Guarda i muscoli del capitano

Guarda i muscoli del capitano,
tutti di plastica e di metano.
Guardalo nella notte che viene,
quanto sangue ha nelle vene.
Il capitano non tiene mai paura,
dritto sul cassero,
fuma la pipa, in questa alba fresca e scura
che rassomiglia un po’ alla vita

Iniziava così I muscoli del capitano, di Francesco de Gregori, una delle canzoni (nell’album Titanic, 1982) esplicitamente dedicate alla tragedia del transatlantico. In particolare, questa, è sul capitano Edward John Smith. Che De Gregori, presentando la canzone, descrisse come troppo fiducioso nelle qualità della nave. Insomma un uomo talmente preso dalla (narcisistica?) volontà di battere il record della traversata dell’Atlantico da ignorare irresponsabilmente i messaggi di allerta che gli segnalavano gli iceberg. Come ne I muscoli del capitano, timidamente e inutilmente, con ingenua incredulità, tenta di fare il mozzo:

Ma capitano non te lo volevo dire,
ma c’è in mezzo al mare una donna bianca,
così enorme, alla luce delle stelle,
che di guardarla uno non si stanca

Però, il capitano Smith della canzone si sente forte e sicuro sulla sua nave. La crede forte come i suoi muscoli e inaffondabile. Un capolavoro inarrivabile di perfezione ingegneristica.

Questa nave fa duemila nodi,
in mezzo ai ghiacci tropicali,
ed ha un motore di un milione di cavalli
che al posto degli zoccoli hanno le ali.
La nave è fulmine,
torpedine, miccia,
scintillante bellezza,
fosforo e fantasia,
molecole d’acciaio,
pistone, rabbia,
guerra lampo e poesia.

13 gennaio 2012: i muscoli del capitano e l’Isola del Giglio

 Il Titanic, di proprietà della compagnia White Star Line alle 23:40 del 14 aprile 1912, durante il suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, si scontrò con un gigantesco iceberg. L’urto provocò un gigantesco squarcio nella fiancata destra. Il transatlantico affondò in due ore e quaranta minuti. Delle 2.227 persone a bordo, 1.517 non si sarebbero salvate.

Cento anni dopo un’altra enorme nave passeggeri naufragò per l’eccessivo “ottimismo” del suo capitano. Si trattava della nave passeggeri di maggior tonnellaggio naufragata nella storia, la Costa ConcordiaAlle 21:45 del 13 gennaio 2012 urtò contro un gruppo di scogli, Le Scole, nei pressi dell’Isola del Giglio. Persero la vita 32 persone tra passeggeri e membri dell’equipaggio, inclusa la piccola Dayana Arlotti di 6 anni e il suo papà 37enne, Williams.

La Corte di Cassazione il 12 maggio 2017 ha confermato le condanne pronunciate contro il comandante Francesco Schettino dai giudici penali del Tribunale e della Corte d’appello: 16 anni di reclusione per naufragio, omicidio colposo plurimo e abbandono di nave in pericolo.

Da subito tutti, a partire dagli inquirenti, si chiesero perché la nave non avesse inviato una richiesta di soccorso (mayday) e perché stesse navigando così vicino all’isola e cercarono di appurarne le ragioni. Il comandante Schettino spiegò che la vicinanza della nave alla costa era dovuta alla sua intenzione di indirizzare un “inchino” di saluto all’isola, secondo una pratica non insolita per la Costa Crociere.

De Falco e Schettino due persone il cui comportamento è diventato emblematico

Cosa resta, cinque anni dopo, degli inchini, della biscaggina, del Salga a bordo, cazzo, del più incredibile dei naufragi? Cosa resta della “più italiana” delle tragedie: un comandante che fa un casino e poi scappa e di un ufficiale che lo rincorre per ricordargli i suoi compiti, la sua divisa?“, scriveva Diego Pretini il 13 gennaio di due anni fa.

Pretini e molti altri commentatori interpretarono quella spaventosa, terribile, tragedia in termini emblematici. La “più italiana” delle tragedie. E il comportamento di Gregorio De Falco, capo sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno, diventò rappresentativo dell’efficienza, della competenza coniugata al senso di responsabilità, oltre che del dovere, contrapposto a quello di Schettino, letto come esempio nefasto della cialtronaggine irresponsabile.

La condotta di quest’ultimo, in questa prospettiva, ricorda un poco proprio la chiusura de I muscoli del capitano.

In questa notte elettrica e veloce,
in questa croce di Novecento,
il futuro è una palla di cannone accesa
e noi la stiamo quasi raggiungendo.
E il capitano disse al mozzo di bordo
“Giovanotto, io non vedo niente.
C’è solo un po’ di nebbia
che annuncia il sole.
Andiamo avanti tranquillamente”.
Mentre Schettino è sostanzialmente “uscito di scena”, almeno rispetto all’attenzione mediatica, De Falco è tornato invece al centro di quell’attenzione.
Candidato al Senato dal Movimento Cinque Stelle per le elezioni nazionali tenutesi nel marzo scorso, proprio come simbolo dell’onestà e del senso di responsabilità – una condotta, la sua, che egli sempre definì tutt’altro che eroica, ma come un normale e doveroso adempimento di quanto previsto dal ruolo ricoperto -, è poi entrato in rotta di collisione proprio con le scelte politiche del governo, venendo, così, espulso dal Movimento.

E poi il capitano, se vuole, si leva l’ancora dai pantaloni e la getta nelle onde

Il provvedimento di espulsione è connesso alle sue decisioni di votare contro il “decreto sicurezza” e di astenersi nella votazione sulla fiducia posta dal Governo Conte sull’approvazione della legge di Bilancio. A seconda delle chiavi di lettura, anche qui si potrebbe ripensare oppure no alla canzone di De Gregori. E, in caso positivo, ci si interrogherebbe su quale figura, tra Luigi Di Maio e De Falco, è quella maggiormente associabile, in termini metaforici, al capitano Smith, protagonista della canzone di De Gregori Il comandante senza un minimo di buon senso, come lo definì il cantautore in un concerto. Colui che se ne infischiava degli avvertimenti sul pericolo incombente, perché era tutto preso dal far vedere quanto sono forti i muscoli del capitano, totalmente dominato dal proprio bisogno di distinguersi, di essere lodato, forse amato, da quell’essere impersonale e anonimo che è il pubblico. Talmente arrogante e sbruffone, nella canzone di De Gregori, da togliersi l’ancora dai pantaloni e gettarla tra le onde, a capriccio. E, però, purtroppo per i suoi passeggeri, con un suo seguito di acritici obbedienti, perché “chiama forte quando vuole qualcosa qualcuno e c’è sempre uno che gli risponde”.
In realtà, altrove (qui) commentammo vicende non tanto dissimili dall’espulsione di De Falco, stabilita dal collegio dei probiviri del Movimento, il 31 dicembre 2018, tredici giorni fa, e proponemmo  una chiave di lettura particolare: quella del conflitto e delle sue dinamiche. In particolare, in quel caso, quasi due anni fa, rispetto ad alcuni fatti, come l’uscita dell’eurodeputato Marco Affronte dal Movimento Cinque Stelle e la tesa gestione dei dissensi interni al Partito Democratico, si suggerì l’ipotesi che fosse la radicalizzazione del conflitto politico a costituire una sorta di “fabbrica del tradimento“. Il discorso è, però, troppo lungo per essere riportato in questo post.

Il naufragio della nave Sirio

In conclusione, ricordiamo un altro aspetto di quanto scrisse Enrico Deregibus riguardo a I muscoli del capitano nel suo libro su De Gregori:
La parentesi strumentale di pianoforte, e lo spunto di coda finale, sono la splendida melodia de Il tragico naufragio della nave Sirio (dal repertorio dei cantastorie dell’Italia centro-settentrionale) su una nave di emigranti italiani diretta in America, che si scontra con uno scoglio.
La nave Sirio, costruita a Glasgow, per portare i migranti italiani oltreoceano, era partita il 15 luglio 1906 da Genova, diretta a Plata, ma al largo delle coste spagnole meridionali si incagliò vicino a Capo Palos, navigando troppo rasente alla riva. Morirono 500 persone.
Il canto, registrato per la prima volta da Michele Luciano Straniero, fu interpretato anche da Giovanna Marini e Francesco De Gregori.
E da Genova
In Sirio partivano
Per l’America varcare
Varcare i confin
Ed a bordo
Cantar si sentivano
Tutti allegri
Del suo destin
Urtò il Sirio
Un orribile scoglio
Di tanta gente
La misera fin
Padri e madri
Bracciava i suoi figli
Che si sparivano
Tra le onde del mar
E fra loro
Un vescovo c’era
Dando a tutti
La sua benedizion
Alberto Quattrocolo

 Fonti

Enrico Deregibus, Quello che non so, lo so cantare, Giunti, Firenze, 2003

www.corobalzani.it

www.ilfattoquotidiano.it

www.it.wikipedia.org

Un nero a Sparta

Un nero a Sparta, in una calda notte del 1967, nella stazione deserta

Un uomo dal fisico statutario e con un viso dalla bellezza non comune, dal portamento distinto e con una gestualità asciutta e dei modi calmi, una calda notte del 1967, scende alla stazione ferroviaria di Sparta, una città del Mississipi. Ma quell’uomo, ben vestito, con la valigetta e la sicurezza del professionista affermato, è un nero. Un nero a Sparta, che entra nella sala d’aspetto della stazione deserta.

Quella notte avviene un omicidio. La vittima è un ricco imprenditore del Nord, mister Colbert, intenzionato ad avviare una fabbrica, da tutti attesa in quella cittadina depressa del Sud, afflitta da una disoccupazione cronica. Il suo corpo è stato trovato in un vicolo lì vicino, con il cranio sfondato. Un medico ha stabilito approssimativamente che è stato ucciso mezz’ora, al massimo un’ora, prima. Si suppone che sia stato un omicidio a scopo di rapina. E il capo della locale stazione di polizia, Bill Gillespie, ha incaricato un suo agente, Sam Wood, lo stesso che nel suo giro di pattuglia ha trovato il cadavere, di dare un’occhiata in giro, stazione inclusa, per scovare qualche vagabondo.

Così quel nero a Sparta finisce in un vortice di guai.

Che ci fa un nero a Sparta con il portafoglio pieno di banconote?

L’agente Wood, infatti, lo scorge tutto solo nella sala d’attesa della stazione. Un nero a Sparta e di notte! Non può che essere lui l’assassino. Non ci pensa due volte, l’agente bianco Sam Wood, gli punta l’arma, non la lascia parlare e lo porta con sé al comando di polizia. Dal suo capo, Gillespie, bianco di mezza età, corpulento, stanco, demotivato e un po’ nauseato di se stesso oltre che della città che deve vigilare e proteggere. Gillespie “consiglia” subito all’arrestato, di confessare immediatamente. Così quell’uomo finalmente apprende di cosa lo si accusa. A nulla vale che spieghi che era in attesa della coincidenza per Memphis, che si sente passare proprio mentre parlano. Ha il portafoglio pieno di soldi, più di quanti Gillespie ne guadagni in un mese. Nero a Sparta, di notte, con il portafoglio pieno. Due più due fa quattro, per Gillespie.

Ooops, quel pregiudizio razzista così foriero di errori!

Soltanto che è sceso un nero a Sparta un po’ particolare, in quella calda notte del ’67. Si chiama Virgil Tibbs, ed è un poliziotto della squadra omicidi di Philadelphia, Pennsylvania. Cioè, del Nord. Non soltanto, ma è il migliore investigatore, stando a quanto appura al telefono Gillespie, parlando con il capo di Tibbs – non si era mai visto prima un nero a Sparta così curato nel vestire e nel parlare! Insieme, scopriranno il vero assassino, che non è un perdigiorno nero a Sparta (residente o di passaggio), ma Ralph Henshaw, un barista bianco, spiantato. Un perfetto esemplare di quella che viene chiamata “spazzatura bianca”. Un razzista e nevrotico, che ha messo in cinta una sedicenne (solita andare nuda per casa di notte, per attrarre l’attenzione degli uomini, tra cui Sam Wood), e  ha colpito il ricco Colbert soloper derubarlo, uccidendolo involontariamente, al fine di procurarsi il denaro da dare ad una anziana nera che pratica aborti clandestini. Ma l’individuazione del colpevole non è proprio immediata, preceduta, com’è, infatti, da due arresti sbagliati di Gillespie, il secondo dei quali riguarda proprio l’agente Wood. L’arresto del vero omicida, del resto, avverrà, soltanto grazie alla preparazione e all’intelligenza, alla determinazione e alla sensibilità, nonché all’introspezione, di Virgil Tibbs.

Che anno, quel 1967!

Del resto Tibbs è, in realtà, Sidney Poitier. E il film era La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967, di Norman Jewison).

Uscì in Italia il 12 gennaio del 1968 ed ebbe negli USA e altrove un successo impressionante, entrando nella lista dei campioni di incassi di quell’anno e risultando il film poliziesco maggiormente redditizio tra quelli prodotti a Hollywood a partire dal 1930, cioè dagli inizi del sonoro. Soprattutto fece scalpore la scena in cui Tibbs, preso uno schiaffo da Hendicott, il ricco piantatore razzista, non subisce passivamente, ma immediatamente restituisce la sberla. La sequenza elettrizzò gli spettatori, bianchi e afroamericani.

Anche l’industria cinematografica, l’anno dopo, rese omaggio all’opera assegnandole cinque dei sette Oscar per cui era stato candidato: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista (Rod Steiger, nella parte di Gillespie), miglior sceneggiatura non originale (a Stirling Silliphant), miglior montaggio (Hal Ashby, regista, poi, tra gli altri, di Tornando a casa, di cui abbiamo parlato qui su questa rubrica) e miglior sonoro.

Un anno di grazia per Sidney Poitier

Quell’anno l’Accademy Awards concesse qualche riconoscimento anche ad un’altra pellicola interpretata da Sidney Poitier, Indovina chi viene a cena (1967, di Stanely Kramer), cui assegnò due Oscar, uno per la miglior attrice protagonista (Katherine Hebpurn), e l’altro per la miglior sceneggiatura originale (William Rose). Anche l’opera di Stanley Kramer (l’ultimo suo vero successo di pubblico e ultima interpretazione di Spencer Tracy, morto al termine delle riprese e candidato postumo all’Oscar), come il poliziesco La calda notte dell’Ispettore Tibbs, era centrata sui temi del pregiudizio e del razzismo nella società americana dell’epoca. Ma era una commedia, ottimamente sceneggiata e superbamente interpretata, e forse per questo, o per il suo lieto fine carico di speranza, ebbe un successo commerciale negli USA quasi triplo rispetto al film di Jewison. Del resto l’incasso di Indovina chi viene a cena superò di poco anche quello di un altro, il terzo film di grossissimo successo interpretato da Sidney Poitier quell’anno: La scuola della violenza (1967, di James Clavell). A differenza degli altri due, questo film, ambientato nell’East End di Londra, con Poitier nei panni di un ingegnere che si trova a fare da insegnante in un scuola popolata di bulli e disadattati, non aveva come aspetto centrale il razzismo, ma implicitamente ed esplicitamente questo tema emergeva in molte scene.

Questa eccezionale tripletta di successi fece passare Poitier dalla dimensione di attore apprezzato (già premiato con l’Oscar come miglior protagonista nel 1963, per la commedia I gigli del campo, di Ralph Nelson) a quella di superstar terribilmente redditizia.

Le altre opere di rottura di quell’anno

Quel 1967 non fu, però, un anno di svolta solo per Poitier. Basta dare un’occhiata alle pellicole candidate ai premi Oscar e alle altre che riscossero notevoli incassi al botteghino per verificare che la cosiddetta New Hollywood si stava affermando prepotentemente: Gangster Story (di Arthur Penn), che affidava a Faye Dunaway e Warren Beatty il compito di incarnare la famigerata coppia di fuorilegge composta da Bonnie e Clyde, facendone delle icone; Il laureato (di Mike Nichols), che illuminava di risvolti romantici e anticonformisti il nerd neolaureato interpretato dal trentenne Dustin Hoffman, il quale entrava, così, nel giro delle star; Quella sporca dozzina (di Robert Aldrich), che, nel genere bellico, affidava a Lee Marvin, il maggiore a capo di un manipolo di pendagli da forca (John Cassavetese, Charles Bronson, Donald Sutherland, Jim Brown, Telly Slavas, Clint Walker, ecc.), il compito di disintegrare ogni retorica militarista, stabilendo l’esplicito parallelo tra guerra e criminalità; Nick mano fredda (di Stuart Rosenberg), in cui Paul Newman (anch’egli candidato all’Oscar), detenuto per un reato di peso irrilevante (aver “decapitato dei parchimetri capitalisti”), pativa le torture e le storture di un sistema penitenziario riabilitante a parole e disumano nella sostanza; A sangue freddo (di Richard Brooks), che traduceva in immagini l’omonima, sconvolgente, opera di Truman Capote su un reale e gratuito massacro di una famiglia; A piedi nel parco (di Gene Saks), che tentava di dare voce al bisogno delle giovani coppie di scoprire un’autenticità nuova nelle emozioni; Hombre (di Martin Ritt), un western polemico con Paul Newman nei panni di un bianco, cresciuto patendo fame e soprusi in una riserva indiana, che paradossalmente muore proprio per difendere dai banditi la moglie del commissario corrotto della riserva.

Un nero a Sparta e altrove con un fardello pesante

Di tutte le star, in erba o già affermate, dei film citati e altri ancora, prodotte ad Hollywood in quel 1967, Sidney Poiteir fu la sola ad azzeccare tre successi di quella portata (merito anche delle accattivanti colonne sonore delle tre opere, che in diversa misura fecero epoca). E, soprattutto, era la sola star il cui lavoro implicava responsabilità che travalicavano di gran lunga l’arte della recitazione. Gli toccava sullo schermo e nella vita vera il ruolo di rappresentante di una minoranza oppressa e doveva svolgerlo senza mai perdere l’equilibrio morale, psicologico ed emotivo. Aveva vissuto sulla propria pelle il bigottismo, l’ineguaglianza, il razzismo esplicito e quello ammantato di moderatismo. E divenuto attore, il modo in cui intendeva svolgere la professione e gestire la celebrità acquisita conferivano una valenza tutta particolare ad ogni film interpretato, ad ogni gesto compiuto e ad ogni parola pronunciata. Doveva misurarsi con gli attacchi dei reazionari bianchi, che lo minacciavano, lo insultavano, facevano picchetti e dimostrazioni violente contro i suoi film, incluso La calda notte dell’ispettore Tibbs. Doveva vedersela con i benpensanti cerchio-bottisti, quelli per cui il razzismo era solo la manifestazione nostalgica di pochi folkloristici incappucciati le cui azioni erano fatte oggetto di denunce esageratamente allarmistiche nella propaganda dei liberal, cioè degli amici dei comunisti e dei radicali. Doveva aver a che fare con chi lo invitava a non portare acqua al mulino degli anarchici e dei sovversivi, cioè dei traditori della patria. Doveva replicare a chi invitava quelli come lui e Martin Luther King ad avere pazienza, a perseverare, sì, ma con maggiore moderazione. E doveva sentirsi tacciato, da sinistra, di fare il gioco dei bianchi, di essere un cane ammaestrato, un servo dell’establishment, di essere un borghese ben piazzato con pose da radical chic.  

Dovremmo essere grati a Sidney Poitier anche solo per aver portato il fardello di un compito impossibile con grazia eccezionale“, ha scritto Peter Bogdanovich.

Certo, gli siamo grati. E siamo anche angosciati, affranti e desolati, a dir poco, pensando che, oggi, 52 anni dopo l’acclamata uscita di quel film nelle sale italiane, al nord e al sud d’Italia, come in altre parti d’Europa e negli USA, sia tanto spesso ricorrente un’ottuso razzismo, molto simile a quello incontrato, nel film di Jewison, da quel nero a Sparta.

Infine, tanti auguri a Sidney Poitier, tra poco più di un mese splendido novantaduenne!

Alberto Quattrocolo

Fonti

AA.VV., Il cinema. Grande storia illustrata, De Agostini, Novara, 1982, Voll. IV e V

Peter Bogdanovich, Chi c’è in quel film?, Fandango Libri, Roma, 2008

www.imdb.com

Inizia il processo contro gli “scassinatori del Watergate”

C’è stata una volta durante un periodo di crisi nazionale in cui politici di entrambi gli schieramenti misero da parte le faziosità politiche per scoprire la verità. C’è stata una volta in cui Democratici e Repubblicani si unirono per portare a una fine pacifica una presidenza corrotta e criminale. C’è stata una volta in cui i membri del Congresso misero la difesa della nostra democrazia sopra agli interessi dei partiti, per la ricerca di un bene maggiore. C’è stata una volta.
(Robert Redford)

Nel gennaio del 1973, il giudice federale per il Distretto di Columbia John Sirica avviò il processo contro gli “scassinatori del Watergate”: i cinque uomini sorpresi nottetempo, il 17 giugno ’72, nel quartier generale del Comitato nazionale democratico a Washington e i loro referenti, Gordon Liddy (ex funzionario dell’FBI) e Howard Hunt (già agente della CIA e collaboratore della Casa Bianca); in particolare, l’11 gennaio Hunt si dichiarò colpevole di cospirazione, furto con scasso e intercettazioni telefoniche, escludendo tuttavia il coinvolgimento degli alti livelli dell’amministrazione USA. Il processo si concluse con la condanna di tutti gli imputati, segnando l’inizio della debacle del presidente Nixon.

A tutt’oggi non é ancora chiaro cosa abbia spinto i potenti uomini della Casa Bianca a un’operazione di spionaggio del genere. In quell’inizio d’estate del 1972, a meno di cinque mesi dalle elezioni che lo avrebbero visto trionfare sul candidato democratico George Mc Govern, il presidente Nixon veniva dato in vantaggio di circa 19 punti, un margine di assoluta sicurezza per avere la rielezione garantita. Quell’operazione inutilmente rischiosa, fallita per un banale contrattempo, sarebbe costata molto cara a Nixon fin da subito, se nei primi mesi dopo il “furto” al Watergate i tentativi di insabbiamento e depistaggio non fossero andati a buon fine. Quasi mezzo secolo dopo, nessuno sa bene neanche che cosa i “ladri” stessero veramente cercando. L’unica cosa certa è che stavano tentando di riparare una cimice – che avevano installato tre settimane prima – in un telefono, che stavano frugando in mezzo ai documenti e ne stavano fotografando alcuni.

L’addetto stampa di Nixon, Ron Ziegler, sminuì l’episodio come un “furto di terz’ordine” e molti americani inizialmente credettero che nessun Presidente con il vantaggio che Nixon aveva nei sondaggi sarebbe stato così ingenuo e privo di etica da rischiare la carriera politica in tale modo. Tuttavia, l’implicazione di membri delle principali agenzie governative, le modalità del “furto” e l’atteggiamento dei “ladri” insospettirono la stampa, dando vita a una delle più celebri inchieste giornalistiche della storia, condotta da Bob Woodward e Carl Bernstein, grazie alla collaborazione della misteriosa fonte “Gola Profonda” (Mark Felt, all’epoca numero due dell’FBI, che rivelò la propria identità solo una trentina d’anni dopo).

Il Watergate iniziò per una questione di soldi, ma fu soprattutto una storia di arroganza del potere e del desiderio di attaccarsi al potere ad ogni costo. Per l’opinione pubblica americana la grande sorpresa fu che molti, troppi, erano stati disposti a sacrificare i principi e i valori fondamentali per queste motivazioni.

Gli investigatori stabilirono rapidamente i legami tra gli “scassinatori del Watergate” e il comitato per la rielezione di Nixon. Dietro di loro, piano piano, emersero – con più o meno implicazioni e responsabilità – le colpe di quasi l’intero vertice che governava l’America all’inizio degli anni Settanta. Per l’FBI fu abbastanza facile – e sempre più sconvolgente – risalire dal basso fino a Nixon, nonostante il Presidente, in un discorso del 15 agosto 1973, rivolgendosi alla nazione avesse giurato: “Non sapevo nulla della effrazione al Watergate. Non ho mai preso parte né sono mai stato a conoscenza di attività di “cover up”; non ho mai autorizzato, né incoraggiato subordinati a compiere azioni illegali o a usare tattiche improprie durante la campagna elettorale. Questa è la pura e semplice verità”.

Dopo aver seguito il flusso di cospicue somme di denaro illecitamente stornate dalla campagna per la rielezione di Nixon, l’FBI stabilì che l’effrazione del Watergate non era che la punta dell’iceberg di una massiccia campagna di spionaggio e sabotaggio politico condotto per conto del comitato per la rielezione di Nixon, (CRP, per assonanza fonetica e semantica detto “Creep”).

Nel maggio ‘73 ebbero inizio i lavori della Commissione del Senato che indagava sul Watergate, ripresi in diretta televisiva; il 13 giugno John Dean, consigliere della Casa Bianca, confessò di avere discusso dell’insabbiamento del caso Watergate con il presidente Nixon almeno 35 volte; il 13 luglio Alexander Butterfield, ex segretario presidenziale, ammise a malincuore in un’audizione al Congresso che sin dal 1971 Nixon registrava tutte le conversazioni e le telefonate effettuate nello Studio Ovale: la rivelazione fu scioccante per l’opinione pubblica americana ed ebbe l’effetto di mutare radicalmente le indagini sul Watergate.

I nastri magnetici furono immediatamente citati dallo Special Prosecutor responsabile delle indagini, Archibald Cox, e dal Senato, perché potevano dimostrare chi, tra Nixon e Dean, dicesse la verità. Il 23 luglio iniziò un lungo braccio di ferro tra Nixon e il Senato in seguito al rifiuto di consegnare alla Commissione d’inchiesta i nastri registrati alla Casa Bianca.

Tra ottobre e novembre Nixon tentò il tutto per tutto licenziando in tronco Archibald Cox; si dimisero il nuovo Ministro della Giustizia Richardson e il suo vice Ruckelshaus. Mentre Nixon proclamava in televisione per l’ennesima volta la propria innocenza, la Casa Bianca non era in grado di spiegare un “vuoto” di 18 minuti e mezzo in uno dei nastri richiesti dal Senato, e tentava di aggirare la richiesta dei nastri originali con la consegna di 1200 pagine di trascrizioni delle registrazioni. Lo scontro istituzionale si concluse il 24 luglio ’74, quando la Corte Suprema, con un atto senza precedenti, ordinò al Presidente degli Stati Uniti di consegnare i nastri incriminati.

Tutti i membri dello staff elettorale furono condannati per aver ostacolato le indagini sullo scandalo Watergate; si dimisero il Vice-Presidente Spiro Agnew e i principali consiglieri politici del Presidente. Richard Nixon, trincerato nello Studio Ovale, era in pratica solo contro il Paese che chiedeva giustizia e soprattutto la verità.

La posizione di Nixon era sempre più compromessa e la Camera dei Rappresentanti decise di intraprendere un’inchiesta per una possibile messa in stato di accusa del Presidente. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il 27 luglio 1974 la Commissione Giudicante per la Camera dei Rappresentanti votò a favore dell’impeachment di Nixon con l’accusa di aver ostacolato il corso delle indagini, cui si aggiunsero altre due imputazioni per abuso di potere e ostacolo al Congresso.

Il “leone indomito” si arrese l’otto agosto: Richard Nixon annunciò le sue dimissioni per non essere incriminato. Lo choc emotivo del Paese fu enorme. Al suo posto fu nominato Presidente degli Stati Uniti Gerald Ford.

Secondo alcuni analisti, “il Watergate è stato solo un pretesto” e lo scandalo che ne seguì fu gonfiato perché in quegli anni tanti potenti avrebbero voluto la testa di Nixon, ritenuto tra l’altro responsabile dell’abrogazione del sistema di Bretton Woods, cosa che pur garantì successivamente la liberalizzazione della finanza e un sempre maggior controllo degli investitori sull’economia, ma che all’epoca non fu gradita alle multinazionali e alle banche internazionali. Per l’immaginario collettivo, tuttavia, il caso Watergate fu la dimostrazione che, in caso di crisi, il sistema di pesi e contrappesi progettati dalla Costituzione americana poteva realizzare un efficace bilanciamento tra i poteri dello Stato.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; A. Ceccarelli, “40 anni fa: Watergate e la fine di Nixon”, www.lindro.it; A. Flores d’Arcais, “Come e perchè nacque Watergate: dietro la maschera di Gola Profonda”, http://gnosis.aisi.gov.it; www.fordlibrarymuseum.gov; www1.adnkronos.com

Ricordando Sal Mineo: lassù qualcuno lo ama

Avrebbe compiuto ottantun’anni oggi, 10 gennaio, Salvatore Mineo Jr., conosciuto dal pubblico cinematografico e teatrale come Sal Mineo. Fu un attore eccezionale, tanto al teatro che sugli schermi cinematografici e televisivi, ma una parte della sua notorietà è dovuta al fatto di essere stato uno dei primi attori di Hollywood a dichiarare pubblicamente la propria bisessualità.

Un angelo con la faccia sporca

Era nato il 10 gennaio del ’39, nel Bronx. Un borgo, in realtà, una città di un milione e mezzo di abitanti, dentro la città più popolosa degli Stati Uniti. Una “città”, che, non del tutto a torto, è soprattutto sinonimo di delinquenza, degrado, emarginazione, disagio sociale. E in condizioni decisamente non  agiate viveva la famiglia siciliana di Sal Mineo. La sua infanzia sembrava una di quelle raccontate nei gangster film della Warner Bros degli anni Trenta, interpretati dal gruppo dei giovanissimi teppisti Dead End Kids, come gli Angeli con la faccia sporca (1938, di Micheal Curtiz). Terzo di quattro figli, con un padre becchino e una madre casalinga, a soli 8 anni, nel ’47, era stato espulso  dalla scuola di gesuiti Christopher Columbus di New York. Due anni dopo, nel 1949, espulso da altre scuole del quartiere, ormai inserito nella gang minorile del Bronx, fu arrestato per rapina, insieme agli altri membri della banda. La madre, infatti, per tenerlo lontano dalla “cattive compagnie”, lo aveva iscritto ad una scuola di danza. Ma ciò gli aveva procurato un bel po’ di guai nel quartiere.

L’etichetta di sissy (“checca“)

Era stato marchiato, neanche decenne, come “sissy” (checca) dai bulli del quartiere. Sal per strapparsi il marchio da dosso si era impegnato nel football, diventando un piccole campione. Sfidava i bulli sui campi da gioco, ma ancora non bastava. Così, per ottenere il riconoscimento da parte del gruppo, come avrebbe fato uno dei Dead End Kidsderubò l’agenzia di pompe funebri dove lavorava il padre, e regalò i 5.000 dollari sottratti proprio a coloro che lo facevano sentire inferiore.

Un’infanzia come John Garfield

Non essendo perseguibile per via dell’età, il magistrato gli impose di scegliere tra due alternative: essere rinchiuso in un collegio o iscriversi ad una scuola per aspiranti attori. Scelse la seconda. E si innamorò della recitazione, rivelando un talento non comune, e scoprendo di avere avuto un’infanzia quasi sovrapponibile a quella di un divo che egli, come milioni di altri spettatori, amava moltissimo e con cui un po’ si identificava, John Garfield (ebreo di origini ucraine, di cui abbiamo ricordato la vita nel post John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante). Cresciuto anch’egli nelle bande giovanili del Bronx, Garfield fu la prima star fieramente proletaria e ribelle di Hollywood, ma per il suo impegno politico e sociale fu così distrutto dalla caccia alle streghe anticomunista da morirne a soli 39 anni nel 1952. Ma John Garfield, il precursore di Marlon Brando che lo ammirava immensamente, era anche tra gli attori preferiti di James Dean, di Paul Newman, di John Cassavetes e di Steve McQueen. Un altro, quest’ultimo, la cui infanzia non fu molto dissimile da quella di Sal Mineo e la cui adolescenza fu, per certo aspetti, anche più sofferta. Erano questi attori tutti un po’ più vecchi di lui, ma egli incrociò i loro percorsi, affiancandoli sul set e frequentandoli, in diversa misura, nella vita privata. Soprattutto, nei suoi primi passi cinematografici ebbe modo di entrare in contatto con James Dean, Paul Newman, Steve McQueen e John Cassavetes.

Sal Mineo e gli altri ragazzi inquieti

In comune con loro aveva moltissime cose, tra le quali, in primo luogo, un talento fuori dal comune, ma anche una sotterranea carica, per quegli anni sovversiva, di sensibilità estrema e di vulnerabilità palese. E di ambiguità sessuale. In quegli anni Cinquanta, con l’affermazione del consumismo e l’imporsi dell’american way of life, nel cinema il malcontento, il disagio sociale e l’insofferenza al conformismo, al bigottismo, agli stereotipi e ai pregiudizi di varia natura, si esprimevano in rivolte non politicamente motivate e consapevoli, come sarebbe stato dalla fine del decennio successivo, anche perché ciò avrebbe significato essere schedati come sovversivi e filocomunisti, ma su un piano più interiore, tormentato.

Tutti questi attori, a cominciare da Montgomery Clift, il più anziano del gruppo, e da Marlon Brando, portavano sullo schermo la ribellione sofferta alle figure genitoriali e ai diktat non scritti del pensiero e dei costumi dominanti. E, con tale, rivolta, un po’ introversa e un po’ sbandata, davano voce a milioni di teenager e giovani americani ed europei, che con essi si identificavano. E tutti, in un modo o nell’altro, con le loro diverse sensibilità e caratteri, incarnavano non soltanto l’insoddisfazione e la rabbia verso un mondo i cui valori dominanti parevano essere tutti centrati sulla ricerca del successo economico e del benessere materiale, ma anche la sommessa o esplicita denuncia della natura spersonalizzante e deumanizzante della società dei consumi e dell’arrivismo. I loro personaggi erano tutti, in qualche modo, “contro il mondo”, e tutti impegnati in una sorta di istintiva ricerca di qualcos’altro, qualcosa che valesse la pena.

Sal Mineo era una delle incarnazioni del teenager di quegli anni, di cui offriva una rappresentazione intrisa di una fragilità particolare. E ciò lo destinava ad essere la spalla o il supporto di  Dean, Newman e Cassavetes, che, invece, incarnavano il ribelle, tormentato, sì, ma un po’ più determinato, un po’ più consapevole e in qualche modo carismatico.

Un “angelo mediterraneo” che sapeva difendersi

A differenza dei suoi più anziani colleghi Mineo divenne una celebrità davvero giovanissimo, appena undicenne, e anche in seguito la sua età corrispondeva a quella degli adolescenti che interpretava a teatro o sullo schermo. A soli undici anni, in virtù delle sue capacità e della sua bellezza fuori dal comune che lo faceva sembrare una sorta di “angelo mediterraneo”, venne ingaggiato per il ruolo di un bambino italiano per la prima rappresentazione a Broadway de La rosa tatuata di Tennessesse Williams. Poi per due anni recitò nel musical Il re ed io a fianco di Yul Brynner. E con quel che guadagnava aiutava la famiglia a sbarcare il lunario. Tutte le sere, dopo lo spettacolo, tornava da Broadway a casa sua nel Bronx da solo, con la metropolitana, ma, confidò a Peter Bogdanovich, aveva visto abbastanza film con John Garfield da sentirsi sicuro. Inoltre portava con sé una pistola caricata a salve, della quale si servì una notte, quando rientrando dal teatro, sulla metropolitana s’imbattè in un trentenne che voleva rimorchiarlo. Poiché costui, nonostante i suoi rifiuti, non cessava di tentare di molestarlo, egli gli puntò l’arma contro, lo obbligò ad inginocchiarsi e quando il treno giunse in prossimità della sua fermata, fece fuoco.

«Gesù, ha fatto un tale rumore che quello se l’è fatta addosso. Pensava di essere morto. Non aveva un graffio, naturalmente, ma si è messo ad urlare. le porte si aprirono e io schizzai fuori come un fulmine. ho corso fino a casa».

Al fianco di James Dean e di Paul Newman

A quindici anni, giunse ad Hollywood, pur avendo lavorato sempre in ruoli di secondo piano in alcune serie televisive, si era fatto notare e apprezzare. Perciò, ottenne una parte di contorno, come giovane delinquente, accanto a Tony Curtis, in La rapina del secolo (1955, di Joseph Pevney), che rappresentò il suo esordio cinematografico. Ma quell’anno, il 1955, fu anche quello in cui fece l’incontro che gli cambiò la vita. Nicholas Ray lo fece entrare nel cast della sua nuova produzione di cui aveva scritto il soggetto: Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955, di Nicholas Ray). Affiancato ad altri giovani attori emergenti, James Dean, Nathalie Wood e Dennis Hopper, per la sua toccante performance venne candidato all’Oscar come migliore attore non protagonista (che venne poi assegnato a Jack Lemmon per Mister Roberts, di Mervyn Le Roy e John Ford).

Gioventù bruciata sconvolse le platee di tutto il mondo. Per il suo successo mondiale un contributo fondamentale fu la straordinaria interpretazione fornita degli attori, diretti con una non comune sensibilità empatica da Nick Ray. Com’è noto, questo film, insieme alla Valle dell’Eden (1955, di Elia Kazan) e a Il gigante (1956, di George Stevens), fece di Dean una leggenda, ma la sua morte pressoché contestuale (morì durate le riprese del film di George Stevens), privò i suoi fans del loro beniamino, mentre, il suo amico Sal Mineo, che veniva ucciso dalla polizia nel finale di Gioventù bruciata, era vivo e con la sua performance, nel ruolo di un adolescente disperatamente bisognoso di amore e di figure adulte con cui identificarsi, suscitava una forte identificazione nei teenagers americani e europei. Mineo, in effetti, pur essendo un ragazzo spiritoso, autoironico e con un carattere solare, fu formidabile nei panni di John Crawford, detto Plato, l’adolescente intelligente ma disperato, cresciuto senza l’amore di una vera famiglia,che si lega a Jim Stark (interpretato da James Dean), trovandovi un surrogato di figura paterna.

Amico di James Dean

Mineo e il ventiquattrenne Dean, però non soltanto formarono un binomio idolatrato da un’intera generazione di giovani spettatori, ma svilupparono anche una forte e vera amicizia.  Sul sito www.culturagay.it si legge: «L’incontro con Dean restò fondamentale per tutta la sua vita. Entrambi erano bisessuali e riprodussero sullo schermo il rapporto che intrattenevano nella realtà. Gioventù bruciata era un film che richiese una ridefinizione del concetto di virilità: veniva riprodotto l’amore che i ragazzi della stessa “banda” nutrivano tra di loro nella ricerca di un affetto alternativo a quello delle famiglie. Vi veniva rispecchiato un rapporto omosessuale tipico dell’adolescente definibile come “fase del guerriero”, cioè d’un amore-ammirazione per un coetaneo in una situazione in cui i rapporti sessuali con donne sono ancora distanti a venire. Plato era il classico bersaglio s”issy” che non aveva ancora la barba e nascondeva nell’armadietto scolastico una foto dell’attore Alan Ladd, all’opposto c’era il personaggio interpretato da Dean ben disposto a rinunciare alla popolarità pur di proteggere l’amico più debole».

Anche nella realtà James Dean prese a cuore la situazione di Sal Mineo. Infatti, chiese e ottenne che Sal entrasse nel cast della mega-produzione di George Stevens, Il gigante, che lo portò a recitare accanto Rock Hudson e Elizabeth Taylor, e del successivo Lassù qualcuno mi ama (1957, di Robert Rossen).

Da Lassù qualcuno mi ama a Dino e Gene Krupa

James Dean avrebbe dovuto essere il protagonista di quest’ultimo, il pugile Rocky Graziano, ma, schiantatosi il 30 settembre 1955 sulla sua Porsche 550 Spyder, il ruolo venne assegnato a Paul Newman, che con questo film entrò nell’Olimpo. Lo sceneggiatore, produttore e regista Robert Rossen (un altro cineasta la cui vita professionale e la cui salute furono seriamente compromesse dalla sopra citata caccia alle streghe anticomunista), mantenne l’impegno preso con Dean e affidò a Mineo la parte di un adolescente, povero e delinquentello, compagno di scorribande di Graziano. Accanto a lui, in un ruolo ancora più ridotto, figurava Steve McQueen.

Nel 1956 uscì un altro film con Sal Mineo che fece scalpore e divenne un piccolo cult, Delitto nella strada (1956, di Don Siegel). Anche qui la sua interpretazione fu impeccabile e seppe tenere amichevolmente testa sia al veterano James Whitmore, sia al giovane protagonista John Cassavetes e al giovanissimo futuro regista Mark Rydell, entrambi come lui nei panni di teppisti violenti intenzionati a commettere un omicidio ai danni di un adulto reo di aver “offeso” uno di loro, il capo (Cassavetes). L’anno dopo tornò ad indossare i panni del delinquente dei bassifondi, ma questa volta era il protagonista della pellicola, Dino (1957, di Thomas Carr). Una produzione minore, certamente, in termini di budget, ma non certo in termini di prestazioni attoriali. Sal Mineo, in particolare, ancora una volta risultò di una credibilità rara, interpretando Dino, il giovanotto, appena uscito dal carcere minorile, che accetta per ribellione di compiere una rapina progettata dal fratello e che alla fine, innamoratosi,si redime, conducendo anche il fratello sulla buona strada. Anche qui Mineo non sfigurò affatto nei duetti con un attore esperto quale Brian Keith, nei panni dell’assistente sociale che non riesce a stabilire un rapporto positivo con l’inquieto Dino. Così seppe cavarsela alla grande anche nella sua successiva prova di principale interprete: Ritmo diabolico (1959, di Don Weiss). Se, infatti, Don Weiss, come già Thomas Carr, non era un regista di statura pari a quella degli altri con cui Mineo aveva lavorato interpretando ruoli di secondo piano (Ray, Rossen e Stevens), cionondimeno non si risparmiò impersonando il batterista americano Gene Krupa. Non soltanto si impegnò a perfezionare il suo stile alla batteria ma studiò anche il vero Krupa, dovendo impersonarlo dalla sua partenza, giovanissimo, dalla provincia per New York, alle prime esperienze in piccole band, fino all’arrivo del successo e ai problemi con la droga, alla detenzione e al ritorno alla ribalta nell’orchestra di Tommy Dorsey.

Sulle ali del sucesso con Exodus

Come gli altri più celebri ribelli cinematografici dell’epoca, anch’egli si era misurato, sia pure come bambino, con i drammi scandalosi, le opere esplosive di Tennessee Williams, trasudanti il conflitto tra le pulsioni erotiche, le aspirazioni alla libertà e il perbenismo ipocrita, il bigottismo disumano. Erano opere che richiedevano agli attori di esprimere il ribollire di una sensualità contorta e repressa, di tensioni anarchiche implosive. Ed erano interpretati, soprattutto, anche se non esclusivamente, da attori cresciuti o affinatisi all’Actor’s Studio. Sal Mineo non aveva quella formazione alle spalle, ma la sua prestazione nella fluviale (oltre tre ore di durata) e colossale produzione di Otto Preminger sulla fondazione dello Stato di Israele, Exodus (1960, di Otto Preminger), fu di pari se non superiore livello rispetto a quelle del resto del magnifico cast, capeggiato da Paul Newman e composto da moltissimi attori forgiati all’Actor’s Studio (da Newman a alee J. Cobb, da Eva Marie Saint a David Opatoshu…). Mineo interpretava Dov Lendo, un uomo d’azione, ossessionato dal passato nei lager tedeschi, dove per sopravvivere si era prestato ad estrarre dalle camere a gas e a seppellire i cadaveri degli altri internati. Mineo seppe infondere in Dov un miscuglio di rabbia indomita, di energia fanatica e di angoscia repressa. Ma il suo personaggio non era più quello di un ribelle senza motivazione, di un disadattato, ma di un giovane traumatizzato, capace di passare dall’estremismo e dalla dedizione nevrotica alla causa alla maturazione di una nuova consapevolezza, da un rapporto più profondo con sé stesso, che include il perdono della sua passata collaborazione con gli aguzzini nazisti e il superamento della proiezione sugli altri dell’odio e della vergogna sviluppati nei propri confronti. La sequenza della sua confessione al leader dell’Irgun, Akiva Ben Canaan (magnificamente reso da David Opatoshu), è ancora oggi da brividi e contribuì molto a procurargli al seconda candidatura agli Oscar come migliore attore non protagonista.

La partecipazione ai kolossal e la parabola involutiva

Anche stavolta la statuetta andò a qualcun altro (Peter Ustinov per il suo ruolo in Spartacus, un altro kolossal, interpretato e prodotto da Kirk Douglas e diretto da Stanley Kubrick, come Exodus, sceneggiato da un’altra vittima della caccia alle streghe, Dalton Trumbo, che per la prima volta con quei due film, grazie al coraggio dei loro produttori, tornava a firmare pubblicamente una sceneggiatura). Nel corso delle riprese Sal conobbe la quindicenne Jill Haworth, che impersonava Karin, e come nel film, se ne innamorò. Finirono sulla copertina di Life. Ma da quel momento per Sal Mineo la carriera cinematografica inizio la sua parabola involutiva. Partecipò ancora a dei kolossal, di cui uno di grandissimo successo, cioè, Il giorno più lungo (1962, di Ken Annakin, Andrew Marton, Bernhard Wicki e Darryl F. Zanuck), in cui interpretava un paracadutista che fa una morte assurda. Inoltre apparve in un ruolo di maggior spessore accanto al primo divo con cui aveva lavorato ancora bambino, Yul Brynner, nell’avventuroso e un po’ impegnato Fuga da Zahrain (1962, di Ronald Neame). Poi, nel  laterale ruolo dell’indiano ribelle ucciso dalla sua stessa gente, fu nel ricco cast dell’ultimo film, Il grande sentiero (1964, di John Ford), interamente diretto dal maestro tra i maestri della Settima Arte, John Ford. Ma, questo spettacolare western, inteso come opera risarcitoria rispetto al genocidio dei nativi americani, nonostante la folta schiera di attori maiuscoli schierati (Carroll Baker, Richard Widmark, Ricardo Montalban, James Stewart, Arthur Kennedy, Edward G. Robinson, Karl Malden, ecc.), non ebbe un apprezzabile successo. Ancora più disastroso in termini commerciali fu il successivo kolossal cui Sal Mineo prese parte, La più grande storia mai raccontata (1965, di George Stevens). La sua era appena un’apparizione in quest’opera su Gesù Cristo, dall’andamento solenne e ieratico, ma inesorabilmente lento e faticoso, che neanche il formidabile cast riuscì a riscattare (tra le decine di divi coinvolti vi erano Max Von Sydow, Charlton Heston Sidney Poitier, John Wayne, Van Heflin e Carroll Baker). E non meno successo ebbe l’ultima grossa produzione cinematografica cui partecipò l’appena trent’enne Sal Mineo, alla fine del decennio, lo spettacolare avventuroso-catastrofico, Krakatoa, est di Giava (1969), diretto dal regista televisivo Bernard L. Kowalski e interpretata da Maximilian Schell e da Brian Keith.

Un declino vissuto senza rancore

Con la sola eccezione di del noir Il sadico (1965, di Joseph Cates), un’opera minore e dal successo molto relativo, di cui fu protagonista, fornendo un’intensa rappresentazione di un ragazzo squilibrato e pericolosamente lucido, dopo Exodus, la sua carriera cinematografica aveva iniziato a segnare il passo. Calcava ancora la scene teatrali, ma i produttori cinematografici non lo ritenevano più un valido richiamo. Ai loro occhi, quel giovane attore dal talento indiscutibile era divenuto un anacronismo vivente, essendo la sua immagine irrimediabilmente superata, associata com’era all’inquietudine degli adolescenti del decennio precedente. Così, anche la sua situazione finanziaria cominciò a farsi difficile, nonostante negli anni precedenti avesse anche inciso dei dischi di buon successo. Aveva comprato per i genitori una casa a Mamaroneck, spendendo 350.000 dollari, ma si trovò a dover vendere i mobili di casa sua a Santa Monica, che non aveva ancora finito di pagare. Poi vendette anche la casa. E imparò senza traumi a vivere con un reddito modesto, spesso incerto, inconfrontabile con quello delle star cinematografiche o televisive.

Anche le voci sulla sua omosessualità non lo aiutavano a trovare delle parti sostanziose al cinema, ma egli non nutriva alcun risentimento verso il sistema. Sapeva che funzionava così e, insofferente verso chiunque si prendesse troppo sul serio, evitava di cadere nello stesso errore. Preferiva reagire con l’autoironia e, con un minimo di mestizia, scherzarci su. La sua, tuttavia, non era indolenza o rassegnazione. Lavorava in televisione, prendendo parte a prodotti di successo come i telefilm Il dottor Kildare, Missione Impossibile e negli anni Settanta Colombo e Sulle strade di San Francisco.

Una piéce scandalosa

Il teatro continuava ad appassionarlo, tanto che nel ’69, riuscì ad assicurarsi e la possibilità (l’unica) d’essere attore e regista teatrale con la pièce In disgrazia alla fortuna e agli occhi degli uomini. Era un’opera tesissima e coraggiosa sulla violenza omosessuale all’interno di un carcere. Ed ebbe un notevole successo, dovuto anche al fatto che Mineo appariva nudo in scena. Mineo sul programma di sala aveva fatto stampare la seguente dedica:

Jimmy: in memoria della tua amicizia e ispirazione, io dedico a te questo spettacolo“.

Tra i 257 ragazzi che esaminò per la distribuzione delle parti, scelse Don Johnson (all’epoca diciannovenne anch’egli con trascorsi da teppista) per il ruolo del bellissimo detenuto che egli, nella parte del carcerato più anziano, tentava di sottomettere.

Non era più una star, Sal Mineo, però, scrisse Bogdanovich:

«Il pubblico, che veniva a vederlo recitare nei piccoli teatri di tutta la nazione, lo amava ancora, applaudiva ancora la sua figura minuta, energica, perfettamente eretta, i suoi grandi occhi castani, così pieni di anima».

In un’intervista del 1972 Mineo esplicitò le proprie inclinazioni sessuali, dichiarando pubblicamente di essere bisessuale. Fu uno tra i primi e non lo fece “contro” qualcuno. Ma per se stesso.

L’assassinio

Nel 1976 stava provando un nuovo lavoro teatrale P.S. Your Cat Is Dead! di James Kirkwood, una commedia che stava per debuttare a Los Angeles, in cui  aveva il ruolo di ladro omosessuale. L’aveva già portata in scena a San Francisco riscuotendo successo di pubblico, recensioni lusinghiere e una notevole visibilità pubblicitaria, ma la sera del 12 febbraio 1976, al ritorno da una prova generale, nel vicolo dietro la sua abitazione, venne aggredito da un delinquente, assai simile a quelli che egli, ispirandosi alla sua infanzia, aveva così efficacemente interpretato al cinema e a teatro. L’attore trentasettenne venne colpito da una sola coltellata, che gli ferì il cuore, provocandogli una fatale emorragia interna. Il suo pierre e amico Pierre Mintz tentò di fare una colletta per raccogliere 10.000 dollari da offrire a chi avesse dato informazioni utili alla cattura dell’omicida. Ma non raggiunse quell’importo. L’assassino fu catturato nel ’78. Non sapeva chi fosse l’uomo che aveva accoltellato per derubarlo.

Alberto Quattrocolo 

Fonti

AA.VV, Il cinema. Grande storia illustrata, De Agostini, Novara, 1982, Voll. IV e V

Peter Bogdanovich, Chi c’è in quel film?, Fandango Libri, Roma, 2008

www.culturagay.it

www.it.wikipedia.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gran brutta malattia, il razzismo, più che altro strana…

Gran brutta malattia, il razzismo, più che altro strana: colpisce i bianchi ma fa fuori i neri“.

Era una battuta del disegnatore satirico Albert (Alberto Cottin), inserita in Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (Gino &Michele e Matteo Molinari, 1991). E continua ad essere vera oggi come quando fu pubblicata. In effetti, ora come allora, continua ad essere una gran brutta malattia, il razzismo, e continua ad essere strana: chi ne è ammalato non ne soffre, facendo, invece, soffrire gli altri, e ne è portatore per lo più inconsapevole.

Raramente chi è razzista si riconosce e si rappresenta come tale. Per lo più si definisce vittima di coloro verso i quali si indirizza il suo odio razzista. E trova mille “argomenti” per giustificare il proprio razzismo. Generalizzazioni, distorsioni, preconcetti… Come recitava un noto tormentone di Francesco Paolantoni:

“Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani!”

D’altra parte, una celebre battuta di Ellekappa suonava così:

I terroni non so, ma noi italiani non siamo razzisti.

La gestione di un conflitto di vicinato tra un anziano italiano e un giovane etiope

Circa vent’anni fa, presso uno dei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, gestimmo il nostro primo caso di conflitto legato alla dimensione del pregiudizio e della xenofobia. Era un conflitto di vicinato che coinvolgeva un anziano italiano, pensionato e solo, e un trentenne, immigrato dall’Etiopia. Abitavano sullo stesso pianerottolo e si detestavano.

Fu il pensionato a rivolgersi al nostro Servizio gratuito e a chiedere un appuntamento. Aveva già “denunciato” più volte il suo vicino per rumori o odori molesti, ma non aveva avuto alcuna soddisfazione dalle autorità, che gli sembravano tutte schierate dalla parte del “forestiero”. Il fatto che il nostro Servizio fosse qualificato non solo come di mediazione, ma anche e ancor prima come di “Ascolto del Cittadino”, lo aveva indotto a contattarci (le ragioni per cui il modello mediativo di Me.Dia.Re. si definisce in tal modo sono descritte qui).

Durante i colloqui individuali (ogni percorso di mediazione si svolge con colloqui individuali, separati, con ciascun attore del conflitto, come spiegato in altri articoli di questa rubrica), l’anziano, arrabbiato e guardingo, ripeteva continuamente che lui non era razzista. Apparteneva ad una famiglia che durante il regime fascista era stata duramente perseguitata per ragioni politiche. Ed era sempre stato un elettore di sinistra. Ciò per lui equivaleva ad una sorta di certificato, una patente, senza scadenza, di antirazzismo. Però, il modo con il quale parlava del vicino etiope era una summa dei più scontati pregiudizi. “Non ho niente contro gli africani finché se ne stanno a casa loro” (non ricordava o non sapeva che era stato proprio il da lui tanto detestato duce, Benito Mussolini, ad attaccare l’Etiopia, senza disturbarsi prima a dichiararle guerra, e ad ordinare di massacrarne la popolazione, facendo anche ricorso alle armi chimiche, come abbiamo ricordato nella rubrica Corsi e ricorsi). Era roso dalla rabbia, che si nutriva della paura e dell’invidia.

L’ascolto di una sola parte del conflitto può bastare per gestirlo

Nel corso dei colloqui individuali raccontò quasi tutta la sua vita. Era un fiume in piena. Per troppo tempo nessuno gli aveva chiesto davvero “come stai?” e, ora che aveva di fronte a sé qualcuno interessato alla sua persona, non aveva alcuna intenzione di sprecare l’occasione. Chi lo ascoltava, lo ascoltava davvero e, accogliendo i suoi sentimenti e le sue emozioni, lo faceva sentire riconosciuto come essere umano.

L’ascolto del dolore, della paura e della solitudine

Si soffermò sulla solitudine che lo affliggeva ormai da anni, sul dolore di essere stato messo in cassa integrazione e poi in pensione, sull’angoscia di sentirsi sia vulnerabile alla malattia che insicuro nella propria città. Disse della paura derivante dal vivere in mezzo a degli stranieri, che “chissà cosa fanno, cosa pensano, cosa tramano nelle vie del mio quartiere“. Parlò anche della tristezza di essere vedovo da alcuni anni, di quanto gli mancava la moglie, e della sofferenza di avere un figlio, residente con la compagna e la figlia in un’altra città, un figlio diventato ormai “un estraneo”. Un figlio che non lo chiamava quasi mai e che ancor meno lo andava a trovare, che non gli permetteva di fare il nonno. Invece, il suo vicino aveva sempre gente in casa. Connazionali e no. “Chissà che traffici fanno!” Inoltre, “quello” era giovane, sano e le sue giornate erano piene. Lavorava tutto il giorno al mercato e la sera aveva ancora energie “per ridere e scherzare e fare baccano”. E per di più, lo aveva sentito dire che intendeva far arrivare la famiglia. “Quello” si costruiva il futuro, mentre a lui la vita glielo aveva rubato, di soppiatto, un pezzo dopo l’altro, il futuro.

Quando, durante il quarto colloquio individuale, gli fu chiesto se voleva incontrare il vicino per discutere al tavolo della mediazione quei comportamenti che lo infastidivano così tanto, disse che ci avrebbe riflettuto su. Pareva combattuto.

L’effetto “contagioso” dell’ascolto

Nel quinto colloquio, ci disse subito che, nel frattempo, aveva “mediato” direttamente con il vicino. Gli aveva rivolto la parola sul pianerottolo, una o due sere dopo il colloquio precedente. Ma lo aveva fatto con un atteggiamento diverso dal solito. Non più ostile e aggressivo, bensì quasi gentile e conciliante. Dopo una breve discussione dai toni contenuti, lo aveva invitato in casa a bere un caffè, anche se ciò gli aveva generato un bel po’ di ansia. E aveva scoperto che anche il giovane pativa “un sacco” la solitudine e la lontananza dalla famiglia. Gli mancavano moltissimo la moglie e i figli e sperava, e disperava, di poterli far arrivare in Italia. Gli aveva spiegato che spesso invitava gli amici a casa sua la sera per non sentirsi troppo solo e per non essere sopraffatto dalla nostalgia.

Nel colloquio, l’anziano disse che si erano messi d’accordo sul rumore e sugli odori della cucina, che non era più arrabbiato e non aveva più così tanta paura di lui. Era ancora un po’ diffidente, ma solo per prudenza, per non pentirsi poi di essersi fidato troppo. Gli aveva detto, comunque, che se voleva poteva venire a guardare la TV a casa sua, visto che non ne possedeva una. Era “un povero cristo” come lui, disse. Anzi, specificò, che era cristiano e non musulmano, come egli aveva creduto  – i musulmani non gli piacevano: riteneva che fossero, sotto sotto, “un po’ fascisti”. Aggiunse anche che ancora lo invidiava: “Quando sarà vecchio, come lo sono io, suo figlio non lo dimenticherà. Lo chiamerà per fargli auguri di buon compleanno o di buon Natale. Anzi terrà conto di quello che lui gli ha insegnato e lo passerà ai suoi figli e gli lascerà fare il nonno“.

Nessuno nasce odiando (Nelson Mandela)

Si tratta solo di un esempio, una vicenda che non ha la pretesa di essere paradigmatica, ma che fa sorgere il pensiero che quanto osservava Nelson Mandela possa essere vero anche oggi, da noi: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare; e, se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.

Se è così, allora rimane una gran brutta malattia, il razzismo, che si contrae per contagio. E questo contagio può essere inconsapevole, ma, oggi come ieri, pare lecito considerare quante volte è, invece, premeditato, programmato, organizzato e svolto con impressionante sistematicità e cura. E con devastante efficacia. Tanto che la definizione “campagna d’odio” pare perfino riduttiva. Basta guardare quel che succede tutti i giorni, per riscontrare come, anche nel nostro Paese, quel che, illudendoci, credevamo non potesse mai attecchire, è diventato parte di un’iniqua quotidianità. Per anni abbiamo creduto che fosse una “malattia” rispetto ala quale eravamo immuni. Un fenomeno presente in Sud Africa e negli USA, soprattutto negli Stati sudisti. E le pellicole hollywoodiane di denuncia del razzismo riscuotevano un ottimo successo. Uscivamo dalla sala cinematografia sentendoci decisamente migliori dei bianchi razzisti ritratti in quei film. Anzi, non poche di quelle pellicole di denuncia ci parevano perfino deboli, in fin dei conti, più di intrattenimento che di critica sociale. Un po’ troppo hollywoodiane, insomma (si pensi alla tripletta di successi planetari interpretati da Sidney Poitier nel 1967, Indovina chi viene a cena, La calda notte dell’ispettore TibbsLa scuola della violenza: ne abbiamo parlato qui). E questa era anche un’osservazione ricorrente di molti critici cinematografici. Molti di noi, però, hanno imparato ad odiare così tanto da somigliare moltissimo agli intolleranti ottusi dei film americani degli anni Cinquanta e Sessanta e di quelli successivi, come Mississipi Burning (1987, di Alan Parker) e Betrayed (1988, di Costa Gavras).

Gran brutta malattia, il razzismo, che si contrae per contagio e che alla fine svuota

Se si vuole gettare uno sguardo alle tante opere successive cinematografiche dedicate al tema, oltre al recentissimo BlacKkKlansman (2018, di Spike Lee), vi è anche American History X (1999, di Tony Kaye), di cui si è usata una scena come immagine per questo post.

Tra i tanti dialoghi meritevoli di essere citati di American History X vi è il seguente, tra Derek Vinyard (Edward Norton), uscito di prigione dopo aver scontato la pena per l’uccisione di due afroamericani, e il fratello più giovane, Danny (Edward Furlong):

Sono fortunato. Mi sento fortunato perché… Stavo sbagliando, Danny. E non capivo che lo sbaglio mi stava divorando, mi stava uccidendo. Continuavo a chiedermi come avevo fatto a bermi tutte queste stronzate, lo sai? All’epoca ce l’avevo con tutti, e niente di quello che facevo mi dava soddisfazione. Ho sparato addosso a due ragazzi, e li ho ammazzati! Ma non mi ha fatto stare meglio. Mi sono sentito perso, e adesso sono stanco di essere sempre incazzato. Sono stanco di tutto questo.

Quel che queste parole suggeriscono è che la precarietà e l’ansia, la solitudine e l’insoddisfazione, il senso di inadeguatezza e di impotenza, la frustrazione e il dolore non vengono placati proiettandoli su di un altro. Che essere sempre incazzati con qualcuno, de-umanizzandolo e criminalizzandolo, nutrendo, così, la propria paura e la propria rabbia, alla lunga è sfiancante. Perché ci isola, ci rinchiude il pensiero e ci spegne i sentimenti. E ci lascia un vuoto. Un vuoto angosciante e disperante, come quello dell’anziano di cui si è raccontato il conflitto.

Certo fa pensare anche il fatto che continuino ad essere aderenti alla realtà, non solo del suo Paese, gli USA, ma dell’Occidente intero, anche le parole di Gore Vidal:

Ho sempre trovato strano che una nazione la cui prosperità è basata sul lavoro a basso costo degli immigrati sia così incessantemente xenofoba.

Il mediatore di fronte al razzismo

Per chi si occupa di mediazione, quando si tratta di gestire un conflitto connesso a questa dilagante e gran brutta malattia, il razzismo, non sono poche le problematiche che si aprono. Tanto per citarne solo un paio:

  • il mediatore riuscirà a svolgere la sua funzione in modo neutrale, cioè sarà in grado – sperando che non sia razzista anch’egli – ad essere equi-prossimo, a non risultare giudicante e a non assumere un atteggiamento “moralista e pseudo-pedagogico“?
  • il mediatore saprà valutare in quali casi ha senso portare avanti il percorso e in quali, invece, no, per non dare luogo ad una situazione in cui si potrebbe reiterare la violenza morale che sostanzia il razzismo?

Appare plausibile pensare che non siano domande di poco conto, vista la crescita vertiginosa non soltanto di violenze e discriminazioni pesantissime, ma anche di situazioni di conflittualità legate proprio al pregiudizio, alla xenofobia, al razzismo, che teoricamente sarebbero gestibili con la risorsa della mediazione.

Il mediatore deve sapere riconoscere l’umanità altrui

Incidentalmente andrebbe osservato che, ovviamente, non si può essere mediatori e razzisti. Il razzismo è un’intrinseca, radicale, negazione della mediazione, che si tratti di mediazione familiare, penale, sanitaria, lavorativa, sociale, scolastica o civile e commerciale. Chi svolge la professione di mediatore, infatti, in primo luogo, a prescindere dal modello operativo che ha scelto o dell’ambito in cui interviene (familiare, penale, sanitario…), deve sapere ascoltare le persone protagoniste del conflitto. Ascoltarle come esseri umani e farle sentire riconosciute come tali. E ciò non è compatibile con l’avere una visione dell’Altro come di un’entità astratta, catalogabile come inferiore e nociva, né col reputarlo meritevole di violenza morale e/o fisica, in virtù della rappresentazione de-umanizzante e demonizzante sviluppata nei suoi riguardi.

Alberto Quattrocolo

Eccidio delle Fonderie Riunite di Modena

All’indomani della caduta del ventennale regime fascista e della fine della Seconda Guerra Mondiale, la neonata Repubblica Italiana si trova una macchia di sangue a sporcarle la nuova divisa. In effetti, le macchie sono diverse, e iniziano a Portella della Ginestra, nel ’47: molti, in quegli anni, i conflitti per il lavoro che si concludono con la morte, fino ad arrivare a quel nove gennaio 1950.

Adolfo Orsi, patron della Maserati, possiede anche le Fonderie Riunite, a cui impone una lunga serrata, al termine del quale prevede di assumere, a propria discrezione, la metà del personale. 250 lavoratori non sarebbero più stati tali. I sindacati non possono certo stare a guardare.

Viene organizzata una manifestazione per impedire la riapertura dell’azienda, ma Questore e Prefetto non danno l’autorizzazione. Questo non ferma i manifestanti, semmai li carica ancor di più. Sono allora necessari molti più militari, che vengono prontamente inviati in città: ce ne saranno circa duemila, autoblindi compresi, a fronte di, qualcuno sostiene, diecimila scioperanti.

La massa si posiziona fuori dai cancelli della fabbrica, difesa dalle forze dell’ordine. Quando però qualcuno tenta l’irruzione, trova un proiettile ad aspettarlo. Nessuno ha dato l’ordine, ma qualche nervo deve aver ceduto. Il danno è fatto, e da lì può solo peggiorare: moriranno in tutto 6 persone, mentre 200 se la caveranno, seppur segnate fisicamente da quella mattina.

Si instaura il processo. Contro gli operai. Resistenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa e attentato alle libere istituzioni le accuse, che cadono nel ’54, dando il via libera al procedimento civile. Le famiglie ricevono due milioni di lire, ma l’avvocatura dello stato tiene a precisare che la polizia ha usato legittimamente le armi da fuoco. Lo Stato non fece dunque alcuna autocritica.

Alessio Gaggero

“I had a brother at Khe Sanh, Fighting off the Viet Cong”

I had a brother at Khe Sanh

Fighting off the Viet Cong

They’re still there, he’s all gone

È, questa, una strofa di una celebre, forse la più conosciuta, canzone di Bruce Springsteen, Born in The USA. E nel 1984, quando uscì l’album di Springsteen, Khe Sanh, per milioni di persone nel mondo, tolti i vietnamiti e gli statunitensi che avevano ancora ben presente dove e cosa fosse e rappresentasse, era solo un suono all’interno di una canzone, una rima [1]. E probabilmente fu per la rima che Springsteen scrisse Fighting off the Viet Cong. Nella battaglia di Khe Sahn, i soldati statunitensi, in effetti, sedici anni prima avevano combattuto non tanto contro i Viet Cong, quanto contro l’esercito nord vietnamita, l’Armata popolare vietnamita.

L’assedio di Khe Sanh nel quadro del conflitto vietnamita

La battaglia di Khe Sanh, che iniziò l’8 gennaio del 1968, ebbe una rilevanza peculiare su registri diversi.

Nel 1968, il coinvolgimento americano nel Sud Est asiatico si era incredibilmente intensificato, con un’escalation accelerata dalla seconda metà del 1966, fino a diventare una vera e propria guerra. Ma si trattava di una guerra particolare, che le forze armate americane, le più potenti del pianeta stentavano a vincere, pur avendo di fronte un nemico che, per quanto appoggiato dalla Repubblica Popolare Cinese e dall’U.R.S.S., era di imparagonabile inferiorità in termini di armi, mezzi e risorse di ogni genere.

Alla fine del 1967 i soldati americani impegnati in Vietnam erano saliti a circa mezzo milione, ben 100.000 dei quali, erano arrivati soltanto nel corso di quell’anno e di questi 9.000 erano stati uccisi in azione (ammontavano così a quasi 16.000 i caduti statunitensi dal 1966). Sul Vietnam del Nord e su quello del Sud erano state sganciate più di un milione e mezzo di tonnellate di bombe, ma la guerra era ancora ad un punto morto. E il popolo americano era stanco. Chi non disapprovava la guerra in sé, era contrariato dal modo in cui il presidente Lyndon B. Johnson la stava conducendo: per alcuni, pochi, con troppa crudeltà; per altri, la schiacciante maggioranza, con insufficiente determinazione [2].

Per i nord vietnamiti, una lotta per l’esistenza

Per i nord-vietnamiti e per i loro sostenitori, i cosiddetti Viet Cong, nel Sud Vietnam si trattava di una guerra che non potevano permettersi di perdere. Iniziata decenni prima, già combattuta, e parzialmente vinta nel 1954, contro la dominazione coloniale francese, quella era una guerra che non avrebbero mai smesso di combattere, lottando letteralmente fino all’ultimo uomo. Per essi l’unificazione dei due Vietnam, la cacciata del governo fantoccio  filoamericano da Saigon e la liberazione dall’ingerenza statunitense, erano un tutt’uno irrinunciabile, assai più dell’ideologia comunista. Nessun prezzo sarebbe mai stato troppo alto. E, infatti, sopportarono l’inimmaginabile.

In America, un popolo e un governo divisi

Anche i più patriottici tra i cittadini americani, invece, davano a quella guerra un significato ben diverso, di tipo meramente difensivo e, perciò, un po’ deprimente: fermare l’avanzata del comunismo in quella regione. I più convinti e contagiati dalla paranoia della Guerra Fredda ritenevano che in Vietnam occorresse vincere per non correre il rischio che un domani i comunisti potessero sbarcare sulle spiagge della California. Era la “teoria del domino”, secondo la quale, la caduta in mano comunista di un paese europeo, africano, asiatico o latinoamericano significava l’immediata caduta di un altro e così via fino al dilagare del comunismo ovunque. Vi era, però, una crescente disapprovazione nel popolo americano rispetto a quella guerra. Il Vietnam stava spaccando il Paese, divideva l’opinione pubblica mondiale e creava divisioni anche alla Casa Bianca e nell’amministrazione americana [3]. Perfino Robert McNamara, segretario alla Difesa già nell’amministrazione Kennedy e per lungo tempo fermo sostenitore del conflitto e della campagna di bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord, era ormai del tutto pervaso dal pessimismo. Tanto da osservare che, pur essendo state sganciate sul Vietnam «più bombe che sull’intera Europa durante la Seconda Guerra Mondiale», tutto era stato inutile. «La guerra era inutile» [4]. Non meno lacerato e dubbioso era l’animo del presidente Lyndon Baines Johnson, che, però, condizionato anch’egli dalla teoria del domino, non era disposto a prendere in considerazione la possibilità di ritirarsi da quel «pisciatoio» [5].

Una guerra senza fronti

Quella del Vietnam a differenza di tutte le altre combattute fino a quel momento non aveva una linea precisa del fronte. Vi era, sì, la linea del 17° parallelo, che, dopo gli accordi di Ginevra del 1954 – con i quali era cessata la dominazione della Francia, grazie alla vittoria del movimento Viet Mihn (Lega per l’Indipendenza del Vietnam) -, divideva il territorio vietnamita in due stati: a nord, la Repubblica Democratica del Vietnam appoggiata dall’Unione Sovietica e, con non poche ambivalenze, dalla Cina [6]; a sud, la Repubblica del Vietnam, alleata e appoggiata dagli USA. Ed era in quest’ultima area che si combatteva, poiché qui le forze insurrezionali filo-comuniste e l’esercito nordvietnamita conducevano la loro lotta al governo autoritario filo-statunitense. Per i soldati americani ciò significava che il pericolo era onnipresente, nella giungla, nelle risaie, nelle vie delle città, negli accampamenti [7]. Inoltre, questa peculiarità del conflitto, sotto diversi aspetti un conflitto coloniale, aveva anche un’altra implicazione: i soldati americani della Prima e della Seconda Guerra Mondiale avevano misurato i loro successi in base al territorio progressivamente conquistato e conservato [8]. In Vietnam, invece, i soldati conquistavano e riconquistavano più volte lo stesso terreno. Ciò, ai loro occhi, significava condurre una guerra senza scopo tangibile.

Infatti, l’unico successo misurabile era costituito dal numero dei morti, cioè dalla quantità di nemici uccisi. E ciò in parte spiega anche la ferocia criminale che in non pochi casi dimostrarono i soldati americani, incluso l’eccidio di My Lai (di cui abbiamo parlato qui in questa rubrica).

L’assedio di Khe Sanh

Sotto questo profilo, l’assedio di Khe Sanh, ricordato in Born in The USA, costituì contemporaneamente un’anomalia e una conferma.

Quella serie di attacchi delle forze comuniste alle postazioni americane che entusiasmò Westmoreland

Nel settembre del ’67 le forze comuniste avevano lanciato una serie di attacchi contro una linea di guarnigioni americane distribuite nel Vietnam centrale e alle frontiere del Laos e della Cambogia, proprio mentre il generale William Westmoreland (già nominato nel ’64 dal presidente Johnson capo dei consiglieri militari americani in Vietnam, era il comandante delle forze di combattimento americane) dichiarava ai giornalisti americani che l’aumento delle perdite del nemico stava gettando nella disperazione i comunisti. Invece, organizzate in reggimenti e divisioni, le forze nordvietnamite, erano equipaggiate con modernissimi fucili automatici sovietici, radio portatili, mortai, lanciafiamme, razzi e grossi cannoni contraerei, che sapevano usare con straordinaria precisione [9].

Westmoreland, però, non ne fu angosciato: era esattamente il tipo di guerra, convenzionale che da tempo aspettava di poter combattere. Lontano dalle città sudvietnamite, contava di potere dispiegare l’incontenibile potenza di fuoco americana [10]. E lo fece annientando gli attaccanti nordvietnamiti. Alla fine di novembre, durante una breve visita a Washington, il generale osservò:

«le speranze del nemico sono alla fine».

Le speranze del nemico non erano alla fine

Alla fine del ’67, però, numerosi rapporti dei servizi segreti rivelavano che quattro divisioni nordvietnamite di fanteria, due reggimenti di artiglieria e diverse unità corazzate, per un totale di 40.000 soldati, stavano dirigendosi su Khe Sanh. Era un’area di ondulate, fertili e verdi colline, attraverso la quale passava la strada n. 9, costruita durante la dominazione francese per collegare la costa vietnamita con le città laotiane sul fiume Mekong.

Qui le forze speciali americane avevano costruito una base per reclutare e addestrare i montanari locali (i montagnards) contro i comunisti. Nell’estate del ’67, Westmoreland aveva esteso la base, pensando di usarla per attaccare le basi comuniste presente nel Laos, ma Johnson aveva respinto questo piano. Il generale allora l’aveva riempita di munizioni e di altro materiale e vi aveva installato un battaglione di marines. Poi, a fine anno, venuto a sapere della manovra nordvietnamita verso Khe Sanh, vi spostò altri 6.000 marines, elaborando un piano per sottoporre le forze nemiche ad una pioggia torrenziale di bombe (l’operazione Niagara). Inoltre, chiese ai suoi collaboratori di studiare l’uso di bombe nucleari tattiche, ma Lyndon B. Johnson oppose un ulteriore divieto, irritando Westmoreland. Costui, anni dopo, affermò che con le armi nucleari gli Stati Uniti avrebbero vinto senza dubbio la guerra.

«Non voglio un’altra maledetta Dien Bien Phu» (LBJ)

Westmoreland era convinto che i comunisti puntassero su Khe Sanh per conquistare le province settentrionali del Sud Vietnam, per poi proporre delle trattative con gli USA e il Vietnam del Sud, sfruttando il vantaggio di un potere negoziale accresciuto. Come, del resto, già avevano fatto con i francesi ai tempi della Conferenza di Ginevra, quando seppero sfruttare la vittoria riportata a Dien Bien Phu. Non era il solo, Westmoreland, a pensarla così. Molti osservatori e funzionari americani vedevano nella battaglia in corso a Khe Sahn lo spettro della disfatta francese del ’54 a Dien Bien Phu. Più di ogni altro ne era ossessionato il presidente, il quale, seguendo giorno per giorno l’andamento degli scontri, nella Situation Room, davanti ad un plastico del campo di battaglia, disse al capo degli stati maggiori riuniti Earl Wheeler:

«Non voglio un’altra maledetta Dien Bien Phu».

La strategia nordvietnamita

In realtà i comunisti non consideravano Khe Sanh come un’altra Dien Bien Phu. Mentre quella era stata interpretata e combattuta fin dall’inizio, da loro e dai francesi, come una battaglia risolutiva, nessuna delle singole battaglie contro le forze americane era intesa da Hanoi in questi termini. I comunisti sapevano perfettamente di non poter infliggere agli americani una sconfitta decisiva in unico scontro. Per loro battaglie come quelle di Khe Sanh avevano lo scopo di allontanare le truppe statunitensi dai centri abitati più importanti del Sud Vietnam, lasciandoli così esposti ai loro attacchi. Erano, in un certo senso un diversivo.

«Una trappola» che Westmoreland non riconobbe

In realtà anche alcuni americani, neanche pochi, avevano intuito il pensiero nordvietnamita. Tra gli altri, il maggiore Lowell English, comandante della marina militare americana a Khe Sanh, dissentiva dalla decisione di Westmoreland di tenere a tutti i costi quella postazione, ritenendo che non fosse altro che una «una trappola». Un trucco inteso a costringere gli americani a difendere «un pezzo di territorio che non vale un accidente», con enorme spreco di uomini e materiali. Westmoreland, invece, quando a fine gennaio iniziò la devastante offensiva del Tet (l’attacco comunista alle città del Sud Vietnam durante le festività di fine anno, secondo il calendario cinese, tradizionalmente considerato e rispettato come periodo di tregua), lo interpretò alla rovescia: rimase per un bel po’convinto che le insurrezioni e gli attacchi a Saigon e negli altri centri urbani fossero un diversivo rispetto a Khe Sahn e agli attacchi alla parte settentrionale del Sud Vietnam.

Il macello di Khe Sahn

La battaglia durò dall’8 gennaio all’8 aprile ’68, e vi presero parte 33.000 soldati nordvietnamiti e 45.000 tra americani e sudvietnamiti. Dei primi furono trovati 1.602 cadaveri, ma le stime americane – viziate per eccesso – parlavano di 5.500 morti (o perfino 15.000), mentre quelle nordvietnamite si attestavano sulla metà. I morti sudvietnamiti furono 538, mentre quelli americani oltre 1200, cui andavano aggiunti 5.000 feriti.

Gli americani assediati potevano essere riforniti solo per via aerea. E gli attacchi con mortai ed artiglieria erano così incessanti che gli aerei neppure potevano atterrare, sicché sorvolavano a bassissima quota la pista d’atterraggio e scaricavano il materiale con dei piccoli paracadute.

Non solo i bombardamenti erano devastanti per i marines, ma anche gli attacchi di fanteria sulle alture intorno alla base li tormentavano. Tuttavia, se i difensori non intrapresero mai un vero tentativo di rompere l’assedio, contando soprattutto sui massicci bombardamenti dell’aviazione, la quale usava i B-52 per sventare gli assalti di fanteria, anche gli attaccanti non condussero mai un grande assalto. Anzi, evitavano il più possibile, almeno durante il giorno, il contatto diretto con i difensori della base. E anch’essi se la passavano davvero male, visto che l’operazione Niagara predisposta da Westmoreland si concretizzava nell’esplosione di 75.000 tonnellate di bombe sulle loro teste in sole 9 settimane: mai ne erano state sganciate così tante in tutta la storia della guerra. Costruito, allora, un intricato sistema di gallerie sotterranee, per eludere i bombardamenti americani, le truppe nordvietnamite lo usarono anche per tentare di penetrare nella base. Con scarso successo, però. Né maggiore successo avevano, del resto, le loro incursioni notturne.

They’re still there, he’s all gone

Gli americani l’8 aprile ruppero l’assedio, grazie all’intervento dall’esterno della 1ª Divisione di cavalleria aerea e di diversi altri reparti dei Marines, così Westmoreland poté vantarsi di aver riportato una vittoria decisiva.

Ma Bruce Springsteen aveva più che mai ragione, sedici anni dopo, nel cantare la sua rabbia impotente e desolata:

«Avevo un fratello a Khe Sahn, che combatteva i Viet Cong. Loro sono ancora là, lui non c’è più».

La fortezza di Khe Sahn venne, infatti, abbandonata dagli americani, che la demolirono, in gran segreto, per ordine dello stesso generale Westmoreland impartito il 28 giugno di quell’anno. E l’Esercito Popolare del Vietnam ottenne il controllo completo di quella roccaforte, la cui difesa, secondo quanto era stato spiegato al popolo americano appena pochi mesi prima, meritava il sacrificio dei marines assediati, essendo «il punto cruciale della catena difensiva in quel settore».

 

Alberto Quattrocolo

Fonti:

AA.VV., NAM – cronaca della guerra in Vietnam 1965-1975, Novara, De Agostini, 1988,

Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 1985,

Neil Sheehan, Vietnam. Una sporca bugia, Milano, Edizioni Piemme, 2003

www.it.wikipedia.org

[1] Epica, fu definita Born in The USA, ma il testo era amarissimo, fin dall’incipit

Born down in a dead man’s town

The first kick I took was when I hit the ground

End up like a dog that’s been beat too much

Till you spend half your life just covering up

Fu anche scambiata per una canzone patriottica, ma non lo era per nulla. E Springsteen, da sempre pacifista, democratico e liberal impegnato, rifiutò a Ronald Reagan l’impiego della canzone nella sua campagna elettorale.

[2] Stava, per giunta, per aprirsi l’anno delle elezioni presidenziali e il presidente Lyndon B. Johnson doveva confrontarsi non soltanto con un avversario repubblicano, ma anche con un esponente liberal del Partito Democratico, il senatore del Minnesota Eugene Mc Carthy, che aveva annunciato l’intenzione di candidarsi alle primarie democratiche contro di lui, come candidato di opposizione alla guerra.

[3] A differenza dei militari, i funzionari civili del Dipartimento della Difesa nutrivano un pessimismo crescente e iniziavano ad interrogarsi sul senso di quella guerra. Le loro moglie e i loro figli, di cui non pochi partecipavano agli scioperi bianchi nei college contro il conflitto e alle manifestazioni pacifiste, quando rientravano a casa gli chiedevano: “Ma cosa ci facciamo laggiù?”. Ormai tutti sapevano che il governo sudvietnamita, corrotto, violento, dispotico e inconcludente, non era in grado di contrastare il Vietnam del Nord, né sul piano militare né su quello politico. E la guerra che gli americani vedevano tutti i giorni sugli schermi televisivi cominciava per essi a costare troppe vite e troppe sofferenze, senza portare alcun risultato.

[4] Nel febbraio del ’68 deluso e profondamente angosciato, McNamara si dimise.

[5] Nel ’54, quando le truppe francesi stavano soccombendo nell’ultima decisiva battaglia di Dien Bien Phu, Lyndon Johnson, membro anziano del comitato senatoriale per le forze armate, si era opposto alla proposta di un intervento americano per soccorrere i francesi assediati. Anche il presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Dwight Eisenhower, condivise questa presa di posizione non interventista.

[6] L’inimicizia tra vietnamiti e cinesi è plurisecolare e affonda le radici nell’antica e mai del tutto archiviata aspirazione cinese ad impadronirsi del territorio vietnamita.

[7] Ogni vietnamita poteva essere un guerrigliero o un terrorista, ossia un vietcong. Non a caso, i soldati statunitensi affibbiarono al nemico il nomignolo di Charlie.

[8] Per il milite americano, come per i suoi connazionali in patria, l’occupazione di una nuova città, nel secondo conflitto mondiale, sul fronte europeo, aveva costituito un fattore decisivo per tenere “alto il morale” nell’avanzata verso la Germania di Hitler, come la conquista di un’isola del Pacifico era vissuta come un passo importante verso la sconfitta dell’Impero giapponese e la fine della guerra.

[9] Stavano puntando a conquistare Conthiem, una piccola base di marines posta su una collina al confine con il Vietnam del Nord, Locnihn e Sogbe, vicine alla Cambogia e Dakto, un’area di fitta giungla nei pressi di Pleiku.

[10] In tre mesi i nordvietnamiti e i vietcong, grazie soprattutto ai bombardamenti americani, persero 90.000 uomini.

Je suis Charlie, o no?

7 gennaio 2015, 11.30 del mattino. Sede del giornale Charlie Hebdo, Parigi.
Corinne Rey, al ritorno dall’asilo dove ha appena lasciato la figlia, viene presa in ostaggio da due uomini mascherati. La costringono ad inserire il codice apri porta del palazzo. La fumettista li guida fino al secondo piano, dove scaricano gli AK-47 sui colleghi della donna, che si salva rintanandosi sotto una scrivania.

12 vittime, che si aggiungono alle 8 dei momenti e giorni seguenti, tra cui i tre terroristi stessi (il terzo agì il giorno successivo, a sud della capitale): in Francia, il quarto attentato per numero di vite spezzate.

4 giorni dopo, più di due milioni di persone affollano le strade della Ville Lumière per esprimere solidarietà alle vittime e alle famiglie. Je suis Charlie è il motto e l’hashtag che rimbalza sugli schermi di tutto il mondo, unendolo a tempo zero come solo oggi è possibile fare.

Naturalmente, ci sono dei distinguo. Charlie Hebdo è infatti un giornale controverso. Le sue vignette satiriche avevano fatto discutere in precedenza, e lo faranno anche in seguito. Je ne suis pas Charlie è il contro-hashtag che emerge per denunciare quanto sono riprovevoli, e financo razziste, le immagini del periodico.

In Italia, una grossa fetta di risentimento la solleva la vignetta sul terremoto di Amatrice.

Il web, e non solo, prorompe in un’ondata d’indignazione, finché l’ambasciatrice francese a Roma si dissocia, in nome del governo transalpino, dalla posizione del giornale. I fumettisti tentano quindi di spiegare l’intenzione e il senso, prendendo ancora una volta in mano la matita:

Com’è facile immaginare, scarsi risultati in termini di opinione pubblica. Si arriva addirittura ad invocare la censura. Il dialogo, tutt’altro che pacato, sulla satira è nuovamente aperto.

Un contributo degno di nota in tal senso è senz’altro quello di Daniele Luttazzi, che del controverso genere letterario qualcosa dovrebbe sapere, anche solo per aver aver scritto e condotto Satyricon per dodici puntate:

La satira è un punto di vista. In quanto tale, è opinabile. Lo è inevitabilmente. Ogni atto satirico è l’esito di una decisione/giudizio dell’autore e rivela la sua cultura e la sua ideologia. […]
Come un risultato artistico può non corrispondere alle intenzioni dell’artista, così un satirico può scivolare via dalla satira (colpire il carnefice), in direzione dello sfottò fascistoide (colpire le vittime di un carnefice). […]
Quella vignettaccia ha disturbato perché sbeffeggiava delle vittime, non perché fosse satira efficace. […]
Quando sei nel dubbio, chiediti sempre: “Chi è il bersaglio?”
(Daniele Luttazzi Blog, 5 settembre 2016)

 

Alessio Gaggero