1986: omicidio del premier svedese Olof Palme

Venerdì 28 febbraio 1986, Stoccolma: Olof Palme e la moglie Lisbet sono usciti da alcuni minuti dal cinema Grand. Il primo ministro è senza scorta. Ha ripetuto in più occasioni di sentirsi tranquillo “in un paese tollerante e democratico come la Svezia”. Sono passate da poco le 23, è una notte fredda e buia. Un uomo si rivolge d’improvviso, imprecando, al primo ministro e spara alcuni colpi di pistola. Il premier muore poco dopo. Con lui muore la stagione più fertile della socialdemocrazia europea.

L’omicidio di Olof Palme è il più grave trauma collettivo vissuto della Svezia moderna. Un paese neutrale da due secoli, con uno scenario sociale decisamente meno conflittuale in confronto alla maggioranza degli stati europei del periodo, si trova a fare i conti con l’assassinio del proprio primo ministro e leader del partito di maggioranza. A tutto ciò si aggiunge la mancanza di un colpevole: l’assassino è difatti fuggito senza essere riconosciuto. Ai funerali del 15 marzo seguente partecipano i principali leader d’Europa e delegazioni da ogni parte del mondo.

Il primo sospettato, un criminale tossicodipendente di nome Christer Pettersson, viene assolto in secondo grado per mancanza di prove. Le voci riguardo una sua confessione, sia prima che dopo la morte dell’uomo nel 2004, non sono state considerate attendibili, così come i 134 mitomani che, nel corso delle indagini, si sono dichiarati colpevoli a sproposito. L’omicidio è rimasto avvolto da un alone di mistero, l’arma del delitto non è stata ritrovata e sono state avanzate le più diverse ipotesi riguardo alle responsabilità e al movente: dall’estremismo politico di stampo neofascista con coinvolgimento di strutture segrete “stay behind” svedesi o della CIA o della P2, all’omicidio su commissione del governo sudafricano per il supporto di Palme alla causa dell’African National Congress contro l’apartheid, fino al delitto voluto dagli Stati Uniti, al terrorismo, a motivi politici ed economici, e al suo ruolo mondiale come inviato di pace delle Nazioni Unite; sono anche stati ipotizzati possibili motivi personali, o il gesto di uno squilibrato solitario.

Il colpevole ancora oggi non si conosce, ma si possono identificare alcuni dei motivi che potrebbero aver indotto l’omicidio, tracciando un breve profilo di Palme. Nato nel 1927 da una ricca famiglia aristocratica, orfano di padre, già da bambino parla svedese, tedesco, francese e russo. Ottenuta la maturità in un rinomato istituto privato, presta servizio militare e inizia gli studi in legge all’Università di Stoccolma, dove comincia il suo attivismo politico. Una serie di viaggi negli Stati Uniti, in Messico e in Asia plasma ulteriormente il suo profilo umano e politico, portandolo a elaborare riflessioni e convinzioni sulla povertà e le disuguaglianze sociali che lo accompagneranno per tutto il suo percorso. I viaggi nell’Est Europa, in particolare, lo spingeranno ad allontanarsi sempre più dal comunismo sovietico, di cui contesterà in varie occasioni i metodi repressivi.

A poco più di vent’anni Palme ha già acquisito un’importante esperienza del mondo. Le sue doti di comunicatore e la sua conoscenza delle dinamiche socioeconomiche globali lo portano a essere notato da Tage Erlander, storico leader socialdemocratico, con cui si crea un rapporto di amicizia e una duratura sintonia politica.

In Svezia la tradizione socialdemocratica, ininterrottamente al governo per oltre sessant’anni, ha costruito dagli anni Trenta una forma avanzata di welfare che tutela i singoli e offre loro eguali opportunità. Piena occupazione, assistenza sanitaria, istruzione di massa, diffuso sistema pensionistico sono i cardini di un sistema sociale imperniato sulla centralità del Partito socialdemocratico e sul suo strettissimo rapporto con il movimento sindacale.

Il compromesso socialdemocratico è stato il frutto della necessità di uscire dalla profonda recessione degli anni Trenta. La crisi del ‘29 era una crisi del modello liberista, una crisi da disuguaglianze e da deregolamentazione dei movimenti finanziari. La risposta sono state le politiche keynesiane che hanno favorito la crescita e la tendenza a una maggiore equità distributiva: la spesa pubblica, la creazione di nuova occupazione, l’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori sono il risultato di una politica in grado di coniugare sviluppo e integrazione sociale. Il sistema svedese è stato in grado di garantire un sistema di welfare universalistico, in cui vengono forniti servizi indiscriminatamente a tutti i cittadini, non solamente assistenza ai bisognosi o servizi selettivi. Il tema del welfare è inserito in una visione complessiva della politica, della società e dell’economia.

Quando Palme viene eletto presidente del Partito Socialdemocratico e Primo Ministro, nel ‘69, il sua primo governo si caratterizza per l’accentuazione del carattere egualitario della politica fiscale. La pressione fiscale complessiva già prima incideva fino al 64% del reddito; tuttavia i redditi più alti pagano una percentuale di imposte proporzionale rispetto ai redditi più bassi, anche a fini di ridistribuzione del reddito, i livelli di corruzione sono molto bassi e la rete di welfare risulta molto efficiente. Palme sostiene il “piano Meidner”, che prevede il graduale trasferimento a fondi gestiti dai sindacati di sempre maggiori quote del capitale azionario delle grosse imprese, con partecipazione agli utili e azionariato popolare tra dipendenti su spinta dello Stato. Tuttavia non riuscirà a essere messo completamente in pratica, né la Svezia adotterà una totale economia pianificata di tipo collettivista o mista.

Ben presto, Palme è bersaglio di aggressive polemiche e campagne d’opinione a causa del suo presunto estremismo da parte della destra e del suo moderatismo da parte della nuova sinistra. Intorno alla metà degli anni Settanta, s’inceppa il meccanismo virtuoso di crescita stabile e sostenuta: la spesa pubblica elevata e gli alti contributi dei datori di lavoro privati ai fondi pensione producono inflazione; alcuni settori tradizionalmente forti dell’economia sono colpiti dalle conseguenze della crisi del petrolio. Questo porta alla vittoria dei conservatori alle elezioni del ‘76, i quali tuttavia non mettono realmente in discussione i tratti generali del sistema; nell’82, dopo la nuova vittoria socialdemocratica, Palme torna premier.

Si rende conto dei cambiamenti in atto, coglie il pericolo di una crisi di lunga durata del capitalismo, di forti correnti reazionarie scatenate dalla recessione degli anni Settanta, di un’offensiva neoliberista sul piano ideologico e pratico. Infatti, dice profeticamente Palme nel 197:

Il rischio è che il capitalismo, trovandosi sulla difensiva, diventi duro, brutale e repressivo, finendo così per diventare pericoloso.

Di fronte alla crescente aggressività del capitalismo vede la necessità di una gestione programmata dell’economia, di un progresso verso uno stadio più avanzato della democrazia, la democrazia economica, che nella sua concezione rappresenta il seguito e il complemento della democrazia sociale, che costituisce a sua volta il prolungamento della democrazia politica:

Non esiste un ‘noi e loro’, solo ‘noi’. La solidarietà è e deve essere indivisibile.

Palme è cosciente di problemi che col tempo si riveleranno ben più pressanti e propone soluzioni adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dalle tematiche ambientalistiche: la crescita si deve concentrare nel sociale, nell’ambiente, nella formazione, nella tecnologia.

L’aspetto innovatore della leadership politica di Palme è la grande attenzione alla politica estera, intesa non solo come difesa degli interessi svedesi ma anche come lotta per i diritti e l’uguaglianza a livello globale. Il “neutralismo attivo” della Svezia di Palme fonde elementi classici della politica estera svedese con l’idea di socialismo europeo e internazionale: pur cercando di rimanere al di fuori delle dinamiche della guerra fredda, evitando l’adesione sia alla NATO che al Patto di Varsavia, Palme non manca di far sentire la propria voce in ambito internazionale, specialmente riguardo ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo e alla necessità di un disarmo nucleare concordato.

Critica le operazioni americane in Vietnam, paragonando i bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti, una dichiarazione che porta alla crisi diplomatica e spinge il governo USA a ritirare il suo ambasciatore in Svezia. Non meno dura è la posizione nei confronti dell’Unione Sovietica: attacca la repressione della Primavera di Praga nel ‘68 e l’invasione dell’Afghanistan nel ‘79. Condanna il regime di Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. Difensore dell’anti-colonialismo, finanzia l’African National Congress di Nelson Mandela e l’OLP di Yasser Arafat. È il primo leader occidentale a visitare Cuba nel ‘75. I suoi rapporti divengono critici anche con Israele dopo i massacri di Sabra e Shatila dell’82.

Interagisce con le Nazioni Unite per il rispetto internazionale dei diritti umani, e non si sarebbe esclusa una sua candidatura come segretario. Ricopre il ruolo di mediatore internazionale nella guerra fra Iraq e Iran, nel 1980. La sua caratura politica gli garantisce inoltre un importante ruolo all’interno dell’Internazionale socialista, in anni in cui la socialdemocrazia europea viveva grandi sviluppi – erano infatti gli anni di Brandt, Kreisky e del rafforzamento dei socialisti nell’Europa meridionale.

Un leader di un Paese con poco più di 8 milioni di abitanti in grado di avere un’ampia veduta del mondo, forse un utopista con una buona dose di concretezza:

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Io sono un socialdemocratico svedese, un socialista democratico europeo. Noi ci pensiamo come un movimento di liberazione. […] Come socialdemocratici non abbiamo la pretesa di disegnare la società perfetta del futuro. Forse perchè non abbiamo sufficiente immaginazione e profetico talento. Quello per cui lavorano i socialdemocratici è semplicemente una società che dia a ognuno l’opportunità di realizzare i propri progetti di vita.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; S. Morosi, P. Rastelli, “28 febbraio 1986, l’omicidio irrisolto del primo ministro svedese Olof Palme”, http://pochestorie.corriere.it; G. Clarizia, “32 anni fa cadde nel mistero Olof Palme, lo svedese che lottò per il mondo intero”, https://fondazionenenni.blog; L. Fubini, “L’esperienza socialdemocratica di Olof Palme”, www.socialismoitaliano1892.it; R. Ottaviani, “Olof Palme: vita e politica di un socialista”, www.pandorarivista.it; A. Garzia, “Chi era Olof Palme”, https://ilmanifesto.it

La democrazia in fumo

Il 27 febbraio del 1933 quel che restava della democrazia tedesca andò in fumo. Quella sera, infatti, le fiamme divamparono nel palazzo del Parlamento tedesco, il Reichstag, il simbolo della democrazia tedesca. Nel giro di pochi anni il potere distruttivo di quel fuoco, dalle rovine fumanti del parlamento tedesco, si propagò in tutta l’Europa. E spazzò via tutto, quel fuoco nazista, milioni di vite umane incluse.

Fino a quel 27 febbraio, formalmente, la Germania era ancora una democrazia

Il 30 gennaio del 1933, appena 28 giorni prima, Adolf Hitler era stato nominato cancelliere del Reich, cioè primo ministro, dal presidente della Repubblica tedesca, l’anziano Paul von Beneckendorf und von Hindenburg (lo abbiamo ricordato qui). Hindenburg si era risolto a questo passo, appoggiato dall’esercito e dai conservatori, anche se Hitler non poteva contare sull’appoggio della maggioranza degli eletti. Il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP), alle ultime elezioni, quelle del 6 novembre del ’32, aveva ottenuto il 31,1%, corrispondenti a 196 seggi [1]. Una vasta maggioranza dei tedeschi, quindi, aveva votato contro Hitler, se non proprio in difesa della democrazia [2]. Le divisioni interne alle forze antinaziste, che non si erano compattate in un fronte unico contro il loro più mortale nemico, avevano portato, comunque, alla morte della democrazia e alla loro autodistruzione [3].

La doppia trappola di Hitler

Quello al cui vertice era stato posto Adolf Hitler, però, non doveva essere un governo presidenziale (come lo erano stati altri in precedenza, si veda ancora il post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione, pubblicato il 30 gennaio su questa rubrica, Corsi e ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.). Nel rispetto delle forme della democrazia rappresentativa,  il nuovo governo doveva poter contare sulla maggioranza del Reichstag. E ciò poneva qualche difficoltà al disegno hitleriano di una completa e capillare nazificazione della Germania (assai ispirato in ciò dal precedente esempio mussoliniano). Infatti, il Partito Nazionalsocialista di Hitler e quello nazionalista di Hugenberg, gli unici due rappresentati nel governo, avevano soltanto 247 dei 583 seggi del parlamento. Non disponevano, quindi, della maggioranza.

30 gennaio 1933: la prima riunione del governo di Hitler

Alle cinque del pomeriggio del 30 gennaio, appena cinque ore dopo aver giurato come cancelliere, Hitler riunì i suoi ministri per affrontare tale questione. Per ottenere l’appoggio della maggioranza del Reichstag, gli occorrevano i voti del partito di Centro, che disponeva di 70 deputati [4]. Oppure, si dovevano far fuori i 100 seggi dei comunisti, sopprimendo il loro partito [5]. Hitler decise di “lavorare” con metodo su entrambi i fronti, quello del Centro e quello del partito Comunista.

L’indizione di nuove elezioni

Sul primo fronte, la mossa di Hitler consistette in un semplicissimo imbroglio. Egli stesso si incaricò di far fallire i colloqui con il capo del partito di Centro, monsignor Kaas, chiedendogli a quali condizioni avrebbe accettato di sostenere il governo. La condizione posta da monsignor Kaas fu la promessa da parte di Hitler di governare rispettando la costituzione. Ma Hitler riferì agli altri membri del governo che Kaas aveva fatto delle richieste impossibili e che non vi erano margini per un accordo.  Propose, pertanto, che il presidente della Repubblica sciogliesse il Reichstag e indicesse nuove elezioni [6]. Hindenburg accolse la richiesta. Le nuove elezioni furono fissate per il 5 marzo di quell’anno. Joseph Goebbels esultò. Il 3 febbraio scrisse sul suo diario:

«Ora sarà facile condurre la nostra battaglia, perché possiamo aiutarci con tutte le forze dello Stato. La radio e la stampa sono a nostra disposizione. Insceneremo un capolavoro di propaganda. E naturalmente questa volta il denaro non mancherà».

La propaganda anticomunista e la politica nazista del terrore

Per quanto riguarda il secondo fronte, il 31 gennaio del ’33, cioè neanche 24 ore dopo che il suo capo era stato nominato cancelliere, Goebbels aveva scritto:

«In una conferenza con il Fuhrer abbiamo fissato le linee per la lotta contro “il terrore rosso”. Per il omento ci asterremo da immediate contromisure. Occorre prima che il tentativo rivoluzionario bolscevico divampi. Al momento giusto colpiremo».

Per perseguire il duplice obiettivo di impedire ai comunisti di essere democraticamente eletti e per spingere quel partito, o almeno i suoi militanti, a delle reazioni violente, il governo di Hitler vietò, infatti, all’inizio di febbraio, ogni comizio comunista e, soppressa tutta la stampa comunista, scatenò la violenza. Anzi scatenò la violenza anche contro i socialdemocratici, i liberali e i cattolici. Con ciò imitando la strategia seguita da Mussolini dieci anni prima (si veda la riguardo quanto ricordato quiqui e qui[7].

La persecuzione di tutte le forze democratiche

Infatti, non soltanto furono vietati o dispersi dalle camicie brune i raduni dei socialdemocratici, ma fu anche sospesa dal governo la pubblicazione dei principali giornali socialisti. D’altra parte, neppure il partito cattolico di Centro fu risparmiato dalla violenza nazista [8]. Complessivamente furono ammazzai nella campagna elettorale 51 antinazisti.

L’invenzione nazista della rivoluzione bolscevica

Nonostante l’opera capillare del terrore nazista, la «rivoluzione bolscevica» non divampava. Hitler, Goebbels e Göring, non riuscendo a provocarla, decisero di inventarla. Il loro primo passo consistette nell’ordinare l’irruzione della polizia di Göring nel Karl-Liebknecht-Haus, il quartier generale comunista a Berlino. Il centro era stato abbandonato dai dirigenti comunisti qualche settimana prima, in realtà [9]. Nello scantinato, però, erano stati lasciati mucchi di opuscoli di propaganda. Göring se ne servì per comunicare ufficialmente che erano stati rinvenuti documenti contenenti le prove di un’imminente tentativo rivoluzionario. La notizia, tuttavia, suscitò un diffuso scetticismo, perfino tra i conservatori e addirittura tra i nazionalisti del governo. Ai nazisti occorreva qualcosa di più sensazionale. Qualcosa di simile a ciò che avevano rappresentato gli attentati a Mussolini da parte di Tito Zaniboni, il 5 novembre del 1925 e, soprattutto, di Anteo Zamboni, il 31 ottobre del 1926, che fu decisivo per ottenere l’approvazione delle “leggi fascistissime”(le quali, tra le altre cose, stabilivano lo scioglimento di tutti i partiti e delle organizzazioni antifascisti, la soppressione dei giornali antifascisti, la pena di morte per i “traditori” e il carcere per chi ricostituiva o aderiva alle organizzazioni disciolte, l’istituzione del confino di polizia, dell’O.V.R.A. e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e la retroattività delle norme penali).

27 febbraio 1933, l’incendio del Reichstag

William L. Shirer, all’epoca corrispondente di una grande agenzia di stampa statunitense in Germania, nel suo monumentale Storia del Terzo Reich, descrisse cosa accadde quella sera del 27 febbraio.

«Dal palazzo del Presidente del Reichstag, che allora era Göring, un passaggio sotterraneo, costruito per le condutture del riscaldamento centrale, portava all’edificio del Reichstag. Attraverso questa galleria, Karl Ernst, ex inserviente d’albergo divenuto capo delle SA di Berlino, la notte del 27 febbraio aveva guidato un piccolo reparto di uomini dei reparti d’assalto nel Reichstag, dove essi sparsero benzina e sostanze chimiche autocomburenti, tornando poi rapidamente nel palazzo da cui erano venuti. Nello stesso tempo, un comunista olandese semideficiente che aveva una mania per gli incendi, Marinus Van der Lubbe, era penetrato nel gigantesco edificio, da lui non conosciuto e immerso nell’oscurità; per conto suo aveva appiccato qua e là qualche fuoco. Per i nazisti, questo piromane semideficiente sembrò inviato dal cielo. Era stato fermato dalle SA un paio di giorni prima, essendo stato sorpreso mentre si vantava in un bar di aver tentato di dar fuoco a diversi edifici pubblici e diceva che prossimamente avrebbe tentato di incendiare il Reichstag» [W. L. Shirer, 1962, p. 212-213] [10].

28 febbraio 1933: il Decreto dell’incendio del Reichstag

L’incendio del Reichstag era stato proprio concepito come elemento di svolta di quella “strategia della tensione” su cui si erano specializzati i nazisti (e prima di loro i fascisti italiani): creare il massimo disordine, spaventando e disorientando l’opinione pubblica, in modo tale da potersi proporre come paladini dell’ordine e della sicurezza [11]. In primo luogo, Hitler riuscì in quest’operazione nei confronti del presidente Hindenburg, facendogli firmare a poche ore dall’incendio, già il 28 febbraio, un decreto «per la protezione del popolo e dello Stato». Con esso venivano soppressi i sette articoli della Costituzione che garantivano le libertà individuali e civili. Lo schema seguito da Mussolini alcuni prima per instaurare “legalmente” il regime fascista in Italia, trovava in Germania una nuova efficacissima applicazione.

La soppressione di ogni residuo di democrazia

Presentato come «una misura difensiva contro gli atti di violenza commessi dai comunisti a danno dello Stato», il decreto stabiliva:

«restrizioni della libertà personale, del diritto di libera espressione delle opinioni, compresa la libertà della stampa, del diritto di riunione e di associazione; violazioni del segreto nelle comunicazioni postali, telegrafiche e telefoniche private; perquisizioni, confische e restrizioni della proprietà anche al di là dei limiti legali vigenti». Inoltre, il decreto autorizzava il governo ad assumere i pieni poteri negli Stati federali, in caso di necessità, e ad imporre la pena di morte per un certo numero di crimini, tra cui il grave turbamento della pace.

Il terrore nazista legalizzato

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Con l’incendio del Reichstag e con quel decreto, Hitler riuscì a far arrestare legalmente migliaia di suoi oppositori e a seminare il panico tra milioni di tedeschi delle classi medie e contadine, convincendoli che, se non avessero votato per lui alle elezioni di marzo, i comunisti avrebbero scatenato la sovversione.

Quattromila funzionari del partito Comunista e moltissimi dirigenti liberali e socialdemocratici furono arrestati. Inclusi i deputati del Reichstag, che avrebbero dovuto essere tutelati dall’immunità. Le truppe d’assalto irrompevano nelle case e portavano le persone nelle caserme delle SA dove venivano picchiate e torturate.

Una campagna elettorale del tutto al di fuori della democrazia

Non soltanto la stampa e i comizi dei comunisti furono proibiti, ma anche quelli dei socialdemocratici, dei democratici e dei liberali. Gli unici a poter svolgere la campagna elettorale furono i nazisti e i loro alleati nazionalisti. I quali del resto potevano contare sul controllo totale della radio di Stato, che trasmetteva i discorsi di Hitler, Goebbels e Göring. Inoltre, grazie ai finanziamenti dei magnati dell’industria, a partire da quelle delle armi e dell’acciaio, e della finanza, poterono contare su risorse illimitate per svolgere una propaganda spettacolare, quale non si era mai vista prima. Ma non ancora soddisfatti i vertici nazisti insistettero nella criminalizzazione mediatica dei loro avversari. Göring, infatti, il 28 febbraio, mentre la democrazia, rappresentata dal palazzo del Parlamento, si dissolveva in volute di fumo e cenere, pubblicò una lunga relazione in cui affermava che sarebbero stati presto pubblicati i documenti dei piani comunisti per la realizzazione di attentati tesi a dare il via ad una guerra civile. La promessa pubblicazione «dei documenti comprovanti la cospirazione comunista» non fu mai mantenuta.

Le ultime elezioni del 5 marzo 1933

Il 3 marzo a Francoforte Göring gridò:

«Certo, miei cari comunisti, sfrutterò al massimo i poteri dello Stato e della polizia; non fatevi illusioni. Però, la lotta a morte, in cui la mia mano vi afferrerà per il collo, la condurrò con questi uomini che vedete, le camicie brune» [12].

A dispetto dell’incendio del Reichstag e del successivo decreto, che sopprimeva diritti e libertà proprie di una democrazia, a dispetto del terrorismo, delle intimidazioni, degli assassinii, degli arresti e delle torture e a dispetto della gigantesca macchina propagandistica e dei brogli, i nazisti non trionfarono. Ottennero, infatti, il 44 % (17.277.180 voti), cioè 12 punti in più rispetto alle elezioni precedenti (quando avevano conseguito 5 milioni di voti in meno), ma non la maggioranza assoluta. Mentre il partito di Centro aumentò i suoi consensi di 200.000 voti (4.424.900 voti) e i socialdemocratici restarono stabili (7.181.629 elettori). Perfino i comunisti, pur perdendo 1 milione di voti, contavano ancora assai più di quanto avessero previsto Hitler (4.848.058 voti). I suoi alleati nazionalisti erano cresciuti di appena 200.000 voti, giungendo al’8% (3.136.760 voti). Però, con i loro 52 deputati portavano ai 288 eletti del partito nazista un numero di seggi sufficiente ad avere la maggioranza, con 16 seggi di scarto sull’opposizione. Il che bastava ad Hitler per governare con feroce brutalità, ma non era abbastanza per realizzare il suo obiettivo: istituire la dittatura con il consenso del parlamento.

Alberto Quattrocolo

[1] Perdendo un buon 6% rispetto a quelle del luglio ’32, allorché, con il 37% dei suffragi, aveva raggiunto il suo massimo successo elettorale.

[2] Non tutti coloro che a novembre del ’32 votarono partiti diversi da quello nazista si potevano definire convinti sostenitori della democrazia in Germania, considerando che l’8% aveva votato per il partito Nazionalista, il quale, sebbene più moderato di quello di Hitler, non era proprio un fervido credente nel sistema democratico. Come, del resto, non lo erano i comunisti, che erano passati da 90 a 100 seggi in parlamento.

[3] Cioè alla fatale decisione del presidente Hindenburg di incaricare Hitler di governare la Germania.

[4] Ciò ripugnava sia Hitler che Hugenberg, che proprio non sopportavano la mentalità democratica dei centristi.

[5] Questa seconda opzione, prospettata da Hugenberg, non convinse Hitler, che la ritenne prematura.

[6] Hugenberg e Papen, che tutto volevano tranne che andare a nuove elezioni, visto che il loro partito aveva il maggior numero dei ministeri, contro i soli tre in mano ai nazionalsocialisti, furono così presi in trappola. Acconsentirono alla proposta di richiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il parlamento solo a condizioni che Hitler promettesse che, quale che fosse stato l’esito delle nuove elezioni, la composizione del governo sarebbe rimasta invariata. Hitler, mentendo, li rassicurò.

[7] Cioè anche contro le principali e tradizionali forze anticomuniste, le quali erano tali in quanto fedeli alla democrazia, e che pertanto non potevano che essere anche antinaziste.

[8] L’ex cancelliere Heinrich Brüning, durante un comizio, dopo che le SA avevano aggredito un certo numero di manifestanti cattolici, dovette chiedere la protezione della polizia, mentre Stegerwald, capo dei sindacati cattolici, fu pestato dalle camicie brune, mentre stava per fare un discorso durante un comizio. Inoltre il ministro degli Interni della Prussia (uno stato che controllava i due terzi della Germania), il nazista Herman Göring, ordinò alla polizia prussiana, da un lato, di evitare ogni attrito con le forze paramilitari naziste (le SA, le SS e lo Stahlhelm), dall’altro, di fare uso delle armi da fuoco, cioè di sparare, su tutti coloro che si opponevano al governo.

[9] Un buon numero di dirigenti del partito Comunista Tedesco si era già nascosto. E alcuni erano fuggiti in Unione Sovietica.

[10] Durante i processi che si tennero a Norimberga, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la responsabilità dei nazisti nell’episodio dell’incendio del Reichstag venne definitivamente appurata. Hans Gisevius, funzionario del Ministero prussiano degli interni nel ’33, spiegò che l’ideazione dell’incendio era stata di Göring e di Goebbels. Rudolf Diels, ex capo della Gestapo, riferì in una dichiarazione giurata che lo stesso Göring aveva già qualche giorno prima dell’incendio approntato una lista di persone da arrestare subito dopo di esso. Il generale Franz Halder, infine, riferì che lo stesso Göring, durante un pranzo ufficiale, si era pubblicamente vantato di avere personalmente organizzato anche i particolari dell’incendio.

[11] Sotto tortura, il comunista olandese Marinus Van der Lubbe confessò ulteriori dettagli e fu portato in giudizio unitamente ai leader del Partito Comunista all’opposizione. Al processo che si tenne a Lipsia, otto mesi dopo, Van der Lubbe fu riconosciuto colpevole e condannato a morte. La pena capitale nell’ordimento giuridico tedesco fu introdotta, però, dopo l’incendio del Reichstag e dopo l’arresto del suo presunto autore. Cioè con il decreto «per la protezione del popolo e dello Stato» del 28 febbraio del ‘33. Marinus Van der Lubbe  fu decapitato il 10 gennaio 1934, tre giorni prima del suo venticinquesimo compleanno. È assai verosimile che Van der Lubbe, fosse in qualche modo coinvolto nell’incendio del Reichstag, ma è impossibile che abbia agito da solo. L’estensione del danno e la velocità con cui il fuoco invase l’edificio, unitamente ad altre prove, dimostrarono infatti che il fuoco, in quel luogo di democrazia era stato acceso in più punti e con sostanze infiammabili di cui Van der Lubbe non disponeva. Nel processo, però, fu assolta la dirigenza del partito comunista. Il principale imputato, l’agente del Comintern, Georgi Dimitrov, aveva sostenuto, nonostante le intimidazioni, che i comunisti erano estranei all’incendio e che i veri colpevoli erano Hitler, Goering e Goebbels. Hitler, infuriato, decretò che, da quel momento in poi, il tradimento, assieme ad altri reati, sarebbe stato giudicato solamente dal neocostituito Volksgerichtshof (la “Corte del popolo“), che emetterà un numero enorme di condanne a morte. L’autodifesa di Dimitrov fu tradotta e diffusa in tutto il mondo, mentre in vari paesi delle inchieste indipendenti dimostravano che l’incendio del Reichstag era stata una montatura dei nazisti, volta a mettere fuori legge il partito comunista e perseguitarne i militanti.

[12] Quello stesso giorno l’ex cancelliere del partito di Centro, Brüning, dichiarò che il suo partito si sarebbe opposto a ogni rovesciamento della costituzione e che avrebbe preteso un’inchiesta sull’incendio del Reichstag. E si appellò a Hindenburg «per la protezione degli oppressi dai loro oppressori». Il vecchio presidente non disse una parola.

Fonti

Georgij Dimitrov, Il processo di Lipsia, Editori Riuniti, Roma, 1972

Nico Jassies, Berlino brucia. Marinus Van der Lubbe e l’incendio del Reichstag, Zero in condotta, Milano, 2007.

W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962

Attacco al World Trade Center, una luce nel buio

12.20, 26 febbraio del 1993, Lower Manhattan, New York. L’ombelico del commercio mondiale viene scosso per la prima volta da un attentato terroristico. Un’autobomba esplode in uno dei parcheggi sotterranei, centinaia di metri più in basso di dove si schianteranno gli aerei otto anni dopo.

Sempre qualche centinaio di metri, questa volta in orizzontale, divide l’esplosione da una stazione della metropolitana: sei persone persero la vita in quel tragico evento, ma i feriti superarono il migliaio, soprattutto a causa dei fumi sprigionati dalla detonazione e dall’incendio conseguente. Furono evacuati anche i piani alti delle Torri, per cui si fece uso persino degli elicotteri. Molto più in basso, invece, le onde d’urto causarono il crollo di un muro e del soffitto di una stazione ferroviaria che sorgeva lì vicino.

In effetti, se fosse andato come pianificato, l’attentato avrebbe procurato un numero enormemente più elevato di vittime: l’idea iniziale era di provocare il crollo della Torre nord sulla Torre sud, causando un devastante effetto domino. A tale progetto parteciparono diversi fondamentalisti islamici, tra cui Omar Abdel Rahman. Lo sceicco cieco egiziano, considerato il leader spirituale della Jamaa Islamiya (Assemblea Islamica), è morto in carcere un paio d’anni fa mentre scontava l’ergastolo per questo e altri attentati.

Ramzi Yousef, pakistano nato in Kuwait, fu invece definito mastermind, vale a dire la mente dietro l’attacco, l’autore del piano. Sta attualmente scontando centinaia di anni di carcere nel penitenziario di Florence, Colorado, anche lui per diversi reati a sfondo terroristico. E’ degno di nota anche in quanto nipote di Khalid Sheikh Mohammed, accusato di aver ideato l’attentato dell’undici settembre.

Tra i vari attentatori ha guadagnato notorietà anche El-Sayyid Nosair, ma per motivi diversi dai precedenti. Uno dei suoi figli, infatti, cambiò nome in Zak Ebrahim, rifiutandosi categoricamente di seguire le orme paterne. Dopo aver passato anni a nascondere la propria identità, costui decise di usare la propria storia per contrastare il terrorismo e l’intolleranza in mezzo alle quali era cresciuto:

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Zak Ebrahim non è il mio vero nome. L’ho cambiato quando la mia famiglia ha deciso di tagliare i ponti con mio padre e cominciare una nuova vita. Perché, allora, dovrei uscire allo scoperto e mettermi potenzialmente in pericolo? Be’, è semplice. Lo faccio nella speranza che forse qualcuno, un giorno, costretto a usare la violenza, possa sentire la mia storia e rendersi conto che c’è un modo migliore.

Lo faccio per le vittime del terrorismo e per i loro cari, per il terribile dolore e le perdite che il terrorismo ha imposto loro. Per le vittime del terrorismo, parlerò apertamente contro questi atti insensati e condannerò le azioni di mio padre. Con quel semplice fatto, sono qui a prova del fatto che la violenza non è intrinseca alla religione o alla razza, e il figlio non è tenuto a seguire le orme del padre. Io non sono mio padre.

Zak è diventato un attivista per la pace e uno scrittore. Il titolo del suo libro parla chiaro:

Il figlio del terrorista: storia di una scelta“.

Alessio Gaggero

Henri Landru viene ghigliottinato a Versailles

Il 25 febbraio 1922 muore, decapitato dalla ghigliottina sulla pubblica piazza a Versailles, Henri Désiré Landru, il Barbablù francese, passato alla storia come omicida seriale ante litteram. La sua vicenda è stata oggetto d’interesse sotto il profilo giudiziario (non furono mai rinvenuti i cadaveri delle vittime), criminologico (tratti personologici e modus operandi insoliti rispetto alla vulgata attorno a questo tipo di reato) e per il clamore, che oggi definiremmo mediatico, suscitato presso l’opinione pubblica dell’epoca e l’immaginario collettivo fino ai giorni nostri: la sua figura ha ispirato narrativa, cinema, studi psicoanalitici.

Landru nasce nel 1869, in una famiglia parigina piuttosto agiata che, per gli standard dell’epoca, si impegna per impartirgli una buona educazione e istruzione: a quanto si sa, nessun evento traumatico sconvolge la sua vita da adolescente. Alunno diligente, frequenta l’istituto di Ingegneria Meccanica a Parigi, abbandonando gli studi per la leva militare obbligatoria e una successiva carriera nell’esercito francese, che lascerà dopo quattro anni con il grado di sergente.

Con l’abbandono della carriera militare iniziano i problemi, giacché, per la prima volta, si trova a contatto con una società troppo veloce e ostile per lui, che deve sostenere due nuclei familiari: aveva avuto una figlia da una cugina, sposando poi un’altra donna, che gli darà altri quattro figli.

La nascita dei bambini gli procura un forte dissesto economico e Henri cambia 15 lavori prima d’entrare nel mondo delle truffe. Tutto inizia con una campagna pubblicitaria nazionale nella quale propone una bicicletta fabbricata dall’azienda di famiglia: l’ordine di acquisto doveva essere accompagnato da un terzo del prezzo di vendita; gli ordini fioccano e Landru scompare con i soldi senza mai consegnare una bicicletta. Negli anni successivi entra ed esce dalle carceri francesi, sempre per frode. Nel 1906, dopo un tentativo di suicidio in carcere, alcuni psichiatri lo dichiarano malato mentale lieve. Nel 1910 muore sua madre, e il padre, che aveva sempre vissuto al fianco di Henri, si suicida due anni dopo, demoralizzato dal fatto che il figlio fosse ormai da considerare un criminale a tutti gli effetti.

In prigione inizia a inserire sotto falso nome alcuni annunci matrimoniali su piccoli giornali di provincia, e una vedova di Lille, cedendo alle sue avance, gli lascia una dote di 15.000 franchi, con i quali fugge dopo aver scontato la pena; la truffa viene presto alla luce, e solo le false generalità fornite, che lo rendono irreperibile, gli evitano di scontare la condanna a quattro anni di carcere e alla deportazione in una colonia penale d’oltremare.

Con intuito degno di un sociologo o economista, Landru comprende come indirizzare le sue truffe durante il primo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra: gli uomini morti al fronte lasciano una quantità immensa di vedove di ogni età e condizione economica, le quali, in molti casi, cercano una seconda occasione di vita sentimentale, riempiendo di inserzioni i giornali dell’epoca. Landru fiuta l’affare, pubblicando annunci inizialmente generici (“Signore serio desidera sposare vedova o donna incompresa tra i 35 e i 45 anni”), per poi alzare e precisare il tiro: “Signore, 45 anni, solo, senza famiglia, posizione 4000, con interessi, desidera sposare signora d’età con posizione equivalente”. Di colpo diviene il centro d’attrazione di centinaia di vedove, mantenendosi in contatto con 283 signore, tra le quali seleziona quelle più benestanti; dieci, e il figlio decenne di una di loro, gli saranno attribuite come vittime.

Quest’uomo barbuto, dotato di fascino, sicurezza di sé e modi eleganti, non uccide per impeto, né indulge in particolari grandguignoleschi; presumibilmente strangola le sue vittime e ne incenerisce i corpi nel forno della casa isolata affittata per le sue opere di seduzione. Organizzato e meticoloso, razionalmente predispone tutti i preparativi anzitempo e, raggiunto l’obiettivo (una procura per disporre dei beni delle donne), uccide e spoglia la vittima di ogni oggetto di valore, annotando il tutto sul suo inseparabile taccuino. Un vero e proprio lavoro, necessario a mantenere la sua numerosa famiglia, un lavoro da svolgersi con ferrea disciplina.

Sotto il profilo criminologico, il suo modus operandi è stato ricondotto a quello dell’omicida seriale per guadagno personale, in base al movente dei suoi delitti; la motivazione individuale sarebbe la ricerca della soddisfazione di una serie di bisogni personali, che divengono prioritari rispetto a considerazioni di ordine morale. Secondo questa chiave di lettura, l’assassino opererebbe un profondo processo di depersonalizzazione delle vittime che gli consenta di privarle delle qualità umane, trasformandole in semplici oggetti; gli omicidi seriali di questa categoria sarebbero quindi dei sociopatici puri, privi di sentimenti empatici, tuttavia la disamina del caso Landru condotta da una psicoanalista lacaniana francese suggerisce aspetti di ben maggiore complessità.

Intanto gli abitanti delle case vicine, insospettiti dai miasmi provenienti dal camino della villa in ogni stagione, reiterano segnalazioni alla polizia locale, mentre i parenti delle donne scomparse in tutta la Francia attivano faticose ricerche, ma non ci sono prove, né cadaveri, e nemmeno il vero nome del misterioso seduttore di vedove.

Solo una fortunosa concatenazione di circostanze porta al riconoscimento di Landru da parte della sorella di una delle scomparse e all’arresto, il 12 aprile 1919. Gli viene sequestrato il taccuino e si perquisisce la villetta con scarsi esiti. La polizia è costretta a giustificare l’arresto in base a denunce per truffa ed estorsioni.

Il 7 novembre 1921, davanti alla corte d’assise di Seine-et-Oise, presso la sede di Versalles, si apre il processo e da subito la popolarità del caso è eccezionale. Non è stato rinvenuto alcun corpo, solo frammenti di ossa e denti, numerosi abiti e carte legali, ma non c’è nulla che possa provare l’omicidio delle undici persone indicate nel taccuino. Henri si dichiara innocente, ammettendo tuttavia di aver truffato le presunte vittime; si comporta in maniera distaccata, a volte provocatoria nei confronti della corte (“Mostratemi i cadaveri!”). La sua eleganza e socievolezza, l’attenzione e precisione da studioso gli guadagnano la simpatia popolare: la gente non riesce a credere che quel piccolo uomo abbia ucciso dieci donne e un bambino.

A rendere ancora più popolare l’affare Landru concorrono anche fattori esterni: il processo coincide con la firma dei trattati di pace di Clemenceau, per cui è stato detto che la stampa abbia fatto di tutto per distogliere l’attenzione dalla sofferta conferenza di pace, dando massimo rilievo al “mostro”; inoltre, l’avvocato difensore non è un legale qualunque: si tratta di Vincent Moro-Giafferi, deputato socialista, che aveva partecipato alla resistenza contro i tedeschi e la cui arringa difensiva finale lascia pensare a un possibile esito favorevole.

Nonostante l’assenza di prove risolutive e di una confessione, la giuria giudica Landru colpevole, ma propone di raccomandarne la grazia, che però non viene accettata. Il 30 novembre 1921 viene condannato a morte e la sentenza viene eseguita il 25 febbraio successivo, nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles, dove è allestito il patibolo. Poiché l’uso del palco per i giustiziati era stato soppresso da un decreto governativo, la ghigliottina è posta a livello del suolo, per cancellare il lato spettacolare dell’esecuzione: non è più il tempo dello “splendore dei supplizi” rappresentato da Foucault.

La testa mozzata di Landru, mummificata, si trova nel Museum of Death di Hollywood. Esposto in un museo di Parigi, ancora oggi, è visibile il suo inseparabile taccuino. Non è mai stato accertato come uccidesse le sue promesse spose, non si è mai capito quali fossero le sue sensazioni, i suoi sentimenti reali nei confronti delle vittime, né tanto meno ciò che provava durante gli omicidi, ma quei fogli, dove segnava con maniacale precisione tutti i suoi profitti, costituiscono ancor oggi un vero e proprio simbolo del suo stile.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.adir.unifi.it; F. Biagi-Chai, “Le cas Landru à la lumière de la psychanalyse”, Imago, Paris 2007; M. Julini, “25 febbraio 1922: Henri Landru viene ghigliottinato a Versailles”, www.bdtorino.eu; M. Curtoni, M. Parolini, “Dizionario dei Serial Killer”, Vallardi 1998; F. Petrucci, “Henri Landru, assassino gentiluomo: ecco chi era il vero Barbablù”, www.altriconfini.it; F. Canalini, “Uno spietato assassino di nome Henri Landru”, www.viaggiatoricheignorano.blogspot.com

Iwo Jima: una fotografia che fece la storia

1945, Seconda Guerrra Mondiale. Iwo Jima, isola giapponese sperduta nell’Oceano Pacifico, è teatro di una sanguinosa disputa tra Americani e Nipponici. I primi ambivano a conquistarla per avere una base di partenza per la propria aviazione, più vicina di quanto non fossero la Cina e le Isole Marianne; i secondi la usavano, al pari di Okinawa, come scudo contro un eventuale sbarco alleato sulle isole metropolitane.

Gli USA, forti della superiorità numerica e di armamenti, approdarono a Iwo Jima il 19 febbraio, dopo alcuni mesi di bombardamenti aerei. Serviranno, però, più di un mese e di 70.000 soldati per espugnare completamente la fortezza, difesa da appena 20.000 giapponesi.

Per quanto strategicamente importante, l’operazione non divenne famosa per meriti di guerra, bensì a causa di una fotografia. Il 23 febbraio, dunque lungi dalla conclusione dello scontro, il fotografo Joe Rosenthal immortalò sei soldati nell’atto di issare la bandiera americana sulla cima del monte Suribachi. Lo scatto, denso di un potere iconico di cui lo stesso fotografo non era inizialmente consapevole, fece il giro degli States in un tempo brevissimo per l’epoca.

Visto lo strapotere visivo, il governo Roosevelt (e poi quello Truman) decise di mettere l’immagine al centro della campagna propagandistica a favore del prestito di guerra nazionale. I disastrosi bilanci del conflitto furono un elemento di forte motivazione. La foto, inoltre, vinse nel 1945 il premio Pulitzer, e fu riprodotta in vari formati: dai francobolli al memoriale dei Marines ad Arlington, in Virginia.

Flags of our fathers, libro scritto da James Bradley, figlio di un presunto soldato immortalato, racconta proprio la storia dello scatto e delle conseguenze sui militari coinvolti (al pari dell’omonimo film di Clint Eastwood del 2006). Di quei sei, ne sopravvissero tre, i quali furono fatti rientrare in patria quanto prima, proprio per dare maggior lustro a quell’impresa. Il mostro mediatico se li divorò durante il tour di propaganda.

Emersero, nel corso degli anni, diverse questioni riguardanti l’identità dei soggetti. La più rilevante ha trovato la sua conclusione addirittura nel 2016, quando il Corpo dei Marines ha ufficializzato che John Bradley (padre dello scrittore del best seller) fu scambiato con Harold Schultz. Altro punto d’interesse, il fatto che il gesto immortalato non fu il primo: quando Rosenthal raggiunse la cima del monte, infatti, trovò una bandiera già piantata. Mentre cercava chi l’aveva innalzata, altri sei ne stavano allestendo una seconda, più grande. Furono costoro a entrare nella storia.

Alessio Gaggero

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Lo stalking è reato anche in Italia

[…] chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Così vennero definiti, nel nostro codice penali, gli atti persecutori. Prima, il nostro paese non era provvisto di una normativa specifica sul tema. Il decreto legge del 2009, che portava la firma dell’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni, riempì la lacuna, grazie al voto di tutte le forze politiche.

Essere seguiti, pedinati, sommersi da sms e/o mail, molestati con approcci di ogni genere: questo, e altro ancora, significa essere vittima di stalking. Le conseguenze possono essere molto pesanti: non riuscire più a lavorare, ad avere una normale vita sociale, subire gravi danni materiali, psicologici e a volte anche fisici.

In precedenza, lo Stato permetteva questi comportamenti, purché non si arrivasse ad altre fattispecie criminose, quali, ad esempio, la violenza privata, la minaccia o le molestie in luogo pubblico, o col mezzo del telefono. Dall’entrata in vigore di quel decreto sicurezza, invece, la giustizia può tutelare in modo molto più efficace le vittime di stalking.

Alessio Gaggero

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L’umanità scomoda di Totò

Subito dopo aver realizzato Guardie e Ladri, 1951 (di cui abbiamo parlato qui), Totò proseguì la sua collaborazione con la coppia di registi composta Steno e Mario Monicelli, finché due anni dopo interpretò Totò e Carolina, del solo Monicelli. Uno dei film italiani più censurati di sempre [1]. Il 22 febbraio del 1954 il giudizio della Commissione Censura, nel respingere l’autorizzazione richiesta per la sua distribuzione nelle sale cinematografiche, valutava il film come:

«offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e prestigio delle forze di Polizia».

Girato tra l’ottobre del ’53 e il gennaio del ’54, Totò e Carolina aveva suscitato l’indignazione anche del ministro degli Interni, Mario Scelba.

L’umanità sovversiva di Totò e Carolina

In Totò e Carolina, dopo aver interpretato il ladruncolo in Guardie e ladri, toccò a Totò la parte della guardia (l’agente Caccavallo). Anche in tal caso una guardia che finisce con lo sviluppare un rapporto umano con un soggetto deviante [2]. Infatti, dopo aver arrestato per errore, durante una retata della buon costume, una giovane donna, Carolina (Anna Maria Ferrero), che in realtà stava tentando il suicidio, l’agente è incaricato di ricondurla al suo paese e di trovare lì qualcuno cui affidarla. Poiché, però, Carolina è incinta nessuno vuol saperne di accoglierla in casa, neppure i suoi parenti. Il questurino, che è vedovo, finirà per riportare a la ragazza a Roma, proponendole di andare a vivere con lui, il figlio e l’anziano padre.

Oltre gli stereotipi e al di qua del rancore e dell’odio sociale

L’agente interpretato da Totò, come quello di Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, aveva in sé qualcosa di “sovversivo”. Non soltanto non si lasciava abbruttire dal disagio sociale che vive, ma restava capace di rapportarsi agli altri per come sono e non per come le società le etichettava. Così si svincolava dalla mentalità dominante, che imponeva a ciascuno di sfogare le proprie frustrazioni de-umanizzando e criminalizzando chi era ancora più povero ed emarginato. Anche Caccavallo, infatti, viveva in un misero tugurio e stentava a mantenere la famiglia. Tanto che il suo anziano padre si trovava costretto a rubare i calzini sulla terrazza [3].

L’anti-eroe di Totò

Il personaggio interpretato da Totò, però, non è privo di ombre. Anzi, è un poliziotto il cui interesse per l’avanzamento di grado non ha nulla a che fare con il desiderio fornire un contributo più incisivo alla lotta contro il crimine. Né è motivato dalla ricerca di una realizzazione personale. Ingenuo ma accondiscendente verso il suo superiore, spera di ingraziarselo costruendogli un busto con le molliche di pane, che perciò sottrae al padre. In realtà, gli interessa solo avere uno stipendio più consistente alla fine del mese, dato che vive in una casupola e stenta a mantenere la famiglia [4].

…con un cuore

Inoltre, la sua empatia verso Carolina emerge poco a poco, essendo preceduta da una certa ostilità nei suoi confronti poggiata su istanze puramente egoistiche. Il poliziotto, infatti, teme che la ragazza possa tentare di uccidersi ancora mentre è sotto la sua responsabilità, cacciandolo nei guai. Perciò, in un primo momento, quell’ansia lo rende particolarmente duro, scontroso e intransigente con lei. Poi, però, diventa sempre più comprensivo. Vedendo come essa venga rifiutata dai “buoni paesani”, finisce con l’essere disgustato dal loro perbenismo opportunista e ipocrita. Perciò, smettendo di pensare prima a se stesso, decide, infine, di portarla a casa di un «fesso», cioè a casa sua [5].

L’accanimento della censura

Proprio gli aspetti che rendevano il poliziotto interpretato da Totò una persona capace di restare umana, rendevano il film inammissibile per l’organo statale di censura. Più, in generale, a rendere inammissibile il visto della censura era il fatto che in quell’opera venissero messi in discussione pregiudizi e stereotipi diffusi nella mentalità dominante, nonché l’ipocrisia e l’ottusità della gente cosiddetta “perbene”.

L’inammissibile smascheramento della “violenza simbolica” propria dell’ottusità moralista

In aggiunta a tutto quanto più avanti spiegato, ciò che costituiva un autentico vulnus per la commissione censoria era l’esplicita, per quanto non didascalica, denuncia di ciò che Pierre Bourdieu definiva “violenza simbolica (ne abbiamo parlato qui in occasione del diciassettesimo anniversario della sua morte). Quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose e il cui effetto su chi la subisce «è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza». Carolina, infatti, sapendosi giudicata colpevole dalla società, che non accetta lei e mai accetterà suo figlio, soffre ma non pare conscia fino in fondo delle ingiustizie inflittele.

L’inammissibile denuncia della violenza maschilista e reazionaria

Certo Carolina non prova sentimenti amichevoli per i parenti e i compaesani che la sfuggono come se fosse un’appestata, però pensa di farla finita. In altre parole, immagazzina dentro di sé la violenza morale di cui è fatta oggetto e tenta di tradurla in fatto. Respinta nel buio da una comunità, che cinica, maschilista e priva di umanità, la colpevolizza, cerca di fare ciò che essi inconfessabilmente vorrebbero: sprofondare nelle tenebre.

Manifestanti comunisti dai risvolti umani

Non era concepibile, inoltre, per l’organo di censura che i comunisti fossero presentati come dei bonaccioni. Del resto, i comunisti proprio non potevano essere portati sullo schermo (se non nella serie di Don Camillo). Così la censura intervenne pesantemente sulla scena in cui i manifestanti accalcati su di un camion aiutano Totò a spingere la sua jeep in panne. Monicelli, in seguito, ricordò:

«quando il film uscì non si capiva più chi era quel gruppo d’imbecilli con le bandiere su un camion, né cosa facessero!».

Niente “bandiera rossa”

Infatti, nella stesura originale i manifestanti cantavano “bandiera rossa“, ma nella versione censurata il canto diventava “di qua, di là dal Piave[6]. Venne anche cambiata la scena in cui un vecchio, incaricato da Totò di sorvegliare Carolina (mentre lui e gli altri manifestanti spingono la jeep del poliziotto), dopo aver chiesto alla ragazza se è comunista e aver udito la sua riposta affermativa, grida «Abbasso i padroni» (nella versione censurata la frase diventa «Viva l’amore»).

Dialoghi scandalosi

Un’altra battuta censurata era quella di Carolina:

«il suicidio è un lusso, i poveri non hanno nemmeno la libertà di uccidersi».

Nella versione censurata tali parole furono coperte dalla colonna sonora.

«Scusi, Eccellenza»

Tra le scene tagliate, ve n’è una all’inizio del film, che proprio non andava giù alla censura. In occasione della retata a Villa Borghese volta a catturare prostitute e clienti, si vedeva un agente che apriva la portiera di un auto ma subito si scusava con l’occupante, dicendo:

«Scusi, Eccellenza».

«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo…»

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Gli interventi censori alla fine esitarono in 31 tagli e 23 battute modificate. Alla fine il film uscì nelle sale solo nell’aprile del 1955, quasi un anno dopo. Degli iniziali 2595 metri di pellicola, dopo i tagli, se ne salvarono 2386. Osservò Mario Monicelli che «restava solo la storiella del questurino che alla fine si portava a casa la ragazza, magari con un’aria un po’ equivoca» [7].  Non paga di ciò la Commissione censoria sovrappose all’inizio del film la seguente schermata:

«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda è vissuta da Totò trasporta tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi e sono sempre riscattati dal quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza ed il rispetto che ogni cittadino deve alle forze della Polizia».

I facili moralismi e i pregiudizi ottusi che nel film venivano svelati, trovarono così una ulteriore conferma istituzionale, seppure involontaria, dopo quella già contenuta nel giudizio della commissione del 22 febbraio ’54.

Altro che mondo della pura fantasia!

In realtà, il film di Monicelli, su un soggetto di Flaiano e sceneggiato da Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Suso Cecchi d’Amico e lo stesso Monicelli, pur stravolto dalla censura, conservava ancora un forte impianto realistico. E a ciò concorreva in modo determinante la performance degli attori, Totò e Anna Maria Ferreo in testa. Per quanto riguarda la capacità del primo di dare spessore umano, basta rivedere la scena in cui interagisce con crescente disgusto con la bigotta e ossequiosa famiglia Barozzoli, scoprendone la profonda ottusità e corruzione.

L’opera restaurata e la sua proiezione nel Festival del CinemaINstrada

Nel 1999 grazie ad alcuni ritrovamenti in varie cineteche il film fu restaurato e in parte reintegrato nelle parti mancanti. In particolare, tra le proiezioni in pubblico vale la pena ricordare quella realizzata nel 2005, a seguito di un lavoro di video interviste e di inchiesta sul campo coinvolgente gli abitanti del quartiere ad alta densità migratoria, Barriera di Milano, a Torino. La versione restaurata e reintegrata delle parti mancanti di Totò e Carolina, infatti, fu proiettata in italiano e con sottotitoli in italiano, nell’ambito della seconda edizione del festival CinemaINStrada. Un’iniziativa culturale tra le cui particolarità vi era quella di far precedere le proiezioni da un’attività di coinvolgimento e video-interviste dei residenti, italiani e stranieri, con i quali scegliere le loro pellicole “del cuore”. Ideato e sviluppato dall’Associazione i313, quel progetto culturale, che ebbe ben 9 edizioni, si fondava sull’idea che il cinema, con la sua capacità di suscitare emozioni e di permettere di scoprire l’umanità dell’altro, fosse un’ottima risorsa per permettere a persone con culture, nazionalità ed esperienze diverse di conoscersi e riconoscersi. Se nella prima edizione la scelta del film italiano era caduta su Guardie e ladri, nella seconda l’opera italiana della rassegna fu Totò e Carolina. Come gli altri titoli indicati dagli abitanti intervistati (pellicole prodotte nei diverse Paesi d’origine degli abitanti), era un’opera capace di suscitare identificazione in tutti gli spettatori, a prescindere dalla cultura di appartenenza.

Fa riflettere il fatto che appena una manciata di anni fa, gli abitanti di Barriera di Milano scelsero come opera italiana da proiettare in piazza un film tanto poco indulgente su ciò che, a qualsiasi latitudine, può intossicare una comunità: la chiusura mentale, il bigottismo, l’opportunismo, l’ignoranza, l’arroganza e il rifiuto dei più disagiati. Ed è ancora toccante ricordare, quell’8 luglio del 2005, le espressioni sui volti del pubblico alla fine del film rispetto alla sobria commozione di una solidarietà tra esseri umani, Totò e Carolina, mitigata dall’ironia.

Alberto Quattrocolo

[1] Totò, Monicelli e Steno realizzarono altri tre film, tra il ’52 e il ‘53, Totò e i re di Roma, Totò a colori Totò e le donne. Totò a colori risultò firmato dal solo Steno, mentre Totò e le donne, realizzato da Steno, fu co-firmato anche da Monicelli per pure ragioni contrattuali. Nel post su Guardie e ladri (L’umanità da non perdere) abbiamo ricordato come il film, presentato alla Commissione di Revisione Cinematografica presieduta da Giulio Andreotti il 19 luglio 1951, venne respinto il 2 agosto e ottenne poi il visto di censura n. 10.313 del 23 ottobre 1951. Anche Totò cerca casa (Steno e Monicelli, 1949), precedente a Guardie e ladri, aveva avuto qualche piccola difficoltà con la censura. Infatti, i produttori,  all’insaputa dei due registi, avevano fatto leggere i copioni dei loro film all’addetto alla censura Annibale Scicluna Sorge, prima che iniziassero le riprese. Costui diede alcuni “consigli” ai produttori sulle scene non dovevano essere girate. Anche nel caso di Guardie e ladri il rapporto con Scicluna Sorge fu a dir poco conflittuale. Infatti, si svolsero delle sedute al Ministero dello spettacolo per convincere Scicluna Sorge che con quel film registi e sceneggiatori non intendevano minare le basi della società italiana. Per il censore, però, la fraternizzazione fra guardia e ladro era un attacco alle istituzioni. I due registi, perciò, dovettero modificare e tagliare alcune scene e battute, che erano state considerate da Scicluna Sorge “sovversive”. Come dichiarò Monicelli, nel film «non c’era niente di censurabile, se non l’idea in sé». Comunque, accontentata la commissione con alcune modifiche ai dialoghi, i registi ottennero infine il via libera. A differenza di Guardia e ladri, i successivi Totò a colori e Totò e le donne non procurarono a Totò e agli autori particolari problemi con la censura. Qualcuno ne ebbe, invece, Totò e i re di Roma. Il titolo inizialmente previsto per Totò e i re di Roma era E poi dice che uno…, con riferimento a una frase pronunciata spesso da Totò durante il film: «E poi dice che uno si butta a sinistra…!». Ma la censura non lo permise. Inoltre, nella scena dell’interrogazione, quando Alberto Sordi chiede a Totò il nome di un pachiderma, si sente la risposta doppiata con voce diversa, che risponde: «Bartali!». Leggendo il labiale di Totò, invece, si può capire che pronuncia «De Gasperi!». Inoltre, fu tagliata una intera pagina di dialogo del colloquio finale tra Totò e Dio, ritenuta troppo irrispettosa nei confronti della religione. Analogamente fu giudicato inaccettabile che il protagonista ricorresse al suicidio per salvare la famiglia. Per correggere tale “provocazione”, fu introdotta una voce fuori campo a fine film, così da trasformare il senso del finale, rendendolo una sorta di sogno. Per la stessa ragione fu tagliata la battuta con cui Totò, preparandosi a morire, chiedeva di vedere per l’ultima volta le sue cinque figlie: era un’allusione troppo esplicita al suicidio. Più tormentata ancora fu la successiva vicenda censoria di Totò e Carolina.

[2] La reazione della censura democristiana dell’epoca, involontariamente, permette di evidenziare un aspetto che accomuna Guardie e ladri e Totò e Carolina. Nel primo, infatti, Aldo Fabrizi interpretava un poliziotto che finiva con lo sviluppare un rapporto umano con un delinquente (Totò) e la sua famiglia, al punto che il ladro si faceva portare in prigione proprio per aiutare la guardia.

[3] Ma Totò non scarica tali patemi e sofferenze su quelli più disgraziati di lui. Nel suo ruolo di uomo d’ordine, anzi, si scopre indisponibile ad esercitare un potere in cui in egli per primo non si riconosce, rifiutandosi, in particolare, di continuare a fare il forte con i deboli e il debole con i forti.

[4] Del resto, come previsto nella sceneggiatura originale, gioca al lotto.

[5] E non si tratta di una decisione opportunistica, ma del naturale sviluppo di un legame all’insegna di una vera e propria solidarietà fra esseri umani vilipesi, umiliati e trascurati dalla società.

[6] Inoltre, un altro camion con a bordo un gruppo di boy scout  canta “Noi vogliam Dio…”, ma in realtà si tratta di una sovrapposizione di voci fuori campo, perché tutti i ragazzi hanno la bocca chiusa.

[7] Analogamente a quanto accadeva negli Stati Uniti – dove, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la montante paranoia anti-comunista aveva portato addirittura all’istituzione di una Commissione senatoriale d’indagine sulle attività anti-americane, cioè una caccia ai comunisti o presunti tali, che si era interessata anche e molto dell’industria dell’intrattenimento a partire da quella cinematografica -, si suppose che esistesse anche in Italia una lista con i nomi dei registi comunisti italiani e che fosse in mano della Commissione di censura. Per quanto Monicelli non fosse iscritto al P.C.I., ma fosse, invece, un elettore del P.S.I., decise di farsi sentire: «In tal caso è chiaro che basta pochissimo oggi per essere giudicato comunista. Basterebbe, oggi, rifare Ladri di biciclette (1948, di Vittorio De Sica) per vedersi negare il visto di censura».

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Fonti

La visione di Totò e Carolina

Alberto Anile, Totò proibito, Lindau, 2005

Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano (1905-2003), Einaudi, Torino, 2003

Orio Caldiron, Totò, Roma, Gremese, 2001

Tatti Sanguineti. Totò e Carolina, Transeuropa, Bologna,  1999

Aldo Viganò, Commedia italiana in cento film, Le Mani, Recco, 1999.

Il mediatore e lo specchio emotivo

Il mediatore dei conflitti, sia esso un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore in altri ambi relazionali e sociali (come, ad esempio, in ambito sanitario e organizzativo-lavorativo), si propone come specchio emotivo di ciascuno degli attori del conflitto, ma anche il mediatore è davanti ad uno specchio emotivo.

La principale caratteristica del modello Ascolto e Mediazione

Il mediatore è inesorabilmente davanti ad uno specchio emotivo, soprattutto, se impiega alcuni particolari modelli di mediazione.  Tra questi rientra il modello Ascolto e Mediazione.

In diversi post, pubblicati su questa rubrica si è tentato di delineare il modello di mediazione proposto e praticato da Me.Dia.Re.

Per non correre il rischio di essere ripetitivi, si rimanda a quei post, ribadendo soltanto che esso è fondato sull’ascolto delle persone e, in particolare, sull’accoglienza delle loro emozioni e dei loro sentimenti, spesso con il ricorso al cosiddetto “rispecchiamento”.

Il rispecchiamento

Ascoltare empaticamente, nella prospettiva di tale mediazione, non implica cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ l’altro dalla sua emozione. Pertanto ascoltare un altro essere umano non vuol dire sollecitarlo ad accantonare, ad esempio, la sua rabbia, oppure tentare di fargli ridimensionare la sua sofferenza. Significa, invece, aiutarlo ad affrontare la sua rabbia o la sua sofferenza. In tal modo, comunicandogli che non è solo, che si è disponibili ad avvicinarsi ai suoi stati d’animo, senza censurarli né giudicarli.

«Lo strumento che il mediatore utilizza … è quello del cd. “specchio”. Attraverso tale tecnica il mediatore avvia un lavoro che si basa sui sentimenti e che si fonda sull’empatia: egli in primo luogo ascolta il soggetto e successivamente si rivolge a lui cercando di rinviare ciò che, a livello di sentito, cioè di sentimenti, ha percepito. (…) Successivamente riparte proprio da quest’espressione, da ciò che ha ricevuto e percepito nuovamente attraverso la relazione empatica e rinvia altri sentiti, in un meccanismo di ‘rimbalzo’, di restituzione continua alla parte delle emozioni che emergono dalla sua narrazione, consentendo al soggetto di andare oltre, fino al centro e all’origine della sua sofferenza»[1].

Il modello di Ascolto e Mediazione fa ampiamente ricorso allo specchio emotivo e ciò costituisce uno dei suoi “meriti”. Anzi, pensiamo che ne abbia diversi. Altrimenti non lo impiegheremmo da ormai quasi vent’anni. Anche tale modello presenta, però, delle criticità.

Le criticità del modello Ascolto e Mediazione

La principale criticità, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi incrollabili, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.

Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Non soltanto nella vita di tutti i giorni si presentano spesso situazioni in cui ci proponiamo come terzi mediatori, in modo informale e inconsapevole, ma vi sono mediazioni realizzate quotidianamente dal confliggente in assenza di mediatori formali o informali. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva” (cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato, per giungere  a “sentire” l’altro) esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.

Il modello Ascolto e Mediazione non ha inventato nulla

Si può quindi dubitare che il modello Ascolto e Mediazione, che di certo non ha scoperto l’ascolto, l’empatia, né lo specchio emotivo, abbia inventato alcunché ex novo. Tuttavia ha la peculiarità – il pregio, se si vuole – di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Dunque, certamente ha più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico e vittimologico, che sono sottese alla costruzione del paradigma della “Giustizia Riparativa” e, all’interno di questa, della mediazione penale. Si può ancora rinviare, però, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti – incluso quello di Carl Rogers – e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia (e al riguardo rinvio ai contributi di Maurizio D’Alessandro su mediazione e “prassi” e ad alcuni post pubblicati su questa rubrica).

Proprio per via dell’eterogeneità di riferimenti, dunque, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su una specifica e particolare teoria della personalità.

Un sapere esperienziale

Tuttavia ciò non significa che il mediatore che adotti il modello Ascolto e Mediazione si muova sospinto dall’improvvisazione. Evidentemente, hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite in sede formativa  sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.

Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende) campo della soggettività. Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.

Un salto nel buio

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Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità. Ogni colloquio, dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio (uno specchio emotivo, soprattutto), che riflette la sua immagine in modo più o meno fedele[2]. E tale aspetto talora costituisce un salto nel buio.

Lo specchio emotivo e la formazione o supervisione del mediatore

Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è stata in sede formativa (e nell’ambito della supervisione permanente prevista obbligatoriamente per i mediatori familiari) la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente ingombranti, e rifletterci su, minori sono i rischi di destabilizzazione – nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.

Una formazione interattiva

Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità. Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione -, il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.

La supervisione e lo specchio emotivo

Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.

Per tale ragione la supervisione costituisce una utilissima risorsa non soltanto per i mediatori familiari, ma anche per quelli penali e per quelli impegnati in altri ambiti. Certo, però, che sta al mediatore legittimarsi ad avvalersene in tutte le sue potenzialità e sta a lui avere la “forza” di farlo.

Molto si rimette in gioco, come nelle altre professioni

Vale la pena ancora ribadire che, comunque, in ogni colloquio come in ogni incontro di mediazione, se non  tutto, molto si rimette in gioco: sotto il profilo tecnico e a livello personale.

Senza voler ridimensionare questi ultimi rilievi, né le già evidenziate criticità sulle debolezze del modello Ascolto e Mediazione, ma per banali esigenze di realismo, va fatta un’ultima puntualizzazione: questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è una dimensione propria soltanto del modello Ascolto e Mediazione, né, del resto, costituisce una caratteristica esclusiva della professione del mediatore, ma in maniera e in misura diverse interessa molte altre professioni.

 

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.

[1] Brunelli (1998), La tecnica di mediazione, in Ricotti L. (a cura di) La mediazione nel sistema penale minorile, Cedam, Padova, pp.277-280

[2] Con il termine “colloquio” si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente. Nel modello di Ascolto e Mediazione il percorso inizia con dei colloqui individuali con ciascun attore del conflitto. Tali colloquia separati possono essere preliminari all’incontro di mediazione nel quale si incontrano per confrontarsi gli attori del conflitto. Quando, poi, come per lo più avviene, un solo incontro di mediazione non basta per soddisfare le esigenze di confronto tra i protagonisti del conflitto, data la complessità e la stratificazione di questo, allora, tra un incontro di mediazione e l’altro, si svolgono ulteriori colloqui individuali, cioè separati. L’intero ciclo si conclude con dei colloqui individuali post-mediazione, svolti a distanza di qualche settimana dall’ultimo incontro di mediazione.

Malcom X assassinato a New York

Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l’uguaglianza o la giustizia o qualsiasi altra cosa. Se sei un uomo, te le prendi.

La X che campeggia in fondo al suo nome (così come la frase in alto) ben rappresenta l’obiettivo che si diede nella vita: liberarsi dal giogo impostogli dalla nascita. Malcom nacque infatti all’interno di una famiglia di cui lui stesso riconosceva le origini in una realtà di schiavitù:

Mio padre non conosceva il suo vero cognome. Lo ricevette da suo nonno che a sua volta lo ricevette da suo nonno che era uno schiavo e che ricevette il cognome dal suo padrone.

L’ascendenza priva di libertà, forse unita a una storia famigliare molto difficile (il padre mancò quando lui aveva sei anni, probabilmente assassinato da un gruppo di suprematisti bianchi; la madre fu ricoverata in un ospedale psichiatrico; i figli vennero divisi tra famiglie affidatarie e orfanotrofi), gli fornirono dei buoni motivi per volersi riscattare. Scelse, perciò, di sostituire il proprio cognome con la sola lettera X, per segnare un netto stacco da ciò che era successo prima.

Questo passaggio arrivò dopo una gioventù piuttosto burrascosa, che gli costò anche una condanna a otto anni di reclusione per dei furti in appartamento. Seppe però fare tesoro dell’esperienza nel penitenziario, poiché qui si avvicinò alla Nazione Islamica, un gruppo di suprematisti neri che ne predicava l’emancipazione, attraverso un’interpretazione originale della religione islamica.

Scontata la pena, iniziò il periodo di militanza nel movimento, che, anche grazie al carisma di Malcom, vide il numero dei propri seguaci salire vertiginosamente. In questo periodo espresse posizioni particolarmente radicali, che lo spinsero a dire che i neri degli Stati Uniti dovevano lottare per i loro diritti “con tutti i mezzi necessari”.

Proprio per quanto riguarda le modalità dell’attivismo si pose in netto contrasto con un altro grande leader dei diritti civili: Martin Luther King. La non-violenza fu oggetto di dure critiche, al pari della Marcia su Washington, l’evento durante il quale King pronunciò il celeberrimo discorso I have a dream:

Fatta da bianchi davanti alla statua di un presidente morto da cento anni e al quale, quando era vivo, noi non piacevamo.

Se il pastore protestante di Atlanta tentò addirittura di instaurare un dialogo con il Presidente Kennedy, l’attivista islamico di Omaha riteneva che tutti i bianchi fossero intrinsecamente malvagi, o comunque colpevoli dell’oppressione dei neri.

Paradossalmente, o forse no, fu proprio dopo aver abbandonato la Nazione Islamica che avvenne un cambiamento di prospettiva. Il successivo pellegrinaggio alla Mecca costituì un passaggio significativo:

In passato, è vero, ho condannato in modo generale tutti i bianchi. Non sarò mai più colpevole di questo errore; perché adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri, che alcuni sono davvero capaci di essere fraterni con un nero.

Una rinnovata fiducia nei propri principi religiosi gli permise di ricominciare con nuova motivazione l’attività di difesa dei diritti umani. Sfortunatamente, questo periodo ebbe vita breve. Il 21 febbraio 1965, venne assassinato in circostanze mai chiarite durante un suo comizio ad Harlem, New York. Nel medesimo quartiere ebbe luogo il funerale, a cui parteciparono 1.500.000 persone.

Alessio Gaggero

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Luca Coscioni muore il 20 febbraio 2006

Non è una battaglia che ho scelto io, è lei che ha scelto me.

Il 20 febbraio 2006 muore a 38 anni Luca Coscioni, dal ’95 affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA); muore soffocato perché non vuole la tracheotomia, rifiuta di continuare a vivere attaccato a una macchina. Non può parlare, è bloccato su una sedia a rotelle e completamente dipendente nei movimenti, eppure rivendica e mette in atto il diritto dell’individuo di decidere liberamente sulla propria vita e la propria morte.

Luca non è un paziente qualunque: ha fondato l’associazione che porta il suo nome per battersi per i diritti d’informazione e libertà di scelta di tutti i malati, è da sempre attivo nel sociale e in politica, ha condiviso le sue battaglie con i Radicali Italiani, di cui è stato presidente tra il 2001 ed il 2006.

Alla sua morte, i messaggi di cordoglio del mondo politico lo battezzano eroe, testimone di speranza, esempio da imitare: sono tuttora visibili, alla pagina web “Ciao Luca”, novantatré pagine di agenzie di stampa con testimonianze di accorata partecipazione da tutto l’arco costituzionale. Eppure, quella stessa politica che lo ha salutato commossa lo aveva emarginato, non voleva saperne delle sue lotte e delle sue idealità. In vita Luca era stato letteralmente bandito, sgradito sia al centro-sinistra che al centro-destra. Faceva, era scandalo: scandalo quel corpo malato che non accettava pietà, ma voleva giustizia, quel corpo messo in gioco per dare speranza a tutti quei malati che ancora oggi non sono riconosciuti come persone e diventano oggetti di scambio per la politica; si è detto che il suo era un “corpo politico”, una “straordinaria risorsa narrativa ed emotiva, tanto più nell’era dell’immagine. Il corpo come arma definitiva.”. Non gli veniva perdonato che si battesse per il rispetto di quei diritti che la Costituzione prevede e sancisce: il diritto a una vita dignitosa, il diritto a una morte non umiliante. Non gli si perdonava il suo essere contro ogni proibizionismo nella ricerca scientifica.

Nato nel 1967 a Orvieto, nella prima parte della sua vita insegna Economia ambientale all’università di Viterbo ed è un maratoneta appassionato; lo spartiacque è il 1995, come racconta lui stesso:

Mentre mi alleno per New York, fatti pochi passi, sono costretto a fermarmi, non riesco più a correre. Ancora non lo sapevo, ma quello sarebbe stato il mio ultimo allenamento. Due mesi dopo, mi viene diagnosticata la SLA. Il neurologo non ha la forza di comunicarmi personalmente che è stata emessa, nei miei confronti, una sentenza di condanna a morte. Mi consegna, quindi, in busta chiusa, una lettera, che avrei dovuto consegnare al mio medico di famiglia. Su quella lettera c’era scritto che entro tre-cinque anni sarei morto, paralizzato nel mio letto.

Luca viene visitato in vari ospedali, senza beneficio. In Italia ci sono circa 5mila persone affette da SLA, o morbo di Lou Gehrig; un numero incerto, calcolato sulle statistiche (1,5 casi ogni 100mila), visto che l’attivazione di un registro nazionale è stata promossa solo dal 2017, su iniziativa dell’AISLA. Solo dal 2001 inclusa nell’elenco delle patologie rare, è una malattia degenerativa del sistema nervoso, colpisce i neuroni che danno impulsi ai muscoli del corpo, provocando crescenti problemi al movimento, alla nutrizione, alla parola.

Tuttavia, le capacità intellettive di Luca permangono intatte e, quattro anni dopo la diagnosi, si sposa e decide di ritornare alla politica. Quando il Parlamento europeo vota una mozione contro la clonazione terapeutica, nel 2000, decide di candidarsi alle elezioni online per il rinnovo del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, l’organo deliberativo del movimento, promuovendo una campagna ispirata ai valori della laicità e della tutela dei diritti civili, contro il proibizionismo nella ricerca scientifica. Viene eletto e i radicali fanno della battaglia per la libertà di ricerca sulle cellule staminali il tema centrale della loro campagna per le elezioni politiche del 2001.

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Luca Coscioni è il candidato capolista ed è sostenuto da un appello firmato da decine di premi Nobel di tutto il mondo, tra cui lo scrittore José Saramago, che gli dedica pubblicamente parole di profonda stima. Partecipa a dibattiti televisivi nazionali, comunicando mediante il suo sintetizzatore vocale, viene ricevuto dal presidente della Repubblica Azeglio Ciampi e dal ministro della Sanità Umberto Veronesi, partecipa a sit-in di protesta e arriva ad autoridurre i propri farmaci, in un’azione nonviolenta atta a denunciare l’insufficiente informazione da parte della televisione pubblica sulla questione della libertà della ricerca scientifica.

Non viene eletto, ma pochi mesi dopo è di nuovo sostenuto da centinaia di scienziati, medici, malati e personalità politiche e della cultura come candidato per il rinnovo del Comitato Nazionale di Bioetica. Nonostante l’imponente mobilitazione, non viene scelto: secondo alcuni, pesano a suo sfavore la mancanza di titoli specifici nel curriculum e il ruolo di Presidente di Radicali Italiani, ma forse lo feriscono e indignano anche di più le parole di una docente eletta tra i nuovi membri, secondo cui la candidatura è stata respinta perché “il Comitato non è il luogo di rappresentazione del dolore del mondo”.

Per continuare a porre all’attenzione dell’opinione pubblica le istanze che connotano le sue battaglie, il 20 settembre del 2002, giorno in cui in Italia si commemora la liberazione di Roma dal potere temporale del Vaticano, viene fondata l’Associazione Luca Coscioni, con “lo scopo di promuovere la libertà di cura e di ricerca scientifica, l’assistenza personale autogestita e affermare i diritti umani, civili e politici delle persone malate e disabili”. Luca si impegna a 360 gradi per difendere i diritti dei malati: quando si combatte, si combatte per tutti.

Il suo obiettivo è “restituire mani e voce a chi mani e voce non ha oppure non può più utilizzarle o ancora utilizzarle solo con grandi difficoltà”. Ha sperimentato sulla propria pelle che la persona malata, non appena una diagnosi le fa assumere questo nuovo status, perde immediatamente elementari diritti umani, tanto più quanto più gravi sono le condizioni di salute, e s’infuria contro chi lo considera “un povero handicappato strumentalizzato”:

La mia, la nostra battaglia radicale per la libertà di Scienza, mi ha consentito di riaffermare, in particolare, la libertà all’elettorato passivo, il poter essere cioè eletto in Parlamento, per portare istanze delle quali nessun’altra forza politica vuole e può essere portatrice.

La sua voce, resa metallica dal sintetizzatore vocale, diviene un tratto distintivo nelle numerose occasioni in cui prende la parola in pubblico:

La comunicazione è vita. Privare una persona di questa facoltà non equivale a toglierle la vita. È molto peggio. Significa imprigionarla in un corpo che non ha più alcun senso di esistere. Se poi questo corpo è anche completamente immobile o soltanto parzialmente mobile, non poter comunicare diviene una vera e propria tortura psicologica e fisica.

La sua è anche, e consapevolmente, una lotta urgente:Il fatto è che non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. E, tra una lacrima e un sorriso, le nostre dure esistenze non hanno bisogno degli anatemi dei fondamentalisti religiosi, ma del silenzio della libertà. Le nostre esistenze hanno bisogno di libertà per la ricerca scientifica. Ma non possono aspettare. Non possono aspettare le scuse di uno dei prossimi papi.

L’Associazione Luca Coscioni, dopo essere stata impegnata nella campagna referendaria volta a cancellare la legge del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, che vieta qualsiasi forma di ricerca sulle cellule staminali embrionali (le più promettenti per la cura di malattie come la SLA), ha proseguito l’iniziativa politica per superarne i divieti attraverso proposte di legge e iniziative giuridiche che hanno portato nel tempo a pronunce giurisdizionali che ne hanno attutito la portata proibizionista.

Luca non ha fatto in tempo a vedere gli esiti delle battaglie da lui iniziate. Ad oggi, rimane ancora molto da fare: le fondamentali questioni della vita e della morte, del come vivere e come morire, della libertà di ricerca, di come garantire dignità a malati e disabili, e sollievo alle loro famiglie, sono ancora lì, e attendono soluzione, attenzione, “regola”. E continua, opprimente, la cappa di una informazione “scientifica” superficiale, monca, inquinante a tutti gli effetti.

È stato scritto che la vicenda di Luca Coscioni

Riassume perfettamente il perché trattare i cosiddetti “diritti civili” come qualcosa di secondario, di non indispensabile, come un capriccio di élite sazie e incoscienti sia tanto superficiale quanto sbagliato, sia per le vite degli individui, sia per la ricchezza materiale e culturale del Paese in cui essi vivono.

In fondo, Luca non si è battuto che per questo: il diritto umano e civile alla conoscenza.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Vivo o morto, X? Intervista con Luca e Maria Antonietta Coscioni”, www.aduc.it; M. A. Farina Coscioni, “Nove anni fa moriva Luca Coscioni una vita spesa per la libertà”, www.articolo21.org; M. Mascioletti, “Luca Coscioni, l’Italia e il tempo che abbiamo perso”, www.stradeonline.it; www.associazionelucacoscioni.it; V. Vecellio, “Vi racconto Luca Coscioni, mio marito guerriero”, http://ildubbio.news; “Ciao Luca”, www.scribd.com