La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana

La strage compiuta dagli italiani, civili e militari, sulla popolazione inerme di Adis Abeba costituisce uno degli esempi più brutali della sanguinosa storia delle dominazione coloniale in Africa. E una delle più criminali imprese realizzate dai nostri concittadini nella già vergognosa occupazione dell’Etiopia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il governo etiopico riferì che erano stati massacrati 30.000 cittadini nella strage di Adis Abeba [1]. Tra le testimonianze italiane di quell’orrore, iniziato il 19 febbraio 1937, c’è quella di Antonio Dordoni:

«Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla “Casa del Fascio”, alcune centinaia di squadre composte da camice nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire a i roghi […]. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettata».

«Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale» (Raffaele Carrieri)

Nel 1935, l’Italia, già detentrice di tre colonie in Africa – la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e la Libia (abbiamo ricordato le atrocità della conquista e della dominazione italiana in Libia qui, qui e qui) -, decise che era arrivato il momento di invadere l’Etiopia. Mussolini voleva dare agli italiani «un posto al sole», della terra da colonizzare e un vero e proprio impero coloniale. Così, il 3 ottobre 1935, senza far precedere l’attacco da una dichiarazione di guerra, si era scagliato contro l’impero etiope. Aveva rovesciato un’onda immensa di orrore sulla popolazione di quello stato, che, dal 1923, faceva parte della Società delle Nazioni e che, insieme alla Liberia ed era l’unica porzione di Africa non soggetta alla dominazione europea (ne abbiamo parlato qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Pur facendo da subito ricorso anche ai gas tossici (ne abbiamo parlato in questo post), banditi dalla Convenzione di Ginevra del 1925, le truppe italiane, dopo 7 mesi, non erano riuscite a sottomettere totalmente gli etiopi. Ma il 5 maggio del 1936 il maresciallo Pietro Badoglio riusciva ad entrare in Adis Abeba senza combattere. L’imperatore etiope Hailè Selassiè, tre giorni prima, l’aveva abbandonata, andando in esilio. E il 9 maggio Mussolini annunciava dal balcone di Palazzo Venezia alla folla esultante che

«i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia». Era una menzogna, ovviamente. Come era menzognera e grottesca nella sua pretesa solennità quanto scriveva Raffaele Carrieri, il 17 maggio, su L’illustrazione italiana:  «Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale».

La resistenza etiope

In realtà, gli etiopi erano tutt’altro che sottomessi e l’Etiopia tutt’altro che occupata. Due terzi del suo territorio restavano liberi. E 100.000 uomini dell’esercito imperiale etiope erano ancora ancora attivi. Di fatto, i 10.000 soldati italiani installati ad Adis Abeba erano sotto assedio [2].

Quegli ordini sanguinari di Mussolini che Graziani era ben felice di eseguire

Tra il 5 e l’8 luglio di quel 1936, Benito Mussolini ordinava espressamente, per iscritto, mediante telegramma, al nuovo viceré, governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso ai gas, e di attuare una politica di terrore e sterminio [3]. Ma le esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (60 tonnellate di bombe caricate a iprite e fosgene), gli incendi di interi villaggi, chiese incluse, le deportazioni di massa, l’attivazione di nuovi campi di concentramento, ecc. non bastavano a soffocare le rivolte.

Altro che colonia di ripopolamento

Mussolini era impaziente. Autorizzava

a «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni compliciSenza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

Il fatto è che il duce aveva promesso al popolo italiano che l’immenso territorio etiope sarebbe diventato rapidamente una colonia di ripopolamento, in cui avrebbe insediato da 1 a 10 milioni di italiani. Nei cinque anni di occupazione fascista, invece, si stabilirono in Etiopia solo 3.500 famiglie, su appena 114.000 ettari. Gli etiopi, pur divisi tra loro, non si rassegnavano a cedere le loro terre a questi sanguinari invasori.

L’attentato del 19 febbraio ’37 contro Graziani ad Adis Abeba

Nella capitale etiope la situazione era tesissima. Gli etiopi piangevano per i loro cari uccisi dagli italiani, pregavano per famigliari e vicini finiti nelle prigioni italiani ed erano in ansia per quei giovani che, per ordine di Mussolini, fin dal 3 maggio, dovevano essere presi e fucilati sommariamente [4].

Due giovani studenti di origine eritrea (Abraham Dobotch e Mogus Asghedom), con l’aiuto di un tassista, Semeon Adefres, il 19 febbraio del ’37 realizzarono l’attentato che avevano preparato [5]. In occasione di una cerimonia per la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, si introdussero di nascosto nel palazzo del piccolo Ghebì. Dalla balconata, scagliarono otto bombe di limitato potenziale tipo Breda, sul vicerè Graziani e sulle autorità italiane ed etiopiche, che gli stavano attorno sulla scalinata sottostante il balcone. L’esito fu di sette morti e circa 50 feriti, tra cui lo stesso Graziani, trafitto da 350 schegge [6].

La rappresaglia sulla popolazione etiope di Adis Abeba

Il federale fascista di Adis Abeba, Guido Cortese, obbedendo ad un telegramma di Mussolini, di provvedere ad «un radicale ripulisti», provvedeva alla rappresaglia: un massacro raccapricciante per le strade e nelle case etiopi di Adis Abeba.

«Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente»

Così raccapricciante che il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto scriveva:

«Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» [7].

La rappresaglia dei militari

Accanto a quella condotta dai civili italiani contro la popolazione inerme (che era anche derubata dei pochi denari e averi che possedeva), veniva svolta anche quella, appena più organizzata, dei militari. Questi rinchiudevano 4.000 etiopici in improvvisati campi di concentramento e incendiavano i vasti agglomerati di tucul che fiancheggiavano due fiumi che attraversavano la città. La mattina dopo Alfredo Godio osservava «cumuli di cadaveri bruciati» e il transito di camion «sui quali erano accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi».

L’ordine di cessare le rappresaglie

«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un altro testimone italiano, Dante Galeazzi.

Saputo che i diplomatici stranieri, con le loro macchine fotografiche, documentavano le atrocità in corso, il viceré Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinava la cessazione delle rappresaglie [8]. Quelle dispiegate dai civili e dalle camicie nere, quindi, furono interrotte dalle ore 12 del 21 febbraio. Non si fermò, però, il bagno di sangue [9].

La strage infinita ordinata da Mussolini

Mussolini, infatti, scrisse a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi doveva essere rilasciato senza suo ordine, mentre «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Un migliaio di altri civili fucilati ad Adis Abeba

Il 22 febbraio Graziani scriveva a Mussolini:

«In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni, con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state, di conseguenza, passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul»

La strage dei notabili di Adis Abeba

Poiché l’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva riferito, falsamente, che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto in cui avrebbero avuto un ruolo fondamentale i cadetti della Scuola militare di Olettà (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista), il 21 febbraio il viceré riferì a Mussolini:

«Duce, questa mattina sono stati passati per le armi 45 fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del 19 febbraio» [10].

L’eliminazione dell’intellighenzia etiope

Il 22 febbraio venivano assassinate altre 26 persone. La logica era quella di eliminare i giovani ufficiali, gli ancor più giovani laureati negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, nonché gli alti funzionari governativi e i collaboratori più validi dell’imperatore Hailè Selassiè. Per liquidare la classe dirigente etiope, Mussolini approvò la proposta di Graziani di deportare in Italia i notabili ancora imprigionati dal 19 febbraio nei sotterranei del palazzo del viceré [11]. Così in due tranche furono deportati in Italia, sull’isolotto dell’Asinara, 400 aristocratici etiopi, inclusi alcuni bambini e delle donne. Mentre quelli di livello inferiore erano rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia. La metà sarebbe morta di malattia o di denutrizione [12].

L’elogio del Gran Consiglio del Fascismo ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba

Il Gran Consiglio Fascismo (di tale organo abbiamo parlato quiqui e qui) nella seduta del 2 marzo espresse la sua piena approvazione per i massacri perpetrati. Il comunicato, pubblicato anche sul Corriere della Sera del giorno dopo, diceva:

«Il Gran Consiglio del fascismo ha infine inviato un cameratesco saluto e un fervido augurio al viceré maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, nella certezza che egli saprà applicare la giusta, ma inflessibile legge di Roma, e ha tributato un particolare elogio ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba per il contegno da essi tenuto dopo l ’attentato» [13].

Il peggio per gli etiopi doveva ancora arrivare.

Alberto Quattrocolo

[1] La stampa americana, francese e inglese dell’epoca parlava di circa 6.000 etiopi uccisi ad Adis Abeba dal 19 al 21 febbraio 1937.  Angelo Del Boca stima circa in 3.000 le vittime dei primi tre giorni di violenze ad Addis Abeba, come l’inglese Anthony Mockler. Lo storico Giorgio Rochat ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta e arrivare a 6.000 vittime, come farebbero pensare le carte del “Fondo Graziani”.

[2] Badoglio, conoscendo la rischiosità della situazioni si faceva richiamare in Italia, lasciando il posto al più giovane e ambizioso maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che il 20 maggio veniva nominato viceré d’Etiopia, governatore generale e comandante superiore delle truppe.

[3] Graziani non aveva alcuna riserva nel dare esecuzione a tali ordini. La sua disponibilità al massacro si era già palesata eloquentemente in Libia.

[4] «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici», aveva ordinato il duce, riferendosi a quelli che l’imperatore Hailè Selassiè, negli anni precedenti l’invasione italiana, aveva mandato a studiare e a laurearsi all’estero e ai cadetti della scuola militare di Olettà.

[5] I due eritrei lavoravano negli ambienti governativi di Addis Abeba, anzi erano informatori dell’Ufficio Politico di Graziani. Proprio per questo, oltre che per la fama di collaborazionismo che avevano gli eritrei in genere, non avevano contatti con i notabili abissini né con i “giovani etiopici”.

[6] Subito dopo, i due studenti, approfittando del caos, raggiungevano il taxi di Semeon Adefres e si dirigevano verso la città conventuale di Debrà Libanòs. Poi da lì tentavano di fuggire in Sudan, venendo, però, misteriosamente uccisi nel viaggio. Mentre l’autista, arrestato, veniva torturato a morte dagli agenti dell’Ufficio Politico di Adis Abeba.

[7] Non sfuggiva alla violenza omicida neppure la chiesa di San Giorgio (costruita ai tempi di Menelik da un ingegnere italiano, Sebastiano Castagna), che veniva data alle fiamme e dentro la quale i civili italiani volevano far bruciare vivi, spingendoceli a scudisciate, una cinquantina di diaconi. Fu solo l’intervento di un colonello dei granatieri ad impedire questo ulteriore crimine.

[8] Graziani decise di arrestare i massacri anche, se non soprattutto, per dimostrare a Mussolini di avere in mano la situazione – malgrado le ferite che lo trattenevano in ospedale (aggravate da una polmonite provocata dall’anestesia a etere) – e per impedire che il federale Cortese acquistasse troppa notorietà.

[9] Il federale Cortese, allora, faceva diffondere un manifesto con il bollo della “Federazione dei fasci di combattimento” di Adis Abeba che iniziava così: «Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV (cioè quindicesimo anno della “rivoluzione fascista”, NdA) cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia». Riguardo a quell’ordine Dordoni scrisse: «Lo lessi e lo rilessi. Non credevo ai miei occhi. Non credevo che dopo una simile strage si potessero mettere in giro documenti del genere, che erano una palese autodenuncia».

[10] Il tenente colonnello Princivalle suggerì a Graziani di mostrare una certa clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Ma Graziani, seguendo il criterio base della rappresaglia, per il quale del gesto di uno deve pagare tutta la comunità cui appartiene, continuò nella sua spietata politica repressiva. Così rispose, per iscritto, a Princivalle, il capo del suo Ufficio politico: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».

[11] Mussolini approvò tale idea, dopo aver respinto la proposta di Graziani di distruggere tutta la parte di Adis Abeba abitata dagli etiopi e deportarne gli abitanti in campi di concentramento. Scrisse Graziani: «Debbo pertanto giungere alla decisione di proporre di radere al suolo la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento fino a che essa non si sarà ricostruita le sue abitazioni. Ne faccio pertanto formale proposta mentre mi riservo rimettere i preventivi dei teli da tenda necessari e tutto il resto[…]. D’altra parte io non posso mitragliare in massa o dare alle fiamme l’intera città, non potendo non preoccuparmi delle ripercussioni all’estero. Invoco pertanto che tutti provvedimenti proposti siano approvati perché possa darvi immediata attuazione. Prego massima urgenza risposta per non tenere più questo puzzolente carnaio [i duecento notabili arrestati] ammassato nei locali del governo generale». Il duce replicò a Graziani che ciò «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo».

[12] Diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia.

[13] Lo stesso giorno Starace in un telegramma scriveva al federale Cortese di Adis Abeba: «Mi compiaccio moltissimo con te e con i fascisti tutti». Interessanti sono anche i comunicati dell’agenzia Stefani sulla stampa quotidiana del 22 febbraio («squadre di fascisti hanno ripulito quartieri sospetti della capitale») e del 24 febbraio (tutti gli indigeni «trovati in possesso di armi sulla persona e nei loro tucul sono stati fucilati»).

Fonti

Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1998_211-213_12.pdf

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014

Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212

Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009

Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf

La Rosa Bianca viene arrestata dalle SS

Gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte.

Con queste parole fu decisa la sorte dei primi tre componenti della Rosa Bianca arrestati dalle SS. Il Tribunale del Popolo, presieduto da Roland Freisler, impiegò cinque ore ad emettere la sentenza: morte per ghigliottina. Era il 22 febbraio 1943. I fratelli Hans e Sophie Scholl, insieme all’amico Cristoph Probst, erano stati arrestati quattro giorni prima. Quattro giorni di torture.

La loro attività era iniziata nemmeno un anno prima, quando decisero di ribellarsi allo status quo nazista. Guidati dal professor Kurt Huber, scrissero, pubblicarono e diffusero una serie di volantini che iniziarono con queste parole:

Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare, prima che le città diventino un cumulo di macerie…

Lo stampo cristiano emergeva chiaramente anche dalle citazioni della Bibbia e di Sant’Agostino, affiancate da Aristotele, Goethe e Schiller. Gli opuscoli erano chiaramente indirizzati all’intellighenzia tedesca. Purtroppo, come ha detto bene in tempi più recenti Franz Josef Müller:

La maggior parte dei Tedeschi sosteneva in modo convinto il regime o divenne nazista perché conveniva esserlo. Troppo pochi la pensavano diversamente e troppo pochi furono raggiunti dai volantini. Non credo fosse possibile eliminare il nazionalsocialismo dall’interno. Infatti ci volle l’aiuto degli Alleati.

Müller prese parte al gruppo mentre ancora era minorenne, perciò gli fu risparmiata la sentenza di morte. Forse, l’azione della Rosa Bianca non impresse un’accelerazione particolare alla caduta del regime, ma è innegabile che svolse, e svolge tuttora, un’azione di rilevanza culturale:

La storia dei fratelli Scholl e della Rosa Bianca, seppure lentamente, ha aiutato moltissimo a smontare questa equazione [tedesco come sinonimo di nazista] nell’opinione pubblica internazionale.

Alessio Gaggero

 

La caccia ai capri espiatori

La caccia (di Arthur Penn) uscì nelle sale cinematografiche americane il 17 febbraio del 1966 e in quelle italiane il 21 settembre di quell’anno. Non ebbe un successo proporzionato ai suoi meriti artistici e ai suoi costi di produzione [1]. Divenne un cult, sì, ma un “cult maledetto”. Infatti, a cinquantacinque anni di distanza quel film non ha perso un grammo del suo peso di opera scomoda. Continua ad essere lo specchio di qualcosa di orribilmente vero non soltanto negli USA, e in particolare negli Stati del Sud, ma in tutto quello che normalmente viene chiamato l’Occidente. Italia inclusa. Anzi, oggi, Italia più che mai.

Tre capri espiatori perfetti cui dare la caccia

Il film di Arthur Penn è suscettibile di essere guardato con molteplici chiavi di lettura. Una di quelle più immediate riguarda il tema del capro espiatorio. Il capro espiatorio cui gli abitanti di Tarl, una piccola città del Texas, danno la caccia è indubbiamente il giovane evaso Bubber Reeves (Robert Redford). Ma altri due capri espiatori emergono nello sviluppo della vicenda e finiscono in qualche modo sacrificati.

La caccia inizia, in effetti, con la fuga di Bubber Reeves dal carcere – insieme ad un compagno, che uccide un automobilista e poi si dilegua. Ma nel corso del film scopriamo che la sua carriera di deviante dentro e fuori gli istituti di pena è iniziata con un errore giudiziario. Nessuno, allora, credette alla sua innocenza neppure sua madre [2]. Non era stato lui a commettere il furto che lo spedì in riformatorio, ma un suo compagno, Edwin (interpretato da Robert Duvall).

Bubber Reeves, colui che fa paura a chi la ha coscienza sporca

Costui, un dipendente di Val Rogers, il petroliere, magante e sovrano di fatto della regione, è tormentato dal timore che Bubber possa avere intenzioni vendicative. Come lui lo è il suo datore di lavoro. Val Rogers, infatti, ha imposto al suo unico figlio Jack (James Fox) di sposarsi con una ragazza della sua stessa classe, ma il giovane gli ha obbedito solo in apparenza, continuando ad amare e frequentare la ragazza della quale da sempre è innamorato, Anna (Jane Fonda). E suo padre, sapendolo, ne è atterrito, dato che Anna tempo prima aveva sposato il loro comune amico d’infanzia, Bubber. Questi, in realtà, non ha alcuna intenzione di tornare a regolare i conti con Edwin o con Jake Rogers. Se Val o Edwin si fossero presi la briga di parlarci e di ascoltarlo, senza essere condizionati dai loro programmi o dai loro timori, saprebbero che ben diverse sono le sue intenzioni [3].

Jack Rogers, colui che arrivando a pensare con la propria testa si espone ad un rischio mortale

Jack Rogers, ad esempio, che, invece, lo conosce non ha alcuna reale paura di Bubber. Come non ce l’ha Anna. Non solo perché un tempo Jack e Bubber erano amici, ma perché il primo conosce la natura non violenta e non vendicativa del secondo. La venuta di Bubber, anzi, aiuta Jack a fare davvero i conti con se stesso, con il profondo sentimento che lo lega ad Anna e con le scelte comode di conservazione dei privilegi, ma disastrose sul piano affettivo ed esistenziale, che ha compiuto fino ad allora. Inoltre, fa i conti con la propria soggezione ai voleri del padre e con la mancanza di dialogo vero nella relazione con lui. La sua sensibilità lo porta anche ad accettare il legame di profondo affetto che lega Anna a Bubber e a non cadere preda di quella gelosia nutrita da chi vede nel partner un oggetto da possedere, anziché un soggetto con cui rapportarsi paritariamente [4]. La sensibilità di Jack, quindi, gli fa prevenire il rischio di cercare all’esterno un nemico da incolpare per i propri fallimenti [5]. Ma inevitabilmente la sua consapevolezza finisce con l’isolarlo dai suoi simili (l’upperclass locale, in primis, ma anche gli altri abitanti di Tarl). Capaci solo di guardare alle persone per come appaiono o per quello che, in termini di denaro e potere, possiedono, essi vedono in Jack null’altro che un privilegiato viziato, che se la spassa con la moglie di un evaso [6].

Calder, ovvero il rappresentante istituzionale odiato per la sua intelligenza e la sua non furbizia

Il terzo outcast è lo sceriffo Calder (Marlon Brando). È l’uomo nel mezzo. Il rappresentante della legge, il garante istituzionale della pace sociale, che si sforza di tutelare la sicurezza individuale e collettiva con buon senso, umanità e onestà. E perciò sta sul gozzo agli abitanti di Tarl. Opportunisti e frustrati, ignoranti e intolleranti, quali sono, lo odiano perché in lui vedono un alieno. La sua intelligenza e il suo equilibrio, non avendo alcuna parentela con la loro furbizia, sono mal tollerati da tutti. Perché lo portano a rifiutare le loro richieste di favoritismi e i loro piccoli tentativi di manipolarlo e corromperlo, a contrastare il loro razzismo brutale e a svelare il loro perbenismo di facciata. È divenuto sceriffo di Tarl grazie anche all’appoggio del petroliere Val Rogers, il quale, pur stimandolo, cerca inconsciamente di corromperlo [7]. Calder, invece, si sforza vincolare la propria condotta soltanto alla legge e alla coscienza, respingendo la logica dello scambio sottobanco [8]. Così, profondamente a disagio in mezzo a tanta ignoranza, presunzione e intolleranza, risulta inviso a tutti. Ai ricchi, ai borghesi e ai poveri. Non è uno di noi, pensano i suoi concittadini, che non si fidano di lui e gli sono intimamente ostili. Più che altro temono e odiano ciò che rappresenta: il senso della comunità e il rispetto per l’altro come premessa del rispetto della legge. E, per non fare i conti con la sua onestà, che rispecchia la loro corruzione, si convincono che, in fondo, anche lui, come tutti gli altri, non può che essere un corrotto, cioè una marionetta manovrata dal potente Val Rogers.

Una comunità di forti con i deboli con i forti

La comunità composta dagli abitanti di questa città di provincia, infatti, è popolata in gran parte da gente dalla mentalità chiusa e dall’animo opportunista. Fatti salvi i suddetti capri espiatori, gli altri personaggi rappresentati sono dei moralisti reazionari in pubblico, la cui immoralità è talmente prepotente da esplodere apertamente, senza che neppure se ne preoccupino. Rigidamente aderenti alla netta divisione in classi, la patiscono, ma non si ribellano, né cercano di rimediarvi. Quelli del ceto medio sfogano la frustrazione personale e sociale, umiliando e maltrattando chi si trova ai livelli più bassi. Mentre si limitano a spettegolare su chi sta sopra di loro nella gerarchia sociale. Nell’high society il posto al vertice è occupato dal petroliere Val Rogers (interpretato da E. G. Marshall). Potentissimo, rispettato pubblicamente, detestato e invidiato privatamente tanto dai membri della casta quanto da quelli del ceto medio [9]. Né una figura migliore fanno i poveracci. Come la madre di Bubber: talmente ottusa da non capire che l’unico di cui può fidarsi è proprio lo sceriffo Calder.

Una comunità da incubo

La caccia propone, dunque, una vicenda corale di odio sociale che a mezzo secolo di distanza ci riporta alla nostra attualità. È, quindi, una pellicola scottante e sconvolgente più di quanto potrebbe essere un film a noi contemporaneo. Ci rivela fino a che punto una società può regredire a livelli che, un tempo, avremmo giudicato con il disgusto e il sollievo di chi vive in un altro modo e in un altro mondo. Cioè, di chi non respira un clima sociale in cui tutti sono contro tutti, le relazioni sociali sono all’insegna dello sfruttamento del più debole, nessuno si fida dell’altro e men che meno delle istituzioni, ma tutti sono accomunati da una rabbia violenta. Da una frustrazione che genera prima la caccia e, poi, l’olocausto dei capri espiatori.

Il problema è che le persone intelligenti sono piene di dubbi, mentre quelle stupide sono piene di sicurezze (Charles Bukowski)

I tre capri espiatori citati – Bubber (l’evaso innocente), Jack (il ricco rampollo con un cuore e dei valori che non sapeva di possedere) e Calder (lo sceriffo assennato) -, quindi, sono intrinsecamente estranei, stranieri in patria. E sui tre spicca Calder. Quello più odiato dagli abitanti di Tarl. Perché a coloro che gli ricordano che sono loro «a pagargli lo stipendio» ribatte che la legge non è quella del più forte, né quella della caccia al diverso o del sacrificio rituale. Riflettendo, con la sua razionalità dubbiosa, l’arroganza della follia reazionaria che lo circonda, il suo semplice esistere costituisce una critica per la distorsione dei loro comportamenti e della vacuità delle loro autogiustificazioni.

«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro»

«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro», osserva ad un cero punto Calder, parlando con sua moglie Rubie (Angie Dickinson).

È questo un commento quanto mai efficace nel sintetizzare, tanto la sua sensazione di isolamento in una città in cui sembrano tutti impazziti, quanto la sua consapevolezza che una comunità simile può improvvisamente deflagrare nella violenza omicida. Egli riconosce che, quella in cui vive e che deve governare, è una comunità il cui deficit di civiltà nutre sia il razzismo diffuso, sia l’odio e il sospetto verso chiunque rispetti l’umanità altrui e sia altruista. Più e meglio di Jack e di Bubber, che come lui non sono assimilabili in questa città in piena deriva civile, lo sceriffo sa vedere la violenza strisciante e sa prevederne l’esplosione irrazionale. Per questo, il regista dedica tanto spazio alla scena del pestaggio che gli viene inflitto e all’esito che questo ha sulla sua vista. Si cerca non soltanto di punirlo e umiliarlo per la sua sobria rettitudine e di impedirgli di opporsi all’escalation violenta prevista in danno di Bubber e del suo amico nero Lem, ma anche di levargli la sua capacità di vedere e di smascherare.

Il flop economico di La caccia

Il film, pur vantando un cast notevole (Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, Angie Dickinson, James Fox, Robert Duvall, E. G. Marshall, Janice Rule, Richard Bradford, Miriam Hopkins, Henry Hull, Jocelyn Brando, Clifton James, Martha Hyer, Bruce Cabot, Steve Ihnat) una fotografia splendida in Cinemascope (di Joseph La Shelle) e pregi registici notevoli, tali da renderlo un potenzialmente redditizio blockbuster sociale all-star, fu invece un tonfo economico. Eppure il produttore era l’esperto e coraggioso Sam Spiegel [10]. Perché il pubblico non corse a vederlo?

Una spiegazione possibile potrebbe essere costituita propria dalla sua natura di commento schietto sul mondo contemporaneo e sulle varie miserie (anche affettive) che lo desertificano. All’epoca, però, la critica francese e quella italiana, a differenza di quella americana, apprezzarono La caccia. Pur non giudicandolo un film perfetto, ne lodarono la forza polemica e la bravura di tutto il cast, Marlon Brando, Jane Fonda, James Fox e Robert Redford in testa.

Chissà se oggi La caccia susciterebbe da noi reazioni simili a quelle della critica americana Pauline Keel, la quale deplorava il suo essere un atto di accusa senza riserve ai bianchi del Sud?

 

Alberto Quattrocolo

[1] Prodotto da Sam Spiegel, produttore di talento e dal fiuto infallibile, La caccia era, sulla carta, assolutamente in linea con i gusti del pubblico. Scritto a più mani, a partire da un’opera di Horton Foote, era basato su una sceneggiatura cui aveva lavorato per dieci anni Micheal Wilson, sceneggiatore di sinistra finito vittima della “caccia alle streghe” anti-comunista della fine degli anni Quaranta, imprigionato e poi emarginato, ma sostenuto proprio da Spiegel, che gli commissionò la sceneggiatura di Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean). La caccia era poi stato sceneggiato anche da Lillian Hellman, anch’essa perseguitata dalla Commissione per le attività anti-americane, e dallo stesso Horton Foote. Vantava un cast impressionante, in cui, accanto alla superstar Marlon Brando, figuravano gli emergenti Jane Fonda e Robert Redford, la già affermata e celeberrima Angie Dickinson e uno dei più noti rappresentanti del nuovo cinema inglese, James Fox. E tutti costoro, attentamente diretti da Arthur Penn, fornivano delle interpretazioni notevolissime. Marlon Brando sapeva modulare attentamente le sfumature di un uomo sensibile, dubbioso e introverso, costretto a confrontarsi continuamente con l’arroganza e la violenza e a reprimere il disgusto e la rabbia che quelle gli suscitano. Redford risultava toccante per il modo sobrio in cui rappresentava l’emarginato, braccato, che non sa spiegarsi come la vita lo scaraventi sempre nei guai. Jane Fonda amministrava con molta intelligenza i diversi registri emotivi che delineavano il suo personaggio: rabbia, impotenza, senso di colpa, tenerezza, paura. James Fox riusciva particolarmente credibile nel dare spessore alle ambivalenze di Jack, “il principe ereditario” del “re del petrolio” Val Rogers, che scopre di avere dei valori e degli ideali. Angie Dickinson conferiva uno spessore non scontato al suo personaggio, di moglie dello sceriffo, di cui condivide i principi e alla cui solitudine partecipa con tenerezza riflessiva. E. G. Marshall dava al personaggio del petroliere risvolti umani tali da prevenire il rischio di trasformarlo nella maschera del cattivo. Così come Richard Bradford, Janice Rule e Robert Duvall, nella parte dei borghesi corrotti, sapevano recare ai loro personaggi tocchi di autenticità utili a non far deragliare il film in un’opera a tesi.

[2] Interpretata mirabilmente da Miriam Hopkins, splendida attrice affermatasi negli anni Trenta.

[3] È fuggito, infatti, soltanto perché si è ribellato alle angherie di un guardiano, ma, salito su un treno merci che riteneva sarebbe andato in Messico, scopre troppo tardi che era invece diretto a nord e fatalmente finisce con il fare ritorno nella sua città natale.

[4] Anzi, egli si sente e si dichiara innamorato di Anna proprio per la capacità di amare disinteressatamente e per l’onestà e la schiettezza di cui è dotata.

[5] Lo obbliga, infine, ad agire lealmente, seguendo ciò che detta il sentimento dell’amicizia, anziché perseguire un mero tornaconto personale.

[6] La sua diversità, pertanto, lo candida involontariamente ad essere guardato con sospetto dai suoi concittadini, che nel loro cinismo non possono immaginare che egli sia l’uomo che in realtà è. In parte, tale ottusità avrà esiti nefasti su Jake, trasformandolo in vittima di una violenza bestiale quanto gratuita.

[7] Val Rogers ammira le qualità di Calder vede in lui una sorta di figlio. Ma tanto forte è la sua inclinazione ad usare il denaro e il potere in tutte le relazioni, anche in quelle affettive, da agire in questi termini anche nei confronti dello sceriffo Calder.

[8] Calder è costantemente a cavallo del fossato tra le classi sociali, tentando di non esserne condizionato. Da un lato, deve avere a che fare con le pressioni, amichevoli inizialmente poi via via più dure, di Val Rogers e della sua combriccola. Dall’altro deve vedersela con la palese sfiducia della maggioranza piccolo-borghese. Una maggioranza nutrita di invidia sociale verso i più potenti e di rabbia e disgusto verso i poveracci. In primo luogo, verso la popolazione nera e, poi, verso qualche bianco dropout come Bubber.

[9] È l’uomo ai cui progetti tutti aderiscono, senza neppure comprenderli, ai cui principi e desideri tutti si conformano, ma solo a parole, senza ascoltarlo come essere umano né riconoscerlo come figura autorevole. Così, pronti ad obbedirgli ad ogni suo cenno, in quanto interessati soltanto ai suoi favori, sono proprio i suoi lacchè a inavvertitamente sfuggire al suo controllo, a disobbedirgli, assecondandolo Anzi, nel violento sfogo delle loro frustrazioni, finiscono con l’ammazzargli involontariamente il figlio.

[10] Sam Spiegel, ebreo polacco, rifugiatosi negli USA per sottrarsi alla persecuzione nazista, fin dall’inizio della sua carriera mostrò un talento indiscutibile come produttore di opera controcorrente ma capaci di raggiungere un vasto pubblico, senza farsi condizionare dal crescente anticomunismo dell’epoca. Anzi, fin dall’inizio non esitò a produrre opere di registi finiti nel ciclone dell’isteria crescente (tra questi: Lo straniero, 1946, di Orson Welles che era alquanto inviso alla commissione senatoriale di inchiesta sulle attività dei presunti comunisti; Stanotte sorgerà il sole, 1949, di John Huston, interpretato da John Garfield, che sospettato fin dal ’47 di essere filocomunista morirà d’infarto poco prima di essere interrogato dalla commissione senatoriale; Sciacalli nell’ombra, di Jospeh Losey che fu costretto ad emigrare, prima, in Italia e, poi, in Inghilterra per evitare il carcere in quanto sospetto comunista). Prima de La caccia, Sam Spiegel aveva inanellato una corposa serie di grandissime soddisfazioni, producendo pluripremiati successi mondiali di pubblico e di critica, come La regina d’Africa (1951, di John Huston, un Oscar a Humphrey Bogart come miglior attore), Da qui all’eternità (1953, di Fred Zinneman, 8 Oscar), Fronte del porto (1954, di Elia Kazan, 8 Oscar), Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean, 7 Oscar), Improvvisamente l’estate scorsa (1959, di Joseph Lee Mankiewicz), Lawrence d’Arabia (1962, di D. Lean, 7 Oscar). Con La caccia, invece, gli andò storto. Per renderlo più “commerciale” Spiegel sottopose la pellicola a numerosi tagli, eliminando alcune parti che riteneva rallentassero troppo il ritmo e dilatassero eccessivamente la durata e che fossero sacrificabili, poiché la loro eliminazione non riduceva la carica drammatica né la vis polemica de La caccia. Fu così eliminata l’ampia descrizione della vita della popolazione afroamericana del Sud degli States, che prevista come “controcanto” alla società bianca. Inoltre venne ridimensionato parecchio pure lo spazio narrativo previsto per diversi personaggi, su tutti quello interpretato da Angie Dickinson.

Fonti

La recente (ri)visione de La Caccia

Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, Roma, 1996

Luca Malvasi, Il cinema di Arthur Penn, Le Mani, 2008

Giuliana Muscio, Robert Redford, Gremese Editore, Roma, 1997

www.quinlan.it

 

1989, prime rivelazioni sul disastro aereo di Lockerbie

Il 16 febbraio 1989, un paio di mesi dopo l’incidente aereo del volo Pan Am 103, gli investigatori annunciarono che la causa dello schianto fu una bomba nascosta all’interno di un apparecchio radio. Il 21 dicembre 1988 il velivolo, un Boeing 747-121, era decollato verso le 18.30 dall’aeroporto internazionale di Heathrow (Londra) diretto a New York, con 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio a bordo. Alle 19.02 il Boeing sparì dai tracciati radar.

Un minuto dopo la sezione centrale dell’aeroplano, che conteneva circa 91.000 kg di carburante, si schiantò al suolo presso Lockerbie, in Scozia, provocando una scossa sismica registrata come 1,6 della scala Richter; molte case e 60 metri di ala si frantumarono all’impatto. La disintegrazione dell’apparecchio fu rapida, la parte con la cabina di pilotaggio e il terzo motore si separarono dal resto del mezzo in circa 3 secondi. Nessuna procedura d’emergenza poté essere intrapresa a bordo. L’esplosione distrusse tutti i sistemi di navigazione e comunicazione; si staccò anche parte del tetto, mentre il resto dell’aereo continuò ad andare su e giù per poi precipitare in posizione quasi verticale. I detriti derivanti dalla disintegrazione del mezzo coprirono un’area di circa 2.000 chilometri quadrati.

Tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio morirono nel disastro. La Fatal Accident Inquiry concluse che la decompressione strappò la maggior parte dei vestiti dei passeggeri e trasformò oggetti come il carrello delle vivande in proiettili. Le persone non sedute o adeguatamente assicurate ai sedili vennero sbalzate fuori dalla cabina a una temperatura di -46 °C. Molti passeggeri rimasero all’interno dell’aereo grazie alle cinture di sicurezza, fino allo schianto. Secondo il medico legale, i membri dell’equipaggio e 147 passeggeri sopravvissero all’esplosione a bordo, nonostante l’enorme decompressione, e arrivarono al suolo vivi.

A terra, 11 abitanti della piccola comunità di Lockerbie morirono quando le ali dell’aereo, ancora attaccate alla parte centrale della fusoliera, colpirono le loro case alla velocità di 800 km/h, polverizzandole all’istante, creando un cratere lungo 47 metri e danneggiando nelle vicinanze altre case, che furono in seguito demolite.

Nei giorni successivi, gli uomini dell’Air Accident Investigation Branch, una sezione della polizia scozzese specializzata in disastri aerei, trovarono danni e bruciature che sembravano confermare i segni di un’esplosione ravvicinata, oltre alle tracce di due sostanze chimiche usate per fabbricare un esplosivo al plastico.

Le indagini si svolsero con la collaborazione dell’FBI, poiché più della metà delle vittime erano di nazionalità statunitense. Sedici giorni prima della strage, la Federal Aviation Administration aveva pubblicato un bollettino secondo cui un uomo con forte accento arabo aveva chiamato l’ambasciata americana a Helsinki, avvertendo che un volo della Pan Am verso New York sarebbe esploso in volo entro le due settimane successive. Inoltre, poche settimane prima, la polizia tedesca aveva catturato due componenti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina intenzionati a compiere un attentato su un volo di linea, per cui le prime ipotesi investigative si volsero in quella direzione.

Poiché molti indizi sembravano invece condurre a un coinvolgimento libico, cominciò a circolare l’idea che l’attentato al volo Pan Am 103 potesse essere una vendetta del leader Gheddafi per la morte della figlia nei bombardamenti americani su Tripoli del 1984.

Dopo tre anni di investigazioni congiunte, l’FBI e la polizia di Dumfries and Galloway accusarono dell’attentato Abd el-Basset Ali al-Megrahi, ufficiale dell’intelligence libica e capo della sicurezza per Libyan Airways, e Lamin Khalifah Fhimah, responsabile della Libyan Airways presso l’Aeroporto Internazionale di Malta.

Non esistendo però trattati diretti fra i due paesi, gli inglesi non potevano richiedere ufficialmente l’estradizione dei presunti colpevoli, per cui incaricarono gli uomini dell’MI-6 di aprire dei canali extradiplomatici con Tripoli per ottenere in altri modi la loro consegna. Nel frattempo partì una pubblica escalation di accuse, ricatti e controaccuse, che culminò con una pesante serie di sanzioni internazionali imposte alla Libia dall’ONU, per ottenere la consegna dei due presunti attentatori.

A lungo andare il prezzo pagato per le sanzioni diventò insostenibile: dopo lunghe trattative, la Libia riconobbe ufficialmente “le responsabilità dei nostri ufficiali” e consegnò i due sospettati, a condizione che venissero giudicati in un tribunale neutrale, nei Paesi Bassi, alla presenza di osservatori internazionali. Al termine del processo, nel 2001, Fhimah fu assolto, mentre al-Megrahi fu ritenuto colpevole e condannato all’ergastolo, con una pena minima di venti anni da scontare.

Nonostante questi si proclamasse innocente, e nonostante il principale osservatore dell’ONU, Hans Köchler, abbia definito il verdetto uno “spettacolare aborto giuridico” (“a spectacular miscarriage of justice”), il mondo si convinse che l’attentato fosse partito proprio dalla Libia. Nel 2002 al-Megrahi tentò un ricorso in appello, ma la sua richiesta fu respinta per “inconsistenza delle motivazioni”.

Al-Megrahi non si arrese, e iniziò a far raccogliere tutta la documentazione possibile per preparare un secondo appello.

Nel frattempo Gheddafi appariva ammansito, sullo scenario internazionale, e, a conferma delle sue buone intenzioni, si impegnò a pagare 2.7 miliardi di dollari alle famiglie delle vittime (circa 10 milioni di dollari per famiglia), legando però i pagamenti alla cancellazione definitiva delle sanzioni contro la Libia e alla rimozione del suo paese dalla lista degli “stati-canaglia”.

Il 20 agosto 2009, tra enormi polemiche, al-Megrahi fu rilasciato dalle autorità scozzesi perché malato di cancro e morì a Tripoli tre anni dopo. Con la sua morte, si sono messi a tacere i segreti delle sue attività al servizio di Gheddafi all’epoca della strage, ma sulla sua innocenza l’unico condannato per la strage di Lockerbie ha lasciato abbastanza materiale ai posteri per riflettere. Se avesse presentato un nuovo ricorso, avrebbe molto probabilmente vinto. La testimonianza del commerciante Tony Gaucci a Malta, che indicò in lui il cliente cui vendette abiti che lo avrebbero ricollegato alla valigia-bomba della strage, ha fatto sempre acqua da tutte le parti. E al-Megrahi non era a Malta il giorno in cui furono venduti i famosi vestiti.

Al-Megrahi ha comprensibilmente scelto di morire in Libia, anziché combattere dalla prigione per riabilitare il suo nome. Come testamento ha lasciato le memorie che John Ashton, ricercatore per i suoi avvocati al processo e autore di un libro sul caso, collega a una serie di fatti e documenti che dimostrano falle nelle indagini; lo stesso Scottish Criminal Review Commission, in un rapporto di 800 pagine sul caso, affermò che la difesa di al-Megrahi era stata danneggiata e che pertanto “un errore giudiziario possa essere occorso”. Persino tra i parenti delle vittime c’è chi pensa che Abd el-Basset Ali Al-Megrahi sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario.

Nel 2014, l’emittente araba al Jazeera produsse il documentario “Lockerbie: What Really Happened?”, incentrato sull’intervista a un ex agente dell’intelligence iraniana, Abolghassem Mesbahi; secondo l’ex spia fu l’Ayatollah Khomeini a ordinare l’abbattimento del volo Pan Am, come rappresaglia per un attacco messo a segno sei mesi prima dalla marina USA contro un airbus iraniano, costato la vita a 290 persone. L’attentato di Lockerbie sarebbe stato organizzato da membri dei regimi iraniano, siriano e libico, e materialmente eseguito da un gruppo terroristico avente base in Siria, costituito da fuoriusciti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Della pista iraniana avevano già parlato alcuni analisti e giornalisti, tra cui Robert Fisk, individuando una connection libano-palestinese.

Il documentario suggerisce che le indagini abbiano cambiato improvvisamente corso, puntando su Tripoli, dopo una telefonata tra l’allora presidente USA George Bush e la premier britannica Margaret Thatcher, molto probabilmente perché Washington non voleva scontrarsi con il regime di Damasco, che appoggiava Stati Uniti e Regno Unito nella prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein. USA e Gran Bretagna avrebbero poi dirottato l’attenzione dall’Iran sulla Libia, poiché Tripoli era all’epoca un avversario più “facile” e perché erano in corso negoziati segreti con Teheran finalizzati alla liberazione di ostaggi occidentali nelle mani dell’Hezbollah filo-iraniano.

L’Iran ha immediatamente smentito questa tesi.

Nel giro di tre anni dal disastro di Lockerbie, la Pan American World Airways, già in crisi, cessò le proprie attività.

In ricordo delle 270 vittime è stato eretto un memoriale, il Garden of Remembrance, nel cimitero di Lockerbie.

Silvia Boverini

Fonti: www.it.wikipedia.org; www.corriere.it; M Mazzucco, “La vera storia del volo di Lockerbie”, https://comedonchisciotte.org; “L’attentato di Lockerbie venne ordinato dall’Iran”, www.today.it; www.globalist.it

 

Piero Gobetti muore in esilio a Parigi

Studente brillante fin dalle elementari, Piero Gobetti ebbe una vita breve, ma straordinariamente intensa. Nacque nel 1901 a Torino da una coppia di genitori che investì molto sulla sua educazione, forse a colmare ciò che loro stessi non ebbero in gioventù. Crebbe nel capoluogo, dove, finiti gli studi classici, entrò nella facoltà di giurisprudenza.

Qui, con alcuni compagni fondò Energie nove, periodico studentesco con l’intenzione di:

destare movimenti d’idee in [quella] stanca Torino, promuovere la cultura, incoraggiare studi tra i giovani.

L’attività giornalistica in ambito politico lo portò, nell’aprile 1919, a ricevere da Gaetano Salvemini la proposta di dirigere L’Unità. Gobetti rifiutò l’offerta, non sentendosi ancora pronto. Venne comunque a contatto diretto con altri importanti nomi dell’epoca, come Gramsci. Nell’agosto-settembre 1920, infatti, colpito dall’esperienza dell’occupazione e dei consigli di fabbrica, aveva incominciato a frequentare la redazione dell’Ordine nuovo.

Lo stesso Gramsci collaborerà alla nuova rivista La Rivoluzione Liberale, il cui primo numero settimanale uscì il 12 febbraio del 1922. A giugno, Gobetti, completò gli esami e riuscì a laurearsi nei tempi, a pieni voti, con lode e dignità di stampa.

Nello stesso anno, in seguito alla conquista del potere da parte dei fascisti, espresse chiaramente le proprie opinioni in merito:

bisogna sperare che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo […] Chiediamo le frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder chiaro.
(L’elogio della ghigliottina)

Nel 1923, dopo aver sposato la fidanzata di sempre, Ada Prospero, fondò una casa editrice a cui diede il proprio nome. Fu tra i primi a pubblicare i libri di Luigi Einaudi e, nel 1925, la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose raccolte di poesie di Eugenio Montale.

Nello stesso anno fu arrestato due volte, provocando un’interrogazione parlamentare, a cui il Governo rispose che:

era stato redattore dell’Ordine Nuovo di Torino, giornale antinazionale; la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine pubblico.

Per Gobetti, Mussolini era “l’eroe rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo” che si esplicava nel tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica nella nazione. Identificava il fascismo, non già come un elemento di novità, ma come il risultato, l’effetto dei precedenti governi: il suo risentimento fu tutto per la vecchia classe dirigente liberale, rea al pari dell’invadenza del cattolicesimo. I mali tradizionali italiani si erano incancreniti in una nuova forma, avendo mantenuto la sostanza originaria. La posizione del giurista e giornalista era netta, inequivocabile. A quel tempo, pericolosa.

Pare che a metà del 1924 fosse posto sotto l’attenzione dello stesso Mussolini, che ne fece seguire i movimenti. Sospettato di voler organizzare le forze antifasciste, italiane ed estere, il 9 giugno venne percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Il giorno successivo sarà la volta di Matteotti.

Dopo il ritrovamento del corpo del socialista, Gobetti non fece uso di mezze misure:

La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica.

Iniziò , dunque, un periodo di sequestri delle sue riviste che durò fino alla fine del 1925, in quanto contenenti:

scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali.

A quel punto, il Prefetto ingiunse la cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice. Di lì a pochi mesi, dopo essersi stabilito a Parigi per tentare di ricominciare l’attività di editore, morirà per i noti problemi cardiaci, aggravati da una forte bronchite. Le violenze fasciste degli ultimi anni diedero il loro terribile contributo. Non aveva ancora 25 anni.

Alessio Gaggero

380 secondi e 17 vite in meno a Parkland

380 secondi corrispondono a sei minuti e venti secondi. Si tratta del tempo intercorso tra il primo e l’ultimo sparo di quella che per numero di vittime è diventata la (nuova) Strage di San Valentino. Quell’altra, la prima, quella del 1929 a Chicago, commissionata da Al Capone e realizzata da Sam Giancana e altri 4 sicari ai danni di sette uomini della banda irlandese di George Bugs Moran, è stata “la strage di San Valentino” per ottantanove anni. Poi, due anni fa, 17 persone sono state cancellate in 380 secondi. Sempre negli USA, ma in Florida, questa volta. Le vittime di questa seconda mattanza non erano dei criminali, e non era un gangster l’ideatore e l’autore del massacro.

Marjory Stoneman Douglas High School, Parkland, 14 febbraio 2018

L’enorme campus della Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, conta fino a 3.000 studenti. Per quattordici di questi il giorno di San Valentino dello scorso anno, il 14 febbraio del 2018, fu l’ultimo della loro vita. E lo fu anche per tre adulti. Altre 17 persone non persero la vita, ma furono ferite dai colpi sparati da Nikolas Cruz con il suo fucile semi-automatico. Centinaia di altri esseri umani ebbero l’esistenza stravolta, per lo shock, per i lutti.

Un anno prima, nel febbraio del 2017, Donald Trump aveva firmato un decreto per cancellare i controlli sui precedenti al momento dell’acquisto di armi per le persone con disturbi mentali. Solo due giorni prima dei 380 secondi di strage compiuta a Parkland, l’amministrazione Trump aveva presentato una proposta per il budget del 2019 in cui, tra le altre cose, venivano tagliati milioni di dollari ai fondi federali per i programmi volti a prevenire i crimini nelle scuole e ad assistere le vittime.

Le diciassette persone ammazzate

I quattordici ragazzi uccisi sono:  Alyssa Alhadeff, Martin Duque,  Jaime Guttenbergan, Cara Loughran,  Gina Montalto, Alaina Petty, Alex Schachter, tutti e sette quattordicenni; Luke Hoyer Peter Wang, entrambi di 15 anniCarmen Schentrup, sedicenne; i tre diciassettenniNicholas Dworet, Joaquin Oliver,  Helena Ramsay; la diciottenne Meadow Pollack.

Gli operatori della scuola uccisi nell’arco di quei 380 secondi sono: Scott Beigel, di 35 anni; Aaron Feis, di 37; Chris Hixon, 49enne. Il primo era un insegnante di geografia. Aaron Feis era un assistente coach della squadra di football e l’addetto alla sicurezza. Chris Hixon era il direttore atletico della scuola.

Diciassette vite portate via. Diciassette mondi finiti. I 14 ragazzi svanirono in sei minuti e venti secondi. Si fermarono i loro sogni, desideri, ambizioni, paure. Si troncarono i loro legami. Erano figli, sorelle o fratelli, nipoti, amici. Amavano qualcuno ed erano amati da qualcuno. Come i tre adulti ammazzati insieme a loro. Aaron Feis, che si era diplomato in quella stessa scuola e viveva lì vicino, a Coral Springs, aveva una moglie e una figlia. Chris Hixon era anch’egli sposato e aveva due figli. Scott Biegel aveva una fidanzata.

380 secondi di spari, di morte, di terrore e di… altruismo

Alle 14.21 del 14 febbraio 2018, nel giorno di San Valentino, il diciannovenne Nikolas Cruz, ex studente della scuola, quasi interamente vestito di nero, entrò nell’edificio della Marjory Stoneman Douglas High School. Verso le 14:40 gli studenti e gli insegnanti sentirono l’esplosione di colpi di arma da fuoco.

No, non sono petardi…“, disse Aaron Feis.

Venne attivato il “codice rosso”. Cruz, però, azionò l’allarme antincendio e indossò una maschera antigas. Nello zaino aveva portato delle granate fumogene. Quelle esplosioni erano i colpi sparati dal suo fucile d’assalto AR-15 calibro .223. Non aveva problemi di munizioni Nikolas Cruz, poiché aveva con sé diversi caricatori. Gli servivano per sparare sia agli  studenti che al personale scolastico, premurandosi, però, sembra, di selezionare le sue vittime, le quali erano tutte persone che egli conosceva bene. Aaron Feis fu centrato mentre faceva da scudo a due studenti. Il quindicenne sino-americano Peter Wang tenne aperta una porta per consentire ai suoi amici di scappare più velocemente. Fu l’ultima volta che lo videro vivo. Un’analoga condotta la ebbero due dei quattordicenni trucidati, Alaina Petty e Martin Duque. Anche Scott Beigel, l’insegnante di geografia, aprì un’aula chiusa a chiave per permettere a degli studenti di nascondervisiBeigel li spinse e li chiuse dentro per metterli a riparo dagli spari. Riuscì a salvarli, ma Cruz lo centrò.

Se non fosse per lui non starei parlando con voi adesso” disse a Good Morning America una delle sopravvissute, Kelsey Friend.

Subito dopo quei 380 secondi…

Subito dopo quei 380 secondi d’inferno, Cruz, abbandonata l’arma e cambiatosi i vestiti con quelli che aveva nello zaino, uscì dall’edificio, mescolandosi tra la folla in fuga disperata. Entrò in un magazzino della Walmart e dopo aver comprato in un fast food una bibita, andò da McDonald’s. Identificato grazie alle riprese delle telecamere di sicurezza della scuola, fu arrestato alle 15:40, a Coral Springs. Portato nell’ufficio dello sceriffo, ammise di essere l’autore del massacro. Nel frattempo il liceo brulicava ancora di giovani con le mani alzate che lasciavano gli edifici, scortati dalle forze dell’ordine. Queste erano intervenute in maniera massiccia, ma, tardiva. Intanto i genitori accorsi erano alla disperata ricerca di informazioni. Tenevano gli occhi incollati sugli schermi dei telefonini in attesa di un sms dai loro figli. Un video girato da uno studente con uno smartphone venne messo in onda dalla Cbs: si sentivano le urla di terrore di ragazzi e ragazze e dell’insegnante, tutti a terra, intenti a cercare riparo tra i banchi. Tra di essi si vide uno studente che giaceva immobile. Un altro ragazzo, appena scampato al fucile di Cruz, venne raggiunto telefonicamente dalla Cnn: disse che il suo professore di geografia era stato colpito, ma non sapeva se fosse morto. Lo era. Da Washington, il presidente Donald Trump, appena informato, twittava:

Nessun bambino, nessun insegnante o qualunque altra persona dovrebbe mai sentirsi insicuro in una scuola americana”.

Nikolas Cruz

Adottato all’età di due anni, Nikolas Jacob Cruz perse il padre adottivo quando era bambino (la madre adottiva è scomparsa, 68enne, tre mesi prima della strage). Alla Stoneman Douglas High School era stato un membro dei Junior Reserve Officers’ Training Corps e della squadra di tiro a segno con fucili ad aria compressa. A causa del suo comportamento violento i compagni provavano una certa inquietudine nei suoi riguardi. Poi, un giorno si era recato a scuola con uno zaino pieno di munizioni. Le aveva mostrate ad altri studenti terrorizzandoli. Quelli che non avevano paura di lui, lo prendevano in giro per i suoi modi goffi di rapportarsi agli altri e per la corporatura minuta. Per il preside, però, quelle munizioni nello zaino furono troppo. E lo fece inserire alla Cross Creek,  una scuola per ragazzi con difficoltà emotive e di apprendimento. Qui le cose andarono un po’ meglio. I suoi comportamenti violenti si ridussero quasi a zero. Tuttavia, iniziò a parlare sempre di più di una passione per le armi, per i combattimenti…

“Odio i negri

Nel 2016 Cruz, insistendo, riuscì a tornare alla Stoneman Douglas High School. Però, andava in giro con la scritta “odio i negri” con e delle svastiche stampate sullo zaino. Teneva sempre il cappuccio calato sul viso e sembrava parlare da solo. Il Florida Department of Children and Families iniziò a investigare su di lui nel settembre 2016, in seguito ad alcuni post su Snapchat in cui Cruz si faceva tagli sulle braccia e diceva di voler comprare un’arma. Emerse che Cruz soffriva di depressione, autismo, disturbo da deficit di attenzione e iperattività, ma che “era a basso rischio di fare del male a se stesso o agli altri“. Un’email dell’amministrazione scolastica, inviata agli insegnanti, comunque, ricordava che Cruz aveva minacciato degli altri studenti. La scuola proibì a Cruz di indossare uno zaino all’interno del campus. Alla fine fu nuovamente espulso.

Ciao. Mi chiamo Nick e sarò il prossimo school shooter

Sui suoi profili online c’erano foto in cui posava con lunghi coltelli, con un fucile a canna liscia, con una pistola e con una BB gun. La polizia affermò che Cruz condivideva posizioni “estremiste“. Sui suoi profili social si trovavano ingiurie razziste e islamofobe. Ferocemente antisemita, odiava gli immigrati e, secondo la CNN, pianificava di uccidere messicani, gay, neri e donne bianche che avevano una relazione con uomini neri. In ogni caso, la sintesi di ciò che si agitava nella sua mente fu Cruz stesso a proporla, riprendendosi con il proprio smartphone mentre diceva:

Ciao. Mi chiamo Nick e sarò il prossimo school shooter.
Oggi è il giorno. Il giorno in cui tutto ha inizio. Il giorno del mio massacro. Sarà un grande evento.
E quando mi vedrete al telegiornale, saprete chi sono. Tutti i bambini a scuola correranno, avranno paura e si nasconderanno dal potere della mia collera. Sapranno chi sono.
Non sono niente. Io non sono nessuno. La mia vita è nulla e senza senso. Tutto ciò a cui tengo, lo lascio andare.
Ogni giorno vedo il mondo finire in un altro giorno. Vivo nell’isolamento e nella solitudine. Odio tutti e tutto. Il potere del mio AR vi farà sapere chi sono.
Ne ho abbastanza di sentirmi dire cosa fare e quando farlo.
Ne ho abbastanza di sentirmi dire che sono un idiota, quando nella vita vera siete tutti degli idioti.
Tutti saprete il mio nome

In altri video pubblicati su YouTube diceva che voleva “morire combattendo e uccidendo un casino di persone“, che aveva intenzione di imitare il massacro, compiuto nel ’66 dalla torre dell’Università del Texas , dall’ex marine Charles Whitman.

“Never again”: mai più 380 secondi

Un mese e 10 giorni dopo quei sanguinosi 380 secondi, il 24 marzo, alla stessa ora, Emma Gonzales, una superstite della strage, prese la parola da un palco di Washington DC. Dopo avere elencato le vittime di Parkland, Emma restò in silenzio esattamente per 380 secondi. E la folla rispettò quel silenzio. Aveva davanti a sé una massa oceanica di persone. La March for Our Lives è stata, infatti, la più grande protesta guidata dai giovani dopo la guerra del Vietnam. La partecipazione stimata a Washington va dalle 200.000 alle 850.000 persone.

#neveragain

Emma Gonzales, Jaclyn Corin, Alex Wind, Cameron Kasky, David Hogg, tutti studenti della Stoneman Douglas High School, dopo la strage, in poco tempo avevano generato un fortissimo movimento di pressione, che si sviluppò nel movimento #neveragain (mai più). #neveragain richiedeva l’immediata introduzione di regole più stringenti per la vendita delle armi da fuoco. Per sostenere tale richiesta in pochi giorni si svolsero varie manifestazione, inclusa quella oceanica del 24 marzo a Washington.

Le denunce di Emma Gonzales sui legami tra la NRA e Donald Trump

L’iniziativa di Emma Gonzales, infatti, aveva acquisito immediatamente una notevole risonanza negli USA. Soprattutto grazie al fatto che già nei giorni di poco seguenti la strage di Parkland, la Gonzales non usò mezzi termini nel denunciare apertamente quel che era ed è ancora noto a tutti: i legami di numerosi politici statunitensi, e dello stesso Trump, con la National Rifle Association (NRA). Cioè, con la potentissima lobby delle armi degli Stati Uniti. A Trump, Emma Gonzales “ricordò” che la NRA gli aveva finanziato la campagna elettorale con donazioni di ben 30 milioni di dollari. Anche i media, quindi, diedero spazio alle iniziative di questi ragazzi, al punto che il Time dedicò loro una copertina. Nello stesso periodo, il Gun violence archive, un sito dove quasi in tempo reale vengono aggiornati i morti per colpa delle armi da fuoco negli USA, informava che dal 1° gennaio al 25 marzo 2018 vi erano state: 12.688 sparatorie; 3.257 morti; 5.689 feriti; 145 bambini uccisi o feriti (tra i 0 e gli 11 anni); 611 ragazzi uccisi o feriti (tra i 12 e i 17 anni); 50 stragi (con almeno 4 vittime tra feriti e morti). Del resto, gli Stati Uniti sono il Paese con la maggiore diffusione di armi tra i civili del Pianeta. In media, infatti, ci sono 88 armi ogni cento persone. Il secondo della lista è lo Yemen, dove, però, è in corso da anni una guerra civile e dove la diffusione delle armi è 54,8 ogni cento persone. Negli USA, tuttavia, non è la maggioranza degli abitanti ad avere armi. Il 78% della popolazione non ne possiede. Soltanto il 22 per cento degli adulti, in realtà, possiede ben trecento milioni di armi. In particolare, il 19 per cento ne ha il 50 per cento, mentre l’altro 50% è posseduto da appena il 3% per cento della popolazione. Come sappiamo, si tratta di una minoranza potentissima, in grado di condizionare (anche, e in primo luogo, economicamente) il mondo della politica.

Le reazioni alla March for Our Lives

Il Presidente Trump il giorno dopo la strage di Parkland aveva dichiarato che per prevenire questi massacri si devono armare gli insegnanti.  L’ex senatore repubblicano e candidato alla presidenza Rick Santorum, attaccò senza riguardi gli attivisti di Parkland e in un’intervista alla CNN affermò:

gli studenti dovrebbero imparare modi per rispondere a qualcuno che gli spara piuttosto che chiedere ai legislatori di risolvere il loro problema“. Inoltre, Santorum suggerì agli studenti di prendere lezioni di primo soccorso o BLS anziché perdere tempo a marciare a Washington.

Il Washington Post si prese la briga di rispondere ad una così macabra, grottesca e disumana assurdità, consultando diversi medici che, in risposta a Santorum, spiegarono l’inefficacia del primo soccorso o BLS sulle vittime di armi da fuoco, poiché tali pratiche non offrono rimedi utili per le perdite di sangue. Come facilmente prevedibile, il 21 marzo 2018, Grant Stinchfield, il presentatore della NRA TV, il canale televisivo della National Rifle Association, dichiarò:

 “March for Our Lives è sostenuta da radicali con una storia di minacce, linguaggio e azioni violenti“.

Altri attacchi tesi alla delegittimazione, attraverso insinuazioni e diffamazioni esplicite, alcuni la NRA li sferrò proprio mentre si stava svolgendo la marcia.

Un anno dopo si può osservare che ancora (per ora) ha “vinto”, anzi ha “stravinto”, la NRA. Non soltanto negli USA. E viene da chiedersi se i 17 morti della rapida strage (380 secondi appena!) di Parkland, i 59 morti del massacro compiuto a Las Vegas il 1°ottobre del 2017 (l’abbiamo ricordato qui), quelli della Columbine e tanti, troppi altri, riposino davvero in pace.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Alfio Maggiolini, Mauro Di Lorenzo (a cura di), Scelte estreme in adolescenza, Franco Angeli, Milano, 2018

www.it.wikipedia.org

www.ildolomiti.it/blog/massimiliano-pilati

www.rainews.it

1983, l’incendio del cinema Statuto a Torino

Torino, 13 febbraio 1983: il maggior disastro cittadino dal secondo dopoguerra inizia poco dopo le 18, in una domenica di freddo e neve, dentro un cinema di seconda visione dove si proietta per la tredicesima settimana il film “La capra”; forse per questo, forse per il clima, nonostante la capienza da 1200 posti solo un centinaio di spettatori o poco più si trova in sala.

I primi cronisti giungono sul posto circa un’ora dopo e raccontano l’aria che vibra alla luce blu dei lampeggianti, il fumo acre e oleoso, vigili del fuoco frenetici sotto le fotoelettriche, uomini dalle tute fosforescenti con l’autorespiratore sul volto che entrano ed escono portando in strada corpi inerti, anneriti dalla fuliggine, irriconoscibili: in molti hanno le braccia levate verso il cielo, un effetto fisiologico del calore che li fa apparire “impietriti in un disperato e inutile gesto di difesa”. Accanto al cinema c’è una grande rimessa dell’Avis, che viene trasformata in camera ardente: i morti dello Statuto sono 64, adagiati l’uno accanto all’altro sul pavimento di mattonelle rosse, nella luce livida dei neon.

I sopravvissuti riferiscono di aver udito un tonfo sordo: intorno alle 18:15, qualcosa – un cortocircuito, accerteranno gli inquirenti – innesca una fiammata, incendiando la tenda di un corridoio di accesso alla platea; il fuoco si propaga alle poltrone delle ultime file, tagliando un’importante via di fuga che, comunque, alcuni riescono a guadagnare. Gli spettatori si dirigono in massa verso le sei uscite di sicurezza laterali, trovandole tutte chiuse tranne una: una pratica frequente, all’epoca, per contrastare gli ingressi di spettatori non paganti; dall’esterno, i passanti cominciano a udire le urla e le richieste di aiuto.

Venuta a mancare l’illuminazione principale, non vengono accese le luci di sicurezza e la proiezione non è interrotta, con l’intento di contenere il panico. Di conseguenza, in galleria il pericolo viene percepito solo quando questa è invasa dal fumo; spaventati e in ritardo, alcuni spettatori si dirigono verso l’accesso di sinistra che dà sull’atrio, ma è troppo lontano e nessuno riesce a raggiungerlo: solo qui si conteranno quasi 40 morti; un’altra parte del pubblico della galleria si dirige nel corridoio di destra, che però porta agli angusti ambienti dei servizi igienici, senza via d’uscita. Altri spettatori vengono trovati morti ancora seduti in poltrona. Coppie di giovani sono trovate abbracciate, un ragazzino aggrappato alla madre, una bambina e suo padre con le mani nelle mani.

Comune a tutte le vittime, il viso annerito dal fumo tossico scatenato dall’incendio: il prof. Pier Luigi Baima Bollone, medico legale del Tribunale, rileva che

Pochi sono morti a causa del fuoco. A una prima valutazione, la maggior parte delle vittime è dovuta al fumo che li ha soffocati.

Il sostituto procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli parla di cadaveri “biscottati” a causa del calore e delle ustioni. L’imbottitura delle poltroncine, la moquette, i tendoni, i solai, le lampade: era tutto materiale altamente infiammabile e bruciando ha prodotto veleni capaci di uccidere. “Morte per enfisema polmonare fulminante”, si accerterà.

Ogni incendio distrugge le sue cause”, ma le perizie successive alla tragedia dimostrano, anche con simulazioni a cui partecipano gli stessi sopravvissuti, che le cause del rogo andavano oltre le responsabilità dei singoli: viene messo in dubbio l’intero sistema di leggi vigenti in materia di sicurezza su scala nazionale nei primi anni Ottanta, superficiale e male applicato. Le porte con maniglione antipanico erano poco diffuse e non ancora obbligatorie, al pari di altri sistemi di prevenzione quali i rilevatori antincendio; i locali erano generalmente dotati di impianti elettrici datati, non autoestinguenti e la certificazione sui rivestimenti dei sedili si limitava all’accertamento delle proprietà ignifughe, soprassedendo su altre possibili fonti di pericolo quali i fumi e le esalazioni tossiche.

Così era stato anche per il cinema Statuto, come ricorda l’ex-proprietario:

Avevo scelto soltanto il colore, il tessuto era lo stesso in quasi tutti i cinema italiani. Lo produceva un´azienda di Raul Gardini. Tessuto ignifugo autorizzato dallo Stato. Sull’etichetta c’era scritto: “Produce fumo”. […] Sprigionava acido cianidrico. In galleria sono morti nel giro di quaranta secondi.

Le vittime dell’incendio torinese sono morte in un luogo che, paradossalmente, sulla carta rispettava tutte le norme di sicurezza richieste all’epoca dalla legge:

Erano venuti in sette, circa un mese prima della tragedia. Sette ispettori con competenze specifiche diverse. Avevano guardato dappertutto. Non c’era una sola lampadina fulminata, niente fuori posto. Si erano complimentati. Nel rapporto non mi avevano fatto neanche una prescrizione.

Persino la circostanza della chiusura della maggior parte delle uscite d’emergenza non violava la normativa del 1983, la quale prescriveva, in modo generico, che queste fossero “apribili” senza tuttavia specificare come e da chi:

Apribile, in questa accezione, significa semplicemente che non devono essere “murate”. Anche una porta chiusa a chiave è “apribile”, basta avere la chiave…

riferirà un funzionario dei vigili del fuoco al quotidiano La Stampa.

Il dramma è l’inizio della battaglia per una coscienza civica: atti, processi, inchieste, domande, accuse, il cinema Statuto diventa caso nazionale e dimostrazione dell’inefficienza delle norme sicurezza nei locali pubblici. Ma non solo.

L’effetto Statuto colpisce la città e la penisola: gli anni che seguono l’incendio, gli anni del giro di vite, della chiusura di moltissimi locali, cinema, teatri, sale da ballo, mostrano un calo vertiginoso degli avventori, un’insicurezza e, allo stesso tempo, una paradossale insofferenza verso quel drastico e repentino interessamento alla sicurezza. E ci si accorge che anche i grandi teatri d’Italia avrebbero bisogno di modifiche strutturali, anche se la preoccupazione maggiore sembra quella di non stravolgere l’architettura in nome di una “ventata moralizzatrice”.

Mentre il governo e le amministrazioni comunali si danno da fare per mettere in sicurezza i locali, si svolge il processo per il disastro del cinema Statuto. Le indagini accertano la causa accidentale, anche se per qualche tempo si è ipotizzato che potesse esserci dietro un piromane, visti i precedenti incendi in altri tre cinema torinesi. L’iter giudiziario vede per la prima volta lo Stato risarcire le famiglie delle vittime. Il processo è rinviato due volte per permettere all’Avvocatura dello Stato di raggiungere un accordo con i congiunti delle vittime per il risarcimento.

In sede penale, degli 11 imputati 6 vengono condannati in primo grado per aver contribuito – ognuno con le proprie mancanze – all’omicidio colposo plurimo: il proprietario Raimondo Capella a otto anni (ridotti a 2 in appello, sentenza definitiva), il geometra responsabile della recente ristrutturazione Amos Donisotti a sette anni, sei anni al viceprefetto Antonio Di Giovine, cinque anni e sei mesi a uno dei tecnici della Commissione provinciale di vigilanza; condannati anche il tappezziere e l’operatore.

A carico dell’ex proprietario è inoltre posto il risarcimento dei familiari delle vittime che si erano costituiti parte civile, per una cifra totale di 3 miliardi di lire:

Ho svenduto tutto quello che avevo. Poi però gli avvocati avevano dovuto dividere i soldi fra le 250 parti civili. Quel calcolo è stato straziante. Sembrava il mercato del bestiame. Ricordo il parente di una vittima che ha preso un assegno da 5 milioni e mi ha sputato in faccia.

Finito sul lastrico, Capella lavora per tre anni come maschera in un altro cinema torinese, il Romano. Muore nel 2011, dopo aver trascorso gli ultimi anni della vecchiaia lontano da Torino, a Cisano sul Neva in Liguria: in una recente intervista ha raccontato di essere tormentato dai rimorsi, ripetendo quel che aveva detto fin dalle prime ore successive al rogo: “Sono la sessantacinquesima vittima dello Statuto”.

La catastrofe ha avuto una vasta eco emotiva in città, accentuata dal fatto che dal giorno dell’incendio il Cinema Statuto non riaprì più, rimanendo per anni un triste monito con la sua facciata annerita dalle fiamme, fin quando fu abbattuto per far posto a un condominio; tra i passanti e forse nei residenti non c’è neanche più il ricordo: le ultime macerie sono state portate vie una mattina di dicembre del ’96 e a rammentare il dramma c’è un’aiuola con una targa commemorativa in largo Cibrario. Niente che sembri riportare alla memoria una delle più grandi tragedie che abbia mai ferito il capoluogo piemontese.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “L’incendio del Cinema Statuto di Torino e la rivoluzione nella Prevenzione Incendi.”, http://antincendio-italia.it; P.G. Accornero, “Trentacinque anni fa la tragedia del cinema Statuto”, www.vocetempo.it; R. Rizzo, “Il dramma del Cinema Statuto, una domenica di dolore e morte” e G. Legato, “L’ex procuratore Caselli: “La tragedia del cinema Statuto ci ha cambiati”, www.lastampa.it; P. Durante e G. Galvagno,  “Statuto, la memoria perduta”, EnneCi Communication, Torino 2012; R. Quaranta, “L’incendio al cinema Statuto di Torino, 30 anni fa”, www.ilpost.it; N. Zancan, “Io e il rogo allo Statuto, dannazione senza fine”, https://torino.repubblica.it; R. Patruno, “Trentaquattro anni di carcere per il rogo del cinema Statuto”, https://ricerca.repubblica.it

Il naufragio più grave mai accaduto nel Mediterraneo

Settantasette anni fa si consumava un naufragio terribile, uno dei più disastrosi nella storia dell’umanità. Certamente il più grave naufragio accaduto nel Mediterraneo.

In quel naufragio di fronte allo straordinario promontorio ellenico di Capo Sunio, morirono più di 4.000 italiani. Però, per chi era al governo di una parte del nostro Paese, gli affogati nelle prime ore del 12 febbraio del 1944 non erano altro che dei traditori della patria, degli anti-italiani, e non meritavano alcuna pietà.

Quegli  oltre 4.000 italiani, infatti, erano passeggeri un po’ particolari. Non avevano scelto di fare quella traversata da Rodi al Pireo. Vi erano stati costretti. Stavano iniziando il loro viaggio verso i campi di prigionia nazisti.

C’era la guerra…

C‘era la guerra e 4.0oo morti per naufragio non potevano provocare nel mondo lo stesso effetto che produrrebbero oggi. Del resto, anche oggi la nazionalità delle vittime conta parecchio rispetto alla risonanza delle notizie. In ogni caso, in quel 12 febbraio del 1944, in Italia e nel resto d’Europa le persone crepavano come le mosche. Incalcolabile era il computo quotidiano dei morti militari e civili, per via della spaventosa carneficina bellica in corso da più di quattro anni. Inoltre c’erano le persone che non morivano sul campo di battaglia o sotto i bombardamenti, ma che venivano liquidate nella realizzazione dei programmi nazisti di sterminio, nei lager e altrove.

Ma non fu soltanto la spaventosa contabilità quotidiana dei lutti ad oscurare allora, e a relegare in un angolo semibuio nei decenni seguenti, il naufragio del piroscafo Oria. Un generale senso di imbarazzo, di vergogna, per la condotta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale ha contribuito non poco a far scendere l’oblio su un’infinità di fatti. Tra le cose rimosse, nel nostro Paese, ad esempio, ci sono anche i 620 mila morti greci, di cui 360 mila deceduti per fame, provocati dall’occupazione fascista.

Pigiati come sardine

L’Oria, costruito nel 1920 nei cantieri Osbourne, Graham & Co di Sunderland, era un piroscafo da carico norvegese, della stazza di 2127 tsl, requisito dai tedeschi e impiegato per trasferire i soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre del ’43. A bordo, oltre a 90 tedeschi di guardia o di passaggio, all’equipaggio norvegese e ad un carico di bidoni di olio minerale e di gomme da camion, erano stati stipati oltre 4000 militari italiani catturati. Troppi per quel piroscafo. Così lo ricordava Aldo Percivale, un genovese di 22 anni, sopravvissuto al naufragio.

Di bocca in bocca avevamo saputo che il piroscafo era norvegese: era conciato talmente male che a salire là sopra bisognava proprio esserci costretti. Ci guardavamo attorno e ci chiedevamo come avrebbero potuto caricarci tutti, ma i tedeschi continuavano a farci salire, e nel frattempo caricavano barili e un sacco di altra roba.. A un certo punto nella fila che mi scorreva a fianco ho riconosciuto un certo Rizzo ( l’esattezza di questo cognome non è certa) originario delle mie parti, anche se non proprio del mio paese. L’ho chiamato. Lui mi ha riconosciuto a sua volta e subito mi ha fatto segno di passare nella sua fila per stare insieme, che tanto ormai la nostra appartenenza a questo o a quel reggimento non aveva più importanza. Io ci ho pensato un attimo, poi gli ho risposto di no: avevo deciso di rimanere lì dove mi avevano messo qualunque fosse stato il mio destino. La mia fila è stata fatta salire sul ponte della nave, l’altra fila letteralmente cacciata nelle stive. Li hanno chiusi là sotto come topi in gabbia. Noi almeno potevamo respirare. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei poveretti là sotto. Forza ragazzi, forza, ripetevo: a me, a loro, e a tutti quelli che avevo vicino“.

Anche Silvano Lippi era tra quelli fatti salire a bordo del piroscafo Oria, ma prima della partenza insieme ad altri venne trascinato fuori, perché i tedeschi si erano infine resi conto che con quel sovraccarico il piroscafo rischiava fare naufragio già nel porto. Stipato su un altro piroscafo, Lippi così ricorda “le operazioni di carico”:

Io feci di tutto, resistendo ai colpi dei calci dei fucili nella schiena, pur di salire fra gli ultimi e così fu. Non so quante ore sono stato aggrappato al boccaporto pur ti tirarmi su da quella calca inimmaginabile di persone che avevo sotto di me, perché eravamo a strati e i primi entrati facevano la fine peggiore. Quella di morire soffocati e,infatti, io sentivo un gran gridare sotto di me ed allo stesso tempo mi sembrava che le mia gambe prendessero fuoco… Quei poveretti cercavano disperatamente di aggrapparsi alle mie gambe per tirarsi un po’ su e respirare, come facevano con altri che erano nella mia stessa posizione. Una volta sbarcati al Pireo mi accorsi che avevo le gambe scarnificate dai graffi e tanti di quei poveretti erano morti soffocati durante la traversata. Se ci penso mi viene da piangere anche ora che sono passati quasi 70 anni”.

Da alleati, poco rispettati, dei tedeschi ad alleati, poco apprezzati, degli anglo-americani

Con l’armistizio annunciato l’8 settembre del 1943, dal maresciallo Pietro Badoglio, che dopo 21 anni di dittatura fascista, il Re aveva nominato capo del Governo al posto di Mussolini, gli italiani passavano dalla condizione di alleati poco rispettati e appena sopportati del Terzo Reich a quella di alleati poco apprezzati degli angolo-americani e di nemici disprezzati e odiati delle truppe naziste. E questo, improvviso e improvvisato, cambio di fronte, così cialtronescamente gestito, costò subito carissimo a tante migliaia di persone (ne abbiamo dato conto in diversi post su questa rubricaquiqui , qui e qui). Incluse coloro che, indossando l’uniforme, in Italia come nei territori occupati, furono indisponibili a schierarsi con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica Sociale Italiana (della RSI abbiamo ricordato qui la costituzione). Tra questi sventurati vi furono anche coloro che presero parte alla fallimentare Campagna del Dodecanneso: cioè, a quel disperato tentativo delle truppe italo-anglo-greche, stanziate nel Dodecanneso, allora territorio italiano, e nella vicina isola di Samo, di resistere all’occupazione delle truppe tedesche, combattendo anche aspramente (sulle isole di Lero, Rodi e Cos).

Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori

Quei 4000 italiani morti nel naufragio dell’Oria, infatti, erano tra le decine di migliaia di soldati italiani che, spediti all’inizio della guerra da Mussolini sulle Isole del Dodecanneso, si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’Armistizio del ’43. Così riassunse efficacemente la situazione degli italiani, Percivale:

Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori. Meritavamo di essere trattati nel peggior modo possibile, e se stavamo ammassati, schiacciati uno contro l’altro, senza mangiare né bere, ancora grazie, che invece avrebbero dovuto fucilarci tutti. Questo era quello che ci dicevano i nostri ex-alleati, e per loro ogni angheria nei nostri confronti era giustificata“.

Il naufragio

Il piroscafo, scortato dalle torpediniere TA 16TA 17 e TA 19, salpò alle 17,40 dell’11 febbraio, sebbene il comandante Rasmussen fosse contrario ad intraprendere la navigazione.

Il siluramento del piroscafo Petrella

Era giustamente preoccupato, Rasmussen. Oltre alle pessime condizioni meteorologiche, a sconsigliare il viaggio vi erano anche altri fatti. Si era appena avuta notizia che pochi giorni prima, a Creta, nella baia di Suda, il piroscafo Petrella era stato affondato dal sommergibile HMS Sportsman. Il sommergibile britannico aveva silurato un’imbarcazione nemica, ma la sua azione aveva tolto la vita a oltre 2.500 nuovi alleati della Gran Bretagna. Erano militari italiani catturati dai tedeschi quelli che il Petrella stava trasportando (ce n’erano circa 4000 a bordo). I tedeschi, tuttavia, se ne infischiarono delle preoccupazioni di Rasmussen e imposero la partenza.

La tempesta

I deportati dell’Oria, però, non persero la vita a causa dei siluri britannici, ma per il sovraccarico e per le condizioni del mare.

Quando il piroscafo si è mosso era quasi buio”, ricordò Percivale. “Faceva freddo e il mare era piuttosto agitato: noi stavamo là in mezzo alle onde, senza poterci muovere, incastrati, un po’ a farci coraggio, un po’ muti nella nostra disperazione. C’era chi stava male, e nessuno poteva far niente per nessuno. Poi nella notte si è scatenata la tempesta; vento e pioggia fortissimi hanno investito il piroscafo che ha iniziato a imbarcare acqua. Sembrava il diluvio. Io credo che tutti, proprio tutti avessimo la certezza che stavamo affondando”.

Per i 43 ufficiali, 118 sottufficiali e 3885 soldati italiani quel rollio doveva essere una vera tortura, schiacciati l’uno contro l’altro com’erano.

“Arrivati al largo del porto”, disse Pietro Sordi, un altro dei sopravvissuti, “la nave cominciò a fare l’altalena e lì dov’ero io in stiva, uno rigettava sulle ginocchia del compagno, l’altro sulla spalla, il terzo sbuffava sulla faccia del compagno. Tutta la nave era piena di singhiozzi, di lamenti di dolore. 

L’incidente

A sole venticinque miglia dalla sua destinazione, l’Oria s’incagliò nei bassi fondali prospicienti l’isola di Patroklos, di fronte a Capo Sunio. “Poi c’è stato il boato dello schianto, il rumore del mare, le grida e l’acqua che mi entrava in gola. Per un po’ ho cercato di nuotare, ma verso dove?“, ricordò Percivale.

Le pessime condizioni meteorologiche ostacolarono seriamente i soccorritori greci del luogo. Che riuscirono ad essere di aiuto soltanto il giorno dopo. Vennero salvati 37 italiani, 6 tedeschi, 1 greco, 5 uomini dell’equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.

“Si doveva dare l’idea che essi fossero morti per difendere il fascismo”

I cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale vennero sepolti in fosse comuni. Giulio Antonacci, era tra quelli in coda per imbarcarsi sull’Oria che all’ultimo non furono caricati, per l’evidente sovraccarico del piroscafo. Portato ad Atene, fu adibito a scavare la fossa comune dove interrare i corpi portati a riva dal mare.

Terminata la fossa comune, venne fatta mettere su di essa una cornice di sassi a forma di stemma fascista, vennero piantati dei fiori di campo e fu fatto scrivere (sempre coi sassi) DUX, in quanto si doveva dare l’idea che essi fossero morti per difendere il fascismo; ma la realtà era ben diversa: erano morti per sfuggire al fascismo, infatti tutti i passeggeri erano considerati Badogliani, sovversivi per non aver aderito alla Repubblica di Salò“.

Il monumento, la commemorazione e quel sommozzatore greco

Il 12 febbraio del 2014 è stato inaugurato nei pressi di Capo Sunio, un monumento per esaudire il desiderio della “Rete dei familiari dei dispersi nel naufragio del piroscafo Oria“. Da allora, ogni anno si è svolta, con il sostegno delle autorità locali e di quelle diplomatiche italiane, una cerimonia di commemorazione, alla presenza di autorità civili e religiose e di delegazioni delle rappresentanze diplomatiche straniere. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 6 settembre del 2017 visitò il monumento. E quell’anno conferì a Aristotelis Zervoudis una delle più elevate onorificenze che possa essere concessa dalla Stato Italiano ad un cittadino straniero. Il signor Zervoudis, infatti, nel 1999 aveva individuato la posizione di quanto restava del relitto dell’Oria e aveva poi svolto delle spedizioni ad hoc.

Furono diverse le carrette del mare, cioè navi commerciali non adatte al trasporto di “passeggeri”, che vennero stipate di prigionieri italiani oltre ogni limite consentito, in spregio a qualsiasi norma di sicurezza. Non poche di queste navi furono affondate dagli Alleati, altre fecero naufragio per incidente. Furono circa 15000 i soldati italiani che affogarono per non aver voluto schierarsi con i nazifascisti.

Io non dimenticherò mai quell’uomo per quello che ha fatto per noi, e gli sarò riconoscente per sempre

“Galleggiava di tutto, e io mi sentivo pesante come se avessi avuto le tasche piene di pietre. La forza del mare era troppo per me, non ce l’avrei mai fatta. All’improvviso, quando ero sul punto di arrendermi, mi sono reso conto che con i piedi avevo toccato terra. Mi sono trascinato a riva e lì ho capito che non ero solo: c’era un altro soldato vivo, vicino a me. Ci siamo tirati su, ci siamo abbracciati, poi abbiamo cominciato a camminare insieme, cercando una direzione da prendere nel buio più totale. Quando ho sentito una mano afferrarmi per un braccio ho pensato “ecco, ci hanno già preso”, invece era un greco […] Ci ha portati in una abitazione, dentro a una grande stanza con un fuoco acceso, e attorno al fuoco ho visto una decina di altri scampati al mare, nudi, che si asciugavano come potevano. A tutti il greco ha dato da bere del vino resinato e qualcosa da mangiare. Io non dimenticherò mai quell’uomo per quello che ha fatto per noi, e gli sarò riconoscente per sempre. […]. Il giorno dopo sono arrivati i tedeschi e ci hanno ripreso in consegna. […]. In seguito, sempre prigioniero dei tedeschi, ho rischiato più volte di essere fucilato, ho subito umiliazioni di ogni tipo, ho patito la fame di continuo, giorno e notte, ho mangiato qualsiasi cosa e gli altri come me. Sono riuscito a scappare, ho camminato per giorni interi, poi mi hanno ripreso e riportato indietro. Quando finalmente sono ritornato a casa, il giorno seguente mi sono immediatamente recato dalla famiglia di Rizzo per dire quello che sapevo, e cioè che il loro figlio era finito nelle stive di quella maledetta nave e se non fosse più tornato era perché non ce l’aveva fatta” (Aldo Percivale).

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

www.it.wikipedia.org

www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2018/02/15/38/sg/pdf

www.piroscafooria.it

 

Mandela viene rilasciato dopo 27 anni

Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l’apartheid!

Un terzo della propria vita passato in carcere, ma non perse mai la forza. Né quella di sopravvivere, né quella di incitare il proprio popolo a riscattarsi dalle terribili condizioni imposte. Le parole che aprono l’articolo di oggi, infatti, le scrisse nel 1980, quando era ancora nel carcere di Robben Island.

Madiba fu incarcerato il 12 giugno 1964, poiché ritenuto colpevole di sabotaggio e alto tradimento (cioè di aver cospirato per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica), e, per questo, condannato all’ergastolo. L’isola di fronte a Città del Capo non fu certo accogliente: celle minuscole, visite rare e brevi (a Mandela ne veniva concessa una ogni sei mesi), cibo scarso, pessimo, sempre uguale; il lavoro forzato era tanto estenuante quanto degradante (spaccare pietre nel cortile, scavare in una cava di calce o raccogliere alghe fra gli scogli).

Nondimeno, il penitenziario era conosciuto fra i militanti antiapartheid come ‘L’università‘: lo stesso Mandela si laureò in giurisprudenza tramite un ateneo londinese. Non gli fu tuttavia concesso di recarsi al funerale della madre, morta nel 1968, né a quello del figlio Thembi, deceduto in un incidente stradale l’anno seguente.

Nel 1982 Madiba fu trasferito nel carcere di Pollsmoor, sulla terraferma, a sud-est della capitale. Qui le condizioni erano più umane, tanto che gli fu concesso di riabbracciare la moglie Winnie, cosa che non faceva da 21 anni. Il penitenziario fu anche teatro dell’inizio della negoziazione tra gli schieramenti politici: nel 1985, il presidente Botha offrì la libertà al detenuto, che non accettò il compresso propostogli. In quegli anni subì anche un’operazione alla prostata e un ricovero per tubercolosi.

L’ultimo periodo di carcerazione fu più agevole dei precedenti: lo stesso Mandela chiamava il cottage, dove era stato trasferito alla fine del 1988, “la gabbia dorata“, che rende bene la pesante contraddizione in cui era costretto. Il negoziato che portò alla pace ebbe luogo proprio in quella gabbia.

La liberazione definitiva avvenne, appunto, l’undici febbraio 1990, ventisei anni dopo la condanna. Ventisei anni dopo aver pronunciato queste parole:

Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo paese… non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e che i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa corte sono i membri del governo.

Alessio Gaggero

Giorno del ricordo (Foibe): il dolore, la memoria, le rimozioni

Nulla è più pertinace della memoria dei Vinti.
(Paolo Rumiz)

Le foibe: un sostantivo che, al di qua del Tagliamento, ha forse solo il valore di un termine scientifico (dal latino fovea, fossa, anfratto, voragine naturale del terreno carsico, cavità imbutiforme che sprofonda in verticale per decine di metri, talvolta con salti di centinaia), mentre al di là dell’Isonzo ne ha certamente un altro, anche simbolico. Con esso si designano gli “infoibamenti”, ma anche le deportazioni, le carceri, i campi di concentramento jugoslavi, così come tutti i luoghi di occultamento di soldati uccisi in combattimento, di vittime di esecuzioni sommarie, di vendette personali, di atti di criminalità comune. Foibe come violenza indiscriminata, come massacro che unì nello stesso destino collaborazionisti e innocenti.

Distinguere, invece, è il compito degli storici, anche con il difficile lavoro di “quantificazione”, che può sembrare macabro, ed è invece segno di serietà e umanità dolente. Il dibattito, dentro e fuori i confini nazionali, ha spesso esasperato i calcoli, le cifre sono state talvolta sparate alla cieca, e le chiavi di lettura proposte hanno ricalcato contrapposizioni ideologiche o esigenze di realpolitik, dimenticando o manipolando le sofferenze reali delle persone in carne e ossa a vario titolo coinvolte nella vicenda.

Dal 1945 ai nostri giorni, s’è consolidato il giudizio che le foibe abbiano costituito l’esecuzione di un consapevole progetto di sterminio della nazione italiana nella Venezia Giulia, elaborato dallo sciovinismo balcanico e manovrato da comunisti. Al di là dei connotati ideologici e politici originari, la tesi del “genocidio nazionale” è fondata sull’esperienza psicologica e morale di molta parte degli esuli e delle loro organizzazioni più legate al sentimento di nazionalità italiana dei giuliano-dalmati.

Al polo interpretativo opposto, la pretesa di “negare la strage”. Dal dicembre 1945 fino agli anni Ottanta, il motivo dominante fu quello di considerare tutte le vittime italiane come fascisti, caduti o scomparsi in combattimento a fianco dei tedeschi, o criminali di guerra. In realtà, la “caccia al fascista” si esercitò anche nei confronti di antifascisti non comunisti, che avversarono il nuovo regime jugoslavo assai più dei fascisti sconfitti.

A partire dalla fine degli anni Ottanta una serie di studi hanno evidenziato un nesso tra gli eccidi del ‘45 e la presa del potere in Jugoslavia da parte di un movimento rivoluzionario a guida comunista, protagonista di una guerra che non fu solo di liberazione, ma anche una guerra civile trascinatasi, in termini di scontri armati e uccisioni, fino al ‘46: c.d. ipotesi “dell’epurazione preventiva”, inserita in un ampio progetto di rivalsa nazionale, affermazione ideologica e riscatto sociale.

A partire dagli anni Settanta, altri studi hanno iniziato a muovere verso una storicizzazione del fenomeno, collocando gli eccidi del ‘43 e ‘45 all’interno del periodo iniziato nei primi anni Venti con la politica di italianizzazione fascista nei confronti degli allogeni, proseguita con l’aggressione italiana contro la Jugoslavia e culminata con la repressione jugoslava.

Dall’esame dei fatti storici emergono una serie di elementi antecedenti non trascurabili: la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra, causata dall’imporsi del concetto di Stato nazionale nell’area; gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all’uno o all’altro ambito nazionale; un’intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra il Regno d’Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, con conseguenti tensioni etniche e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra; il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia durante il ventennio fascista; l’occupazione militare italiana, durante la seconda guerra mondiale, di diverse zone della Jugoslavia e i conseguenti crimini di guerra anche contro la popolazione civile; la convinzione, diffusa fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione avesse carattere non solo nazionale, ma anche sociale, con la popolazione italiana percepita anche come “classe dominante” contro cui lottare; la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista jugoslavo.

Altrettanto complessa e drammatica è la questione del cosiddetto “esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italofona, che viene spesso presentato come conseguenza necessitata di un tentativo di genocidio nei confronti degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto.

Si trattò di uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi discriminanti verso gli italiani da parte di alcune autorità locali, ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche. L’esodo è avvenuto in un arco temporale molto ampio (la data limite “ufficiale” è il 1958): per capire contesti e motivazioni andrebbero approfondite le singole ondate. Appare semplicistico ridurre tutto a una “partenza degli italiani per rimanere italiani”, tanto quanto la spiegazione da parte jugoslava secondo cui quelli che se ne n’erano andati erano tutti fascisti ovvero “sfruttatori del popolo”.

La legge italiana che nel 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo” allude alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata italocentrica che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. L’inquadratura si concentra sugli episodi di violenza chiamati – per metonimia – “foibe” e sull‘“esodo”. Nel discorso pubblico italiano, infatti, dagli anni Novanta e seguendo una precisa agenda politica, i due argomenti sono stati collegati in modo sempre più stretto e frequente, fino a sovrapporsi. Il Giorno del ricordo ha dato a tale sovrapposizione il crisma dell’ufficialità e oggi le foibe sono presentate come causa immediata dell’esodo.

A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia. I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani – stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola – sono un enorme non detto. La ricostruzione storica del sistema concentrazionario fascista, la relativa mappatura geografica e la riappropriazione di quel retaggio da parte della comunità nazionale in parte restano ancora incompiuti.

La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano, condizionando tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza “jugoslava” presero parte numerosi italiani: l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale. Mettendo da parte una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali indiscutibili, alimenta rancore e revanscismo, il “confine orientale” si rivela un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati.

La questione dei confini orientali ha continuato a operare sul piano culturale e simbolico per tutti gli anni Duemila. In assenza di nuove ricerche di grande impatto, e dunque in un circuito per lo più parallelo rispetto a quello del dibattito e della ricerca storiografica, l’interpretazione oggi maggioritaria di quegli eventi, confluita nella legge istitutiva della commemorazione odierna, secondo alcuni, “allude a un processo di revisionismo storico che cambia la natura dello Stato e della Costituzione antifascista” e finisce per consolidare una lettura sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale.

Il 10 febbraio è l’anniversario della ratifica del trattato di Parigi con cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica stabilirono le condizioni per la fine delle ostilità con l’Italia. La scelta di tale data da un lato suggerisce un nesso causale tra la pace imposta dalle potenze cui l’Italia aveva dichiarato guerra e gli eventi luttuosi che la festività si propone di commemorare, dall’altro fa sì che le foibe e l’esodo siano ricordati esattamente due settimane dopo la Giornata della memoria della shoah. Lo storico Franco Cardini ricorda che

Si pervenne in Italia alla definizione della “Giornata del Ricordo” per certi versi quasi in emulazione e in opposizione, anziché in complementarità come sarebbe stato giusto: come se la memoria dei morti nei campi di sterminio nazisti potesse in qualche modo essere imbarazzante o sgradita a certe aree del mondo politico e dell’opinione pubblica, per cui si dovesse procedere a un riequilibrio attraverso il ricordo dei massacrati nelle voragini carsiche da parte dei partigiani comunisti sloveno-croati; e come se l’ossequio agli uni potesse in qualche modo risultar poco compatibile con l’ossequio agli altri.

È opinione di molti studiosi che, nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004), l’omissione del contesto storico e perfino del termine “fascismo” non aiutino gli italiani di oggi a “fare memoria”, a comprendere e ricordare, anche, le sofferenze cagionate al nostro e ad altri popoli dalla dittatura fascista, col rischio di “legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)”.

Storici e commentatori “non allineati” evidenziano la necessità di ripartire con una seria analisi di un fenomeno tanto complesso, realizzando nuove ricerche e avvalendosi della documentazione esistente (tra cui la Relazione presentata nel 2000 dalla Commissione italo-slovena, mai circolata in Italia), per ristabilire almeno dati fattuali corretti, per esempio circa il numero di vittime e profughi, tuttora oggetto di fluttuazioni imbarazzanti a seconda del relatore.

Stante la difficoltà di creare una memoria condivisa in merito a situazioni di violenze estreme e di lunga durata, una prima forma di mediazione potrebbe davvero essere il riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o cercare ad ogni costo una forse impossibile pacificazione.

Silvia Boverini

Fonti:
F. Cardini, “Sul giorno della memoria e su quello del ricordo. Ovvero della “smemoratezza gestita” e delle sue implicazioni”, 7/2/2012; E. Collotti, “Nelle foibe la falsa innocenza della patria”, in il manifesto, 14/2/2004; P. Rumiz, “Foibe e Risiera, la strana ”simmetria” per pacificare la memoria sugli ex confini”, https://ilpiccolo.gelocal.it; A. Brusa, “Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica. Strumenti per la didattica”, www.historialudens.it; https://it.wikipedia.org; G. Paladini, “Foibe: una pagina di storia nazionale”, www.storiaxxisecolo.it; Nicoletta Bourbaki – gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico, “La storia intorno alle foibe”, www.internazionale.it