intanto, segnava l’inizio della Guerra Fredda, la quale negli Stati Uniti assumeva anche una forma particolare, una sorta di capovolgimento radicale. Coloro che negli anni Trenta e durante la guerra al nazifascismo erano considerati alfieri della causa della libertà, di colpo divennero sospetti. Quei progressisti che tante energie, denaro e talento avevano speso e tanto rispetto, onore e celebrità si erano meritati con la loro preveggenza e il loro impegno, ora diventavano oggetto di diffidenza. Progressismo, liberalismo, socialismo erano sinonimi di comunismo, che era sinonimo di sovversione e tradimento (ne abbiamo parlato nel post  Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente). La solidarietà verso i poveri e gli immigrati stava diventando antipatriottica. Iniziava la “paura rossa”, e con essa quella “caccia alle streghe” che, anche per “merito” di uno dei suoi peggiori rappresentanti (il senatore repubblicano Joseph McCarthy, su cui abbiamo scritto il post A cavallo della paranoia), finì complessivamente con l’essere identificata come maccartismo. Un’oscena sbandata politico-culturale oltre che giudiziaria, che portò gli Stati Uniti fuori dai binari della liberal-democrazia e durò, nella sua forma più liberticida, fino al 1954. Di questo repentino ribaltamento, di questa isterica ricerca del capro espiatorio, anche John Garfield finì vittima.

Ribelle, sì, ma per una causa.

John Garfield non era, però, il tipo da lasciarsi condizionare dal pensiero dominante e liberatosi dal rapporto con la Warner, insieme all’amico Bob Roberts (un altro progressista), fondò una propria compagnia di produzione, la Enterprise Productions, così da poter realizzare dei film che esprimessero idee e valori in cui entrambi credevano [14]. E in cui credevano anche gli attori, i registi e gli sceneggiatori che essi raccolsero attorno a sé. Naturalmente, la cosa fece infuriare gli anticomunisti più paranoici, coloro che si proponevano come i paladini dell’americanismo più puro. John Garfield non ne fu stupito. Dato che per le sue lotte, era già finito nel libro nero di Martin Dies Jr, un democratico, dell’ala conservatrice del partito, che cercava la notorietà proponendosi come uno del più attivi “cacciatori di comunisti”. La Enterprise Productions, infatti, finì subito nel mirino della House Committee on Un-American Activities (HUAC, la Commissione per le attività antiamericane).

L’anima e il corpo di John Garfield

ll primo film della Enterprise Productions fu Anima e corpo (1947), diretto dall’amico Robert Rossen e scritto da Abraham Polonsky. In qualche modo il film rifletteva la vita e i tormenti di John Garfield: vi interpretava un relitto dei bassifondi che usa la boxe per uscire dalla povertà e arriva ad essere campione del mondo, ma all’ultimo incontro si ribella al racket delle scommesse. Rifiutandosi di simulare una sconfitta dice ai gangster:

«Che cosa potete farmi, uccidermi? Tutti dobbiamo morire».

Garfield fu bravissimo, in questo nuovo ruolo di proletario tormentato e ribelle, e il film fu un successo commerciale notevole[15]. Il che suscitò ancor di più le ire dei cacciatori di streghe: Robert Rossen era di sinistra, ma Polonsky era stato un militante comunista ai tempi della Guerra civile spagnola, un sindacalista del Congress of Industrial Organizations (CIO) e il curatore del periodico di sinistra The Home Front. Ma anche gli attori Anne Revere (la madre del protagonista), Lloyd Gough (il manager), Canada Lee (un bravissimo attore afro-americano, impegnato nelle lotte per i diritti civili) e Art Smith erano tutti progressisti (e tutti quanto furono massacrati dall’HUAC).

John Garfield dalla parte dei progressisti

Nel 1948 Garfield partecipò attivamente alla campagna per le elezioni del nuovo presidente, sostenendo il candidato Henry A. Wallace (ne abbiamo fatto cenno nel post A cavallo della paranoia). Costui, uno tra gli ideatori e gli attuatori più convinti delle politiche keynesiane del New Deal, era stato vicepresidente di Franklin Delano Roosevelt, durante il terzo mandato di questi, poi aveva lasciato il Partito Democratico per fondare il Progressive Party, il Partito Progressista. Wallace ottenne, però, soltanto il 2,4% dei voti [16]. Il progressismo era “passato di moda” per gli americani.

 

La lotta alle barriere invisibili dell’antisemitismo

Consapevoli dell’aria che tirava nel Paese alla Enterprise Productions temevano che stesse per piombare lor addosso la versione istituzionale della caccia alle streghe. Garfield per primo se l’aspettava. Ma se ne infischiò e persuase lo sceneggiatore Abraham Polonsky a scrivere e dirigere un secondo film per la Enterprise. Intanto, il 20 ottobre del 1947, il produttore Jack Warner, davanti alla Commissione per le attività antiamericane, per ingraziarsi la HUAC, arrivò a fare alcuni nomi di sospetti comunisti, che, sottolineò, aveva licenziato. Tra questi Robert Rossen e Clifford Odets. Non osò fare, però, il nome di John Garfield. Sapeva infatti che stava lavorando ad un film che la Twentieth Century-Fox teneva molto a realizzare: Barriera invisibile (1947, di Elia Kazan) [17]. Il protagonista di questo accusa dell’antisemitismo era Gregory Peck (di cui abbiamo ricordato l’impegno politico e sociale e il film Il buio oltre la siepe in questo post). Garfield interpretava la parte di un suo amico, impersonando per la prima volta la parte di un ebreo.

Con Abraham Polonsky contro le forze del male della caccia alle streghe

Il compenso per questo film e i ricavi di Anima e corpo gli consentirono di interpretare e produrre Le forze del male, scritto e diretto da Abraham Polonsky, che uscì il 25 dicembre del 1948. Fu subito un cult-movie. Era un’altra maiuscola prova attoriale per John Garfield, in un noir in piena regola, che proponeva una scoperta denuncia del lato oscuro della società capitalista. I giorni di gloria della Enterprise, però, erano finiti. Assediata dalla Commissione per le attività antiamericane, non riuscì ad avere dalle banche la liquidità necessaria a proseguire e dovette chiudere.

Il cerchio (anticomunista) si stringe e la morte si avvicina

John Garfiel sembrava aver superato indenne il primo assalto dato a Hollywood dalla Commissione per le attività antiamericane. A parte una breve parentesi teatrale, accettò la parte di un rivoluzionario cubano in Stanotte sorgerà il sole (1949, di John Huston), facendo inarcare più di un sopracciglio ai conservatori. Poi, ebbe un infarto mentre girava, diretto dall’amico Jean Negulesco, il successivo La sua donna (1950) [18]. Gli fu prescritto un riposo assoluto, ma non volle saperne. Aveva ancora delle cose da dare e delle cose da dire, prima che i cacciatori di streghe lo bloccassero. Subito tornò al lavoro per interpretare Golfo del Messico (1950, di Michael Curtiz), al fianco di un altro attore nero, Juano Hernandez, che suscitava le antipatie dell’HUAC [19]. Arrivò, infine, il suo trentaduesimo e ultimo film Ho amato un fuorilegge (di John Berry). Scritto sotto falso nome da Dalton Trumbo (dopo essere stato condannato al carcere per non aver voluto rispondere all’HUAC, tornò al lavoro usando dei prestanome per firmare i copioni che scriveva) e diretto da un altro progressista, di lì a poco costretto a fuggire in Inghilterra, era un’evidente metafora del clima paranoico instaurato dal maccartismo.

L’umiliante interrogatorio del 23 aprile del 1951 davanti all’HUAC

Il 23 aprile del 1951, toccò a John Garfield essere sottoposto ad un umiliante interrogatorio pubblico, di 3 ore, davanti alla Commissione. Questa chiedeva ai soggetti convocati se erano o meno comunisti e se conoscevano dei comunisti o dei simpatizzanti. Se si rispondeva no ad entrambi gli interrogativi e non si era creduti, si veniva identificati come testimoni ostili e denunciati. Garfield recitò una parte, quella dell’ingenuo. Del resto le domande che gli venivano poste erano degne di una farsa grottesca. Dovette negare di essere stato su una nave sovietica insieme a Charlie Chaplin e confermare di aver sostenuto il candidato Henry Wallace. Poi finse di non ricordare le numerose iniziative organizzate a sostegno dei rifugiati antifascisti giunti dall’Europa invasa da Hitler e disse che non sapeva se tra le persone che conosceva vi erano dei comunisti o sospetti tali. Funzionò. Non venne denunciato come “testimone ostile”. Ma il suo cuore ne risentì parecchio.

Un Golden Boy tradito

Meno di tre mesi dopo riuscì finalmente a interpretare la parte di Joe Bonaparte nello spettacolo “Golden Boy”. Ma fu proprio l’amico Clifford Odets a fare il suo nome davanti alla Commissione. Il regista Elia Kazan, a suo volto interrogato, confermò:

«John Garfield è un comunista». Non era vero, ma non aveva importanza. Quel che contava era il sospetto.

All’attore non pesava sentirsi accusare di essere comunista, non lo era e lo sapeva. E inoltre non la considerava una colpa. Lo affliggeva il sospetto infamante di essere un traditore della sua patria. Iniziò così a raccogliere freneticamente prove per dimostrare la propria lealtà al popolo e al governo americano e respingere ogni accusa. La sua deposizione era fissata per il 21 maggio 1952 davanti all’HUAC. Quel mattino venne trovato morto. Infarto. Avevo appena 39 anni. Il corteo funebre formatosi spontaneamente lungo le strade di New York, fu il più lungo e affollato dai tempi di Rodolfo Valentino. Oltre 10.000 persone in silenzio John Garfield.

Alberto Quattrocolo

 

[1] David Garfinkle si trasferì con i due bambini di 6 e 2 anni prima a Brooklyn poi nel Bronx.

[2] David, che non aveva la dolcezza di Hannah, crebbe i figli imponendo una disciplina ferrea e cercando di conformarli ai dogmi religiosi (anni dopo John Garfield lo definì «un uomo ignorante, un fanatico religioso»), facendo crescere in Julie il desiderio di ribellarsi ed evadere.

 

[3] I membri del Group, che discutevano anche di arte, letteratura e politica, sostenevano il New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt ed erano di quasi tutti un po’ o molto di sinistra. Alcuni erano addirittura comunisti. Proponevano, quindi, delle pièces che descrivevano le iniquità sociali, le diseguaglianze e la ferite inflitte al proletariato.

[4] Il Metodo venne poi studiato e applicato anche da attori del calibro di Marlon Brando, Eva Marie Saint, Lee Remick, James Dean, Paul Newman (si veda su questa rubrica, Corsi Ricorsi il post Paul Newman, un uomo oggi), Anthony Franciosa, Ben Gazzara, George Peppard, Steve McQueen e tantissimi altri artisti, incluso quel Sal Mineo – di cui abbiamo ricordato la non facile vita nel post Ricordando Sal Mineo: lassù qualcuno lo ama -, nonché da registi quali Elia Kazan.

[5] Nel ’35, ebbe una particina “Waiting for Lefty”, la piéce che impose il Goup Theatre nell’ambito del teatro americano. Poi, ebbe una parte in “Weep for the Virgins” e in “Having Wonderful Time”, che lo preparò al ruolo di protagonista per “Awake and Sing”, scritto da Clifford Odets.

[6] Era un compromesso, ma lo accettò perché il contratto gli garantiva il diritto di scegliere le pellicole da interpretare e la possibilità di continuare a lavorare in teatro.

[7] Il successivo lavoro fu Hanno fatto di me un criminale, 1939, di Busby Berkeley), in cui John Garfield, recitò in una parte che ricordava la sua biografia. Infatti è un pugile accusato di omicidio (commesso dal suo viscido manager, interpretato da Ward Bond), che fugge in Arizona dove etra in comunità per ragazzi sbandati e, grazie a loro, si emancipa dalla mentalità da bullo con cui era cresciuto. Nel successivo Blackwell’s Island (1939, di William C. McGann), è di nuovo in guerra contro il sistema. Questa volta quello della malavita, essendo un coraggioso giornalista che cerca di incastrare un boss newyorchese.

[8] Inoltre, convinse la Warner ad affidargli la parte di Porfirio Díaz, un ruolo secondario, in Il conquistatore del Messico (1939, di William Dieterle). Sapeva che per l’attore protagonista, Paul Muni, per il regista, un tedesco sfuggito alle grinfie dei nazisti in Germania (come Fritz Lang, di cui abbiamo parlato qui) e per lo sceneggiatore John Huston, anch’egli vicino alla causa progressista, quel film era una scoperta metafora dei pericoli del fascismo e della sua intrinseca natura imperialista e guerrafondaia.

[9] Non volendo essere rinchiuso in un cliché, l’attore si ribellò. E subì una sconfitta, perché la casa di produzione gli negò di interpretare per la Columbia la riduzione cinematografica di “Golden Boy”. Nel film, noto in Italia con il titolo Passione (1939, di Rouben Mamoulian), il ruolo di Joe Bonaparte fu affidato al ventunenne, William Holden.

[10] Quando Pearl Harbor venne bombardata, Garfield stava girando un film per la prima volta per un altro studio, la Metro-Goldwyn-Mayer. Si trattava di Gente allegra (1942, di Victor Fleming). Aveva chiesto alla Warner di concedergli questa possibilità perché il film era tratto da un autore che amava molto, John Steinbeck, al quale era politicamente assai vicino, e perché il principale altri interprete era Spencer Tracy. Di lui Garfield pensava che fosse un gigante della recitazione e lo ammirava smisuratamente. Inoltre, come John Garfield, anche Spencer Tracy credeva fermamente nei principi della libertà e dell’uguaglianza (ne abbiamo parlato nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First).

[11] Il suo ruolo era quello di un americano, che, rientrato traumatizzato negli USA, dopo aver combattuto tra i repubblicani contro le truppe italiane e tedesche alleate del generale Francisco Franco nella guerra civile spagnola, scopre un complotto fascista.

[12] Il secondo nome era lo stesso del generale che stava vittoriosamente conducendo le truppe americane in Africa e in Sicilia (dello sbarco in Sicilia abbiamo parlato qui)

[13] John Garfield aveva letto su un giornale la sua storia e aveva deciso di conoscerlo di persona. Ottenuta la sua fiducia, lo convinse che quella vicenda meritava di essere raccontata, per mostrare i costi umani del conflitto bellico, ma anche la necessità di avere fiducia e lottare per un futuro migliore. Insieme a Maltz persuase la Warner a produrre il film.

[14] Concluse il contratto con la Warner, realizzando altri due film apprezzabilissimi, il noir Una luce nell’ombra (1946) e il melodramma Perdutamente (1946), in cui affiancò la straordinaria Bette Davis entrambi diretti da Jean Negulesco, un altro rifugiatosi negli USA per sfuggire alla persecuzione naziste. Il primo era scritto dal grande romanziere e sceneggiatore William Riley Burnett. Mentre la sceneggiatura del secondo era stata scritto dall’amico Clifford Odets insieme a Zachary Gold.

[15] Il film ottenne tre nomination all’Oscar: Miglior attore protagonista per Garfield, Miglior sceneggiatura originale per Abraham Polonsky e Miglior montaggio per Francis Lyon e Robert Parrish che si aggiudicarono l’ambita statuetta.

[16] Mentre il democratico Harry Truman, che era stato vice di Roosevelt nel suo quarto mandato e gli era subentrato quando il presidente morì il 12 aprile del 1945, batté sonoramente il suo rivale repubblicano.

[17] Barriera invisibile ebbe un successo commerciale sorprendente in America e in Europa e vinse tre Oscar: Miglior film, Migliore regia, Migliore attrice non protagonista (Celeste Holm).

[18] Tratto da “Il mio vecchio” di Ernest Hemingway, il film vede John Garfied nei panni di un fantino corrotto che tenta di cambiare vita per amore del figlio. Garfield risultò così toccante, in questa parte di cinico, tormentato dai sensi di colpa e lacerato dall’amore per il figlio, da commuovere inesorabilmente le platee

[19] Anche questa pellicola era tratta da un romanzo di Hemingway, “Avere e non avere”. Il suo personaggio fu uno dei più complessi e commoventi tra quelli interpretati.

Fonti

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. II., Istituto geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

George Morris, John Garfield, Milano Libri Edizioni, Milano, 1979

Marco Ravera, John Garfield. Il comunista suona sempre due volte, http://www.lasinistraquotidiana.it

1980, la Primavera Amazigh (berbera)

Il 20 aprile 1980 a Tizi Ouzou scoppia l’insurrezione generale che dilagherà in tutta la regione montagnosa di Cabilia, lungo la costa settentrionale dell’Algeria, da tempo cuore delle rivendicazioni della minoranza berbera algerina, parte di una comunità più ampia presente in tutto il Nord Africa e che conterebbe tra i 15 e i 20 milioni di persone. Una lotta politica e identitaria che parte dalla lingua per lambire le condizioni socio-economiche delle comunità coinvolte, spesso marginalizzate dalle politiche dei governi centrali.

Manifestazioni e scontri coinvolgono anche la città di Algeri per alcune settimane: questa catena di eventi sarà battezzata la Primavera berbera, o, più precisamente, la Primavera Amazigh.

I berberi non amano essere chiamati con questo nome, probabilmente derivato dal latino “barbarus” e dato, con accezione spregiativa, a questa popolazione in eterna ribellione dai vari colonizzatori (Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi…); preferiscono chiamarsi con il termine autoctono Imazighen, “uomini liberi”. Essi sono gli abitanti originari del Nord Africa e si distribuiscono su un territorio molto vasto dell’Africa mediterranea comprendente Egitto (oasi di Siwa), Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso (Tuareg); probabilmente anche i Guanci, antichi abitanti delle Isole Canarie, parlavano il berbero.

In considerazione della vastità del territorio nordafricano, esistono numerose varietà dialettali della lingua berbera (tamazight), la cui acquisizione e trasmissione è fortemente legata alle donne: la letteratura orale, in gran parte femminile, costituisce un patrimonio culturale specifico delle comunità berbere, una memoria collettiva che supera i circuiti della conoscenza codificata, attingendo alla magia, al meraviglioso, al soprannaturale, ambiti in cui le donne sfuggono ai ruoli tradizionali.

L’oralità ha svolto e svolge ancora, presso i giovani, un ruolo di vera formazione in settori diversi come le attività quotidiane, l’ambiente, gli usi e le abitudini sociali, salvaguardando la lingua e le culture berbere dal processo di arabizzazione imposto dai governi. Le nuove dimensioni dell’oralità, rappresentate dai mass media e dai social networks, in particolare, Internet, le tivù e le radio locali nel Maghreb (Marocco e Algeria) che trasmettono in lingua berbera stanno svolgendo un ruolo molto importante per la diffusione della lingua e la conoscenza delle proprie radici culturali.

Gli Imazighen si sentono emarginati dalla cultura dominante dei paesi dove vivono e dalla superficialità con cui il resto del mondo, non solo l’Occidente, guarda agli avvenimenti che accadono sulle coste sud del Mediterraneo e nel mondo arabo. Fin dall’inizio, i diversi movimenti berberi, riconosciuti o meno, hanno partecipato alle rivolte popolari, giocando talvolta un ruolo fondamentale, nella speranza di un cambiamento radicale che aprisse finalmente l’orizzonte anche alla pluralità e alle diversità culturali e linguistiche.

Oggi è lontana l’epoca in cui si veniva arrestati perché trovati con un libro in lingua amazigh. L’origine amazigh del Nord Africa è riconosciuta dalle Costituzioni dei tre principali Paesi del Magreb: Marocco, Algeria e Tunisia; la lingua invece è riconosciuta come lingua nazionale e ammessa nelle scuole soltanto in Algeria e in Marocco, pur se rimane ancora molto da fare per un insegnamento di qualità, e nelle regioni Nord del Mali e del Niger. Esistono ormai movimenti per il riconoscimento della lingua e cultura amazigh in tutti i Paesi del Nord Africa: dalle Isole Canarie fino alle “oasi” amazighofone dell’Egitto occidentale. E tutti questi movimenti ogni anno festeggiano il 20 aprile come il giorno della presa di coscienza: “Tafsut n Imazighen”, la Primavera degli Amazigh.

Gli eventi di quella primavera esplodono in Algeria, dove, dal 1962, il fronte politico eterogeneo che aveva ottenuto l’indipendenza del paese aveva finito per essere monopolizzato dai socialisti panarabisti di Benbella e Boumedienne. Quest’ultimo, che era il vero uomo forte, dal ’65 aveva condotto il Paese per 14 anni con mano di ferro e un ambizioso progetto di sviluppo: industrializzazione, rivoluzione agraria, educazione gratuita (anche l’università), sanità gratuita, politiche di edilizia popolare sia rurale che urbana. Uno dei punti forti del suo progetto si basava innanzitutto sulla scuola; il regime algerino dei primi anni dell’indipendenza, come tutti i regimi della zona all’epoca, era affascinato dal nazionalismo arabo, ma aveva anche un problema: l’Algeria non sapeva l’arabo e la scuola algerina era ancora francofona. Bisognava arabizzare l’Algeria. Era un progetto di cancellazione vera e propria della storia e della cultura algerina, per imporre un modello standard inesistente. L’intellettuale comunista Kateb Yacine, che lottava per la valorizzazione dell’amazigh e dell’arabo algerino, disse:

Se l’Algeria non è araba, perché la volete arabizzare? Se è araba, spiegatemi perché bisogna arabizzarla?

All’inizio del 1980 Mouloud Mammeri pubblica a Parigi il libro “Poèmes kabyles anciens”, Poesia cabila antica. Mammeri è un raffinato scrittore algerino, docente universitario di storia e antropologia, cultore e promotore della lingua e cultura amazigh, capofila di una generazione di intellettuali e attivisti che faranno la storia delle lotte per la democrazia in Algeria. La sua pubblicazione non ha nulla di rivoluzionario, ma il libro non può essere edito in patria: ufficialmente la cultura amazigh non esiste e tutto quello che la spiega, raccoglie o sviluppa è tabù per l’editoria algerina dell’epoca.

Il testo però circola tra gli studenti, in originale o in copie fai-da-te, la curiosità cresce e il comitato studentesco della nuova università di Tizi Ouzou (Cabilia occidentale) organizza una conferenza di presentazione dell’opera, prevista per il 10 marzo. Ma il giorno stesso, l’amministrazione annuncia l’annullamento della conferenza e Mouloud Mammeri è fermato sulla strada fra Algeri e Tizi Ouzou e rimandato indietro dalla gendarmeria nazionale; i responsabili di questa decisione rifiutano di dare spiegazioni: sembra trattarsi di disposizioni dall’alto.

Gli studenti si raggruppano in assemblea spontanea e il giorno dopo cominciano gli scioperi, le manifestazioni e l’occupazione dell’università, dell’ospedale pubblico e della principale industria della regione, la fabbrica di elettrodomestici Sonelec. Il regime è preso alla sprovvista, sono le prime proteste popolari dal ‘62: non sa come reagire ma presto si organizza e la repressione è feroce.

Il 7 aprile, un’imponente manifestazione ad Algeri si conclude con un centinaio di arresti, numerosi feriti e forse anche un morto. Il 10 inizia uno sciopero generale in Cabilia, bollato da fonti filo-governative come “teleguidato dall’estero”. Una settimana dopo, il presidente Chadli Bendjedid dichiara che l’Algeria è un paese “arabo, musulmano, algerino” e che “democrazia non significa anarchia”; lo stesso giorno, gli scioperanti vengono sgomberati con la forza dall’ospedale di Tizi Ouzou e dai locali della Sonelec.

Il 20 aprile non è l’inizio ma il culmine della rivolta. Nella notte, le forze speciali violano lo spazio universitario e colgono gli studenti nel sonno con pestaggi, umiliazioni, arresti di massa e torture: è l’operazione Mizrana. Invece di calmare le acque, la repressione peggiora le cose: il giorno dopo, tutta la Cabilia è in piedi. Ovunque la popolazione occupa le istituzioni e blocca le strade, in un sollevamento generale che durerà settimane. Il bilancio della repressione è grave: circa 120 morti e migliaia di feriti e vittime della tortura. Ma, dopo il braccio di ferro, il governo è costretto a liberare i prigionieri e a trattare: una prima breccia nel muro del regime.

Dalle proteste nasce il Mcb (Mouvement Culturel berbére), un’organizzazione democratica e orizzontale di agitazione sociale e culturale; per una decina di anni fino all’avvento del multipartitismo nel 1989, i militanti di questa organizzazione si troveranno all’avanguardia di tutte le lotte sindacali, universitarie, culturali, femministe, per il rispetto delle libertà individuali e collettive.

Politicamente, la Primavera Amazigh apre la via alla messa in discussione del regime algerino, prefigurando i moti di Costantina del 1986 e d’Algeri del 1988; sul piano culturale, rompe il tabù linguistico e culturale. Questa presa di coscienza identitaria ha via via toccato, con esiti più o meno incisivi, gli altri stati nordafricani.

Nel ‘95, in Francia, viene lanciata l’idea di una “internazionale berbera” e, due anni dopo, si celebra nelle Canarie il primo Congresso mondiale Amazigh, che adotta la propria bandiera, da allora sventolata in tutte le proteste, anche durante la “primavera araba”. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell’oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un “aza”, la lettera zeta dell’alfabeto tifinagh, che nell’iconografia militante simboleggia l’amazigh stesso, ossia “l’uomo libero”, mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; K. Metref, “Scor-data: Algeria 20 aprile 1980, Primavera berbera”, www.labottegadelbarbieri.org; L. Ardesi, “Berberi senza primavera”, www.nigrizia.it; “Algeria. Vittoria berbera: il tamazight sarà insegnato nelle scuole”, http://nena-news.it; V. Russo, “Lingue berbere: ne parliamo con Anna Maria Di Tolla”, http://magazine.unior.it

La Baia dei Porci, quando la logica del conflitto porta alla catastrofe

Il 19 aprile del 1961 si consumò il fallimento dell’invasione della Baia dei Porci. Il primo e il più clamoroso errore del presidente John Fitzgerald Kennedy. Un errore che pesò terribilmente sulla vita di moltissime persone, cubane e statunitensi, inclusa, forse, la sua. Sì, perché l’operazione della Baia dei Porci riguardava l’invasione da parte di esuli cubani anticastristi della loro madre patria, con il sostegno della CIA, per rovesciare il governo di Fidel Castro.

La Baia dei Porci: un’operazione segreta, piuttosto nota, autorizzata da Eisenhower

John F. Kennedy aveva appena iniziato il suo mandato. Era stato eletto l’8 novembre del 1960, battendo, anche se con un margine non esaltante, il candidato repubblicano, Richard M. Nixon, ex vicepresidente di Dwight David Eisenhower (abbiamo ricordato quella vittoria elettorale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»). Il 6 dicembre Kennedy aveva incontrato il presidente uscente e i due avevano parlato un po’ di tutto [1]. Nel colloquio con Eisenhower, che tutti chiamavano Ike, però, il tema di quella che poi sarebbe stata la Baia dei Porci non emerse [2]. Né, del resto, emerse in quello del 19 gennaio del 1961. Eisenhower informò il neoeletto presidente che la sua amministrazione aveva fornito il massimo aiuto possibile ai guerriglieri anticastristi, di cui ne stavano addestrando un gruppo in Guatemala [3]. Ma l’attenzione a Cuba fu fugace in quel colloquio e non vi fu alcun cenno al fatto che fosse in corso la preparazione di un piano per quella che poi divenne la tentata invasione della Baia dei Porci [4].

La posizione ondivaga di Kennedy su Fidel Castro

Nel 1958-’59 l’allora senatore Kennedy aveva simpatizzato con la rivoluzione castrista contro il regime filoamericano, ma autoritario, repressivo e corrotto, di Fulgencio Batista [5]. Nel corso del 1960, però, era arrivato a condividere in parte le preoccupazioni americane su Castro, disapprovando la scelta di costui di essersi alleato con i comunisti cubani e di sfruttare i sentimenti anti-americani del suo popolo per avvicinarsi all’Unione Sovietica e alla Repubblica Popolare Cinese [6]. All’inizio del gennaio ’61 non prese posizione sulla decisione di Ike di rompere le relazioni con Cuba, poiché non escludeva la possibilità di un riavvicinamento con Castro [7].

Le pressioni della CIA sul nuovo presidente

Già il giorno dopo il suo insediamento la CIA iniziò a sollecitare il neopresidente perché agisse contro Cuba. In particolare il direttore Allen Welsh Dulles (che copriva tale incarico dal 1953) sostenne vigorosamente che gli USA avevano solo due mesi di tempo per decidere cosa fare degli esuli cubani che si stavano addestrando in Guatemala [8]. Pochi giorni dopo Alles tornò ad insistere sul rischio che non rovesciando Castro, Cuba sarebbe diventata un membro permanente del blocco comunista. E propose che gli Stati Uniti appoggiassero segretamente un’invasione da parte dei fuoriusciti cubani. Kennedy acconsentì a proseguire le operazioni segrete della CIA, ma ordinò che il piano d’invasione venisse rivisto e impose che nessuna decisione fosse presa senza la sua autorizzazione.

Kennedy davanti ad un bivio: apparire debole contro Castro e il comunismo, oppure tradire i principi progressisti di cui era considerato alfiere?

Kennedy si sentiva con le spalle al muro. Le alternative che gli venivano prospettate erano solo due. La prima era quella di fermare ogni programma di rovesciamento del regime castrista, disarmando gli esuli cubani presenti in Guatemala, con il rischio che costoro e la destra, a partire dai repubblicani, lo accusassero di disconfermare i piani di Eisenhower per combattere la diffusione del comunismo nel mondo e soprattutto nel continente americano [9]. L’altra possibilità era di sostenere l’invasione degli anticastristi, provocando proteste, tumulti e sabotaggi in Asia, Africa, Europa, America Latina, Canada e in buona parte degli Stati Uniti contro la politica imperialista del suo governo. In particolare, con questa seconda opzione Kennedy avrebbe palesemente contraddetto la propria immagine di sostenitore di quei principi progressisti (libertà, giustizia e autodeterminazione dei popoli) che la sua amministrazione per prima avrebbe dovuto rispettare [10].

L’opzione dello sbarco per gradi, «senza dare nell’occhio» e l’individuazione della Baia dei Porci

Il presidente, nella riunione dell’8 febbraio del ’61, chiese agli strateghi della CIA se era possibile far sbarcare i cubani per gradi, «senza dare nell’occhio», iniziando ad operare sulle montagne, così che potessero risultare come «una forza costituitasi all’interno di Cuba e non come una forza d’invasione mandata dagli yankee». La CIA e i militari lo rassicurarono.

La scelta della Baia dei Porci

Dulles e il vicedirettore della CIA per la pianificazione, Richard Bissell, nel loro incontro dell’11 febbraio con il presidente ripeterono che gli anticastristi addestrati in Guatemala sarebbero riusciti ad abbattere il regime cubano, o a provocare almeno una guerra civile, senza rendere necessaria un’azione diretta degli Stati Uniti contro Cuba. Kennedy, tuttavia, chiese che la visibilità del coinvolgimento USA fosse minima. La CIA, allora, lo rassicurò dicendogli che uno sbarco nella Baia dei Porci, nella zona di Zapata, centinaia di chilometri ad est di Trinidad (dove era stato inizialmente previsto lo sbarco) avrebbe conferito all’operazione l’apparenza di un’infiltrazione di guerriglieri a sostegno di una rivolta interna già in atto [11]

«Che cosa ne pensa di questa dannata invasione?» (Schlesinger). «Ci penso il meno possibile» (Kennedy)

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Ma JFK, pur approvando il piano, si riservò il diritto di annullarlo fino all’ultimo momento, anche solo 24 ore prima dello sbarco.

«Che cosa ne pensa di questa dannata invasione?», gli chiese il suo assistente speciale Arthur Schlesinger, il 28 marzo. «Ci penso il meno possibile», fu la laconica risposta di Kennedy, che rivelava tutta la sua inquietudine. In realtà, egli ci pensava eccome.

Quello stesso giorno ordinò alla CIA di informare i capi della brigata cubana che in nessun caso avrebbero avuto l’appoggio di truppe d’attacco americane e di chiedere loro se, ciò malgrado, erano intenzionate a procedere.

Il «fallimento perfetto» della Baia dei Porci

In realtà, la brigata cubana, la CIA e i militari americani erano certi che Kennedy non avrebbe mai osato abbandonare i cubani sbarcati nella Baia dei Porci al loro destino, se l’insurrezione del popolo cubano contro Castro non si fosse verificata e se le forze armate cubane avessero sopraffatto gli anticastristi. Però a Kennedy e ai suoi collaboratori i vertici della CIA dissero che a Cuba c’erano 2500 oppositori clandestini organizzati, che potevano contare su 20.000 simpatizzanti e che la brigata cubana, una volta sbarcata, avrebbe avuto dalla sua un quarto della popolazione [12].

Un segreto noto a chiunque leggesse i giornali americani

Le perplessità di JFK e degli altri alla Casa Bianca, quelli che nutrivano dei dubbi o un aperto dissenso sul piano, erano acuite dal fatto che gli articoli dei giornali americani sull’esistenza di forze anticastriste, addestrate dagli americani, rendevano difficile smentire il coinvolgimento del governo. Kennedy in privato disse:

«Castro non ha bisogno di mettere agenti da queste parti. Non deve far altro che leggere i nostri giornali» [13].

Il 14 aprile, dunque, ordinò a Richard Bissell di ridurre da 16 a 8 gli aerei che i piloti cubani avrebbero dovuto usare per condurre l’attacco previsto [14]

L’impossibile impresa della Baia dei Porci

Il 15 aprile quegli 8 aerei (B-26) decollarono dal Nicaragua per bombardare tre aeroporti cubani [15]. Era l’inizio di quella che lo storico Theodore Draper definì «Uno di quegli eventi rari nella Storia: un fallimento perfetto». Il 17 aprile, il giorno dello sbarco, John Kennedy decise di far tenere a terra i 16 aerei degli esuli finché la testa di sbarco non si fosse consolidata, così che il loro impiego successivo fosse compatibile con la versione secondo al quale i B-26 erano decollati dalla spiaggia. In poche ore, tuttavia, lo sbarco si rivelò un’impresa impossibile. Com’era ampiamente prevedibile, e previsto dagli scettici, 1500 invasori non potevano farcela contro le preponderanti forze castriste. Né il popolo cubano era insorto contro il governo di Fidel Castro [16].

«È uno schifoso sistema per fare esperienza»

John Kennedy aveva resistito alle pressioni della CIA e dei militari, non inviando missioni di soccorso, né offrendo copertura aerea agli invasori [17]. In seguito confidò che i capi di stato maggiore e la CIA «erano sicuri che avrei ceduto. Non potevano credere che un principiante come non si sarebbe lasciato prendere dal panico e non avrebbe cercato di salvare la faccia. Be’, si sbagliavano di grosso».

Però Kennedy era distrutto: il 19 aprile 1961, 1200 degli oltre 1400 membri delle brigate cubane si erano arresi, 100 avevano perso la vita. Il presidente non poteva darsi pace. Cercò di trarre un significato utile da tutta la vicenda:

«È uno schifoso sistema per fare esperienza. Ma da tutta questa storia una cosa l’ho imparata, cioè che dobbiamo occuparci della CIA».

Il ministro della Giustizia Robert F. Kennedy affidò a Lyman Kirkpatrick, ispettore generale della CIA, la conduzione di un’indagine sull’insuccesso della Baia dei Porci. Anche se Dulles e Bissell sostenevano che era stato provocato dalla decisione di Kennedy di annullare l’attacco aereo, Kirkpatrick dimostrò che il presupposto dell’operazione, cioè l’insurrezione dei cubani per effetto dell’invasione sbarco, era totalmente infondato e noto come tale [18]. JFK chiese ad Allen Dulles di dimettersi [19].

«Come ho potuto essere così stupido?»

Il presidente era sconvolto, amareggiato e angosciato. Ed era arrabbiato con Dulles e con gli strateghi della CIA non meno di quanto lo era con i militari. Ma, soprattutto, lo era con se stesso [20]. Alla riunione del gabinetto del 20 aprile, era distratto, parlava da solo e ogni tanto si chiedeva ad alta voce:

«Come ho potuto essere così stupido?».

Riconosceva che anche il più fermamente contrario dei suoi collaboratori, William Fulbright, senatore alla Commissione del Senato per le Relazioni Estere degli Stati Uniti, avrebbe probabilmente finito con l’appoggiare l’operazione se fosse stato sottoposto, come era accaduto a lui,

«allo stesso bombardamento di informazioni fuorvianti circa lo scontento a Cuba, il morale dei cubani liberi, la stagione delle piogge, le teste di sbarco imprendibili, la facile fuga sui monti Escambray e quant’altro».

Però, lo sconcertava il fatto di non aver posto alla CIA e ai militari domande più puntuali e concrete e di aver permesso alla loro «sapienza» di convincerlo ad andare avanti. Decise che mia più si sarebbe «fidato ad occhi chiusi degli esperti» [21].

Questa esperienza gli fu preziosa nella gestione della crisi missilistica con Cuba  e l’URSS, ma, nel caso del conflitto tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud, come in quello del colpo di Stato all’interno di quest’ultimo, tornò a commettere un errore assai simile (ne abbiamo parlato nel post «Una perdita di futuro» che dura dal 22 novembre 1963). Oggi, si può dire che la dinamica del conflitto, che permeava la Guerra Fredda, aveva così condizionato anche John F. Kennedy da non fargli comprendere che, in realtà, l’errore da lui commesso non era stato tanto quello di considerare l’invasione della Baia dei Porci come una sorta deus ex machina, capace di innescare la caduta del regime di Castro. Il vero errore era stato quello di aver ignorato i suggerimenti di quanti, attorno a lui, gli avevano ricordato l’illiceità e l’immoralità, oltre che la pericolosità, sottese alla pretesa degli Stati Uniti di volere determinare chi poteva o no governare in altri Paesi. Gli avevano fatto notare, infatti, che, così agendo, il governo degli Stati Uniti avrebbe avuto un comportamento analogo a quello che rinfacciava al Cremlino.

«Io sono il responsabile del governo»

Pubblicamente, però, John Kennedy non incolpò altri che se stesso. Fece uscire un comunicato della Casa Bianca in cui si affermava che egli si assumeva la totale responsabilità e si opponeva a chiunque cercasse di attribuirla ad altri. Citando un vecchio adagio secondo il quale le vittorie hanno cento padri, mentre le vittorie sono orfane, disse alla stampa:

«Io sono il responsabile del governo».

Questa assunzione di responsabilità, il fatto che si fosse preoccupato immediatamente di contattare Nixon ed Eisenhower, assumendosi anche con loro la colpa di quanto successo, invece, di rinfacciare loro di avergli lasciato in eredità un’operazione disastrosa, così da evitare che costoro strumentalizzassero il fallimento della Baia dei Porci per attaccarlo, fece sì che un sondaggio Gallup di fine aprile, dimostrò che l’83% degli americani approvava il presidente, il 61% elogiava la sua gestione della situazione cubana e il 65% non avrebbe approvato l’invio di forze armate statunitensi per rovesciare Castro. Il commento amareggiato di John Kennedy fu:

«Proprio come Eisenhower. Peggio faccio, più popolare divento».

Alberto Quattrocolo

[1] In tema di politica estera, gli argomenti erano la NATO, le situazioni del Laos, del Congo e dell’Algeria, i negoziati sul disarmo e sui test nucleari con l’URSS e, infine, l’America Latina e le preoccupazioni per il regime castrista a Cuba.

[2] La pianificazione di un’invasione di Cuba non fu accennata neppure nel corso del colloquio tra Kennedy e il vicepresidente uscente Nixon.

[3] «Nel lungo termine gli Stati uniti non possono permettere al governo di Castro di continuare ad esistere», gli disse Ike.

[4] Del resto il progetto di un’invasione di Cuba da parte di esuli cubani era un segreto piuttosto noto. Il piano, chiamato “Programma per un’azione segreta contro il regime di Castro“, era stato elaborato dal Gruppo 5412, sostenuto dal vicepresidente Richard Nixon, e approvato dal presidente Dwight Eisenhower, il 17 marzo 1960, durante una riunione con Nixon e altri membri del governo, il direttore della CIA, Allen Welsh Dulles, Richard Bissell, anch’egli della CIA e alti vertici delle forze armate. Però, il 30 ottobre, a Città del Guatemala, il giornale La Hora aveva pubblicato una notizia circa l’esistenza di una base segreta nella quale si svolgevano preparativi per l’invasione di Cuba. E il 19 novembre 1960, il professore Ronald Hilton, direttore dell’Istituto di studi ispano-americani dell’Università di Stanford, appena rientrato dal Guatemala, aveva pubblicato sul settimanale The Nation un articolo in cui si riportava la notizia di esuli cubani, addestrati dalla CIA, intenzionati rovesciare Castro. Il 10 gennaio ne parlò anche il New York Times.

[5] JFK apprezzava di Fidel Castro le sue posizioni e i suoi programmi da socialista utopista e ne ammirava l’immagine di romantico idealista.

[6] Così durante la campagna elettorale John Kennedy si espresse a favore di un’invasione dell’isola da parte di fuoriusciti cubani, venendo aspramente criticato da destra, cioè da Nixon che lo definì irresponsabile, e da sinistra, ossia dai liberal. In realtà, Kennedy non era del tutto contrariato da quanto faceva Castro in campo economico, anche se si trattava di iniziative che pregiudicavano gli interessi di svariate compagnie americane. Nel giugno 1960 Fidel Castro, un anno mezzo e dopo essere subentrato al filo-americano Fulgencio Batista, aveva nazionalizzato le raffinerie della Esso, della Shell e della Texaco. Il 17 settembre erano state espropriate tutte le banche statunitensi; mentre in ottobre Castro aveva chiuso i casinò e le catene di alberghi Riviera e Capri, in mano a mafiosi come Meyer Lansky, Lucky Luciano e Frank Costello. Inoltre il suo governo aveva distribuito ai contadini cubani, raggruppati in società cooperative, 270.000 ettari di latifondi, 35000 ettari della United Fruit Company, di cui Allen Dulles, proprio il direttore della CIA, come socio di maggioranza, era presidente e rappresentante legale.

[7] A metà gennaio, poi, una settimana prima dell’insediamento, John Kennedy aveva ricevuto un rapporto di Sidney Lens, un leader sindacale di Chicago appena tornato da Cuba, nel quale si confermavano le soppressioni delle libertà del regime castrista, ma si descrivevano anche le ragioni dell’appoggio popolare di cui Castro godeva, e di cui la stampa occidentale non parlava, si illustrava l’inefficacia dell’embargo imposto dagli USA e si segnalava la presenza di spie cubane infiltrate tra gli anticastristi esuli negli Stati Uniti, i cui piani, quindi, erano a conoscenza del governo cubano.

[8] In Guatemala la CIA, sotto la presidenza di Eisenhower, aveva rovesciato un governo popolare pe sostituirlo con uno, autoritario, filoamericano

[9] Il che equivaleva ad una gravissima crisi politica ed evocava le fatali esitazioni delle democrazie occidentali di fronte alla prepotenza spadroneggiante di Hitler, debolezze che avevano portato il mondo nelle atrocità della Seconda Guerra Mondiale.

[10] Kennedy, in realtà, era attratto dall’idea di rovesciare un governo che non rispettava le libertà democratiche promesse al momento della rivoluzione e che egli credeva intento a destabilizzare altri paesi latinoamericani, a dispetto della loro autonomia, per portarli nell’orbita comunista.

[11] Aggiunsero che erano probabili delle accuse successive al governo americano da parte dei comunisti, ma che questa difficoltà politica probabile era preferibile alla sicura accusa di vigliaccheria alla sua amministrazione da parte degli anticastristi, se egli avesse cancellato l’operazione. Arthur Schlesinger, uno storico, esperto di politica estera, specialmente per l’America Latina, che Kennedy aveva voluto nella cerchia dei suoi assistenti speciali, cercò di dissuaderlo dal farsi condizionare da simili argomenti. Era comprensibile, disse Schlesinger a John Kennedy, che Dulles fosse preoccupato all’idea di un folto gruppo di esuli cubani addestrati in Guatemala, che, se smobilitati, sarebbero andati in giro per gli USA a sparlare del governo, raccontando tutto. Ma, aggiunse Schlesinger tale «problema reale» non poteva «determinare la politica USA». . La CIA, però, mise in ombra i dubbi di Schlesinger, modificando il piano, secondo le indicazioni di JFK. Il nuovo piano suscitò una tiepida approvazione di McGeorge Bundy, assistente al presidente per gli affari di sicurezza nazionale, che lo aveva inizialmente avversato. Kennedy, però, era ancora preoccupato e respinse l’idea di uno sbarco all’alba, giudicandolo troppo visibile, pretendendo che le navi che trasportavano i guerriglieri all’alba fossero già lontane dall’area. La CIA modificò il piano secondo le sue indicazioni.

[12] Il 12 aprile un rapporto della CIA faceva salire a 7000 i rivoltosi controllabili mediante agenti con cui erano in corso comunicazioni attive.

[13] Il 12 aprile, però, durante una conferenza stampa, mentre diversi articoli davano per imminente l’invasione, Kennedy rispose ad una domanda sulla disponibilità del governo ad aiutare una sollevazione anti-Castro o un’invasione di Cuba, dicendo: «Non ci sarà in nessuna circostanza un intervento a Cuba da parte delle forze armate degli Stati Uniti. Questo governo farà tutto il possibile per assicurarsi che nessun americano sia coinvolto in qualsiasi tipo di azione all’interno di Cuba»

[14] . Intendeva così minimizzare le dimensioni dell’invasione.

[15] Ma centrarono solo 5 degli oltre 30 aerei da combattimento di Castro, lasciando così gli invasori, che erano in viaggio via mare (anch’essi dalle coste nicaraguensi), esposti agli attacchi dell’aviazione cubana prima e dopo lo sbarco.

[16] Il 18 aprile l’aviazione castrista affondò la principale nave di appoggio alla brigata, che trasportava munizioni per 10 giorni e le principali apparecchiature di comunicazione.

[17] In quei giorni i suoi già rilevanti problemi di salute, inclusi i dolori alla schiena e quelli arrecati dai disturbi intestinali, erano acuiti da una costante e acuta dissenteria e da un’infezione alle vie urinarie (abbiamo parlato dei problemi di salute di cui soffriva John Kennedy nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»).

[18] Il rapporto dell’ispettore Kirkpatrick spiegava che la CIA si era lasciata talmente assorbire dalla prospettiva dello sbarco alla Baia dei Porci da non riuscire a valutare con realismo le possibilità di successo

[19] «In un sistema di governo parlamentare sarei io a dovermi dimettere», disse John Kennedy ad Allen Dulles, «ma nel nostro sistema costituzionale è lei che se ne deve andare».

[20] Lo era per aver dato retta alla CIA e ai militari anziché a quanti, interni e vicini alla Casa Bianca, avevano segnalato la temerarietà o la natura imperialista dello sbarco alla Baia dei Porci, o entrambe le cose

[21] Kennedy confidò a Schlesinger di aver creduto che «i militari e quelli dello spionaggio fossero dotati di capacità segrete negate ai comuni mortali». E disse a Ben Bradlee: «Il primo consiglio che darò al mio successore è di guardarsi dai generali e di non pensare che, solo perché sono militari, le loro opinioni sulle questioni militari valgano qualcosa».

Fonti

Robert Dallek, John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Arnoldo Mondadori S.p.A., Milano, 2004

John k. Galbraith, Una vita nel nostro tempo, Mondadori, Milano, 1982

Glauco Maggi, La Baia dei Porci fu una guerra tra la CIA (di Allen Dulles) e JFK, La Stampa. 17 agosto 2011.

Arthur Schlesinger Jr., I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa Bianca, Rizzoli, Milano, 1966