Il Codice Hays e la moralità del cinema hollywoodiano

Se noi, gente di cinema, aspiriamo ancora al titolo di artista, non dobbiamo mai dimenticare che esso implica il rispetto assoluto di questa regola: non c’è vera moralità che non comporti una resistenza accanita alla tirannia”. (Orson Welles)

Il 31 marzo 1930 fu adottato dagli studios hollywoodiani il cosiddetto Codice Hays, o Production Code, ovvero un complesso di linee guida per un’autoregolamentazione moralmente orientata della produzione cinematografica.

Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Hollywood aveva celebrato con gioia la sessualità liberata, l’emancipazione delle donne, l’essere queer. Era il cosiddetto cinema “Pre-Code”, che raccoglieva l’eredità dei Roaring Twenties, quel periodo che in America coincise con la prima rivoluzione sessuale, la conquista del suffragio delle donne e il proibizionismo, che alimentava il mito del divertimento e della festa. Ma, nello stesso periodo, il movimento delle associazioni cattoliche e protestanti che promuovevano la morigeratezza dei costumi aveva guadagnato un potere molto vasto, soprattutto sull’opinione pubblica. Il cinema suscitava timori, a causa del potere di suggestione che mostrava di possedere più di altri mass media; con l’idea che la libertà di giudizio e scelta dello spettatore, anche se adulto, dovesse essere protetta e comunque preventivamente limitata, insorsero istanze censorie, volte a contrastare la rappresentazione di atti contrari al buon costume e alla morale, presunte offese alle istituzioni, alle chiese, alle religioni o al prestigio nazionale, crudeltà nei confronti di uomini e animali, e in generale di tutti i temi suscettibili di turbare l’ordine pubblico e i rapporti internazionali.

Nel periodo di massimo splendore della cinematografia americana, negli USA la censura era gestita da una miriade di istituzioni locali e statali, senza un modello federale: solo nel 1948 la Corte Suprema affermerà espressamente che il cinema debba essere considerato sotto la tutela del primo Emendamento. La precarietà di questa situazione portò quindi, negli anni Trenta, all’adozione di una forma di autocensura controllata e gestita dall’associazione di categoria dell’industria cinematografica, la MPPDA (Motion Picture Producers and Distributors Association).

Le motivazioni alla base di tale scelta furono tuttavia alquanto pragmatiche: a fronte delle forti pressioni ricevute, i produttori cinematografici avevano cominciato a rendersi conto che una politica di autoregolamentazione e cautela nei contenuti dei film consentiva una circolazione più sicura dei loro prodotti, scongiurando i rilevanti danni causati da azioni giudiziarie contro film ritenuti immorali (ritiro delle copie in circolazione, interruzione nella programmazione, esecuzione di tagli o modifiche ai film, caduta di immagine presso il grande pubblico).

L’ambiente hollywoodiano era stato travolto da una serie di scandali, come le morti legate alla droga di Virginia Rappe (di cui fu accusato il popolare comico Fatty Arbuckle) e Wallace Reid e l’omicidio mai risolto di William Desmond Taylor; inoltre, l’avvento del sonoro acuiva il rischio di offendere la sensibilità degli spettatori nelle scene a cui, fino ad allora, le sole immagini avevano garantito un margine di velata allusività.

L’industria cinematografica aveva forti motivazioni economiche per volersi rifare un’immagine, in quanto doveva conformarsi agli standard auspicati da Wall Street (la cui entrata sulla scena imprenditoriale del cinema era stata massiccia quanto autorevole), in modo da finanziare le tecnologie del sonoro e l’espansione delle catene di sale.

Redatto nel 1930 e applicato in concreto dal 1933, il Codice Hays conteneva principi etici e indicazioni specifiche che regolavano ciò che si poteva far vedere, dire e raccontare sullo schermo; esso interveniva non a film finito, mediante tagli, bensì a livello di sceneggiatura, proponendo modi alternativi di racconto. Solo a partire dal 1968 il Codice sarà accantonato e in larga parte sostituito da una divisione del pubblico per fasce d’età (rating). Il testo comprendeva due sezioni: The Code (articolazione pragmatica del modello di autocensura) e The reasons (presentazione in chiave etico-sociologica).

Il Production Code elencava tre “Principi generali”:

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1) Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.

2) Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.

3) La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

Crimine e sesso erano le aree più articolate, mentre la violenza non sembrava provocare grande allarme: la preoccupazione maggiore sembrava essere infatti quella di scongiurare l’emulazione; in particolare, rispetto ai film di gangster si proponeva la necessità di punire il criminale (moral compensation), facendolo morire tragicamente negli ultimi metri di pellicola, per dare una chiara indicazione di ordine sociale.

La regolamentazione della presentazione sullo schermo dei rapporti sessuali prescriveva:

La santità dell’istituzione del matrimonio e della famiglia deve essere sostenuta. Il cinema non deve mostrare alcuna forma degradata di relazione sessuale come se fosse comunemente accettata.”.

Nel 1934 l’industria cinematografica istituì, sotto la direzione di Joe Breen, la Production Code Administration (PCA), chiamata a gestire l’applicazione del Codice: le compagnie appartenenti alla MPPDA (ovvero le otto maggiori case di produzione) non potevano distribuire film senza il sigillo di approvazione della PCA, perciò quelli che risultavano privi del visto di censura non potevano essere proiettati nel circuito di sale da loro controllato (cioè, la gran parte della prima visione). Fervente cattolico, membro della Catholic Legion of Decency, il “censore di Hollywood” Breen incrociò il suo destino con quello del nazismo: il console tedesco negli Stati Uniti cominciò a valutare ciascun film in uscita in America decidendo se minasse o meno il prestigio della Germania e Breen ne condivideva le simpatie antisemite, nonostante all’epoca sei delle otto case di produzione americane fossero gestite da personale ebraico.

La censura si scagliò in modo punitivo sulla rappresentazione delle donne: attrici come Marlene Dietrich e Norma Shearer, persino il cartone animato Betty Boop ne fecero le spese perché considerate troppo trasgressive e sensuali.

C’era la volontà di regolare la vita degli spettatori, in modo che assorbissero quei “Do & Don’t” anche nelle proprie vite: “I film sono un’importante forma di espressione artistica. L’arte entra nell’intimo delle vite degli uomini” e l’arte non deve imitare la vita, ma migliorarla, deve essere d’esempio.

Per molti anni non fu possibile raccontare l’amore tra persone dello stesso sesso: i personaggi omosessuali venivano dipinti come cattivi, sadici o pervertiti, oppure macchiette stereotipate, amici eccentrici della protagonista, spesso con funzioni comiche, se non ridicole.

Finché rimase in carica, Breen ebbe il potere di modificare gli script e le scene, togliendo spazio e libertà creativa ai produttori, agli sceneggiatori e ai registi; nel ‘54 vinse il Premio Oscar alla carriera per la sua “consapevole, aperta e nobile gestione del Motion Picture Production Code”, esercitando la quale, per esempio, si oppose a ogni riferimento esplicito, durante la lavorazione del film Casablanca (1942, di Micheal Curtiz), all’amore adultero tra Rick e Ilsa, determinando il finale con la celebre rinuncia di Rick. Autori come Otto Preminger, Orson Welles ed Erich von Stroheim tentarono di battersi contro il potere della censura americana, ma perlopiù, sino alla fine degli anni Cinquanta, autori e registi cercarono di aggirare il Production Code lavorando sul filo del rasoio, al limite della condanna, fermandosi un attimo prima del taglio di forbice.

Celebri alcuni escamotage, come la concessione di parole vietate nel caso in cui fossero già presenti nelle opere letterarie di origine, che sdoganò l’immortale “Frankly, I don’t give a damn” di Rhett Butler in Via col vento (1939, di Victor Fleming), oppure la lunghissima scena di bacio in Notorious (1946, di Alfred Hitchcock), per la quale il regista Hitchcock aggirò i divieti facendo alternare brevi baci a conversazioni o effusioni di altro tipo.

In ogni caso, il maggior successo ottenuto da W. H. Hays alla guida della MPPDA (divenuta nel frattempo Motion Picture Export Association of America) non si registrò tanto nella moralizzazione del cinema americano, quanto nella sua straordinaria espansione internazionale: Hays era convinto che, attraverso l’esportazione dei film, si realizzasse, al di là del profitto immediato e diretto dell’operazione, una viva presenza del Paese esportatore nei mercati esteri e dunque la più efficace propaganda a favore dell’american way of life.

A lui viene attribuito il famoso slogan “la merce segue il film”.

Hays aveva capito che il film può diventare il miglior ambasciatore del Paese ed esercitare un’efficacissima azione di propaganda indiretta a favore della sua civiltà, del suo modo di vivere, delle sue istituzioni e, infine, delle sue merci.

L’introduzione del Codice che prese il suo nome si rivelò pienamente coerente e funzionale rispetto al disegno di un’egemonia economico-commerciale del cinema USA nel mondo, giacché esso assicurava la presenza, in ciascun film americano, di quel “minimum etico” che gli permetteva di affermarsi in qualsiasi luogo, dall’Europa all’India, dai Paesi arabi al Giappone, dall’America Latina alla Cina, senza urtare la sensibilità o la suscettibilità di pubblici tanto diversi e senza incontrare grossi problemi con i vari tipi di censura esistenti nel mondo.

Silvia Boverini

 

Fonti:

www.it.wikipedia.org;

M. Argentieri, G. Muscio, “Censura” e “Motion Picture Association of America”, www.treccani.it;

P. Bafile, “Codice Hays”, www.lacomunicazione.it;

G. Manfredini, “Cinema e moralità, il Codice Hays”

https://medium.com; G. Guerra, “Negli anni Trenta Hollywood celebrava le donne e il sesso, poi è arrivata la Chiesa”

https://thevision.com

Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista

Il ministro della propaganda Joseph Goebbels e il regista Fritz Lang

Il 30 marzo del 1933, il ministro Joseph Goebbels, intento a sviluppare una potente macchina della propaganda cinematografica nazista, convocò il più noto e internazionalmente apprezzato regista di lingua tedesca, Fritz Lang, nel suo ufficio. Lang, di origine viennese, allora 43enne, aveva iniziato la sua carriera cinematografica al termine della Prima Guerra Mondiale, piazzando nel suo curriculum opere già entrate a pieno titolo nella storia del cinema mondiale e che avevano suscitato un entusiasmo impressionante sia nel pubblico che nella critica. Il dottor Mabuse (1921), I Nibelunghi (1924), Metropolis (1926) e L’inafferrabile (1928), lo avevano portato in cima alle vette del cinema muto nel panorama internazionale. Con l’avvento del sonoro, M, il mostro di Düsseldorf (1930) era valso a sancire che il passaggio al cinema parlato non solo non aveva pregiudicato la sua arte, anzi l’aveva arricchita. Analogo valore era riconosciuto al suo prodotto più recente che riprendeva la sua opera del ’21, vale a dire Il testamento del dottor Mabuse.

Il ministro Joseph Goebbels, futuro artefice della propaganda cinematografica nazista

Adolf Hitler, appena due mesi prima, il 30 gennaio del 1933 era stato nominato cancelliere dal presidente della Repubblica tedesca, l’anziano Paul von Beneckendorf und von Hindenburg (lo abbiamo ricordato nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione), anche se il suo partito aveva ottenuto alle elezioni di novembre del ’32 solo il 32% dei voti [1]. Con le elezioni del 5 marzo del 1933, segnate da un brutalità sistematica delle camicie brune e dei corpi di polizia ormai completamente in mano nazista, il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP) aveva raggiunto il 44% dei voti, i quali sommati insieme a quanto ottenuto dal partito nazionalista di Hugenberg gli assicuravano la maggioranza in parlamento (abbiamo ricordato tali sviluppi nel post La democrazia in fumo). Il 13 marzo Joseph Goebbels ebbe la nomina come Ministro della Propaganda ed ella Cultura Popolare [2].  Costui da tempo aveva intuito che la propaganda cinematografica nazista, che aveva già efficacemente, ma limitatamente, dispiegato nelle campagne elettorali del 1932, aveva un enorme potenziale non ancora espresso.

Il dottor Mabuse come Hitler

Le opere di Lang, il maestro riconosciuto del cinema tedesco, però, non potevano dirsi sintoniche con le idee di Goebbels sulla propaganda cinematografica nazista in procinto di decollare. È vero che uno dei suoi più grandiosi successi degli anni Venti, il colossale e dispendiosissimo, I Nibelunghi, non poneva alcun problema, anzi poteva essere considerato a posteriori come più che compatibile con la mitologia nazista, un analogo discorso non poteva proporsi per Metropolis e neppure per L’ineffarrabile. Il primo film sonoro di Lang, M, il mostro di Düsseldorf, poi, era stato riconosciuto come un capolavoro da tutti, tranne che dai nazisti, i quali avevano poco gradito il ritratto impietoso della ferocia della folla che si vuole fare giustizia da sé. Inoltre, 1932, Lang, proprio osservando con angoscia l’affermazione crescente del partito nazista, aveva deciso di realizzare un nuovo film sul supercriminale Mabuse. Di questo nuovo film sul personaggio creato nel 1921, Il testamento del dottor Mabuse, in seguito dirà:

«Da parte mia stavo studiando un modo per rappresentare la mia avversione per la crescente violenza nazista e il mio odio per Adolf Hitler, così feci Das Testament des Dr. Mabuse. Misi in bocca a un pazzo criminale tutti gli slogan nazisti: “Dobbiamo terrorizzare la gente dicendo che finirà col perdere ogni autorità di cui si sente investita. La fiducia del comune cittadino nelle autorità da lui elette dev’essere distrutta. Finché non si solleverà distruggendo il vecchio Stato…per fare con noi un nuovo mondo. Sulle rovine dello Stato distrutto noi creeremo il regno del crimine…”».

L’incontro tra Goebbels e Lang

Quest’ultima opera, quindi, per ragioni politiche, non era piaciuta a Goebbels, che infatti, ne aveva impedito la distribuzione. Il ministro, però, da poco nominato ministro della propaganda, aveva idee ben precise su come avrebbe dovuto funzionare la propaganda cinematografica nazista e, per questa ragione, voleva Fritz Lang dalla propria parte. Ne riconosceva il valore e ne apprezzava l’efficienza e la meticolosità creativa e organizzativa. Come Hitler, anche il neoministro era appassionato di cinema e, avendo studiato attentamente l’effetto dei film sovietici sul popolo russo, sapeva valutare appieno l’importanza della cinematografia come mezzo di propaganda [3]. E Fritz Lang costituiva una risorsa che non si poteva mettere da parte con noncuranza.

Goebbels, perciò, a proposito del Testamento del dottor Mabuse, disse a Fritz Lang:

«Guardi, mi dispiace moltissimo, ma siamo stati costretti a sequestrare questo film. È solo il finale che non ci andava».

Il sì temporeggiatore di Fritz Lang e la fuga nottetempo

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Parlando decenni dopo con il regista e critico americano Peter Bogdanovich, l’ormai vecchio Fritz Lang spiegò che il ministro

«non disse nulla sul vero motivo: non l’ha neanche menzionato, neanche una parola. Era troppo intelligente: “Dobbiamo cambiare il finale”, mi disse. “Non dovrebbe diventare pazzo, dovrebbe essere distrutto dalla furia popolare”. Ma sapeva benissimo cosa c’era in ballo».

Se Goebbels «troppo intelligente», Fritz Lang non era uno stupido. Il ministro, in quell’incontro di 86 anni fa, gli stava proponendo di dirigere la nuova industria cinematografica del Terzo Reich, di essere, quindi, a capo, pur sotto la supervisione del ministero, di tutta la propaganda cinematografica nazista. Hitler, del resto, era un suo grande ammiratore e amava moltissimo anche Metropolis. Lang rispose «sì a tutto». E quella sera stessa, senza riuscire a passare dalla banca, lasciò la Germania per Parigi, lasciandosi alle spalle tutti i suoi averi. Poco dopo, infatti, gli fu notificato che tutti i suoi beni immobili e mobili erano stati requisiti. Quello stesso anno, Thea Von Harbou, sua moglie e strettissima collaboratrice di grande talento (era stata, tra le altre cose, autrice di Metropolis), divorziò da lui ed entrò nel movimento nazista.

La fuga dei talenti cinematografici dalla Germania

Così Fritz Lang ricordò in seguito l’incontro con Joseph Goebbels:

«Il 30 marzo 1933, il ministro della Propaganda in Germania, Joseph Goebbels, mi convocò nel suo ufficio […] e mi propose di diventare una sorta di Fuhrer del cinema tedesco. Io allora gli dissi: “Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche” e lui: “Non faccia l’ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!”. Fuggii da Berlino quella notte stessa».

Nel 1936 l’epurazione sistematica, con l’allontanamento degli ebrei e di coloro che non intendevano adeguarsi alle logiche, ai metodi e agli obiettivi della propaganda cinematografica nazista, fece sì che quasi tutti i migliori talenti tedeschi emigrassero. Gran parte di questi furono accolti negli USA e costituirono una risorsa impagabile per il cinema hollywoodiano, realizzandovi opere memorabili, oltreché assai redditizie. Per citarne soltanto alcuni – oltre ad attori del calibro di Marlene Dietrich, Conrad Veidt e di Peter Lorre, impostosi proprio con M, il mostro di Düsseldorf -, si pensi a registi-sceneggiatori quali: William Dieterle, Robert Siodmak, Douglas Sirk, Edgar G. Ulmer, Billy Wilder, Fred Zinnemann.

Il carattere industriale della propaganda cinematografica nazista

Due giorni prima di incontrare Fritz Lang, e di esserne ingannato, Goebbels aveva affermato pubblicamente:

«L’arte è libera e rimarrà libera. Però dev’essere esercitata secondo determinate regole».

Un messaggio, a dir poco ambiguo, ma non così contraddittorio, dal punto di vista del ministro, come potrebbe apparire.

«Se la propaganda diventa riconoscibile diventa anche inefficace» (Joseph Goebbels)

Così, infatti, spiegò, poi, il suo disegno:

«Non voglio, per esempio, un tipo di arte che dimostri il suo carattere nazionalsocialista sbandierando emblemi e simboli nazionalsocialisti, ma desidero un genere di arte che mostri il suo orientamento attraverso il suo carattere nazionalsocialista e cogliendo le problematiche nazionalsocialiste. Ed esse penetreranno la vita emotiva dei tedeschi e di tutti gli altri popoli molto più efficacemente quanto meno apertamente verranno trattate. Uno dei requisiti essenziali dell’efficacia è che essa non dovrebbe apparire come intenzionale. Se la propaganda diventa riconoscibile diventa anche inefficace».

Anche la propaganda cinematografica nazista doveva, quindi, secondo il ministro, essere invisibile. La sua funzione principale non era in primo luogo quella di convertire il pubblico al nazismo, ma quella di rafforzare determinati atteggiamenti e di promuovere valori che generassero un assenso generale al regime nazista.

La propaganda cinematografica nazista e il controllo politico diretto sull’industria

D’altra parte, Goebbels affidò al proprio ministero il compito di regolamentare giuridicamente e organizzativamente la produzione e la distribuzione cinematografica, riservando a sé e ai suoi funzionari il potere di intervenire direttamente sui singoli film (controllando tutto, dalle sceneggiature, al cast artistico e tecnico). Dopo pochi mesi veniva promulgata una legge che vietava agli ebrei di lavorare nella cinematografia tedesca, mentre veniva costituita la Reichsfilmkammer (RFK). Una Camera del Cinema, con funzioni di coordinamento dell’intera industria cinematografica, cui era obbligatorio iscriversi per chiunque operasse in tale settore. Così, anche a prescindere da qualsivoglia legge “ariana” sul cinema, più di 5.000 persone furono costrette lasciare il lavoro. Grazie anche al controllo finanziario statale (indiretto) delle case di produzione e distribuzione, si stabilì subito una piena e totale collaborazione tra il regime e l’industria del cinema.

La propaganda cinematografica nazista nei cinegiornali e nei documentari

Se nei film di finzione la propaganda cinematografica nazista doveva essere veicolata soprattutto per via indiretta, nei cinegiornali valeva il criterio opposto. Questi, non esistendo ancora la televisione, insieme alla radio e ai giornali, erano mezzi di informazione davvero rilevanti [4]. I cinegiornali, quindi, mettevano sempre in primo piano i discorsi di Hitler e degli altri vertici del regime, nonché le adunate del partito, le marce e le parate. Un discorso non tanto dissimile valeva anche per la produzione documentaristica, di cui l’esempio più celebre e studiato fu Il trionfo della volontà (1934, di Lieni Riefenstahl) [5].

La propaganda cinematografica nazista esplicita e l’antisemitismo nei film di fiction

Se il film della Riefenstahl sul congresso dello NSDAP a Norimberga creò l’iconografia ufficiale del partito nazista nel cinema, nel campo della fiction, le opere di esplicita glorificazione di quel partito furono tre film girati nel 1933: SA – Mann Brand (di Frantz Seitz), Hans Westamr (di Franz Wenzler) e Hitlerjunge Quex (di Hans Steinhoff). Soltanto al terzo arrise un minimo di successo di pubblico. Ciò sembrò confermare la validità delle tesi di Goebbels circa la maggiore efficacia di una propaganda cinematografica nazista che riuscisse ad essere invisibile. Conferma fornita, infatti, dal successo di pubblico riscosso dai film che svolgevano, sì, una fortissima campagna antisemita, ma declinata con i moduli narrativi del melodramma. Tra questi, in particolare, Suss, l’ebreo (1940, di Veit Harlan) [6]. Grazie alla suspense creata dalla trama e alle scelte stilistiche, questo film risultava assai più efficace nella demonizzazione degli ebrei di altre produzioni, pensate come documentari scientifici, volti a diffondere e a radicare l’antisemitismo.

La propaganda cinematografica nazista indiretta nei film di fiction

Nei dodici anni compresi tra la presa del potere da parte di Hitler e la fine della Seconda Guerra Mondiale solo il 14% dei 1094 film realizzati in Germania costituirono opere propaganda cinematografica nazista esplicita. La gran parte delle pellicole di finzione, però, conformi ai dettami di Goebbels sulla propaganda invisibile, educavano al nazismo in modo indiretto, riuscendo efficacissime. I generi in cui tale propaganda implicita risultava più eloquente erano indubbiamente quelli di genere storico, in cui si affidava a particolare figure del passato, adeguatamente esaltate, il compito di suggerire analogie con la figura del Führer. Anzi, il ministro, in tali casi, vietava esplicitamente alla critica di dichiarare gli parallelismi evocati, affinché fossero gli spettatori a fare spontaneamente le associazioni auspicate. Venivano poi i film d’avventura, in cui furoreggiava, il divo Hans Albert, biondo e alto con meravigliosi occhi azzurri, che impersonava leader antidemocratici e nazionalisti, proponendosi come integerrimo fautore del colonialismo tedesco, contrapposto a infidi ebrei, stranieri e socialdemocratici. Non minor rilievo avevano i film di guerra, ambientati durante la Prima Guerra Mondiale o nei conflitti precedenti. Anche i film romantici, i melodrammi, le commedie e i film-operetta, però, servivano allo scopo, specie nelle misura in cui diffondevano un’idea di donna, stereotipata, tutta al servizio dell’uomo e delle esigenze della nazione.

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Per poter governare il suo governo non poteva contare sulla maggioranza del Reichstag (parlamento), così Hitler, con l’inganno, indusse Hindenburg ad indire nuove elezioni e orchestrò una campagna elettorale senza precedenti, tutta tesa a delegittimare gli avversari, anche grazie all’incendio del Reichstag del 27 febbraio, e facendo ampio ricorso ad una violenza estrema e diffusa, squadrista e poliziesca contro di loro.

[2] Era, da parte del Führer, un gesto di riconoscenza per l’indispensabile contributo fornito da Goebbels  nella salita al potere del nazismo, ma anche una valida mossa politica, vista la garanzia assoluta di efficienza e fedeltà che il ministro rappresentava.

[3] Se, quindi, prima della conquista del potere, nella campagna del ’32, il partito nazista aveva realizzato film documentari e militaristi da utilizzarsi negli incontri e nelle adunate, ora la propaganda cinematografica nazista andava assolutamente e amplificata e potenziata, portandola ad un livello industriale di primissimo piano.

[4] Erano intrinsecamente dotati di ragguardevole capacità di presa, perché, avevano un impatto emotivo nettamente superiore a quello dei giornali e apprezzabilmente più intenso di quello della radio.

[5] Questa descrizione cinematografica del Congresso del partito nazionalsocialista del 1934, a Norimberga, grazie all’abilità della regista, seppe coinvolgere potentemente gli spettatori, visualizzando il progetto nazista di unificare l’intero popolo tedesco.

[6] Ispirato alla figura storica di Josef Suss Oppenheimer, il film pretendeva di offrire la vera storia e la vera immagine “dell’Ebreo”, distorcendo sistematicamente i fatti storici, per trasmettere i concetti nazisti di contaminazione razziale.

Fonti

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. I., Istituto geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Vol. III, Tomo 1à, Le cinematografie nazionali, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.

Paolo Bertetto-Bernard Eisenschitz, Fritz Lang. La messa in scena, Lindau, Torino 1993

Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice Edizioni, Parma, 1988

Peter Bogdanovich, Chi ha fatto quel film? Conversazioni con i grandi registi di Hollywood, Fandango Libri, Roma, 2010

Scandalo Lockheed: dimissioni del Presidente della Repubblica

Vi è chi ci muore dentro e vi è chi ci specula sopra.

Il 29 marzo 1976, l’allora Presidente della Camera dei Deputati, Sandro Pertini, ricevette gli atti giudiziari fino a quel punto accumulati dagli inquirenti: da lì in poi, fu la Commissione parlamentare d’inchiesta ad occuparsi della faccenda.

La Lockheed, importante industria aerospaziale americana di livello mondiale, rivelò, alla fine del 1975, di aver pagato grosse somme di denaro a politici, funzionari, e partiti esteri. Indonesia, Filippine e Arabia Saudita furono i primi paesi in cui fu svelato il sistema di corruzione; più tardi fu la volta di Giappone, Italia, Germania e Paesi Bassi. La cifra dichiarata si aggirava intorno ai 22 milioni di dollari.

La citazione all’inizio dell’articolo fa riferimento ai prodotti oggetto delle trattative criminali: velivoli da trasporto C-130, acquistati per l’Aeronautica militare. In particolare, chi vi morì dentro furono 44 militari, poiché l’aereo su cui stavano viaggiando si schiantò sul Monte Serra, nei dintorni di Pisa.

Dunque, stando alla Commissione del Senato americano, le trattative tra l’azienda e il nostro paese iniziarono nel 1968, anno in cui si avvicendarono alla Presidenza del Consiglio Mariano Rumor e Giovanni Leone. Nel 1976, quando scoppiò lo scandalo nel nostro paese, Leone era Presidente della Repubblica. Due anni dopo, gli mancavano solo sei mesi al termine del mandato, quando fu costretto alle dimissioni: il PCI le chiese formalmente a metà giugno, gesto inedito per la Repubblica. Il partito Radicale, tra i più critici nei confronti di Leone, nel 1998 invierà delle scuse pubbliche verso l’ex Presidente, trovato poi estraneo ad ogni episodio dalla Corte Costituzionale, che in seguito si occupò della vicenda.

Un anno dopo, infatti, iniziò il primo e unico processo di fronte alla Consulta. 24 mesi più tardi si concluderà con condanne importanti: un ex ministro, il presidente di Finmeccanica, un generale dell’aviazione e diversi funzionari e intermediari. La corruzione non guarda in faccia a nessuno.

Alessio Gaggero

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Franco conquista Madrid e tutta la Spagna

Esattamente ottantadue anni fa, la coalizione nazionalista riuscì nell’impresa che a lungo le era sfuggita: prendere la capitale della penisola iberica e assoggettare l’intero paese al proprio potere. Il percorso che portò a questo risultato ebbe inizio almeno otto anni prima.

Nel 1931, il re Alfonso XIII abbandonò la Spagna alla volta di Roma, dove visse in esilio. Nel contempo, nasceva la Seconda Repubblica Spagnola, guidata da repubblicani e socialisti. La tensione era altissima, tanto che, già a metà dell’anno successivo, ci fu un tentativo, fallito, di golpe militare.

Nei cinque anni seguenti, gli avvicendamenti al governo lasciarono la popolazione sempre più insoddisfatta, tanto che le violenze in varie parti del paese necessitarono l’intervento dell’esercito per essere placate. Le ostilità tra nazionalisti e repubblicani si acuirono, al punto da permettere ai due schieramenti di compattarsi, quando invece, al loro interno, si trovavano distinte correnti di pensiero.

El director, così era chiamato il generale Mola, la mente dietro l’Alzamiento nacional, fece partire la rivolta nell’estremo nord, nella Navarra, e nell’estremo sud, nel Marocco spagnolo: tenne per sé il comando delle prime truppe, mentre lasciò a Francisco Franco le seconde. Gli insorti riuscirono, in poco tempo, a conquistare numerose grandi città, ma Barcellona e Madrid resistettero, anche grazie alla mobilitazione della popolazione civile.

Alcune potenze straniere diedero il proprio sostegno ai contendenti: se l’URSS e il Messico si schierarono dalla parte dei repubblicani, Germania, Italia e Portogallo entrarono al fianco dei nazionalisti. Proprio grazie a questi interventi, i rivoltosi riuscirono a spaccare in due il paese: le truppe partite da nord erano finalmente giunte al Mediterraneo.

Fu dunque il 1939 a sancire la fine delle ostilità. Con la caduta di Barcellona, prima, e Madrid, poi, la guerra civile poteva dirsi conclusa dopo tre anni di violenze. Iniziava il regime Franco, che avrebbe governato fino al 1975.

Alessio Gaggero

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Quando Marlon Brando rifiutò l’Oscar perché «non siamo umani»

Il 27 marzo del 1973, Marlon Brando non partecipò alla cerimonia di consegna dei premi Oscar. E fu proprio la sua assenza a rendere memorabile quella serata. Lo scopo di Marlon Brando era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica americana sulle ingiustizie disumane da sempre sofferte dai nativi-americani e, in tal modo, un po’ più implicitamente, denunciare la natura razzista e violenta di tanta parte della politica interna ed estera degli Stati Uniti. Non presentandosi al Dorothy Chandler Pavillon, quella sera di fine marzo, di quarantasei anni fa, questo selvaggio attore di 49 anni riuscì nel suo intento.

L’impegno di Marlon Brando sul fronte dei diritti civili e contro il razzismo

Era noto a molti fan di Marlon Brando che l’attore si era avvicinato da alcuni anni alla causa degli amerindi. Ma ciò non faceva notizia. Brando era stato sempre molto attivo sul piano politico: aveva dato contributi economici alla campagna per la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America di John Fitzgerald Kennedy (cui abbiamo dedicato due post: uno in occasione dell’anniversario della sua elezione e uno in quello del suo assassinio). Nell’agosto 1963 aveva partecipato alla Marcia su Washington insieme con altre star hollywoodiane democratiche e liberal quali, Burt Lancaster, Sidney Poitier, James Garner, Charlton Heston, Paul Newman, Harry Belafonte… (ne abbiamo parlato nel post dedicato a Paul Newman e in quello dedicato a Sidney Poitier, nonché su quello più recente su Richard Widmark, su questa rubrica). Negli anni sessanta aveva donato inoltre migliaia di dollari al movimento guidato da Martin Luther King e donò fondi per i bambini malati del Mississippi. Assieme a Paul Newman era stato attivista del movimento Freedom Riders [1].

Marlon Brando era sicuro che sarebbe stato premiato

Nonostante questi precedenti, la decisione di Marlon Brando di non partecipare alla cerimonia, però, poteva non essere di per sé oggetto di una corposa attenzione mediatica. Per ottenere un adeguato riscontro, non era sufficiente essere candidati e ignorare la cerimonia di premiazione, occorreva essere proclamati vincitori. Ma Marlon Brando su questo punto aveva ridotto al minimo i suoi dubbi. Il padrino (1972), di Francis Ford Coppola, stava raccogliendo un successo commerciale planetario ed  era candidato a ben dieci premi Oscar [2]. Inoltre, Marlon Brando era arrivato alla sua ottava candidatura. L’altro Oscar, il primo ricevuto, lo aveva ottenuto quasi vent’anni prima per la parte di Terry Malloy, il protagonista di Fronte del porto (1954, di Elia Kazan). Inoltre era più che rassicurato dalla validità della sua performance nei panni di Vito Corleone.

Marlon Brando e l’attivista Sacheen Littlefeather

Marlon Brando, però, una volta presa la decisione di approfittare della 45esima cerimonia degli Oscar, quella appunto del 27 marzo 1973, ritenne che non sarebbe stato sufficiente comunicare all’Academy Awards e alla stampa la sua indisponibilità a ritirare il premio. Occorreva un gesto più incisivo per suscitare una rilevante attenzione sulla sua protesta circa il trattamento inflitto ai nativi americani e alle minoranze in generale, dall’industria cinematografica hollywoodiana, nonché dalla politica e dalla cultura dominanti negli Stati Uniti. Occorreva un gesto politico. Perché la politica è anche comunicazione. Per riuscire nel suo intento, Marlon Brando chiese ad una donna di aiutarlo. Si trattava di Sacheen Littlefeather, al secolo Marie Louise Cruz, attrice, attivista per i diritti civili e presidente del National Native American Affirmative Image Committee.

Sacheen Littlefeather: «Questa sera rappresento Marlon Brando»

L’annuncio della vittoria di Marlon Brando, quel 27 marzo al Dorothy Chandler Pavillon, fu dato da Liv Ullmann e Roger Moore, mentre in sottofondo riecheggiavano le note della colonna sonora del film firmata da Nino Rota. Però, ai due attori non si aggiunse Marlon Brando, bensì Sacheen Littlefeather, che rifiutò con un gesto delicatissimo la statuetta. In mano aveva le pagine scritte da Marlon Brando per spiegare le ragioni del suo rifiuto. Non le fu, però, permesso di leggerleUno dei vertici dell’organizzazione aveva minacciato di farla arrestare, se il discorso fosse durato più di sessanta secondi [3]. Così la donna improvvisò il discorso davanti alla platea del Dorothy Chandler Pavillon – mentre tra i presenti si levavano commenti di disapprovazione e applausi – e a quasi novanta milioni di telespettatori in diretta.

«Questa sera rappresento Marlon Brando. Mi ha chiesto di dirvi […] che è davvero dispiaciuto di non poter accettare questo premio. La ragione è dovuta al trattamento degli indiani d’America nell’odierna industria cinematografica […] e televisiva, anche rispetto ai recenti avvenimenti di Wounded Knee».

Il discorso integrale di Marlon Brando

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Sacheen Littlefeather poté leggere l’intero testo scritto da Marlon Brando, quindi, solo nel backstage. Il New York Times lo pubblicò interamente il giorno seguente.

«Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»

«Per 200 anni al popolo indiano, che lottava per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere libero, noi abbiamo detto: “Deponete le vostre armi, amici, e noi vivremo insieme. Solo se deporrete le armi, amici, si potrà parlare di pace e arrivare ad un accordo che vi porterà la felicità”. Quando deposero le armi, noi li assassinammo. Noi mentimmo loro. Noi li defraudammo delle loro terre. Noi li facemmo morire di fame per mezzo di accordi fraudolenti, da noi definiti “trattati” e da noi mai rispettati. Noi li riducemmo ad essere accattoni in un continente che aveva dato loro da vivere a memoria d’uomo. Né rendemmo poi loro giustizia, interpretando sempre in maniera distorta la Storia. Non fummo né leali né giusti. Non ci siamo sentiti tenuti a rendere giustizia a questo popolo, né a lasciarlo vivere secondo quei trattati. E ciò in virtù di un potere che ci arroghiamo e con il quale violiamo i diritti altrui, ne prendiamo le proprietà, gli distruggiamo la vita se cercano difendere la loro terra e la loro libertà. Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»

«Il tremendo verdetto della Storia»

Il discorso di Marlon Brando proseguiva così:

«Ma una cosa brucia i poteri di questa perversione, ed è il tremendo verdetto della Storia. E la Storia sicuramente ci giudicherà. Ma quale importanza ha questo per noi? Quale sorta di schizofrenia morale ci permette di strepitare per tutto il mondo che noi viviamo nella libertà, quando tutti gli assetati, affamati, umiliati giorni e notti degli ultimi anni di vita dell’Americano Indiano smentiscono questa voce?»

La frecciata di Marlon Brando alla politica estera americana: «Non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi»

A questo punto del suo discorso, Marlon Brando inserì un cenno polemico alla politica estera statunitense [4].

«Sembra quasi che in questa nazione il rispetto e l’amore reciproci, come principi base dei rapporti con le genti vicine, non siano funzionali ai nostri principi, e che tutto quanto si è compiuto per opera nostra sia stato solo per annichilire le speranze di altri Paesi, quelli amici e quelli nemici. Cioè, non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi».

L’offesa alle menti dei nativi-americani bambini di cui non ci si rende conto

Marlon Brando spostò il riflettore sui film di Hollywood e sulla rappresentazione disumanizzante dei nativi americani da parte dei bianchi.

«Forse in questo momento vi chiederete che diavolo tutto questo c’entri con gli Academy Awards. Perché questa donna stia lì sopra a rovinare la nostra serata, ad invadere la nostra vita con cose che non ci riguardano, e di cui non ci importa nulla. A farci sprecare il nostro tempo e il nostro denaro, intrufolandosi nelle nostre case. Penso che la risposta a queste domande sia che la comunità del cinema, al pari di tutte le altre, ha avuto una pesante responsabilità nel degradare l’indiano, nel fare della sua personalità una caricatura, nel descriverlo come un selvaggio, ostile e demoniaco. È davvero duro per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano i film alla televisione, e vedono il loro popolo ritratto come lo è nei film, le loro mente sono offese in modi ci cui non riusciamo a renderci conto».

«Se non siamo i tutori di nostro fratello, facciamo almeno in modo di non esserne i boia»

«Di recente sono stati fatti pochi, incerti, passi per modificare questa situazione. Ma troppo incerti e troppo pochi. Pertanto io in quanto membro di questa comunità professionale, in quanto cittadino degli Stati Uniti, non mi sento di accettare un Oscar questa sera. Penso che i premi in questo Paese, in questo momento, non possono essere dati né ricevuti finché la condizione dell’americano indiano non sarà radicalmente mutata. Se non siamo i tutori  di nostro fratello, almeno facciano in modo di non esserne i boia».

«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma…»

«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho ritenuto di essere forse più utile a Wounded Knee, a prevenire una pace disonorevole “finché i fiumi scorreranno e l’erba crescerà”. Spero che non riterrete questa una brutale interruzione, bensì un serio sforzo di attirare l’attenzione su un popolo, in rapporto al quale si determinerà se questo Paese ha il diritto o no di affermare di vivere negli inalienabili diritti di tutto il popolo a rimanere libero e indipendente nelle terre che hanno nutrito la sua vita a memoria d’uomo. Grazie della vostra benevolenza e della vostra cortesia verso Miss Piccola Piuma. Grazie, e buona notte».

Il risultato ottenuto da Marlon Brando e Sacheen Littlefeather

Marlon Brando e Sacheen Littlefeather ottennero così che la stampa si recasse in South Dakota dove l’American Indian Movement aveva occupato la riserva di Wounded Knee (che era già stata scenario del massacro di un intero villaggio Sioux nel 1890), come atto di protesta contro le politiche del Governo. Quest’attenzione mediatica non piacque all’FBI, la quale iniziò a diffondere falsità sull’attivista indiana, rovinandole la carriera. Sacheen Littlefeather, però, non ha mai smesso di lottare a favore dei diritti civili e non si è mai pentita di essere salita su quel palco, al posto di Marlon Brando. Recentemente ha dichiarato:

«Rosa Parks fu la prima a sedersi su quell’autobus. Qualcuno doveva essere il primo a pagare il prezzo del biglietto. E quel qualcuno sono stata io…» [5].

Alberto Quattrocolo

[1] Fin dal giorno immediatamente successivo all’assassinio di Martin Luther King, nel 1968, Marlon Brando aveva dichiarato che avrebbe aumentato il proprio impegno attivo nel movimento. Anche molte delle sue scelte professionali erano in linea con il suo impegno politico. Anzi, spesso ne erano fortemente condizionate. Oltre al caso del film La Caccia, 1966, di Arther Penn (ne abbiamo parlato nel post La caccia ai capri espiatori), si pensi ad opere antirazziste come Sayonara (1957, di Joshua Logan), di denuncia della mentalità violentemente reazionaria e bigotta del Sud degli Stati Uniti, come Pelle di serpente (1960, di Sindey Lumet), o ad un film, da lui anche prodotto, di esplicita condanna della ingerenza statunitense nelle vicende vietnamite come Missione in Oriente (1964, di George Englund).

[2]  Il Padrino aveva incassato 135 milioni di dollari nei soli Stati Uniti, battendo il record del kolossal più acclamato di sempre, il leggendario Via col vento. Le candidature proposte per Il padrino erano le seguenti: miglior film per il produttore Albert S. Ruddy; miglior attore protagonista per Marlon Brando e migliore sceneggiatura non originale per Francis Ford Coppola e Mario Puzo; migliore regia per Francis Ford Coppola; 3 migliori attori non protagonisti per James Caan, Robert Duvall, Al Pacino; migliori costumi per Anna Hill Johnstone; miglior montaggio per William Reynolds e Peter Zinner; migliore sonoro per Charles Grenzbach, Richard Portman e Christopher Newman. I premi assegnati furono quelli per le prime tre candidature sopra elencate (miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attore protagonista)

[3] Inoltre pare che John Wayne si fosse detto pronto a trascinarla giù dal palco di forza.

[4] Si ricordi che quelli non erano soltanto gli anni della guerra in Vietnam (cui abbiamo dedicato i seguenti post:“I had a brother at Khe Sanh, Fighting off the Viet Cong”Il 4 agosto del 1964 il cosiddetto incidente del Tonchino ‘legittima’ l’escalation dell’intervento militare degli Stati Uniti in VietnamRolling Thunder si scatena sul Vietnam12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai), ma anche quelli del colpo di Stato in Cile (si veda questo post) e che cominciavano ad essere apertamente denunciate le tantissime altre ingerenze, tutt’altro che democratiche e legali, nelle vicende interne di diversi Paesi, non ultimo il nostro.

[5] Il 1º dicembre 1955, a Montgomery (Alabama), Rosa Parks, tornando a casa in autobus dal suo lavoro di sarta, poiché non aveva trovato altri posti liberi, sedette in un sedile tra quelli dietro a quelli riservati ai soli bianchi, nel settore dei posti comuni. In quello Stato come in altri del Sud degli Stati Uniti, però, vigeva la segregazione razziale. Dopo tre fermate, quindi, l’autista le chiese di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto ad un passeggero bianco salito dopo di lei. Rosa, in modo sommesso e dignitoso, rifiutò di alzarsi. Il conducente fermò il mezzo e chiamò la polizia. Rosa fu arrestata e condannata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine che obbligavano le persone di colore a cedere il proprio posto ai bianchi nel settore comune, quando in quello a loro riservato a questi ultimi non ve n’erano più di disponibili. Da allora Rosa Parks divenne nota come The Mother of the Civil Rights Movement.

1942, apre la sezione femminile nel lager di Auschwitz

Che cosa prendereste voi dalle vostre case se vi dicessero che avete 10 minuti e poi la vostra casa non la rivedrete più?

Il 26 marzo 1942, presso il campo di concentramento di Auschwitz, fu aperta anche una sezione femminile, in seguito collocata in un settore di Auschwitz-Birkenau denominato BI. Nel  complesso di Auschwitz, dal quale dipendevano circa 50 campi, furono immatricolate ufficialmente circa  405.000 persone, di cui 32.000 donne, ma è noto che molte migliaia di deportati non furono registrati, quindi è molto difficile stabilirne il numero complessivo reale; si stima che il solo campo di Birkenau abbia internato circa sessantamila donne. Le prime detenute furono trasferite dal campo femminile di Ravensbrück: si trattava di un migliaio di criminali comuni e asociali tedesche, che avrebbero assunto e ricoperto incarichi di responsabilità (Kapos).

Con l’inizio della deportazione in massa degli ebrei, crebbe anche il numero delle donne internate, in genere obbligate a lavorare nelle industrie che, in quantità crescente, vennero aperte nei pressi del campo; ma, indipendentemente dall’appartenenza al popolo ebraico, furono recluse anche donne Rom, donne di nazionalità polacca o slave, donne attive nella Resistenza al nazifascismo in ogni paese e donne con disagi fisici o psichici prelevate dagli istituti in cui erano ricoverate.

Arrivavano da tutta l’Europa occupata, ammassate oltre i limiti della sopravvivenza per giorni sui treni speciali, come quelli che partivano dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: le sopravvissute italiane raccontarono che il tragitto verso la stazione avveniva su camion coperti, di mattina presto, al freddo e al buio, quando

non c’era in giro nessuno, ma anche se fosse stato giorno nessuno ci avrebbe guardato e magari compatito: un gruppo di ebrei trasferito da un posto all’altro non interessava nessuno. C’era la guerra, i bombardamenti su Milano, la fame, il carovita… e poi… eravamo ebrei.

Il treno aspettava nei sotterranei, i nazisti non volevano che i milanesi vedessero il carico di uomini, donne e bambini su vagoni-bestiame, vagoni utilizzati per trasportare merci, cose, animali. Infine l’arrivo a Birkenau, direttamente:

Lì ci hanno sbarcato, eravamo in un altro mondo. Che noi non sapevamo niente, siamo caduti dal cielo. Abbiamo visto gente, questi prigionieri, ma non sapevamo niente.

Primo Levi riconobbe come la condizione delle prigioniere potesse essere peggiore di quella degli uomini, per vari motivi:

Considerate se questa è una donna / senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”.

Per quanto non sia possibile stilare una classifica dell’orrore, esiste uno specifico femminile nella sofferenza delle deportate, relativo alle offese subite proprio in quanto donne.

Trattando i dati sulla Shoah, emergono molteplici informazioni sul destino degli uomini nei campi; per quanto riguarda le donne le testimonianze sono minori, ma racchiudono percorsi diversi e sfaccettati: le madri separate dai figli; le figlie deportate insieme alle madri con cui condividevano le sofferenze e l’impossibilità di aiutarsi; le articolazioni della solidarietà e la durezza dei rapporti anche fra prigioniere; le donne che divennero madri in lager e videro assassinare o morire di stenti i figli; le vittime degli esperimenti chirurgici; i mille modi per sopravvivere e resistere affermando con ogni strumento culturale la propria dignità di esseri umani, anche in forme apparentemente minime. Essere prigioniere significava dover esporre in pubblico corpi abituati dal costume dell’epoca a un pudore rigoroso e vedere quelli di altre, magari anziane, e restarne turbate, subire la violenza per poter sopravvivere, non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica. Significava vivere con bambini destinati a sparire, con compagne che arrivavano incinte e si affannavano per nutrire un figlio che sarebbe stato ucciso poco dopo; scoprire nelle donne e anche in se stesse una distruttività che non si sarebbe mai immaginata.

Riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutare a superare il neutro della testimonianza e comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l’umiliazione, la perdita. “Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa“, dice Liliana Segre, deportata nel lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni. E spiega:

Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude. Non mi guardavano come una donna, ma come un capo di bestiame di cui andassero esaminati i quarti.

Essere donne in un campo di concentramento era molto più che umiliante: venivano consegnati vestiti maschili, mutande senza elastici, calze che si ripiegavano sulle gambe. Nei primi mesi il ciclo mestruale si riproponeva e non esisteva materiale per tutelare l’igiene; successivamente, a causa della scarsa alimentazione, della qualità del cibo e dell’estenuante lavoro, il flusso si bloccava per la maggior parte delle prigioniere, evento accolto come il minore dei mali ma ulteriore prova di come la femminilità scomparisse. Il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia.

D’un tratto, là dove c’era il seno non c’è più niente o, in certe donne, solo un po’ di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non possiedi altro che quei pochi stracci che ti metti addosso. Ricordo che avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l’ho usata tutta per andare in gabinetto. Anche queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Quando non hai un fazzoletto, come fai a soffiarti il naso? Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te.

Alcune centinaia, forse più di mille internate furono sottoposte agli esperimenti “scientifici” di Clauberg e Schumann: senza anestesia si prelevavano campioni di tessuto dell’utero, si irradiavano le ovaie con raggi X, si asportava l’utero o vi si iniettava un liquido irritante, per sviluppare pratiche da impiegare nel progetto di sterilizzazione delle razze inferiori.

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Dai reparti femminili erano inoltre selezionate le donne destinate ai postriboli dei lager per allietare il personale di guardia, gli internati criminali comuni e in generale gli uomini di razza “ariana”; erano donne tedesche, ucraine, polacche o bielorusse (escluse le italiane e le ebree ritenute contaminanti per il loro sangue non ariano), tutte sotto i 25 anni di età, indotte a prostituirsi dopo un periodo di violenze e stupri, con la promessa, mai mantenuta, della concessione della libertà dopo sei mesi di “lavoro”. Dopo la fine della guerra anche questo aspetto del regime nazista venne tenuto nascosto: le stesse vittime si ritenevano in certo modo colpevoli e i due stati tedeschi si trovarono concordi nel negare alle donne dei bordelli la loro condizione di vittime e il diritto a qualsiasi risarcimento ipotizzando il loro, sia pur giustificato, consenso.

Nonostante la prigionia, i maltrattamenti, la separazione dai propri cari, la fatica, il degrado, il processo di de-umanizzazione, si continuò a tentare di preservare almeno la dignità di persone: molte internate crearono gruppi di mutua assistenza che permisero loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, cibo e vestiario; alcune donne furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza all’interno dei campi di concentramento; si faceva anche musica, caratterizzata, rispetto all’esperienza analoga nei campi maschili, da forte natura collettiva e comunitaria, dalla composizione all’esecuzione: nella musica delle donne internate “il dolore si fa colore”.

Ma quella del lager rimase un’esperienza indicibile per tutte, incomunicabile, non condivisibile con chi non l’avesse vissuta, il Perturbante freudiano o il Reale lacaniano materializzato sulla terra che lascia smarriti nell’impossibilità di trovarne il senso. È ancora Liliana Segre a testimoniare che

In quello che avveniva non c’era assolutamente mai una logica, anche se all’apparenza tutto era preordinato. Nei giacigli dove dormivamo in cinque o sei, si agitavano gli insetti più schifosi. Erano sui nostri corpi, nelle cuciture dei vestiti. E nel campo passavano dei topi spaventosi, enormi, che si nutrivano di rifiuti, di morti, di tutto. C’era una sporcizia profonda, incredibile, ma noi dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un’unica coperta in ottimo stato, che doveva avere la piega fatta in un certo modo, perfettamente geometrico. Quando ho capito tutto questo, e cioè che sotto la coperta ci poteva essere qualunque schifezza, ma che sopra tutto doveva avere un aspetto perfetto, ho trovato la risposta a un sacco di cose.

Silvia Boverini

Fonti:
www.assemblea.emr.it; https://encyclopedia.ushmm.org; “Le donne deportate raccontano i lager nazisti”, http://www.deportati.it; A. Lotto, “Memorie e ricordi di donne e bambini deportati nei lager nazisti”, www.unive.it; “Considerate se questa è una donna”, www.pinchetti.net; A. Beltrami, “Musica nei lager: quando il canto delle donne era più alto del filo spinato”, www.avvenire.it; www.lageredeportazione.org; http://restellistoria.altervista.org; D. Padoan, “Liliana Segre: noi donne nei lager come rane d’inverno”, www.globalist.it

John Lennon e Yoko Ono protestano… a letto

Nel 1969 la Guerra in Vietnam si avviava a grandi falcate verso il suo quindicesimo anno, mentre i Beatles di lì a poco si sarebbero, purtroppo, sciolti. Di contro (o, forse, questa fu una delle cause più rilevanti della fine del gruppo), John Lennon e Yoko Ono si sposarono il 20 marzo di quell’anno. Anche privi di social media, era ben consapevoli della portata mediatica dell’evento.

Decisero, così, di sfruttare l’occasione per spostare lo sguardo del mondo verso la penisola indocinese, adottando, però, la loro prospettiva: quella pacifista. Per far ciò, inventarono una forma di protesta che sarebbe poi stata ripresa in altri tempi e luoghi: il bed-in. Palese deformazione del sit-in, consisteva nel trascorrere le giornate a letto, lasciando la porta aperta alla stampa mondiale. Per dodici ore al giorno, i giornalisti, oltre agli ospiti della coppia, potevano passare la giornata nella camera da letto delle due star.

Dunque, dopo il matrimonio a Gibilterra, si stabilirono nella suite presidenziale dell’Hilton Hotel di Amsterdam a partire dal 25 marzo. Lì, “come due angeli”, suonarono e tennero discorsi sulla pace e sull’amore universali per una settimana, fino alla fine del mese, con le telecamere accese dalle 9 di mattina alle 9 di sera.

Dopo un breve tentativo di una notte alle Bahamas, si trasferirono, il 25 maggio, presso il Queen Elizabeth Hotel di Montreal, in Canada, dove li raggiunse anche la figlia della cantante. Il primo giugno, al termine dell’iniziativa, registrarono, insieme a tutti i presenti, il brano Give Peace a Chance, adottato poi come inno dei movimenti pacifisti.

Alessio Gaggero

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Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood

Richard Widmark, morto il 24 marzo del 2008, a 94 anni d’età, fece parte della folta schiera di quegli splendidi attori cinematografici americani che si imposero dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nella scheda dedicata ad un film, Stato d’allarme (1965, di James B. Harris), interpretato da Widmark, a 17 anni dalla sua prima apparizione sugli schermi cinematografici, Claudio G. Fava scrisse:

«uno straordinario Richard Widmark […] rispetto al suo talento e alla sua presenza sullo schermo, in fondo non è mai stato abbastanza considerato ed è divertente vedere che a lui, nella vita di ogni giorno liberal dichiarato, toccavano poi spesso parti di accanito conservatore» [1].

Richard Widmark e gli altri “duri” emersi negli anni Quaranta

All’interno della variegata compagnia degli interpreti affermatisi nella seconda metà degli anni Quaranta, Richard Widmark, si inserì in una sottocategoria, quella dei “duri”. In particolare, fu tra coloro che nel secondo dopoguerra emersero in parti di cattivo tout-court o di personaggi moralmente ambigui, quali Burt Lancaster, Kirk Douglas e Robert Mitchum. Anti-eroi, spesso destinati a finire male o, almeno, a patire le pene dell’inferno prima del finale dolceamaro, coinvolti in conflitti fortemente drammatici, spesso condizionati da una tormentata instabilità interiore, da impulsi violenti e autodistruttivi. A differenza delle tre star sopra citate, Richard Widmark non divenne una superstar ma non restò nemmeno un caratterista [2].

«Sono stato una cimice del cinema da quando avevo 4 anni».

Richard Weedt Widmark nacque a Sunrise Township, nel Minnesota, da Ethel Mae (Barr) e Carl Henry Widmark. Suo padre era di origine svedese e sua madre di origini inglesi e scozzesi. Confessò di essere stato un appassionato di cinema fin dalla fanciullezza: «Sono stato una cimice del cinema da quando avevo 4 anni» [3]. Il suo attore preferito era Spencer Tracy, e quando ebbe il privilegio di recitare con lui ne apprezzò ancor di più l’arte (accadde due volte) [4]. Una volta laureato, nel 1936, decise di trasferirsi a New York a fare l’attore [5]. Dopo aver sposato la compagna di studi Jean Hazlewood (ebbero una figlia Anne, nel ’45, e restarono sempre insieme finché lei, malato di Alzheimer, non morì nel 1997) ed essere stato scartato alla visita di leva per via di un timpano perforato, debuttò a Broadway nel 1943 nello spettacolo “Kiss and Tell[6].

«Suppongo di essermi dato daffare per avere un posto al sole. Ho sempre vissuto in piccole città e recitare significava avere una sorta di identità». Quell’identità che i copioni cinematografici tante volte gli offrirono, però, erano quanto mai distanti dal suo carattere e dai suoi valori.

Un esordio sconvolgente

Richard Widmark non cercava una via facile per suscitare la simpatia del pubblico e non aveva paura di interpretare personaggi profondamente turbati, intimamente conflittuali o corrotti. La prova più lampante di questa temeraria sfida alla sensibilità del pubblico dell’epoca è costituita dal suo primo ruolo cinematografico. Dopo aver visto il suo provino per il ruolo di Tommy Udo del dramma criminale in produzione Il bacio della morte (1947, di Henry Hathaway), il boss della 20th Century Fox, Darryl F. Zanuck, insistette che ad interpretare quella parte fosse proprio il biondo e smilzo Richard Widmark. Il regista, invece, era stato inizialmente scettico, poiché, a parer suo, la fronte alta di Widmark lo rendeva credibile come intellettuale, ma non come gangster (Hathaway e Widmark, su quel set, in breve divennero amici e lo restarono per sempre). L’attore sconvolse le platee con la sua interpretazione del sicario psicopatico, che ridacchia anche mentre in un accesso di sadismo spinge giù dalle scale una donna anziana, paralizzata su una sedia a rotelle [7]. Ma la sua prestazione in un personaggio così eccessivo fu talmente calibrata da fargli ottenne un Golden Globe e una candidatura all’Oscar. E gli assicurò la profonda stima del regista, che altre volte lo volle poi nel cast delle proprie produzioni. In seguito, a proposito della sua prestazione come Tommy Udo, Widmark raccontò:

«non mi ero mai visto sullo schermo, e quando lo feci volevo spararmi».

Cattivo nel noir e dintorni

Nelle opere successive Widmark restò saldamente piantato nel genere criminale in cui aveva esordito, quello che sarebbe stato poi definito il genere noir, interpretando alcune pietre miliari e diverse produzioni minori (per budget, ma non per qualità estetiche) [8]. Quello stesso anno impersonò per la quarta volta il cattivo, ma lo fece in un western. Una pellicola, in verità, che per stile e temi aveva molti punti di contatto con il noir: Cielo giallo (1948), uno dei capolavori della ricca carriera del regista William A. Wellman. Anche in tal caso Richard Widmark riuscì a non sfigurare accanto al protagonista, un assai efficace Gregory Peck, rivelandosi adattissimo per la parte tutta sotto le righe del tubercolotico, freddo calcolatore antagonista. A quel punto Richard Widmark fece pressione sullo studio per ottenere parti diverse da quelle di “villain” e nel 1949 vi riuscì [9].

L’incubo della caccia alle streghe

L’anno dopo dominò interamente, come protagonista, un altro noir, un cult movie esemplare, I trafficanti della notte (1950, di Jules Dassin) [10]. Quelli erano gli anni in cui l’America era attraversata da un’ondata di paranoia anticomunista (ne abbiamo parlato qui e qui). Bastava avere vaghe simpatie progressiste per finire sotto indagine da parte della Commissione d’inchiesta per le attività anti-americane (HUAC) o nelle cosiddette liste nere (abbiamo dedicato diversi post alla “caccia alle streghe su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.: tra questi quello sulla condanna a morte dei coniugi Rosenberg). Liste informali in cui venivano inseriti i nomi di coloro che erano sospettati o sospettabili di filocomunismo. Chi finiva in uno di quegli elenchi come minimo poteva dire addio al lavoro e alla carriera.

«L’America dovrebbe vergognarsi per sempre» (Richard Widmark)

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Richard Widmark, però, infischiandosene del fatto che il regista Jules Dassin fosse stato costretto a lasciare gli USA per sottrarsi alla persecuzione dell’HUAC, in quanto ex iscritto al Partito Comunista Americano, lo raggiunse a Londra e, sviluppando una sorta di “anti-metodo”, basato sulla freddezza anziché sull’immedesimazione, rese alla perfezione la nervosa malinconia del protagonista. Questa decisione, come previsto, lo espose alla paranoica curiosità dei cacciatori di streghe, ma Widmark, pur essendo un liberal dichiarato, non si era mai iscritto ad alcuna associazione che potesse far sorgere sospetti di simpatie comuniste, sicché, per quanto più volte “attenzionato”, non finì mai incastrato.

«Sono stato un democratico liberal per tutta la vita»

Nel 1950, tornato negli USA, andò a New Orleans, per interpretare la parte dell’esausto medico della Marina, intento a prevenire un’epidemia di peste, in un noir mozzafiato, Bandiera gialla, di Elia Kazan, anch’egli da tempo nel mirino dei reazionari e prossimo a finire tra le grinfie della caccia alle streghe. Immediatamente dopo, Richard Widmark accettò l’offerta di un altro grande regista, Joseph Lee Mankiewiczpure lui alle prese con l’isteria anticomunista montante, intento com’era a fronteggiare gli assalti degli anticomunisti più sfegatati nel sindacato degli sceneggiatori – , di interpretare il razzista e bigotto delinquente di Uomo bianco tu vivrai (1950, di J. L. Makiewicz), che perseguita il medico afro-americano interpretato da Sidney Poitier (gli abbiamo dedicato un post su questa rubrica[11].

In seguito commentò:

«Molti dei miei amici erano nella lista nera. L’America dovrebbe vergognarsi per sempre».

Quindi, sotto la direzione di Lewis Milestone, celebre autore di opere di grande successo ma sospettato, anch’egli, di anti-americanismo, Richard Widmark interpretò Okinawa (1951). Anche questa volta il suo personaggio era tutt’altro che eroico, trattandosi di un ufficiale talmente consumato dal senso di colpa e dall’esaurimento da ricorrere alla droga.

Una varietà di ruoli all’insegna della complessità

Sempre in ambito noir l’altra gemma di quei primi anni Cinquanta fu Mano pericolosa (1953, di Samuel Fuller) [12]. Seguirono moltissime altre pellicole, che lo portarono a recitare nei più diversi generi, sotto la direzione di giganti dell’arte cinematografica o di abilissimi professionisti [13]. E lavorò intensamente per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, durante i quali interpretò numerose opere di forte riscontro commerciale e apprezzate dalla critica internazionale. Vi fu un lieve calo negli anni Settanta [14]. Ma anche in quel decennio prese parte ad alcuni film memorabili, così come continuò a lavorare anche in seguito, ma con ritmi meno intensi, alternando film televisivi ad opere cinematografiche, nell’ambito delle quali, per lo più forniva partecipazioni straordinarie, sia pur corpose.

«Penso che un artista dovrebbe fare il suo lavoro e poi stare zitto» (Richard Widmark)

Nonostante avesse interpretato una gran quantità di assassini e di bigotti senza cuore, le poche volte in cui approfittò della propria celebrità per sostenere una causa lo fece in nome della non violenza. Denunciò, infatti, ripetutamente ogni tipo di violenza e nel 1976 affermò:

«So di aver fatto una specie di mezza carriera con la violenza, ma detesto la violenza. Sono un fervente sostenitore del controllo delle armi. Mi sembra incredibile che siamo l’unica nazione civilizzata a non esercitare un controllo efficace sulle armi».

In generale, Richard Widmark si tenne lontano dai microfoni e dai flash dei fotografi. Sulla sua vita non si fissò mai l’attenzione del gossip. Seppe considerare il lavoro di attore niente più che un lavoro. Perciò, fu alquanto sorpreso quando gli venne assegnato un premio ad Hollywood per il suo impegno umanitario, pacifista e ambientale, sempre svolto in sordina.

Ed espresse il suo commosso stupore per il fatto che il suo carissimo amico Sidney Poitier aveva percorso migliaia di chilometri in treno per consegnarglielo.

Il suo vecchio amico, non meno sorpreso da quelle parole toccanti, affettuosamente gli rispose:

«Per te sarei venuto anche a piedi».

Alberto Quattrocolo

[1] Sulle qualità di attore di Richard Widmark, Jean Wagner ha scritto:

«Egli incarna sempre un personaggio dai risvolti complessi. Di fatto, Widmark è sempre la cattiva coscienza di qualcuno. Eroe o vittima, ha l’arte di essere sempre in posa falsa. Così i suoi personaggi sono normalmente ambigui o posti in situazioni ambigue […]. Il suo passo felino, la sua capigliatura bionda, i suoi occhi assai chiari, gli permisero di arricchire di sfumature ambigue, torbide, personaggi classici, di rendere sensibili le loro esitazioni, i loro bruschi cambiamenti, la loro instabilità, dissimulata sotto un humour beffardo, sprezzante o timoroso, sempre sviante. Attore shakespeariano a sua insaputa, Widmark trova sempre il modo di sorprenderci, poiché nulla con lui appare definitivo. Sa rinnovare archetipi in genere ben determinati».

Tra i film maggiormente penetrati nella memoria del grande pubblico, oltre a quello di esordio – Il bacio della morte (1947, di Henry Hathaway) -, possono annoverarsi diversi noir tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nei quali arricchì di complesse sfumature i suoi personaggi, fossero essi protagonisti o meno. Tra questi, La strada senza nome (1948, di William Keighley), Trafficanti della notte (1950, di Jules Dassin), Uomo bianco tu vivrai (1950, di Joseph Lee Manikiewicz), Bandiera gialla (1950, Elia Kazan) Mano pericolosa (1953, di Samuel Fuller). Un altro genere che  contribuì ad arricchire di preziosissime perle interpretative fu il western. Da Cielo giallo (1948, di William A. Wellman), al fianco di Gregory Peck e Anne Baxter, a Prigioniero della miniera (1954, di Henry Hathaway), accanto a Gary Cooper e Susan Hayward; da La lancia che uccide (1954), insieme a Spencer Tracy e Robert Wagner, a L’ultima notte Warlock (1956), in un cast che capeggiava insieme ad Henry Fonda, Anthony Quinn e Dorothy Malone (entrambe le opere furono dirette da Edward Dmytrik); da La frustata (1955) a Sfida nella città morta (1958), entrambi di John Sturges, che avrebbe voluto dirigerlo anche ne La grande fuga (1963), nel ruolo di Hilts, parte che venne invece assegnata a Steve McQueen, facendone una superstar mondiale; da L’ultima carovana (1956, di Delmer Daves) a La battaglia di Alamo (1960, di e con John Wayne); da Cavalcarono insieme (1962) a Il grande sentiero (1964), entrambi del “Maestro tra i maestri” della regia, John Ford; da Alvarez Kelly (1966, di Edward Dmytryk), accanto a William Holden a Quando le leggende muoiono (1972, di Stuart Millar), con Frederic Forrest. Ma numerose e pregevolissime furono anche le sue interpretazioni al di fuori del cinema d’azione. Si pensi alla sua performance nei panni dello psichiatra in crisi in La tela del ragno (1954, di Vincente Minnelli) o in quelli dell’avvocato militare che difende un ufficiale accusato di aver collaborato con il nemico durante la guerra di Corea, in Il fronte del silenzio (1957, di Karl Malden). Non meno memorabile fu la figura del pubblico ministero del processo di Norimberga, intento a dimostrare la colpevolezza dei vertici del sistema giudiziario tedesco durante il Terzo Reich: seppe dosare indignazione e disperazione in un uomo che non si può rassegnare alle ragioni dell’opportunismo politico. In tale film, Vincitori e vinti (1961), mirabilmente diretto da Stanley Kramer, Richard Widmark si misurò con sottile abilità con attori del calibro di Burt Lancaster, Spencer Tracy, Montgomery Clift, Judy Garland e Marlene Dietrich. Molti altri film ancora colpirono le emozioni degli spettatori e lo portarono a collaborare con altri registi di indiscutibile successo e talento (come, per citarne solo un paio, Sidney Lumet e Robert Aldrich), così come con autori meno prolifici o meno noti al grosso pubblico, quali il regista di Stato d’allarme (1965), James B Harris. Più noto come produttore e come montatore, questo regista rivelò un mano fermissima in quella e in altre occasioni (in Stato d’allarme aveva tra le mani un cast in cui primeggiavano, accanto a Richard Widmark, Sidney Poitier e Martin Balsam).

[2] Come accadde ad altri magnifici attori apparsi durante o subito dopo la Seconda Guerra Mondiale: Lee J. CobbRichard Conte, Dan Duryea, Charles McGraw, Robert Ryan, ecc., Richard Widmark fu certamente, in molte opere, dall’inizio alla fine della carriera, un cattivo inquietante, ma quasi da subito interpretò anche personaggi positivi (talora come partner dell’attore principale, più spesso come protagonista), fornendoli, però, di sfaccettature contrastanti e di uno spirito sovversivo, che ne facevano emergere la profondità e l’umanità.

[3] Anche da adolescente Richard Widmark continuò ad andare al cinema, passato nel frattempo dal muto al sonoro. Era entusiasta dei primi capolavori sonori dell’horror, come Dracula (1931, di Todd Browning) e Frankenstein (1931, di James Whale). Rispetto a quest’ultimo era impressionato dalla performance di Boris Karloff.

[4] Lavorò con Spencer Tracy nel 1954 in La lancia che uccide (di Edward Dmytryk) e in Vincitori e vinti (1961, di Stanley Kramer). Di Spencer Tracy, disse:

«Ciò che un attore dovrebbe essere è esemplificato, per me, da lui. Mi piace la realtà della sua recitazione. È così onesto e sembra così semplice, anche se ciò che fa Tracy è il risultato di un duro lavoro e di un’estrema concentrazione. In realtà, il massimo in qualsiasi arte non è mai mostrare le ruote che macinano. L’essenza della cattiva recitazione, per esempio, sta nell’ urlare. Tracy non urla mai. È il più grande attore cinematografico che sia mai esistito».

[5] Nel 1938 ebbe la possibilità di lavorare alla radio in “Real Life of Aunt Jenny“e in diverse altre trasmissioni della compagnia di Orson Welles.

[6] Durante la guerra Richard Widmark e i suoi genitori trascorsero tre anni angosciosi temendo per la vita del fratello di Richard, Donald, un pilota di bombardieri ferito e catturato dai nazisti. Sebbene Donald Widmark fosse stato liberato alla fine della guerra, la sua salute compromessa costituì una fonte di ansia e dolorose anche per Richard.

[7] Anche se il ruolo era piccolo, la performance potente di Richard Widmark mise in ombra quella pur ottima degli altri interpreti, inclusa quella del protagonista, Victor Mature. Il dipartimento di pubblicità della 20th Century Fox, quindi, decise di promuovere contemporaneamente il film e l’attore facendo stampare dei manifesti con la scritta «Wanted» sopra la faccia di Richard Widmark.

[8] Tornò, infatti, a vestire immediatamente i panni di un malvivente psicotico in La strada senza nome (1948, di William Keighley), arricchendolo di esplicite ambiguità sessuali, e rese con impressionante verosimiglianza un marito maltrattante, violento, geloso e persecutorio, ne I quattro rivali (1948, di Jean Negulesco).

[9] Grazie all’appoggio di Henry Hathaway ebbe la parte del paterno marinaio, che sa mettersi in discussione, in Naviganti coraggiosi (1949, di H. Hathaway) e se la cavò splendidamente. Aveva raggiunto la notorietà presso il pubblico e la critica andando controcorrente, prima con la violenza scioccante di Tommy Udo, poi tradendo le aspettative del pubblico che si aspettava di vederlo sempre nei panni del cattivo. Il numero del 28 marzo 1949 della rivista “Life” dedicò tre pagine al film di Hathaway e a Widmark.

[10] Dopo aver impersonato il protagonista cinico di Furia dei tropici (1949, di André De Toth), un altro noir melodrammatico.

[11] Di Sidney Poitier divenne subito amico lo restò per tutta la vita. Durante la lavorazione del film, Richard Widmark, preoccupato per la violenza verbale e psicologica che il suo personaggio infliggeva a quello di Sidney Poitier, si scusava di continuo con lui prima dell’inizio e al termine di ogni ripresa.

[12] Dove seppe dosare il cinismo irrimediabile del protagonista, un borseggiatore newyorchese, alle prese con spietate spie comuniste, con una sorta di anarchico sentimentalismo.

[13] Gli uni e gli altri lo scelsero per il suo talento e la sua scrupolosa serietà professionale (da John Ford a Otto Preminger, da John Sturges a Vincent Minnelli, da Richard Brooks a Delmer Daves, da Stanley Kramer ad Edward Dmytryk, da Don Siegel a Robert Aldrich, da Sidney Lumet a Micheal Crichton), spesso affiancandolo a divi già affermati e ad altre star in ascesa (da Marilyn Monroe a Laureen Bacall, da Susan Hayward a Jean Seberg, da Donna Reed a Felicia Farr, da Linda Darnell a Jean Peters, da Ingrid Stevens a Genevieve Bujold, da Gary Cooper a John Wayne, da Robert Taylor a James Stewart, da Burt Lancaster a Spencer Tracy, da Montgomery Clift a George Peppard, da Sidney Poitier a Laurence Harvey, da Maximilian Shell a George Segal, da Henry Fonda ad Anthony Quinn, da William Holden a Gene Hackman).

[14] All’inizio degli anni Settanta, la sua minore presenza sugli schermi cinematografici fu compensata dall’impegno televisivo nella serie poliziesca Madigan (1972-’73), ispirata da un film di particolare successo girato nel ’68 e diretto da Don Siegel, Squadra omicidi, sparate a vista.

Fonti

Raymond Bellour (a cura di), Il Western, Giangiacomo Feltrinelli Editori, Milano 1973

Claudio G. Fava, Guerra in cento film, Le Mani, Genova, 2010

Josè Maria Latorre, Avventura in cento film, Le Mani, Genova, 1999

Renato Venturelli, Poliziesco americano in cento film, Le Mani, Genova, 1995

Renato Venturelli, Gangster in cento film, Le Mani, Genova, 2000

Aldo Viganò, Western in cento film, Le Mani, Genova, 1994

www.imdb.com

Da via Rasella a via Ardeatina: occhio per occhio…

Roma, 23 marzo 1944. Diciotto chili di esplosivo e spezzoni di ferro esplodono in via Rasella, proprio mentre l’11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment “Bozen” la sta percorrendo a piedi. Muoiono sul posto ventisei uomini della polizia nazista e due civili Italiani, a cui si aggiungeranno altri sette militari tedeschi nei giorni successivi.

L’attacco fu progettato e realizzato da 17 dei cosiddetti gappisti, i membri dei Gruppi d’azione patriottica (GAP), le unità partigiane del Partito Comunista Italiano. Legittimo o meno, fu uno dei più tremendi attentati urbani anti-tedeschi. Va da sé, non poteva rimanere impunito, soprattutto considerato che, in quel periodo, la capitale era occupata dai nazisti. Questi, già in precedenza, non avevano risparmiato atti di crudeltà, come il rastrellamento del ghetto di qualche mese prima.

La rappresaglia fu pressoché istantanea, se si considera che la decisione coinvolse anche l’alto comando in Germania: dieci uomini per ogni tedesco ucciso. 330 vittime sacrificali non erano facili da trovare in meno di ventiquattrore, ma, alla fine, ne moriranno cinque in più.

Le modalità con cui le Fosse Ardeatine si riempirono di morte sono sconcertanti: possibili solo se quel meccanismo umano chiamato empatia viene messo a tacere completamente. La deumanizzazione dell’altro, della vittima in questo caso, può spalancare le porte sugli abissi della moralità.

Così, più di tre centinaia di persone furono assassinate, una alla volta, con un colpo di pistola al collo dall’alto verso il basso, e accatastate in uno sterminato cumulo di cadaveri. Difficile immaginare di poter compiere un’atrocità del genere. Difficile cercare di immedesimarsi in chi premette il grilletto per così tante volte. Proprio questo comporta la deumanizzazione: non sei più umano, dunque non posso sentirti soffrire. Quel giorno, un pezzetto di umanità si sgretolò per sempre.

Alessio Gaggero

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Il 21 marzo 1960 si consuma il massacro di Sharpeville

A partire dal 2005, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 21 marzo “Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”. La decisione fu presa in occasione del 45° anniversario degli eventi di Sharpeville, Sudafrica, in cui persero la vita 70 persone, tra cui 8 donne e 10 bambini.

Quella mattina, verso le dieci, diverse migliaia di dimostranti si radunarono intorno alla stazione di polizia della città, provocatoriamente senza documenti. La protesta era indirizzata nei confronti dello Urban Areas Act, anche chiamato Pass law, vale a dire quel decreto governativo che imponeva ai cittadini sudafricani neri di girare sempre con un lasciapassare: se ne fossero stati trovati sprovvisti, mentre si trovavano in un’area riservata ai bianchi, sarebbero stati arrestati.

Il raduno pacifico fu organizzato dal Pan Africanist Congress (PAN), partito alternativo all’African National Congress (ANC), di cui faceva parte Nelson Mandela. Il PAN, fondato da Robert Mangaliso Sobukwe neanche un anno prima, decise di prendere il tempo al gruppo di Madiba: fu progettata una campagna, contro il suddetto decreto, in partenza dieci giorni prima della rivale. Sharpeville avrebbe dovuto dare il via all’evento.

I maschi africani di ogni città e villaggio […] lascino a casa i propri lasciapassare, si uniscano alla dimostrazione e, se arrestati, non accettino alcuna cauzione, difesa né multa.
(T.d.a.)

La tensione era alta, tanto da costringere le forze dell’ordine a diversi tentativi di disperdere la folla, compresa l’aviazione e i veicoli blindati. Dopo diverse ore, la polizia aprì il fuoco sulla folla, compiendo una strage. Alcune fonti sostengono che i manifestanti avevano iniziato a lanciare sassi, mentre altre parlano di una decisione deliberata.

L’escalation del conflitto si era ormai innescata, con la popolazione nera sempre più in rotta col governo. Due giorni dopo a Città del Capo scesero in strada 50 mila persone, per cui l’amministrazione proclamò la legge marziale: seguirono oltre 18.000 arresti. È allora che l’Anc decise di abbandonare la non violenza e passare alla lotta armata. Dei successivi morti si perderà il numero.

Alessio Gaggero

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