2002, muore il sociologo Pierre Bourdieu

Di tutte le forme di persuasione occulta, la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose.
(P. Bourdieu, “Risposte. Per un’antropologia riflessiva”)

Il 23 gennaio 2002 muore a Parigi Pierre Bourdieu, accademico francese il cui lavoro investe un’ampia gamma di argomenti, quali l’etnografia, l’arte, la letteratura, la pedagogia, il linguaggio, il costume, la televisione, la globalizzazione. Nato nel 1930 da famiglia contadina, si laurea in filosofia all’École Normale Supérieure di Parigi, ma l’esperienza che gli fa abbandonare la carriera filosofica e gli fa intraprendere il cammino sociologico è il servizio militare in Algeria dal 1956 al 1958 durante la guerra d’indipendenza: è nell’osservazione delle forme simboliche della società kabile, delle sue risposte ai mutamenti violenti apportati dal colonialismo e dal capitalismo, che prende forma la sua teoria sociologica.

Influenzato sia dal marxismo che dallo strutturalismo, Bourdieu si interessa particolarmente allo studio dei processi culturali elaborando diverse idee fondamentali per la comprensione della società, all’interno di una cornice teorica secondo la quale nel mondo sociale esistono strutture indipendenti dalla coscienza dell’individuo e dal suo volere, le quali delimitano il comportamento dell’attore sociale.

Il concetto di habitus, ossia la struttura di norme e comportamenti, spiega la chiave della trasmissione culturale in grado di generare comportamenti regolari che condizionano la vita sociale, una sorta di stampo prefigurante i comportamenti e i pensieri di un gruppo sociale in un certo periodo storico; è un sapere comune implicito, interiorizzato dai soggetti nelle loro cognizioni, nei comportamenti, fino alle posture del corpo e ai sentimenti.

In questo contesto, nasce, agisce e si sviluppa quella violenza invisibile che Bourdieu chiama “simbolica”, associata ai processi educativi di acquisizione del capitale culturale, politico, sociale. Emancipandosi dalla visione marxista, che lega l’oppressione alla dominazione materiale, Bourdieu osserva come la violenza simbolica possa esercitarsi anche in assenza di costrizione economica.

Si tratta di forme di violenza esercitate non con la diretta azione fisica, ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, delle strutture mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo, da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati. Costituisce quindi una violenza “dolce”, impercettibile, esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce e che nasconde i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura.

Bourdieu elabora un tema a tutt’oggi molto attuale:

Come è possibile che un ordine sociale palesemente fondato sull’ingiustizia possa perpetuarsi senza che venga posta la questione della sua legittimità?”.

È assodato che la violenza simbolica non è mai disgiunta dai rapporti di forza oggettivi che la rendono possibile, né dalla violenza fisica che sullo sfondo si staglia all’orizzonte: ma il processo di legittimazione di un dominio consiste proprio nel fatto che la violenza simbolica,

dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, specificatamente simbolica, a questi rapporti di forza.

La violenza simbolica è tale perché opera attraverso i simboli e sui simboli, ma i suoi effetti non hanno niente di simbolico: gli anziani che perdono le pensioni, i malati che non saranno più curati sono quanto di più materiale e meno simbolico si possa immaginare, ma se il verdetto può avere questi effetti è perché la legittimità della sentenza è interiorizzata da chi la subisce. L’effetto su colui che subisce una violenza simbolica è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza. La violenza simbolica agisce sulle categorie cognitive del dominato che, per pensare il proprio rapporto con il dominante, dispone solo di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata della struttura del rapporto di dominio, fanno apparire tale rapporto come naturale.

Proprio per effetto della coercizione simbolica, la violenza può essere dissimulata sotto le forme del “naturale”, dell’”inevitabile”. E’ “naturale” che vi siano sfruttati (e sfruttatori), che alcuni guadagnino 10.000 volte più della media dei propri dipendenti, la legge “di mercato” è una “legge di natura” come la gravitazione universale:

Contro coloro che nella enunciazione di leggi sociali, intese come destino, vorrebbero trovare l’alibi di una rassegnazione fatalistica o cinica, occorre ricordare che la spiegazione scientifica, che offre gli strumenti per capire, se non assolvere, è anche quella che permette di trasformare. Una conoscenza più approfondita dei meccanismi che governano il mondo intellettuale non dovrebbe avere come effetto di scaricare l’individuo dell’imbarazzante fardello della responsabilità morale […]. Viceversa dovrebbe insegnargli a porre le sue responsabilità là dove si pongono realmente le sue libertà.

Bourdieu sviluppa ulteriori riflessioni di grande attualità per la maggior parte delle società europee in merito alla “miseria sociale” legata, per esempio, alla coabitazione, nei quartieri multietnici e nelle scuole, tra persone che hanno visioni del mondo e abitudini molto diverse; queste sofferenze non si accompagnano necessariamente a un discorso costituito, ma si esprimono con collere, violenze, razzismo, espressioni brutali, impulsi padroneggiati male. Bourdieu osserva che si possono sfruttare molto bene quelle pulsioni in un linguaggio che dia un’espressione in apparenza giustificata alle sofferenze palesi, un linguaggio che sfrutti quelle sofferenze senza darsi minimamente i mezzi per investirne le cause.

Interrogandosi sulle possibilità di contrastare tali meccanismi, lo studioso chiama in causa una funzione tipicamente socratica dell’intellettuale: egli rileva come nel mondo sociale, sotto l’effetto della violenza simbolica, molte persone siano spossessate degli strumenti simbolici di espressione delle proprie esperienze, delle proprie sofferenze, e ritiene fondante lavorare per restituire loro la possibilità di esprimersi, non tanto su scala globale quanto proprio all’interno di relazioni di scambio, di dialogo, tra un sociologo o un ricercatore da una parte e una “persona spossessata”.

Muovendo dalla scoperta dell’etnologia e dalla successiva scelta del “mestiere di sociologo”, a un mondo scientifico sempre più teso verso la specializzazione Bourdieu propone concetti e riflessioni teoriche frutto di un continuo attraversamento di differenti discipline delle scienze sociali, manifestando l’ambizione di riconciliare le intenzioni teoriche e quelle pratiche, la vocazione scientifica e quella etica, o politica, interpretando il ruolo di ricercatore come una sorta di mestiere militante.

Il lavoro di tutta la mia vita è consistito nel prendere sul serio queste forme dolci, impercettibili, insensibili di violenza, di andare a cercare la violenza là dove nessuno si aspetterebbe di vederla, per esempio nel rapporto pedagogico, dove essa è. La mia idea di fondo è che scovando la violenza simbolica, rendendola visibile, manifestandola, si può mettere in moto la ricerca dei mezzi per combatterla.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Pierre Bourdieu, Intervista sulla violenza simbolica”, www.gabriellagiudici.it, tratto da www.emsf.rai.it; M. Riva, “Alcune note sulla “Violenza Simbolica”, www.ottocentro.it; M. d’Eramo, “Bourdieu, un pensiero combattente”, il Manifesto, 24 gennaio 2012; P. Bourdieu. “Come si fabbrica l’opinione pubblica”, Le Monde diplomatique – il Manifesto, gennaio 2012; www.biografieonline.it; S. Cozzi, “Pierre Bourdieu: la teoria della pratica e la logica dei campi”, www.campodellacultura.it

Sakharov, un portavoce della coscienza per l’umanità, oggi come ieri

Andrei Sakharov fu arrestato il 22 gennaio del 1980. Le sue idee, le sue parole e le sue iniziative erano state ritenute dai vertici del Cremlino così scomode da farlo arrestare. Eppure, Sakharov, era stato riconosciuto come Eroe socialista del lavoro e aveva ottenuto il premio Stalin. In Unione Sovietica era uno che contava, “un pezzo grosso”. Non faceva parte dei servizi segreti, non era un militare, né un politico. Era uno scienziato. E, in questa veste, tra il 1948 e il 1953 aveva fornito un contributo tale alla progettazione e alla sperimentazione delle prime bombe termonucleari che venne considerato il padre della bomba all’idrogeno sovietica. Forse nessun singolo individuo aveva dato un contributo maggiore del suo allo sviluppo della potenza militare dell’URSS.

Nel 1975, però, gli era stato assegnato il “Nobel per la Pace“. Era stato il primo russo a ricevere quel riconoscimento. E altri ancora ne ricevette in seguito [1]. Perciò, oggi, a quasi trent’anni dalla sua morte (si spense a Mosca, dov’era nato, il 14 dicembre del 1989, a sessantotto anni, a causa di una cardiomiopatia) e a trentanove anni esatti dal suo arresto, vale la pena ricordare quali furono i valori e i principi che lo guidarono e per cosa lottò. La ragioni della sua lotta, infatti, sono ancora attuali, come lo sono, purtroppo, le reazioni di chi considera quei principi come delle eresie e la loro realizzazione come qualcosa da evitare e stroncare con qualsiasi mezzo e senza alcuno scrupolo.

Andrei Sakharov, il padre della bomba all’idrogeno sovietica

Nel 1938 si era iscritto all’Università di Stato di Mosca, quando le “purghe staliniste” falcidiavano i migliori docenti del mondo accademico [2]. Dopo il 22 giugno del 1941 Andrei Sakharov, con altri studenti, trasferito con altri studenti in Asia centrale su un treno merci (il viaggio durò un mese) [3]. All’inizio del ’45 tornò a Mosca per riprendere gli studi di fisica.

Qualcosa di nuovo e terribile era entrato nelle nostre vite, ed era venuto dalla parte della Grande Scienza, quella che avevo strettamente abbracciato.

La mattina del 7 agosto lesse su un giornale che il giorno prima il presidente degli Stati Uniti Harry Truman aveva comunicato l’esplosione a Hiroshima di una bomba atomica americana dal potere distruttivo pari a 20mila tonnellate di tritolo.

«Le mie ginocchia si sono allentate. Mi resi conto che la mia vita e la vita di moltissime persone, forse tutte, erano improvvisamente cambiate. Qualcosa di nuovo e terribile era entrato nelle nostre vite, ed era venuto dalla parte della Grande Scienza, quella che avevo strettamente abbracciato».

Stava iniziando la Guerra Fredda, come per circa 45 anni venne definita la contrapposizione tra il bocco capitalista e quello comunista [4]. Già nel ’46 al venticinquenne Sakharov fu chiesto di partecipare al progetto per la costruzione di una bomba atomica sovietica, ma egli declinò l’invito sia quell’anno che quello successivo, ma nel ‘8 vi aderì [5]. E fu trasferito in una città segreta dell’URSS (chiamata Installazione), nella regione centrale del Volga, nella primavera del ’50 [6].

La bomba H

Nel ’53 il gruppo di cui faceva parte Sakharov realizzò con successo il test termonucleare [7]. Non era stato soltanto “la sfida tecnico-scientifica” ad appassionare Sakharov:

«Non potevo ignorare quanto fosse orribile e disumano il nostro lavoro. Ma anche la guerra che era appena finita era stata disumana. Non ero stato un soldato in quella guerra, ma mi sentivo tale in questa nuova guerra scientifica e tecnologica».

Pur deprecando la violenza dello stalinismo, pianse quando quell’anno Stalin morì. Il patriottismo e la convinzione che il comunismo fosse la salvezza dell’umanità mettevano in secondo piano la ferocia del regime. Aveva assimilato «l’idea, indotta dalla propaganda, secondo cui le brutalità sono inevitabili durante i grandi sconvolgimenti storici». Subentrato a Igor Tamm nella direzione del gruppo di lavoro, apportò un contributo chiave anche alla realizzazione della prima bomba H a piena potenza dell’Unione Sovietica, che fu testata nel 1955.

L’opposizione di Sakharov agli esperimenti nucleari per fini bellici

Nel 1957 Sakharov, incaricato di smentire gli scienziati americani riguardo alla bomba atomica “pulita”, entrò a capofitto nel dibattito internazionale sulle conseguenze radioattive di qualsiasi esplosione nucleare [8]. Usando i dati biologici disponibili, Sakharov calcolò gli effetti duraturi, derivanti in tutto il mondo, della detonazione di una bomba H “pulita” da un solo megatone. Le sue conclusioni erano nettamente meno ottimistiche sia di quelle dell’americano Edward Teller, sia di quelle della maggior parte degli scienziati sovietici, più o meno concordi con l’americano nel sostenere che i test delle armi nucleari erano sicuri, non creavano pericoli. Sakharov non solo contestava quelle convinzioni ma aggiungeva che anche la dannosità dei test nucleari compiuti nell’atmosfera era un fatto provato dalla scienza. Ed era un fatto che aveva inevitabili implicazioni morali [9].

Il suo studio non fu pubblicato che nel 1958, cioè poco dopo che l’Unione Sovietica aveva annunciato una moratoria temporanea sugli esperimenti nucleari. Sakharov ne fu lieto, ma molto meno lieto fu nel luglio del 1961, quando il leader sovietico Nikita Khrushchev decise di revocare la moratoria sui test [10].

La bomba dello Zar

Tuttavia, Sakharov avendo fiducia in Khrushchev, obbedì [11]. Sotto la sua direzione, quindi, fu fabbricata la cosiddetta bomba dello Zar, il dispositivo più potente mai esploso sulla Terra, che fu testato il 30 ottobre 1961 [12]. Era ancora convinto che la pace, cioè la mancata esplosione di una guerra nucleare, fosse assicurata da questa infinita gara tra le due super-potenze, costantemente tese a raggiungere e superare il potenziale bellico avversario. Si trattava di ciò che venne chiamato “Mutual Assured Destruction“.

La svolta del settembre ’62 e l’impegno per la messa al bando dei test nucleari

Nel settembre del ’62 il Cremlino, però, decise un altro test. Inutile sul piano tecnico e nocivo quanto gli altri, secondo Sakharov. Fu, per lui, una delusione terribile [13]. Decise allora di impegnarsi al massimo per spingere l’Unione Sovietica a sottoscrivere un accordo per la messa al bando dei test nucleari (vi abbiamo riferimento nel post del 22 novembre 2018 sul cinquantacinquesimo anniversario della morte di John Kennedy). Il Trattato, che fu firmato, nel 1963, a Mosca, dagli Stati Uniti, dall’URSS e dal Regno Unito, vietò tutti i test nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sott’acqua, permettendoli “soltanto” sottoterra [14].

“Riflessioni su progresso, coesistenza pacifica e libertà intellettuale”.

Dall’autunno del 1963 riprese a dedicarsi seriamente anche sulla scienza pura [15]. Continuava ancora a lavorare nell’ambito della progettazione militare, ma iniziò anche ad offrire un sostegno alle vittime della discriminazione e dell’oppressione politica [16]. Inoltre, lavorando a nuove armi e scrivendo le sue riflessioni, tentava di incidere sulle decisioni politiche e strategiche [17]. Il Cremlino, però, definì il frutto dei suoi studi “inadatto alla pubblicazione“. Sconfitto ma non domato, Sakharov scrisse un saggio dal titolo “Riflessioni su progresso, coesistenza pacifica e libertà intellettuale“, facendolo circolare con copie dattiloscritte [18]. Il saggio riuscì a giungere fuori dall’Unione Sovietica e venne pubblicato prima sul giornale olandese Het Porool poi dal New York Times, nel luglio 1968. Ai capi di Sakharov la cosa non andò giù e lo estromisero da tutte le ricerche in ambito bellico.  L’anno dopo, nel mese di marzo, sua moglie Klavdia morì di cancro, lasciandolo con i tre figli di 24, 19 e 11 anni. A maggio tornò all’Università di Mosca per dedicarsi alla fisica teorica pura.

La difesa dei diritti umani

Con il saggio pubblicato dal New York Times, Sakharov aveva voluto denunciare «i gravi pericoli che minacciano la razza umanaestinzione termonucleare, catastrofe ecologica, carestia, un’esplosione incontrollata della popolazione, alienazione e distorsione dogmatica della nostra concezione della realtà». Inoltre sosteneva la necessità «di un riavvicinamento dei sistemi socialista e capitalista che potrebbero eliminare o ridurre sostanzialmente questi pericoli […] e portare a una società democraticamente governata, democratica e pluralista, priva di intolleranza e dogmatismo, una società umanitaria che si preoccupi della Terra e del suo futuro» [19].

Con queste premesse era quasi naturale che Sakharov entrasse sempre di più in rapporto con l’emergente movimento per i diritti umani: nel ’70, insieme ai dissidenti sovietici Valery Chalidze e Andrei Tverdokhlebov, infatti, fondò il Comitato per i diritti umani di Mosca. E nel movimento incontrò Elena Bonner, la quale prestò divenne sua compagna non solo di lotta, visto che si sposarono nel 1971 [20].

La campagna anti-Sakharov

Sakharov era al centro dell’attenzione. Di un’attenzione non benevola da parte dei vertici del Partito. Furono pubblicate lettere aperte che lo denunciavano in termini politici, alcune delle quali firmate dai membri dell’Accademia Sovietica delle Scienze, mentre sui giornali comparivano lettere fasulle di “persone semplici” che lo attaccavano come “traditore”. Come Alexander Solzhenitsyn, in quel 1973, Sakharov era diventato troppo scomodo per il Politburo sovietico, per quanto egli fosse lontanissimo, anzi avverso, alle idee di Solzenitsyn sulla resurrezione nazionale russa, pur rispettando profondamente il coraggio dell’autore di Una giornata di Ivan Denisovich e di Arcipelago Gulag. E la stima era reciproca, visto che fu Solzhenitsyn, premiato con il Nobel per la letteratura nel 1970, a proporre la nomina di Sakharov per il Premio Nobel per la Pace [21].

Il Nobel per la pace

Le autorità sovietiche non permisero a Sakharov di andare a ricevere il premio [22]. Fu Elena Bonner, che era già all’estero, a ritirarlo per lui, partecipando alla cerimonia di premiazione a Oslo. Quel giorno Sakharov si trovava a Vilnius per assistere ad un processo contro Sergei Kovalev, un attivista per i diritti umani, ma aveva fatto avere ad Elena il testo del discorso di accettazione.

La libertà di movimento

Tra i tanti passaggi sulla libertà come condizione per una pace vera ce n’è un paio, riguardanti la libertà di movimento, che suonano ancora attuali – tragicamente attuali.

«Chiunque desideri emigrare dall’Unione Sovietica deve ricevere un invito formale da un parente stretto. Per molte persone questo è un problema insolubile, ad esempio per 300.000 tedesco-orientali che desiderano recarsi nella Repubblica Federale Tedesca. La quota di emigrazione per i tedeschi è di 5.000 l’anno, il che significa che i propri piani dovrebbero coprire un sessantennio!». 

La libertà di coscienza

Non meno esplicita fu un’altra denuncia di Sakharov. «Nell’Unione Sovietica oggi molte migliaia di persone sono perseguitate a causa delle loro convinzioni, sia da parte degli organi giudiziari sia da parte di organi non giudiziari, per il loro credo religioso e per il loro desiderio di allevare i loro figli nello spirito della religione, per il fatto di leggere e divulgare – spesso solo a pochi conoscenti – una letteratura che non è gradita allo Stato, ma che secondo la normale pratica democratica è assolutamente legittima, ad esempio la letteratura religiosa, e per i tentativi di lasciare il paese». 

Sakharov non usò giri di parole anche nell’accusare l’assurda disumanità dei campi di prigionia sovietici, dove i detenuti, affamati, ammalati ma senza medicine, e stremati dal freddo e dal lavoro forzato, erano costretti «ad una lotta incessante» per difendere «la loro dignità umana e le loro convinzioni contro la “macchina dell’indottrinamento”, in realtà contro la stessa distruzione delle loro anime» [23].

La tutela dei diritti umani attraverso accordi internazionali e non con l’ingerenza negli affari interni di un singolo paese

La sua idea era che la persecuzione delle persone con opinioni diverse da quelle dei loro governanti dovesse essere risolta con accordi internazionali, che portassero alla «liberazione di tutti i prigionieri politici, di tutti i prigionieri di coscienza nelle prigioni, nei campi di internamento e nelle cliniche psichiatriche», se necessario «sulla base di una risoluzione approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»Precisava che la sua proposta non implicava alcun intervento esterno «negli affari interni di nessun paese», poiché un simile accordo sarebbe stato vincolante e applicabile in tutti i paesi con gli stessi criteri. Essendo consapevole che la sistematica violazione dei diritti umani non era una prerogativa esclusiva del mondo comunista, visto che era non meno tragica in paesi rientranti nel sistema capitalista, specificò:

«Dopotutto, si applicherebbe a tutti i paesi sulla stessa base: per l’Unione Sovietica, per l’Indonesia, per il Cile, per la Repubblica del Sud Africa, per la Spagna, il Brasile e per ogni altro paese. Dal momento che la protezione dei diritti umani è stata proclamata nella Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, non si può dire che questo sia un problema di interesse puramente interno».

Meglio avere dei colpevoli in libertà che degli innocenti rinchiusi

Conscio anche del fatto che un’amnistia generalizzata per i detenuti politici e per quelli di coscienza, poteva essere boicottata o circoscritta fino ad essere vanificata nei singoli stati, escludendone coloro che erano stati (giustamente o ingiustamente) incarcerati per altri crimini, aggiunse: «Sono profondamente convinto che sarebbe meglio liberare un certo numero di persone – anche se potrebbero essere colpevoli di qualche reato o altro – che tenere migliaia di persone innocenti rinchiuse ed esposte alla tortura».

La via delle riforme e non della rivoluzione

A suo modo di vedere la tutela per i diritti umani doveva essere intesa e sviluppata innanzitutto proteggendo le attuali e potenziali vittime innocenti dei diversi regimi, senza che ciò implicasse «chiedere la distruzione o la condanna totale di questi regimiAbbiamo bisogno di riforme, non di rivoluzioni».

L’arresto e l’esilio

Continuando a sviluppare le sue riflessioni su scienza e società – arrivò anche a prevedere in un articolo del 1974 la creazione di un sistema di informazione globale pubblicamente disponibile (18 anni prima della prima apparizione del World Wide Web) -, finì col principale difensore dei diritti umani del suo paese.

La repressione dei diritti umani porta alla guerra

Ma a porlo all’avanguardia nel campo internazionale fu un aspetto peculiare del suo impegno sul fronte dei diritti umani: aveva stabilito una stretta relazione tra la violazione dei diritti umani e la violenza internazionale, in virtù della quale le nazioni con diffusi e realmente tutelati diritti politici (cioè le democrazie) hanno raramente, se non mai, una guerra l’una con l’altra. Mentre in quei paesi in cui vi è una repressione interna di quei diritti, sono più propensi a sviluppare dei conflitti all’estero [24]. L’imminente invasione sovietica dell’Afghanistan confermò la validità della sua tesi.

L’esilio a Gorky

Sakharov protestò pubblicamente contro l’intervento sovietico del 1979 in Afghanistan. E, questa volta, il Politburo sovietico non ebbe riguardi. Il 22 gennaio 1980 fu fermato per strada e condotto nell’ufficio del Procuratore dell’URSS. Un decreto del Praesidium del Soviet Supremo dell’URSS gli aveva levato il titolo di Eroe socialista del lavoro e tutti gli altri riconoscimenti e stabiliva che quello stesso giorno fosse imbarcato su di un volo speciale per Gorky, una città sul Volga, insieme a, Elena Bonner, cui era stato concesso di accompagnarlo. Il suo esilio prevedeva una sorveglianza esasperata, il divieto di uscire dalla città, la proibizione di incontrare degli stranieri, di avere una corrispondenza di qualsiasi tipo con degli stranieri, inclusi gli scienziati, nonché delle comunicazioni personali, anche con i figli e i nipoti.

Le “bufale” contro di lui pubblicate su Izvestiia, gli scioperi della fame e la persecuzione della moglie

L’esilio durò quasi sette anni, ma pur soffrendo per l’isolamento, Sakharov non smise di difendere i suoi e altrui diritti e la dignità umana e scrisse un’autobiografia di oltre 1.000 pagine, che per tre volte il KGB gli sottrasse e per tre volte egli riscrisse [25]. L’establishment sovietico fece uscire un articolo sul quotidiano Izvestiia, firmato da quattro membri dell’Accademia delle scienze, in cui Sakharov veniva accusato di invocare una guerra termonucleare contro l’Unione Sovietica. Sakharov fece anche degli scioperi della fame e nei più di 200 giorni in cui fu totalmente isolato neanche a sua moglie fu permesso vederlo. Anzi, fu minacciata di essere perseguita penalmente. E, soprattutto, si cercò di far passare l’idea che egli in realtà fosse stato traviato proprio da lei.

La vera democrazia attraverso la riforma costituzionale

Per i cittadini sovietici comuni Sakharov era semplicemente un traditore, ma nell’élite comunista, dove la verità era nota, sulla scorta dell’esempio di Sakharov, si cominciò a mettere in discussione il sistema sovietico. Eletto Segretario Generale del Partito Comunista nel 1985, Mikhail Gorbaciov diede il via ad un processo di riforme noto come Perestroika. E nel dicembre ‘86 Sakharov tornò a Mosca e riprese le sue attività pubbliche, diventando una delle figure più rilevanti dell’opposizione politica, la quale chiedeva dei cambiamenti democratici più radicali rispetto a quelli previsti dalle riforme avviate dal Partito Comunista. Nell’aprile dell’89 Sakharov venne eletto nel nuovo parlamento dell’Unione Sovietica e in tale ruolo si fece interprete della proposta di abolizione dell’articolo 6 della Costituzione sovietica, che assicurava al Partito Comunista l’esclusiva funzione di direzione della società. Sakharov iniziò a scrivere una nuova Costituzione, essendo convinto che soltanto una riforma rapida e radicale potesse assicurare una trasformazione pacifica del paese.

Il 14 dicembre 1989, dopo una faticosa giornata di discussioni politiche, Sakharov morì per un improvviso attacco di cuore. Pochi mesi dopo, grazie ad imponenti manifestazioni popolari, il Partito Comunista rinunciò al suo monopolio costituzionale sul potere politico.

Alberto Quattrocolo

[1] Il Norwegian Helsinki Committee nel 1980 istituì il “Sakharov Freedom Award“, seguito otto anni più tardi dal Parlamento Europeo con il “Premio Sakharov per la libertà di pensiero“, attribuito a personalità e organizzazioni distintesi per le attività svolte a favore dei diritti umani e per la lotta contro l’intolleranza, il fanatismo e l’oppressione. Quello stesso anno l’International Humanist and Ethical Union attribuì a Sakharov l’ International Humanist Award“.

[2] Figlio di un insegnante di fisica, proveniva da una famiglia che, al tempo della Russia zarista, era collocata ad un livello piuttosto alto della gerarchia sociale. Ne avevano fatto parte sia militari di ragno che sacerdoti ortodossi. Ma Andrei, nato nel 1921, era tra quelli venuti al mondo dopo la Rivoluzione d’Ottobre. La prima generazione sovietica, educata ai principi del comunismo. Il suo incontro con l’istituzione scolastica, però, avvenne soltanto a sette anni. Fino ad allora il suo maestro era stato il papà. A scuola Andrei Sakharov non si sentiva esattamente a suo agio. Alto per la sua età e magro. Goffo nei movimenti, più interessato alla lettura che all’attività fisica, suscitava negli altri atteggiamenti di distratta, sporadica tenerezza o di scherno. Veniva notato, però, per la sua capacità di scrivere con entrambe le mani contemporaneamente. Disse di sé: «Ho ereditato l’aspetto fisico da mia madre e da mia nonna, in particolare il taglio mongolo dei miei occhi, e qualcosa del mio carattere: una certa ostinazione e un imbarazzo nel trattare con le persone, che mi hanno turbato per gran parte della mia vita».

[3] A dispetto del patto Ribbentrop-Molotov (cioè, il Trattato di non aggressione fra il Terzo Reich e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), Hitler fece scattare l’operazione Barbarossa, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica. Prima di essere trasferito all’est, Sakharov fu chiamato a prestare servizio durante le incursioni aeree. Proprio a quel periodo risalgono le sue prime invenzioni scientifiche, in tal caso relative ad un dispositivo magnetico per rilevare le schegge nei cavalli feriti. Dopo essersi laureato nel ’42, andò a lavorare in uno stabilimento di produzione di cartucce a Ulyanovsk sul fiume Volga.

[4] Con le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki la Seconda Guerra Mondiale, che già si era conclusa in Europa con la sconfitta e l’occupazione delle armate alleate e sovietiche della Germania, terminava anche sul fronte del Pacifico. Ma si apriva un altro tipo di conflitto, la contrapposizione tra mondo capitalista e mondo comunista. E i leader sovietici – a partire da Stalin –  non potevano permettere che soltanto gli Stati Uniti fossero capaci di fabbricare e impiegare un ordigno come quelli che avevano polverizzato Hiroshima e Nagasaki, poiché ciò metteva l’Unione Sovietica in una posizione di inferiorità intollerabile rispetto all’Occidente

[5] Non voleva separarsi dagli studi e dalla ricerca, né dal suo maestro e mentore Igor Tamn, con il quale si era formato all’Istituto di Fisica dell’Accademia delle Scienze. Però, dopo aver conseguito un dottorato sulla fisica delle particelle, nel giugno del 1948, si unì a Tamm, che era stato incaricato di collaborare con Yakov Zeldovich e il suo gruppo di ricerca per studiare la realizzabilità di una bomba termonucleare. Così Tamm e alcuni suoi studenti, tra i quali e, in primo luogo, Sakharov, costituirono un gruppo speciale ausiliario dell’Istituto di Fisica dedito allo studio di un’ipotesi di bomba H. Intanto il 29 agosto del ’49 il gruppo di lavoro del fisico Igor Kurchatov esitò nel primo test nucleare sovietico Il lavoro sulla bomba H, in teoria molto più potente (chiamata Super-bomba), però, pareva ancora la ricerca di una chimera. Pochi fisici sovietici se ne occupavano e si basavano su di un progetto soprannominato Truba (“tubo”), in parte riconducibile ad informazioni ottenute dal Progetto Manhattan (lo abbiamo ricordato a proposito del primo test atomico, realizzato nel Nuovo Messico il 16 luglio del 1945). Sakharov riteneva che Truba non fosse adeguato. Così suggerì uno schema nuovo (“Sloyka”, un dolce stratificato) e Vitaly Ginzburg, un altro studente di Tamm, propose a sua volta un ulteriore contributo.

[6] L’anno dopo un matematico che lavorava con lui, Mates Agrest, venne licenziato, perché manifestava apertamente la sua fede religiosa ebraica. Sakharov, che era un ateo, ospitò Agrest nel suo appartamento di Mosca finché costui non trovò un nuovo lavoro.

[7] A Sakharov si aprirono tutte quelle porte che il successo può aprire. Mentre Tamm tornava a Mosca, all’Istituto di Fisica, Sakharov veniva eletto membro a pieno titolo dell’Accademia Sovietica delle Scienze, riceveva il premio Stalin, la prima delle tre medaglie come Eroe socialista del lavoro e l’assegnazione di una lussuosa dacia.

[8] Kurchatov nel ’57 aveva chiesto a Sakharov di ribattere con un articolo allo sviluppo americano della cosiddetta “bomba pulita”, quella che avrebbe lasciato meno detriti radioattivi, Sakharov, però, superò le aspettative di Kurchatov

[9] «Solo un’estrema mancanza di immaginazione può far ignorare la dannosità che già si palesa. La coscienza dello scienziato moderno non deve fare distinzioni tra la sofferenza dei suoi contemporanei e la sofferenza delle generazioni non ancora nate», sostenne Sakharov.

[10] Esplicitamente osservò che un rinnovo dei test avrebbe comportato contemporaneamente un abbassamento del livello tecnico e un rischio per la sicurezza internazionale.

[11] Khrushchev aveva avuto il coraggio di denunciare le atrocità staliniste, aveva disposto la riabilitazione di massa delle vittime del Terrore stalinista, promuoveva un generale disgelo e un’apertura culturale verso l’Occidente.

[12] Sakharov e Khrushchev vivevano in un mondo paranoico, come i loro corrispettivi americani. Un mondo popolato di potenziali aggressioni, di continue minacce, di illusioni e di incubi. Ciò gli suscitava un “senso dell’importanza eccezionale e cruciale” del suo lavoro “nel preservare l’equilibrio mondiale attraverso la reciproca deterrenza”

[13] Quello che Eisenhower, parlando per la realtà americana, aveva definito con allarme il “complesso militare-industriale”, esisteva anche nell’URSS ed aveva la stessa ottusa pericolosità. E la stessa potenza. Le sue obiezioni infatti non erano state ascoltate.

[14] «Considero il trattato di Mosca di importanza storica. Ha salvato le vite di centinaia di migliaia, forse milioni, di persone che sarebbero perite se i test fossero continuati. E forse ancora più importante, il trattato era un passo verso la riduzione del rischio di una guerra termonucleare. Sono orgoglioso del mio contributo al Trattato di Mosca», commentò Sakharov.

[15] Anche in questo caso dovette affrontare non poche lotte contro le ottusità di chi aveva le leve del comando.

[16] Lo aveva già fatto nel 1951, quando aveva aiutato Agrest (vedi nota 6), ma negli anni ’60, poteva sfruttare la sua posizione per sostenere i perseguitati politici. Oltre a promuovere appelli a favore di individui perseguitati, firmava documenti di protesta contro le violazioni dei diritti umani.

[17] Mentre i suoi studi lo conducevano ad intuire l’asimmetria tra materia e antimateria nella composizione dell’universo (simmetria CP), e a proporre alcune correzioni alla teoria della relatività di Albert Einstein, il suo impegno politico cresceva. Così nel 1967 scrisse un memorandum segreto sull’equilibrio strategico e sulla corsa agli armamenti nucleari, nel quale consigliava alla dirigenza sovietica di accogliere la proposta americana per una moratoria sulla difesa anti-balistica. Sakharov riteneva tale sistema di difesa estremamente pericoloso, perché minacciava l’effettività del “guardiano della pace” – il Mutual Assured Destruction, MAD. È meglio avere un guardiano pazzo che non averne nessuno, fu il suo ragionamento. Poi, intenzionato a promuovere la comprensione reciproca con l’Occidente, Sakharov preparò un articolo sul tema delle difese anti-missili balistici (ABM), proponendo che venisse pubblicato sulla stampa aperta. Contava sul fatto che, leggendolo, “i gruppi dell’intellighenzia scientifica occidentale“, messi in condizioni favorevoli, potessero validamente contrastare i loro” falchi “, cioè i guerrafondai. Sapeva che quei gruppi avevano svolto un ruolo importante nella preparazione del Trattato di Mosca sul divieto dei test.

[18] Era il metodo Samizdat (“auto-pubblicazione”), usato nei Paesi aderenti al Patto di Varsavia, per le opere invise al regime comunista.

[19] Nel paragrafo di apertura di “Riflessioni su progresso, coesistenza pacifica e libertà intellettuale“, scrisse: «la libertà intellettuale è essenziale per la società umana – la libertà di ottenere e distribuire informazioni, la libertà di svolgere un dibattito aperto e la libertà dalla pressione da parte della burocrazia e dai pregiudizi. Una tale trinità di libertà di pensiero è l’unica garanzia contro l’infezione della gente da parte dei miti di massa, che, nelle mani di traditori ipocriti e demagoghi, possono essere trasformati in dittatura sanguinosa. La libertà di pensiero è l’unica garanzia della fattibilità di un approccio scientifico democratico alla politica, all’economia e alla cultura».

[20] Insieme scrissero articoli, curarono interviste, proposero appelli e organizzarono dimostrazioni in difesa dei perseguitati politici. Tra le denunce di quel periodo vi fu la lettere indirizzata nel ’71 a Leonid Breznev, il premier russo: “La nostra società è infetta … l’apparato del Partito del governo ei massimi livelli di maggior successo dell’intellighenzia … sono profondamente indifferenti alle violazioni dei diritti umani, agli interessi del progresso, alla sicurezza e al futuro dell’umanità“.

[21] Sakharov non era del tutto solo. Nel settembre del 1973, la scrittrice Lydia Chukovskaya scrisse e diffuse un notevole articolo, “The People’s Wrath”, in cui spiegava che le idee di Sakharov erano state distorte nella stampa sovietica e denunciava: “Ha scritto diversi saggi di grandi dimensioni conosciuti in tutto il mondo, tranne che per te, compagno sovietico; saggi in cui invitava le persone del mondo a smettere di accumulare bombe e ad iniziare ad accumulare pensieri: come può l’umanità essere salvata dalla minaccia della guerra? “. Nel gennaio 1974 Chukovskaya fu espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici, principalmente a causa dei suoi articoli in difesa di Sakharov.

[22] La citazione ufficiale riconosceva il suo personale impegno nel sostenere i principi fondamentali della pace e la sua lotta senza compromessi contro l’abuso di potere e tutte le forme di violazione della dignità umana e i suoi sforzi per sostenere un sistema di governo basato sullo stato di diritto “In modo convincente, Sakharov ha sottolineato che i diritti inviolabili dell’uomo costituiscono l’unica base sicura per una cooperazione internazionale genuina e duratura“.

[23]«La particolarità del sistema del campo di concentramento è attentamente nascosta. Tutte le sofferenze subite da una manciata di persone perché hanno messo da parte il velo per rivelare questo, forniscono la migliore prova della verità delle loro accuse e accuse. I nostri concetti di dignità umana richiedono un cambiamento immediato in questo sistema per tutte le persone internate, indipendentemente dalla loro colpevolezza. Ma per quanto riguarda le sofferenze degli innocenti? Il peggiore di tutti è l’inferno che esiste nelle speciali cliniche psichiatriche di Dnieperopetrovsk, Sytshevk, Blagoveshensk, Kazan, Chernakovsk, Oriol, Leningrado, Tashkent, …»

[24] Espose questa tesi anche in una lettera indirizzata al Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, il 20 gennaio del ’77

[25] Inoltre continuava a scrivere lettere e appelli in difesa di attivisti perseguitati e una “lettera aperta sull’Afghanistan“. Questa, “Ciò che l’URSS e gli USA devono fare per preservare la pace” e altri saggi furono portati di nascosto in Occidente e pubblicati.

 

Fonti

www. history.aip.org

www.nobelprize.org

www.it.wikipedia.org

 

Morte di Lenin

Come potevamo credere che Lenin potesse ammalarsi e morire esattamente come un uomo normale?
(Lev Trockij)

Il capo, venerato quasi alla stregua di un dio, subì il primo duro colpo nel maggio del ’22, quando un ictus lo costrinse a letto, incapace di proferir parola. Più di due anni di sofferenze lo dividevano dal sollievo del trapasso. Per chi aveva così a lungo guidato milioni di uomini, dev’essere stato un vero inferno non riuscire a risolvere nemmeno un problema di terza elementare, come 12 x 7.

Durante l’estate seguente, il Politburo decise di tenere Lenin lontano dalla vita politica, anche su consiglio dei suoi medici curanti, e Stalin, puntando alla successione, se ne fece garante. Quando venne a conoscenza della trasgressione, il futuro capo supremo dell’URSS attaccò ferocemente Nadezhda Krupskaya, la moglie, al telefono: era lei a tenerlo informato sugli sviluppi e ad aiutarlo a scrivere lettere ai membri del partito.

Ciò avvenne il 23 dicembre, pochi giorni dopo il secondo ictus. Per questo, probabilmente, Krupskaya non rivelò al marito toni e contenuti della telefonata fino al marzo seguente. Il giorno in cui ne venne a conoscenza, i medici, ignari della situazione, registrarono un netto peggioramento delle sue condizioni.

In questo periodo prese forma il cosiddetto testamento di Lenin: lettere in cui esprimeva giudizi molto diretti sui vari membri del partito, Stalin e Trockij in primis. Sebbene molto critico nei confronti del primo, non risparmiò commenti al secondo, che, per questo, non si mosse per rendere pubblico lo scritto che, in fin dei conti, lo preferiva al rivale. Col senno di poi, probabilmente una scelta non azzeccata.

Il 9 marzo 1923 calò la scure del terzo ictus, che gli paralizzò la parte destra del corpo. Soprattutto, aprì una profonda frattura tra il leader e il suo seguito: anche i membri più importanti smisero di fargli visita, forse perché non potevano reggere la vista della propria guida in quelle condizioni:

[…] adagiato sulla poltrona, avvolto in una coperta e guardando verso di noi con il sorriso storto, impotente e infantile di un uomo nella sua seconda infanzia, Lenin poteva servire soltanto come illustrazione della sua malattia e non certo come modello per un ritratto.

Dunque, passò l’ultimo anno di vita in completo isolamento, eccezion fatta per una visita a Mosca, in un periodo in cui le condizioni lo permettevano. Morì il 21 gennaio del 1924, stupendo i medici per la resistenza dimostrata. Morì a 53 anni, quando ancora avrebbe potuto dare molto al suo paese, come ricorda, pur in modo ambivalente, Winston Churchill:

La più grande sfortuna della Russia è stata la nascita di Lenin. La seconda è stata la sua morte.

Alessio Gaggero

 

1944, bombe su Berlino

Il Governo di Sua Maestà non farà mai ricorso ad attacchi indiscriminati e deliberati contro donne, bambini e civili, eseguiti a scopo terroristico.

(Arthur Neville Chamberlain, Primo Ministro inglese, 1939)

 

Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio 1944, oltre 700 aerei della Royal Air Force inglese sganciarono circa 2300 tonnellate di bombe sulla città di Berlino: l’azione, che sotto il profilo strategico non risultò particolarmente efficace, non era la prima e non fu l’ultima.

Le forze aeree alleate avevano infatti intrapreso una campagna di bombardamenti strategici sulla Germania allo  scopo di fiaccare il morale della popolazione e indebolire l’industria bellica.
Alcune incursioni aeree sulla capitale tedesca erano già state compiute nel 1940, durante la battaglia d’Inghilterra, quando gli inglesi avevano reagito agli attacchi dell’aviazione del Reich, ma un vero e proprio piano di
bombardamenti su larga scala della Germania cominciò a diventare operativo solo dal 1942.

La conferenza di Casablanca (gennaio ’43) sancì l’inizio di un’offensiva combinata con le forze da bombardamento pesante della United States Army Air Force che, sotto la guida del generale Carl Spaatz, contribuirono a distruggere, con continui attacchi diurni in grandi formazioni, obiettivi sensibili (quali raffinerie, stabilimenti e vie di comunicazione), per poi concentrarsi sui caccia tedeschi e ciò che vi ruotava attorno (aeroporti, fabbriche aeronautiche, riserve di carburante); la RAF continuò invece a colpire le città.

L’affinamento delle tecniche d’incursione aerea, anche con l’impiego di bombe incendiarie e agenti chimici come il
fosforo bianco, dispiegò i suoi devastanti effetti sulla Germania nazista fino a culminare negli attacchi ad Amburgo del 1943 e a Dresda del febbraio 1945, in cui furono volutamente perseguite tattiche per far registrare un
altissimo numero di perdite umane.

In particolare, quella che viene ricordata come la battaglia aerea di Berlino ebbe inizio nel novembre del 1943, diretta dall’Air Marshall Arthur Harris, comandante in capo del Bomber Command della RAF inglese. Di lui si racconta che nella notte del bombardamento di Londra, nel ‘40, osservando la città in fiamme, avesse detto a un suo subalterno:

Chi semina vento, raccoglierà tempesta.

Sir Harris non fece mai mistero del suo intento di spezzare completamente la resistenza della Germania, impiegando i bombardieri per distruggere in modo sistematico anche zone non ritenute obiettivi bellici, e a tale proposito, nel suo libro “Bomber Offensive” scrisse:

non abbiamo mai scelto una determinata fabbrica, come obiettivo […]; la distruzione d’impianti industriali è qualcosa di più, una specie di premio, il nostro vero bersaglio era sempre il centro della città.

D’altra parte, Roosevelt e Churchill avevano da poco firmato un documento redatto dal Comitato dei Capi degli Stati Maggiori delle nazioni alleate, nel quale si demandava ai comandi delle aviazioni americane e inglesi “la distruzione e la disorganizzazione del sistema militare, industriale ed economico nonché la demoralizzazione del
popolo tedesco, fino a ridurne le capacità di resistenza armata”; il documento lasciava inoltre una “certa libertà d’azione nelle incursioni aeree”.

Per una vittoria finale sul terzo Reich, Harris non credeva nei bombardamenti di precisione che gli americani effettuavano di giorno, ad alta quota, su obiettivi militari, perciò l’aviazione inglese si accollò, in generale, le operazioni notturne, lasciando ai colleghi statunitensi quelle diurne; egualmente, egli non riponeva molta fiducia nell’impiego dell’Esercito, né tantomeno della Marina: la sua strategia d’elezione furono i bombardamenti indiscriminati.

In una guerra convenzionale, la popolazione civile poteva essere esposta al rischio non perché attaccata direttamente, ma per la sua prossimità a una battaglia o a una struttura d’interesse militare. Un bombardamento aereo poteva essere diretto contro obiettivi connessi allo sforzo bellico del nemico (forze e opere militari,
comandi, industrie, fonti energetiche, comunicazioni, depositi, trasporti, centri governativi) e comportare possibili ma non intenzionali vittime civili; al contrario, era considerato bombardamento indiscriminato un attacco che non prevedesse alcun obiettivo militare definito e fosse rivolto contro la popolazione, in genere con l’intento di corroderne il morale. La differenza fra i due tipi di attacchi risiedeva nelle rispettive finalità, belliche nel primo caso e terroristiche nell’altro, e non nel numero dei civili uccisi.

Nel periodo compreso tra novembre 1943 e marzo 1944 il Bomber Command compì sedici attacchi su Berlino. Quell’inverno fu particolarmente nuvoloso e contribuì a celare le città tedesche agli occhi degli equipaggi inglesi: le condizioni climatiche, la distanza della città dalle basi britanniche e l’efficacia della caccia tedesca protessero parzialmente la città. Nonostante le devastazioni, la battaglia di Berlino non fu un successo per gli angloamericani. Le perdite di velivoli furono costantemente alte, con punte anche del 10% rispetto gli aerei impiegati, il Bomber Command perse 2.690 uomini e circa 1.000 furono i prigionieri di guerra, la produzione industriale tedesca continuò ad aumentare fino all’estate del ‘44 e la guerra continuò. Berlino non aveva un centro storico antico, i suoi viali erano larghi e le case erano spesso dotate di pareti tagliafuoco; inoltre la città era potentemente difesa dalla contraerea e i suoi servizi antincendio  erano oltremodo efficienti; non si ebbero quindi gli effetti registrati ad Amburgo, né la percentuale di vittime sulla popolazione urbana fu paragonabile a quella di Amburgo o  Dresda, nondimenosi stima che tutta l’offensiva abbia causato un totale di 25.000 vittime nella città.

La Germania fu la prima nazione su cui fu sperimentata la guerra aerea in modo sistematico; i tedeschi
utilizzarono ogni riparo scavato nel sottosuolo per sopravvivere alla guerraaerea: cave, grotte, pozzi, magazzini a volta, cantine.

Il solo bombardamento notturno a tappeto da parte dell’aviazione inglese causò in tutto il Paese la morte di almeno
570.000 civili (635.000, secondo altre fonti), dei quali 100.000 con un’età inferiore ai 14 anni. Sotto le bombe degli Alleati caddero anche circa 42.000 lavoratori coatti nelle fabbriche del Reich: ebrei, malati infettivi, prigionieri di guerra e lavoratori stranieri (coatti e non) non erano ammessi nei rifugi antiaerei e, dopo l’8 settembre, il privilegio di accesso fu revocato anche agli italiani. Alle vittime si aggiunsero più di dieci milioni di senzatetto. Quaranta agglomerati urbani, oltre a centinaia di piccoli centri, furono annientati per oltre il 50%. Le devastazioni subite dalla Germania nel corso della seconda guerra mondiale per mano delle forze aeree Alleate riguardarono anche il patrimonio artistico-culturale del paese: ogni città colpita registrò ingenti danni o crolli a monumenti, palazzi antichi, chiese, luoghi di interesse storico-artistico, musei e interi centri storici.

Stando al nazista Alfred Rosenberg, la guerra aerea aveva il merito di far partecipare attivamente il popolo al conflitto; Hitler sostenne in seguito che

quanto meno la popolazione ha da perdere, tanto più fanaticamente combatterà.

 

In base agli ordini emanati dal ministro della Propaganda Joseph Goebbels, i morti causati dagli attacchi
aerei furono chiamati “caduti”, come i militari al fronte, sepolti con gli onori militari e, a volte, premiati con la Croce di Ferro alla memoria.

Sei ancora quello della pietra

e della fionda

uomo del mio tempo.

Eri nella carlinga, con le ali maligne,

le meridiane di morte,

t’ho visto, dentro il carro di fuoco,

alle forche, alle ruote di tortura.

T’ho visto eri tu,

con la tua scienza esatta

persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo.

Hai ucciso ancora,

come sempre,

come uccisero i padri […].

(Salvatore Quasimodo, “Uomo del
mio tempo”, 1946)

 

Silvia Boverini

Fonti:

A. Rao, “Bombardate il Terzo Reich!”, www.storiologia.it; www.comedonchisciotte.org; www.it.wikipedia.org; S. Quasimodo,
“Uomo del mio tempo”, in “Giorno dopo giorno”

Jan Palach e la coscienza del popolo

«Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo».

Quelle parole erano state scritte dallo studente cecoslovacco Jan Palach. Il 19 gennaio del 1969, avendo dato seguito alla decisione annunciata, morì nella Clinica di chirurgia plastica dell’Ospedale universitario di Vinohrady’.

Quella troppo breve primavera praghese del ’68, che durò 8 mesi

Finita la Seconda Guerra Mondiale, nel 1948, l’anno in cui Jan Palach venne al mondo, il Partito Comunista Cecoslovacco, che era già parte del governo dal ’46, risultando il più votato alle elezioni, andò al potere.

Vent’anni di regime totalitario

In Cecoslovacchia l’affermazione comunista del 1948 era stata appoggiata da una certa partecipazione popolare, e, per lo più non era stata accompagnata dalla stessa brutalità con cui si erano imposti altri regimi comunisti europei, quali quello in Ungheria. Tuttavia, in breve, anche in Cecoslovacchia il partito comunista procedette verso l’instaurazione di una dittatura, entrando “a pieno titolo” nel gruppo dei paesi dell’Europa centrale e orientale alleati dell’Unione Sovietica, il cosiddetto Patto di Varsavia (che includeva Bulgaria, Germania Est, Ungheria, Polonia, Romania e, fino agli anni sessanta, Albania) [1]. Ma all’inizio del ’68 i cecoslovacchi furono sull’orlo di un cambiamento insperato.

5 gennaio del 1968: Alexander Dubček e “il socialismo dal volto umano”.

Alexander Dubček, il 5 gennaio 1968, venne eletto Segretario generale del PCC al posto di Antonín Novotný [2]. Costui rappresentava l’ala del PCC maggiormente legata al Partito Comunista Sovietico, mentre Dubček era al vertice di una schiera decisa ad abbandonare il modello sovietico, instaurando una nuova forma di socialismo: “il socialismo dal volto umano“. Per conseguire tale risultato Dubček avviò il “nuovo corso“, una politica che introduceva elementi di democrazia in tutti i settori della società, pur continuando a preservare per il PCC il ruolo di partito unico. Si concedevano, quindi, nuovi diritti ai cittadini, in virtù di processi di un decentramento parziale dell’economia, pur mantenendo un sistema economico collettivista, e di democratizzazione [3]. E, mentre tutto ciò accadeva, in quei primi mesi del ’68, il consenso popolare interno cresceva sempre di più, incluso quello degli operai, insieme all’entusiasmo di tantissime altre persone nel mondo [4]. Cresceva, però, anche la preoccupazione dei vertici politici degli altri membri del Patto di Varsavia, Unione Sovietica in primis.

L’intervento sovietico

Il progetto di Dubček agli occhi della dirigenza sovietica costituiva, però, una seria minaccia all’egemonia dell’URSS sui paesi del blocco orientale e, quindi, alla sua stessa sicurezza, poiché la Cecoslovacchia si trovava nell’esatto centro dello schieramento del Patto di Varsavia. La dirigenza sovietica, quindi, tentò dapprima attraverso gli strumenti politico-diplomatici di bloccare o ridurre la portata delle riforme cecoslovacche, poi, non riuscendovi, ricorse alle armi. E nella notte fra il 20 e il 21 agosto (ne abbiamo parlato qui) un contingente di 600.000 soldati e 7.000 mezzi corazzati penetrò nel Paese, giungendovi dalla Germania Orientale, con la complicità dell’esercito cecoslovacco, che, obbedendo alle direttive segrete del Patto di Varsavia, era invece prevalentemente schierato lungo i confini con la Germania Occidentale [5]. È difficile oggi immaginare lo sconforto e la desolazione, l’amarezza e la paura, la delusione e la rabbia, l’angoscia e il senso di perdita che vissero i cecoslovacchi. Emigrarono nell’Europa occidentale, in pochissimo tempo, 70.000 persone, che divennero poi 300.000. Erano soprattutto cittadini con un alto livello culturale e una qualifica professionale elevata.

L’uomo ha il dovere di lottare contro il male che sente di poter affrontare” (Jan Palach, 17 gennaio 1969)

Jan Palach avrebbe potuto far parte di coloro che sloggiarono dalla Cecoslovacchia per cercare una vita migliore in Occidente, ma restò. Aveva da poco compiuto vent’anni quando i carrarmati sovietici entrarono a Praga.

Uno studente impegnato

Dopo la maturità, Jan Palach voleva studiare storia alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Carolina di Praga, ma pur avendo superato gli esami di ammissione, fu escluso per l’elevato numero di candidati. Frequentò, allora, il corso di laurea in economia agraria alla Vysoká škola ekonomická (VŠE) di Praga, sostenendo 16 esami in due anni e riuscendo, contemporaneamente a fare un viaggio di lavoro in Kazakistan nel ’67, ad organizzare un lavoro estivo nei pressi Leningrado e a fondare nel ’68 il Consiglio accademico degli studenti della VŠE. Già attento alla politica, tanto da distribuire clandestinamente dei testi battuti a macchina, tra cui una lettera di Alexandr Solženicyn), nella primavera del ‘68 non lesinò la sua partecipazione al nuovo corso. E verso la metà di agosto, appena rientrato nella sua cittadina natale di Všetaty (a 40 km da Praga), reduce da un altro lavoro estivo nell’URSS, ebbe la soddisfazione di apprendere che il suo passaggio alla Facoltà di lettere e filosofia era stato approvato.

Lo shock collettivo dell’invasione e le prime manifestazioni di protesta di Jan Palach

Quattro giorni dopo le truppe del Patto di Varsavia occupavano la Cecoslovacchia. Corse a Praga e dopo alcuni giorni tornò a Všetaty, dove il massimo che poté fare fu scrivere sui muri, insieme agli amici, degli slogan contro l’occupazione sovietica. Dopo aver ottenuto, in premio per il suo impegno nell’organizzare i lavori estivi, la possibilità di andare oltrecortina, in Francia, a collaborare per la vendemmia, iniziò a frequentare la Facoltà di lettere e filosofia. Ma non desistette sul fronte dell’impegno politico. Partecipò a manifestazioni e propose di occupare la sede centrale della Radio Cecoslovacca. Voleva trasmettere un appello radio alla proclamazione dello sciopero generale, finalizzato a rivendicare l’abolizione della censura.

La preparazione dell’ultima protesta

La proposta di Palach probabilmente non fu neanche discussa. Verosimilmente, fu anche per questa ragione che decise di organizzare un’altra forma di protesta, ispirata all’esempio dei monaci buddisti del Vietnam del Sud, che sceglievano di immolarsi per protestare contro la repressione del governo di Diem, appoggiato dagli USA. Il 15 gennaio 1969, andò al funerale di uno zio e il 16, di mattina, andò alla casa dello studente di Spořilov dove scrisse una brutta copia e poi altre quattro versioni, quasi identiche, di una lettera che firmò come “Torcia umana n°1. Una era indirizzata a Ladislav Žižka, suo compagno di studi della Vysoká škola ekonomická, un’altra al leader studentesco della Facoltà di lettere e filosofia, Lubomír Holeček, la terza all‘Unione degli scrittori cechi. Inserì la quarta lettera nella sua cartella sul luogo della protesta.

Le rivendicazioni di Jan Palach

Nelle lettere Jan Palach sosteneva di far parte di un gruppo deciso di auto-immolarsi per scuotere i cecoslovacchi dalla loro passività. E chiedeva, oltre all’abolizione della censura, le dimissioni dei politici filosovietici dalla loro carica, la cessazione della diffusione di Zprávy (Notizie), pubblicato dalla fine dell’agosto ’68, come organo di stampa delle truppe occupanti, e, rivolgendosi al popolo, sollecitava l’indizione di uno sciopero generale ad oltranza a sostegno di quelle rivendicazioni. Se non fossero state soddisfatte entro il 21 gennaio, cioè entro tre giorni, aveva scritto Jan Palach, “altre torce umane” si sarebbero immolate.

Jan Palach, la “Torcia umana n°1”

Jan Palach aveva scritto nelle lettere che, a seguito di estrazione a sorte, gli era toccato l’onore di essere la “Torcia umana n°1”. Così alle 14,30 circa del 16 gennaio di cinquant’anni fa, fornito di due recipienti di plastica pieni di benzina e la cartella sottobraccio, arrivò in Piazza San Venceslao, sempre alquanto affollata, nel pieno centro di Praga, dove si trova il Museo Nazionale. Jan Palach si levò il cappotto vicino al parapetto della fontana, dalla cartella prese una bottiglia con l’etichetta “etere”, che, aperta con un coltello, inspirò. Quindi si cosparse di benzina e accese il fuoco. In fiamme saltò il parapetto e corse verso il monumento di San Venceslao, urtando con un tram in arrivo, il che lo portò a cadere sulla strada davanti ad un negozio di alimentari. Dei passanti con i loro cappotti spensero le fiamme. A loro Jan Palach disse di aprire la cartella che aveva abbandonato alla fontana e di leggere la lettera. Poco dopo fu soccorso da un’ambulanza del Ministero degli interni. Ricoverato alle ore 14.45, quando venne portato nella sua stanza, disse alle infermiere che egli non era un suicida: si era dato fuoco per protesta, come i buddisti in Vietnam.

Cosa ho fatto per gli altri? com’è il mio cuore? qual è il mio obiettivo? quali sono i valori più importanti nella mia vita?

Mentre la clinica veniva presa d’assalto dai giornalisti, Jan Palach ripeteva che il gruppo delle Torce umane non era un’invenzione, rifiutandosi di rivelarne i nomi. Vennero a visitarlo la madre e il fratello – poi ricoverati in una clinica psichiatrica – e la coinquilina dello studente Eva Bednáriková. Costei, interrogata dalla polizia, riferì che a lei e al rappresentante studentesco Lubomír Holeček, Jan Palach chiese di dire, da parte sua, agli altri membri del gruppo di non uccidersi. Jan Palach morì il 19 gennaio 1969, alle 15.30. Nei giorni successivi sia i media cecoslovacchi che quelli esteri erano proponevano centinaia di servizi, reportage e commenti su Jan Palach. E le manifestazioni popolari furono impressionanti sia per il numero degli aderenti che per il valore dei gesti compiuti [6].

Il pastore Jakub S.Trojan sulla tomba di Jan Palach, 25 gennaio 1969 pronunciò queste parole:

«In questo secolo cinico, in cui spesso temiamo gli altri e gli altri temono noi, e in cui spesso ci spaventiamo al constatare la nostra mediocrità, Palach ci ha spinti a porci una domanda che può fare di noi delle persone migliori: “Cosa ho fatto per gli altri? com’è il mio cuore? qual è il mio obiettivo? quali sono i valori più importanti nella mia vita?”»

Quel “fuoco freddo” per spegnere Jan Palach e le coscienze

L’ultimatum che Jan Palach aveva posto scadde senza che alcuna delle sue richieste si traducesse in realtà: almeno altri sette studenti (probabilmente furono di più, forse dieci), tra cui, il 25 febbraio, l’amico Jan Zajíc, si uccisero con il fuoco, ma gli organi d’informazione, controllati dalle forze d’invasione, cercarono di oscurare le notizie. Infatti, l’Ufficio Stampa e Informazione, cioè l’organo di censura del regime, il 20 gennaio 1969 aveva ordinato alle redazioni di pubblicare soltanto le comunicazioni ufficiali, mentre sedici giornalisti stranieri venivano espulsi dal paese. Il 29 gennaio il deputato e membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco Vilém Nový propose alla France Presse la sconcertante teoria del “fuoco freddo: Jan Palach, disse, pensava che il liquido che stava utilizzando avrebbe solo generato delle fiamme, senza bruciare (non esistono sostanze simili). E colpevoli del suo suicida gesto erano “gli scrittori e la stampa di destra[7].

Le ultima parole pronunciate da Jan Palach furono:

«Dedicatevi da vivi alla lotta»

Alberto Quattrocolo

[1] Questo regime totalitario, il cui carattere repressivo si era brutalmente palesato durante le “purghe staliniane”, non si era ammorbidito neanche dopo la morte di Stalin (’53), a differenza di quelli di altre repubbliche socialiste, nelle quali, come in URSS, vi era stato un minimo di destalinizzazione (le vicine Ungheria e Polonia). Inoltre la minoranza slovacca pativa una sotto-rappresentanza istituzionale.

[2] Alexander Dubček, che nel ’39 era stato membro del partito comunista clandestino e aveva combattuto come partigiano contro i nazisti, dal ‘63 era divenuto segretario del Partito Comunista Slovacco, che insieme a quello di Boemia e Moravia formava il Partito Comunista di Cecoslovacchia (PCC).

[3] Vennero allentate le limitazioni alla libertà di stampa, di espressione e di movimento. Si svolse un dibattito nazionale sulla trasformazione della Cecoslovacchia in uno stato federale composto da tre repubbliche (Boemia, Moravia-Slesia e Slovacchia), con Dubček favorevole alla suddivisione della Cecoslovacchia in due nazioni distinte: la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca.

[4] Moltissimi, giovani e non solo, all’Ovest come all’Est, vedevano nella Primavera di Praga la dimostrazione che lo status quo poteva cambiare, che sentivano soffiare un nuovo vento di libertà e di uguaglianza nel mondo comunista e in quello capitalista.

[5] I paesi democratici presentarono esclusivamente delle proteste verbali, temendo che prese di posizioni più decise potessero portare ad un’escalation della Guerra Fredda esitanti in un conflitto atomico. I cecoslovacchi furono lasciati soli. Incluso Alexander Dubček, che, arrestato assieme ai suoi principali collaboratori e ai più importanti rappresentanti del nuovo corso, venne portato a Mosca per essere costretto a firmare un patto con il Cremlino in virtù del quale sarebbe rimasto segretario del PCC a condizione di realizzare una “normalizzazione” della situazione politica cecoslovacca. Forte di un sopravvissuto consenso interno e di una persistente opposizione popolare al regime d’occupazione, Dubček, di fatto, conservò un minimo di autonomia dai dettami del Cremlino, che però gliela fece pagare nella primavera del ’69, quando si mostrò esitante nel reprimere le proteste anti-sovietiche. Rimosso dall’incarico, dopo essere stato inviato come ambasciatore in Turchi, fu espulso dal PCC nel 1970. Stabilitosi in Slovacchia, lavorò come manovale in un’azienda forestale, finché nel 1988 il regime gli concesse di venire in Italia a ricevere una laurea honoris causa a Bologna. Quell’anno la Comunità europee gli assegnò il Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Dopo la caduta del regime comunista, Dubček, eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco, al fianco del capo di Stato ceco Václav Havel, si batté contro la divisione della Cecoslovacchia. Inoltre, rifiutò di apporre la sua firma alla legge 451/1991, la legge di “lustrazione” che prevedeva un processo di epurazione rivolta a tutti coloro che avevano collaborato con il precedente regime: riteneva non soltanto che si sviluppasse una dinamica pericolosa all’insegna della vendetta, ma anche che venissero ingiustamente colpiti coloro che, erano stati nell’ala dissidente del Partito comunista e avevano subito la repressione dopo il 1968. Morì il 7 novembre 1992, in seguito ad un incidente autostradale avvenuto due mesi prima.

[6] A supporto delle rivendicazioni di Jan Palach un gruppo di giovani si piazzò in una tenda ai piedi della scalinata del Museo Nazionale e per quattro giorni portò avanti lo sciopero della fame. Una processione di alcune decine di migliaia di persone, promossa dall’Unione degli studenti di Boemia e Moravia, partì da Piazza San Venceslao per poi fermarsi davanti alla sede della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Carolina. Dal balcone di quella facoltà alcuni manifestanti parlarono alla folla. La statua di San Venceslao fu ricoperta di volantini, di ritratti di Palach e di candele. Una guardia d’onore aveva la bandiera nazionale. Alla fontana fu esposta una maschera commemorativa di Jan Palach, fatta dallo scultore Olbram Zoubek.

[7] Sei giorni prima il Primo segretario del Partito Comunista Sovietico, Leonid Iljič Brežněv, e il Presidente del Consiglio URSS Alexandr Nikolajevič Kosygin avevano scritto ad Alexandr Dubček e a Oldřich Černík che Jan Palach era stato una vittima di istigatori. In un’altra occasione Vilém Nový indicò 5 persone colpevoli di avere convinto Jan Palach a bruciarsi vivo: gli scrittori Vladimír Škutina e Pavel Kohout, il rappresentante studentesco Lubomír Holeček, lo sportivo Emil Zátopek e lo scacchista Luděk Pachman. Costoro gli fecero causa per diffamazione, Nový si appellò all’immunità parlamentare, ma i querelanti la spuntarono. Però, nel luglio del 1970, l’autorità giudiziaria scagionò il deputato dall’accusa. Per la corte Vilém Nový aveva avuto ragione a criticare il gesto di Jan Palach, anzi era anche suo dovere farlo. I querelanti furono condannati a rimborsare le spese processuali ed etichettati dal giudice come “nemici del socialismo.

 

Fonti

Maurizio Cecchetti, 19 gennaio 1969 – 2019. Jan Palach: libertà e martirio del fuoco, 13 gennaio 2019, www.avvenire.it

Fedele e P. Fornaro (a cura di), Primavera di Praga. Quarant’anni dopo, Rubbettino, Soveria Monnelli (CZ), 2009

Leoncini (a cura di), Alexander Dubcek e Jan Palach. Protagonisti della storia europea, Rubbettino, Soveria Monnelli (CZ), 2009

www.it.wikipedia.org

www.janpalach.cz/it

Quelli del ghetto di Varsavia

Il ghetto di Varsavia alla fine del 1940

Verso la fine del 1940, all’incirca un anno dopo che le armate naziste avevano occupato la Polonia (abbiamo già ricordato la battaglia di Varsavia, che si era conclusa il 28 settembre del ’39, dopo un mese di combattimenti), il ghetto di Varsavia, che normalmente contava 160.000 abitanti, era divenuto terribilmente sovraffollato. Le misure anti-ebraiche subito introdotte dall’invasore tedesco non erano sufficienti per la politica di sterminio di Adolf Hitler. Allora, le SS avevano trasferito nel ghetto di Varsavia gli ebrei che risiedevano all’esterno, stipandone quasi mezzo milione [1].

Avvicinare o varcare il muro del ghetto di Varsavia significava la morte immediata

Per essere certi che vi restassero, i tedeschi eressero un’alta muraglia, che circondava un’area lunga due miglia e mezzo e larga uno e racchiudeva l’antico ghetto di Varsavia di epoca medievale. Si sparava a vista, senza preavviso, a chi varcava il muro o anche a chi ci si avvicinava troppo. Gli ebrei potevano lavorare soltanto nelle poche fabbriche di armi collocate dentro il ghetto, gestite dalla Wehrmacht o da imprenditori tedeschi che, con un cuore da sciacallo, facevano profitti spaventosi grazie al lavoro coatto degli ebrei.

La deportazione nel ghetto come primo passo verso “la soluzione finale della questione ebraica”.

Il governatore tedesco dei territori polacchi occupati, Hans Frank, che aveva fatto adottare queste disposizioni anche dai Governatori delle altre città, a partire da quella di Cracovia, in cui risiedeva, però non si accontentava delle sofferenze provocate dal sovraffollamento del ghetto di Varsavia, di quello di Cracovia e delle altre città [2]. Il programma del Terzo Reich prevedeva, infatti, non soltanto di spremere economicamente la Polonia ed eliminare fisicamente l’élite polacca, ma anche di sterminarne tutti gli ebrei. E la fame, pensò Frank, poteva essere un modo efficace ed efficiente per adempiere a questa parte del programma. Così rifiutò di assegnare al ghetto viveri sufficienti per mantenere in vita gli ebrei lì rinchiusi: se tutti nel ghetto di Varsavia pativano la fame, all’incirca 100.000 persone si nutrivano soltanto di una ciotola di minestra al giorno, spesso fatta di paglia bollita e ottenuta grazie alla solidarietà degli altri. Himmler, tuttavia, era insoddisfatto [3]. Nel ghetto di Varsavia il ritmo della morte  – per fame, per malattia (si era diffuso anche il tifo) e per le violenze realizzate dai nazisti – era troppo lento [4].

«Dobbiamo distruggere gli Ebrei ovunque li troviamo, e ovunque sia possibile» (Hans Frank)

Il 16 dicembre del ’41 Hans Frank tenne il seguente discorso:

«Se la stirpe ebraica sopravvive alla guerra mentre noi sacrifichiamo il nostro sangue per tenere in vita l’Europa, questa guerra sarà vinta solo in parte. Devo pertanto partire dal presupposto che gli Ebrei scompariranno […] Ho avviato delle trattative per cacciarli a Est […] In ogni caso, si verificherà un esodo di massa di Ebrei. Cosa succederà agli Ebrei? Credete che la gente li ospiterà nei villaggi nei territori orientali conquistati? A Berlino ci hanno detto di non rendere le cose troppo difficili: a meno che quei territori o i nostri territori se ne facciano qualcosa, dobbiamo semplicemente liquidarli! Dobbiamo distruggere gli Ebrei ovunque li troviamo, e ovunque sia possibile».

Su richiesta di Hitler, il Reichsmarschall Hermann Göring ordinò l’avvio di una conferenza, che si tenne sulla riva del lago Wannsee, a Berlino, il 20 gennaio del 1942, tra alti ufficiali e burocrati nazionalsocialisti per coordinare l’attuazione della “Soluzione finale della questione ebraica“. La decisione assunta fu quella di realizzare una vera e propria pulizia etnica, eliminando tutti gli ebrei presenti in Europa, cioè oltre 11 milioni di esseri umani, inclusi quelli residenti in stati alleati come l’Italia o amici come la neutrale Spagna. In esecuzione del programma lì elaborato, nell’estate del ’42, non soltanto si svolsero le esecuzioni di massa in Polonia, in Cecoslovacchia, nei paesi baltici, in Russia e in altri territori orientali occupati (ne abbiamo parlato qui), ma venne ordinato che anche gli ebrei del ghetto di Varsavia fossero trasportati altrove per «ragioni di sicurezza». Entro il 3 ottobre di quell’anno vennero deportati 310.322 ebrei nei campi di sterminio, soprattutto a Treblinka, dove venivano soppressi per lo più con i gas (abbiamo ricordato nel post precedente a questo il tentativo nazista, nell’inverno del ’45, di cancellare l’orrore Auschwitz di fronte all’avanzare delle truppe sovietiche).

L’insoddisfazione di Himmler nel gennaio del 1943: ancora troppi ebrei nel ghetto di Varsavia.

Nel gennaio del ’43, Himmler – che poche settimane prima, il 16 dicembre del ’42, aveva ordinato di internare gli individui appartenenti al popolo Rom ad Auschwitz (lo abbiamo ricordato qui all’interno della rubrica Corsi e Ricorsi) -, durante una visita a sorpresa in Polonia, non fu “soddisfatto” della gestione del ghetto di Varsavia: vi vivevano ancora più di 60.000 ebrei. Ordinò allora di terminare il «trasferimento» entro il 15 febbraio. Ma sul fronte russo meridionale le armate tedesche e italiane se la passavano decisamente male, la battaglia di Stalingrado si era risolta in un disastro per i tedeschi, e l’esercito aveva la precedenza sui mezzi di trasporto. Inoltre, nel ghetto di Varsavia stava accadendo qualcosa di insolito. Addirittura di imprevedibile, anzi di inconcepibile per i nazisti. Gli ebrei rimasti avevano deciso di non essere disposti ad essere «trasferiti».

Quel 18 gennaio del 1943 gli ebrei iniziarono a sparare contro le SS tedesche.

Il 18 gennaio del ’43, quando le SS tedesche e le unità di polizia ripresero le deportazioni di massa dal ghetto di Varsavia, un gruppo di ebrei, armati di pistola, si infiltrò in una colonna persone costrette a raggiungere il punto di raccolta e, al segnale stabilito, sparò contro le guardie. Quasi tutti ci rimisero la vita durante la battaglia, ma oltre ad avere dato agli altri la possibilità di disperdersi, quei combattenti avevano acceso un fuoco che di lì a poco sarebbe divampato. Il fuoco della rivolta. La decisione tedesca del 21 gennaio di sospendere le deportazioni (dopo aver catturato circa altri 6.500 residenti del ghetto per deportarli) indusse i membri del ghetto a credere che tale sospensione fosse imputabile alla loro reazione e cominciarono a costruire bunker e rifugi sotterranei, per preparare una rivolta nel caso in cui i tedeschi avessero tentato una deportazione finale di tutti gli ebrei rimasti.

19 aprile del ’43: l’inizio della rivolta armata nel ghetto di Varsavia

I tedeschi, in effetti, intendevano iniziare la liquidazione finale del ghetto di Varsavia il 19 aprile 1943, cioè la vigilia della Pasqua ebraica e quella mattina, quando le SS e le unità di polizia (2090 uomini di cui metà erano appartenenti all’esercito regolare e alle Waffen-SS, circa 800 alla polizia delle SS e 335 alla milizia lituana e alla polizia collaborazionista e al corpo dei pompieri polacchi), comandate dal tedesco Jurgen Stroop, SS-Brigadefuhrer e maggiore generale della polizia, con carri armati, lanciafiamme e squadre guastatori, entrarono nel ghetto, restarono nuovamente sorprese: le strade erano deserte. Quasi tutti i residenti del ghetto, ridotto ad una superficie di 1000 metri per 300, si erano nascosti nei rifugi o nei bunker. Ed erano pronti a battersi, anche se potevano contare solo su qualche pistola, qualche fucile, una ventina di mitragliatrici, tutte contrabbandate di nascosto nel ghetto, e granate fatte in casa.

Stroop riferì che i suoi uomini furono «fatti segno a un fuoco concentrato da parte degli ebrei e dei banditi» e che, dato che «una tank e due carri blindati erano stati tempestati da bottiglie Molotov», aveva dovuto ritirarsi. Alle 17,30 riprese l’attacco, ma, come spiegò Stroop, «gli ebrei e i criminali combattevano di nido in nido sfuggendoci all’ultimo momento», e i tedeschi persero 12 uomini.

L’indisponibilità ad arrendersi di «quella marmaglia di razza inferiore» che sconcertava il generale Stroop

Nei primi giorni, guidati da Mordecai Anielewicz, il comandante dell’Organizzazione Combattente Ebraica (Zydowska Organizacja Bojowa – ZOB), creata clandestinamente già a fine luglio del ‘42, i difensori del ghetto di Varsavia si ritiravano a poco a poco davanti ai carrarmati, all’artiglieria e ai lanciafiamme, ma continuavano a resistere. Il terzo giorno i nazisti presero a radere al suolo il ghetto, edificio per edificio, per costringere ad uscire i resistenti, che tentavano degli assalti dai loro bunker [5]. Ma sia singoli individui sia diversi gruppi di abitanti continuarono a nascondersi o a combattere contro i tedeschi per quasi un mese. E ciò aumentava la perplessità sorta in Stroop fin dal 19 aprile [6]. Non comprendeva perché «quella marmaglia di razza inferiore» non si arrendesse, rassegnandosi ad essere liquidata. Nel suo rapporto scrisse:

«Mentre nei primi giorni è stato possibile catturare un numero considerevole di ebrei, che sono codardi per natura, durante la seconda metà dell’operazione è divenuto sempre più difficile catturare i banditi e gli ebrei. Più e più volte si sono accesi nuovi nuclei di resistenza, ad opera di gruppi di combattenti costituiti di una ventina o trentina di ebrei, a cui si sono unite altrettante donne». Queste ultime, annotò Stroop, erano abili nel maneggiare le pistole con entrambi le mani e nel lanciare le bombe che tenevano nascoste sotto i vestiti.

«Malgrado il pericolo di bruciare vivi, gli ebrei e i banditi preferivano spesso tornare tra le fiamme anziché rischiare di essere catturati da noi» (Stroop)

Quando il quinto giorno di combattimenti Himmler, imbufalito, aveva ordinato a Stroop di radere al suolo il ghetto e costui aveva deciso di ardere tutti i fabbricati, vi fu un’altra “sorpresa”. Gli ebrei non si arrendevano, restavano nelle case in fiamme e poi si gettavano dai piani superiori.

«Con le ossa rotte, cercarono tuttavia di attraversare la strada per raggiungere gli edifici cui non stato dato ancora fuoco»[7].

«Il ghetto di Varsavia non esiste più», ma la sua rivolta (r)esiste ancora

Il 16 maggio fu l’ultimo giorno della battaglia, il ghetto di Varsavia non esisteva più. Ma singoli ebrei, nascosti tra le rovine del ghetto, continuarono ad attaccare le pattuglie tedesche e il personale ausiliario. Stroop, che ordinò anche la distruzione della Sinagoga Grande di via Tlomacki, scrisse nel suo rapporto che durante la rivolta 56.065 ebrei erano stati catturati e 631 bunker distrutti, mentre le sue unità avevano ucciso fino a 7.000 Ebrei [8].

La liquidazione del ghetto di Varsavia, che avrebbe dovuto essere eseguita in tre giorni, trovò una resistenza inaspettata, la quale costituì non soltanto la rivolta ebrea più estesa e simbolicamente più importante, ma anche la prima rivolta urbana nell’Europa occupata dai nazisti. Inoltre la rivolta del ghetto di Varsavia inspirò le rivolte di altri ghetti, tra cui quelli di Bialystok e Minsk, e quelle nei campi di sterminio di Treblinka e Sobibor.

Władysław Szpilman, Marek Edelman, Irena Sendler e Simcha Rotem

Tra i resistenti del ghetto di Varsavia sopravvissuti alla ferocia nazista, oltre a Władysław Szpilman, il compositore e pianista, morto quasi novantenne, nel 2000 a Varsavia, dalla cui autobiografia fu tratto il film di Roman Polanski (sfuggito da bambino alla deportazione e al massacro degli ebrei del ghetto di Cracovia), Il pianista (Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2002 e premiato con l’Oscar per il miglior film , la miglior regia, la miglior sceneggiatura e il miglior attore protagonista), vi fu anche Marek Edelman. Costui, al momento della rivolta del ghetto di Varsavia, era il ventenne vicecomandante dello ZOB. Scampato al massacro, combatté l’anno dopo nell’insurrezione della città (l’abbiamo ricordata qui). Era stato educato alla scuola del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei, e dopo la guerra divenne cardiologo all’ospedale di Lodz, venendo perseguitato (licenziato e arrestato) dal regime comunista. Con la vittoria di Solidarnosc, i suoi ideali democratici ed umanitari lo portarono negli anni ’90 a Sarajevo, per soccorrere la popolazione, durante l’assedio da parte dei serbi. Restò in Polonia e morì novantenne, il 2 ottobre del 2009. Irena Sendler, nata nel 1910 e scomparsa nel 2008, non era ebrea. Era una socialista polacca, una donna libera, emancipata, di rarissimo coraggio, che, servendosi del suo ruolo di assistente sociale e di infermiera, con la “scusa” di verificare la diffusione del tifo, salvò circa 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia. In particolare, faceva uscire bimbi e neonati dal ghetto di Varsavia (in sacchi di juta e in casse degli attrezzi) e collocandoli in famiglie e conventi, con documenti falsi (ma conservò un registro di questi bambini, in modo che, una volta finita la guerra, potessero tornare alle loro prime e vere identità). Arrestata, fu selvaggiamente ma metodicamente torturata dalla Gestapo, che le spezzò anche le gambe (restò inferma a vita), ma resistette. Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni, ma lei disse: «Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai». Nel ’68 uscì dal Partito Comunista Polacco (cui era iscritta dal ’48), per protesta contro la campagna antisemita avviata nel mese di marzo. Simcha Roten, l’ultimo ebreo sopravvissuto alla rivolta del Ghetto di Varsavia, si è spento a Gerusalemme, all’età di 94 anni, meno di un mese fa. Anch’egli faceva parte della ZOB ed era riuscito a sfuggire ai tedeschi, guidando anche alcune decine di suoi compagni attraverso i condotti di scarico. Era poi entrato nella resistenza polacca, lottando contro i nazisti fino alla liberazione della Polonia. Nel 1946 era emigrato in Israele.

 Alberto Quattrocolo

[1] Fin dal 21 settembre del 1939, ancor prima di aver totalmente sconfitto l’esercito polacco, il Brigadeführer Reinhard Heydrich, comandante della Gestapo, elaborò insieme al suo superiore Heinrich Himmler, un progetto di deportazione e di trasferimento nei ghetti urbani delle città polacche di centinaia di migliaia di ebrei. Tale piano, sostenevano, doveva costituire il primo passo verso la endlösung, “la soluzione finale della questione ebraica”.

[2] Alla fine della Prima Guerra Mondiale, Frank militava in un’organizzazione paramilitare anticomunista di estrema destra (Freikorps). Nel ’19 entrò nel Partito Tedesco dei Lavoratori poi diventato il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP). Nel ’23 prese parte al fallito putch (Colpo di Stato) della birreria, organizzato da Hitler e Ludendorff, ma riuscì a sottrarsi alla giustizia tedesca, fuggendo in Austria. Laureatosi nel frattempo in giurisprudenza divenne poi avvocato personale di Hitler ed entrò nel parlamento nel 1930 per diventare Ministro della Giustizia nel ’33. Nel settembre ‘39 fu messo al vertice dei servizi amministrativi del feldmaresciallo Gerd von Rundstedt nel Governatorato Generale, cioè nella parte della Polonia che non stata annessa alla Germania ma che era sottoposta comunque al controllo tedesco, a seguito dell’invasione. E dal 26 ottobre di quell’anno ebbe il grado di obergruppenführer delle SS e l’incarico di Governatore Generale per i territori occupati (circa 90.000 km ² sui 170.000 complessivi dell’ex territorio polacco conquistato), con l’incarico di trasformarli in una colonia tedesca nella quale prelevare la manodopera necessaria all’industria del Reich. Qui vi sorsero i lager di Auschwitz-Birkenau, Majdanek, Treblinka, Chełmno, Bełżec, Sobibór. Dopo la guerra, Frank, condannato dal tribunale di Norimberga, fu giustiziato il 16 ottobre del 1946.

[3] Heinrich Himmler, comandante della polizia dal 1936 e delle forze di sicurezza del Terzo Reich (Reichssicherheitshauptamt) dal 1939 (poi dal 1943 ministro dell’Interno del Reich) era colui al quale Hitler aveva affidato anche il compito di realizzare il programma di sterminio degli Untermenschen, ovvero degli “esseri umani inferiori” rispetto alla razza ariana. Himmler delegò dapprima il suo braccio destro Reinhard Heydrich e, in seguito, dopo l’uccisione di quello da parte dei partigiani cecoslovacchi, Adolf Eichmann.

[4] Ad ogni persona spettavano settimanalmente 920 grammi di pane e mensilmente 295 grammi di zucchero, 103 grammi di marmellata e 60 grammi di grassi. Ma tali quantità, già ridicole non erano rispettate. Ma, per capirci meglio: secondo le disposizioni naziste, ai tedeschi residenti a Varsavia spettavano giornalmente 2.310 calorie, 1.790 agli stranieri di altre nazionalità, 634 calorie ai polacchi non ebrei e 184 agli ebrei polacchi. All’inizio del 1941, poi, lo spazio a disposizione dei residenti era stato ulteriormente ridotto, così la media di mortalità per fame, malattie e maltrattamenti crebbe in maniera esponenziale, sicché a fine primavera la media dei decessi era salita a 2000 al mese.

[5] I combattenti della Resistenza ebraica risposero con assalti sporadici dai loro bunker. Anielewicz e altri combattenti durante l’attacco al bunker di comando della ZOB furono uccisi e il bunker fu preso definitivamente l’8 maggio.

[6] Stroop redasse un rapporto dattiloscritto di 75 pagine sulla sua repressione della rivolta del ghetto di Varsavia, intitolandolo “Il ghetto di Varsavia non esiste più”. Stroop, catturato dopo la guerra, nel ‘47 fu condannato a morte da un tribunale americano a Dachau, per avere fatto fucilare degli ostaggi in Grecia. Poi, estradato in Polonia, fu processato e condannato per il massacro degli ebrei del ghetto di Varsavia e impiccato l’8 settembre del ’51, proprio laddove sorgeva il ghetto.

[7] Per tutto un mese gli ebrei si batterono soffrendo l’inimmaginabile. Lo stesso Stroop scrisse che molti difensori del ghetto di Varsavia diventavano «pazzi per il caldo, il fumo e le esplosioni».

[8] Le autorità tedesche deportarono circa altri 7.000 ebrei da Varsavia a  Treblinka, dove quasi tutti furono uccisi nelle camere a gas appena arrivati. Altri 42.000 ebrei sopravvissuti, furono deportati nel campo di concentramento di Lublino/Majdanek e nei campi per lavori forzati di Poniatowa, Trawniki, Budzyne Krasnik. Tranne qualche migliaia di lavoratori rimasti a Budzyn e Krasnik, le SS e le unità di polizia tedesca uccisero successivamente quasi tutti gli ebrei deportati da Varsavia a Lublino/Majdanek, Poniatowa e Trawnik, nel novembre del 1943, nell’ambito della macabra “Operazione Festa del Raccolto” (Unternehmen Erntefest).

 

Fonti

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962

Wlodek Goldkorn, Irena, che salvava i bambini del ghetto di Varsavia, L?espresso 17/01/2017

www.encyclopedia.ushmm.org

www.fanpage.it

www.iltorinese.it

www.it.wikipedia.org

Auschwitz: ultimo appello generale

Il 17 gennaio 1945 ebbe luogo l’ultimo appello del famigerato campo di concentramento polacco. I Russi si stavano avvicinando, la guerra era ormai persa e Himmler, che l’aveva intuito già da tempo, diede il suo ordine: lasciare meno tracce possibile.

Come noto, Auschwitz non era uno singolo campo. Il nome, dato alla struttura originaria in ragione della vicinanza alla città presso cui sorgeva, andò più tardi a comprendere anche il campo di sterminio di Birkenau e quello di lavoro di Monowitz, oltre ad altri 45 sotto-campi. Più di quaranta chilometri quadrati di terreno, dove persero la vita almeno un milione di persone.

Dunque, abbandonare e distruggere, questi erano gli ordini del gerarca. E le sue SS, prontamente, risposero. Dal giorno successivo furono organizzate quelle che più avanti saranno conosciute col nome evocativo di “marce della morte”: circa 60 mila prigionieri furono costretti a incamminarsi verso altri campi, evacuando in massa quei luoghi di dolore e disperazione. Purtroppo, il rigido inverno polacco non fu clemente, soprattutto considerando le distanze siderali che le lunghe file di detenuti avrebbero dovuto percorrere. Durante il cammino, le SS spararono a chiunque cedesse e non fosse più in grado di proseguire: è stato calcolato che circa 15 mila prigionieri siano morti durante queste marce. Chi sopravviveva veniva invece caricato su treni merci e portato nei campi di concentramento in Germania.

Nel mentre, chi rimaneva doveva aiutare i propri aguzzini a cancellare ogni traccia di quanto accaduto. Anni di atrocità annullate con un colpo di spugna. Fortunatamente, il piano fallì, ma non perché i nazisti non ci provarono: diversi forni crematori furono smantellati o fatti saltare in aria, così come i depositi degli oggetti requisiti e numerosi altri edifici.

Alla fine, tra i 7 e i 9 mila detenuti ebbero salva la vita, proprio per essere rimasti nei campi fino all’ultimo, fino all’arrivo dei sovietici. Tra questi, Primo Levi, che così descrive quei momenti:

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.

Alessio Gaggero

 

Un’avventura senza ritorno

La notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991 iniziò quella che Papa Giovanni Paolo II, definì un’avventura senza ritorno: la guerra. Era l’Operazione Desert Storm. Un’avventura senza ritorno per i tanti – civili e militari – che vi persero la vita, ma, forse, anche un’avventura senza ritorno per la vita attuale di centinaia di milioni di persone.

Quel 16 gennaio del 1991 era scaduto il termine, imposto all’Iraq per il ritiro dal Kuwait, dalla Risoluzione 678 del 29 novembre del 1990, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Entro la mezzanotte del 15 gennaio ’91, le 8 del mattino del 16 per Baghdad, le truppe irachene, dunque, dovevano lasciar libero il territorio kuwaitiano. Dopo quella data, sarebbe stato possibile procedere con la forza.

Le truppe di Saddam Hussein, il 2 agosto dell’anno precedente, avevano occupato ed annesso il ricco emirato del Kuwait, dando, così, il via a quella che sarebbe diventata la prima guerra del Golfo (2 agosto 1990 – 28 febbraio 1991).

Il 25 dicembre ’90, nel suo messaggio urbi et orbiGiovanni Paolo II, dichiarando, come abbiamo ricordato, che la guerra era un’ avventura senza ritorno, rivolse un appello a “percorrere le strade dell’intesa e della pace“, ma 22 giorni dopo una coalizione composta da 35 stati costituitasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti, diede il via a quella che venne definita anche come la prima guerra del villaggio globale.

Dalla Guerra tra Iraq e Iran alla prima guerra del Golfo

In realtà, l’avventura senza ritorno in Iraq aveva radici lontane, come generalmente accade nei conflitti.  Si potrebbe retrodatarla al 1961, cioè all’anno dell’indipendenza del Kuwait dal dominio inglese, che, di fatto, azzittì le rivendicazioni dell’Iraq, il quale contava sul controllo del territorio kuwaitiano per avere un adeguato accesso diretto al mare: un accesso, cioè, che non lo obbligasse a dipendere, per gli scambi commerciali, da altri stati, cioè proprio il Kuwait e l’Iran.

Un lungo sanguinoso inutile conflitto

Volendo circoscrivere l’esplorazione delle radici di quel conflitto, queste possono essere rinvenute nella precedente guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), cui abbiamo accennato qui: 8 anni di intenso conflitto, che costarono la vita ad un milione di persone e senza alcun risultato, visto che non diede luogo a mutamenti né rispetto al territorio dei due stati in guerra né rispetto ai regimi che li governavano.
Alla base di quella guerra vi erano stati, però, non pochi elementi in gioco. Alcuni più evidenti, altri meno: tra i primi: le dispute territoriali, la contrapposizione ideologica tra i due regimi dittatoriali (laico quello iracheno e religioso, anzi teocratico, quello iraniano) e la conflittualità tra sunniti e sciiti (la minoranza sunnita al potere in Iraq temeva la prossimità con il principale paese sciita del Medioriente); tra i secondi la politica degli Stati Uniti e dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. USA e URSS, infatti, non erano indifferenti alle tensioni tra i due governi, anzi, avevano non pochi interessi allo sviluppo di un conflitto.

Nel 1979, con una rivoluzione religiosa, l’Ayatollah Khomeini aveva preso il potere, destituendo lo scià Mohammed Reza Pahlavi e trasformando l’Iran da principale alleato americano in Medioriente a suo principale avversario. Anzi, Khomeini incitava l’intero mondo arabo a ribellarsi all’imperialismo degli Stati Uniti. L’Iran, però, non era diventato scomodo solo per Washington. Finanziava anche, insieme agli USA, la resistenza afghana contro l’invasione sovietica del paese, iniziata proprio quarant’anni fa.

L’Iraq di Saddam Hussein costituiva per la Russia una non minore fonte di preoccupazione. Fin dal momento in cui aveva assunto la leadership, il dittatore iracheno aveva adottato un atteggiamento assai meno meno filo-sovietico del suo predecessore, Ahmed Hasan al-Bakr, costituendo, così, una minaccia per gli interessi e le mire dell’URSS in quell’area.

L’America e la Russia dietro le quinte di quel conflitto

Sia per gli USA che per l’URSS i due regimi erano fonte di preoccupazione, li consideravano fattori di destabilizzazione per i loro interessi e le loro mire. Così, presero a finanziare ed armare indistintamente entrambi i paesi, contando che, in tal modo giungessero a indebolirsi reciprocamente. Dopo otto anni di guerra, in effetti, questo esito, sotto molteplici aspetti, poteva dirsi conseguito. Le popolazioni iraniane ed irachene avevano patito l’inimmaginabile e, nel 1988, entrambi i paesi erano ridotti allo stremo. Ma i due regimi non erano crollati. L’Iraq, per far fronte allo sforzo bellico, aveva contratto un enorme debito, oltre 60 miliardi di dollari, con paesi avversi all’Iran, sia occidentali che mediorientali, tra i quali il Kuwait, cui doveva restituirne ben 14.

Il debito di Saddam con il Kuwait e le tensioni tra i due paesi per il petrolio

I tentativi negoziali tra Iraq e Kuwait per risolvere la questione non portarono ad un’intesa, anzi, diedero luogo all’avvio di una tensione, che, cresciuta per un paio d’anni, esitò in un altro conflitto. Infatti, Saddam non era in grado e, comunque, non era disposto a saldare il debito con il piccolo emirato, mentre questo era indisponibile a rinunciarvi. Inoltre, Baghdad sosteneva che il Kuwait, in realtà, fosse da sempre una parte integrante dell’Iraq, separata artificialmente dall’imperialismo britannico, la cui indipendenza, pertanto, era discutibile, non potendo, secondo Saddam, essere seriamente riconosciuta. Per giunta, Saddam accusava il Kuwait di estrarre petrolio dal sottosuolo iracheno, in particolarmente lungo il confine con la regione della Rumayla, assai ricca di greggio. Ciò costituiva un elemento di scontro aggiuntivo alla controversia, vecchio di ottant’anni, sugli isolotti Bubiyan e Warbah – attraverso i quali si controlla il Golfo Persico. Il Kuwait, da parte sua, nell’89, aveva ottenuto dall’OPEC il consenso ad aumentare la sua produzione di petrolio del 50 per cento, così prevenendo quell’aumento del prezzo del petrolio su cui faceva affidamento l’Iraq per reperire le risorse finanziarie da impiegare per estinguere i debiti generati dal conflitto con la teocrazia iraniana.

Come si sarebbe, poi, espresso Karol Wojtyla, la guerra Iraq-Iran si stava rivelando un’avventura senza ritorno non solo per le vittime che aveva causato e per le sofferenze procurate ai popoli della due nazioni, ma anche perché, a distanza di appena due anni dalla sua fine, stava conducendo ad un altro conflitto.

Il turno del Kuwait

Saddam Hussein, il 25 luglio del ’90 interloquì con l’ambasciatrice statunitense in Iraq, April Glaspie, per sapere quale sarebbe stato l’atteggiamento americano in caso di guerra con il Kuwait e si fece l’idea che gli Usa non sarebbero intervenuti. Sette giorni dopo, ebbe inizio l’invasione del Kuwait, senza che fosse preceduta da una dichiarazione di guerra.

Colto di sorpresa e decisamente inferiore a quello del rais, l’esercito dell’Emiro Jabir III fu velocemente sopraffatto, e in due giorni circa gli iracheni giunsero alla la residenza reale. L’emiro riuscì a mala pena a sottrarsi alla cattura, ma gli altri membri della famiglia reale furono uccisi. Da quel momento e per 7 mesi gli iracheni spadroneggiarono nel Kuwait, saccheggiando e commettendo gravi abusi e violazioni dei diritti umani.

Le prime due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il timore di un’aggressione irachena all’Arabia Saudita

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 660, con la quale ingiungeva all’Iraq di ritirarsi immediatamente dal territorio kuwaitiano. Dopo pochi giorni, con la Risoluzione 661 venne stabilito l’embargo commerciale, finanziario e militare nei confronti dell’Iraq. Questa risoluzione fu approvata con 13 voti a favore e due astensioni (Yemen e Cuba). Ma gli effetti di entrambe le risoluzioni sulla determinazione del regime iracheno furono nulli. Anzi, si profilò il timore che il dittatore iracheno intendesse ripagare l’Arabia Saudita per il sostegno economico fornitogli nella guerra contro l’Iran con la stessa moneta impiegata per saldare quello con il Kuwait: invadendola. Anche con l’Arabia Saudita vi erano delle controversie relative a fruttuosi pozzi petroliferi lungo il confine tra i due stati.
Bush senior di fronte a tale pericolo rinforzava la sua convinzione che l’unica risposta possibile all’invasione del Kuwait fosse la guerra. Non a caso, come fece poi anche suo figlio in occasione della Seconda Guerra del Golfo, sostenne il parallelo tra Saddam e Hitler. La mancata opposizione militare all’annessione del Kuwait, sosteneva, avrebbe stimolato Saddam ad attaccare anche l’Arabia Saudita, come nella Conferenza di Monaco del 1938 la mancata reazione militare di Gran Bretagna e Francia all’invasione nazista dei Sudeti aveva consentito ad Hitler di proseguire la sua politica espansionistica, trascinando il mondo nella seconda guerra mondiale.
Il re saudita Fahd, preoccupato, si premurò di chiedere all’Assemblea degli Ulema, la più alta autorità religiosa sunnita, una fatwa a favore dell’ingresso delle truppe statunitensi in Arabia Saudita per difenderne il territorio dalle mire irachene. Nel giro di pochi mesi mezzo milione di soldati americani ed enormi quantità di materiale bellico furono schierate lungo il confine con l’Iraq.

La Risoluzione ONU 678 del 29 novembre 1990 e la posizione italiana

Dal 2 agosto 1990 al 28 febbraio 1991, data di cessazione dalle ostilità, il parlamento italiano dedicò alla guerra del Golfo 39 sedute, tra assemblee plenarie e di commissioni. La prima si svolse, l’11 agosto, 10 giorni dopo quello di inizio dell’invasione del Kuwait e già emersero i primi distinguo tra le forze di governo, presieduto da Giulio Andreotti (Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano e Partito Liberale) e le opposizioni, con l’eccezione del Movimento Sociale – Alleanza Nazionale, sostenitore di un intervento di natura ancor più marcatamente bellica rispetto a quello adottato dagli USA. Il 14 agosto, il Governo Italiano, con un comunicato ufficiale, dichiarò di apprezzare l’immediatezza con la quale gli stati Uniti d’America hanno corrisposto alle esigenze difensive dell’Arabia Saudita e di aver inviato nel Mediterraneo orientale tre navi da guerra (le fregate “Orso” e “Libeccio” e la nave d’appoggio “Stromboli”).

Gli scudi umani stranieri

Intanto Saddam Hussein decise di ricorrere “all’arma degli ostaggi“, nel disperato tentativo di prendere tempo e di evitare l’attacco militare della coalizione anti-irachena. In proposito Enzo Biagi scrisse che “il presidente del parlamento di Baghdad ha annunciato che gli stranieri occidentali sono considerati ostaggi e verranno trasferiti nelle basi militari: così, con Sansone, se arrivano le bombe, cadranno anche i Filistei”.

All’inizio della terza settimana di novembre si contavano in Iraq 8.200 cittadini occidentali, 6.000 sovietici, 5.000 cinesi, giapponesi ed un numero imprecisato di asiatici. Tra i primi figuravano 80 italiani in Kuwait e 300 in Iraq. Alcuni degli ostaggi erano stati piazzati in difesa di obiettivi strategici, costituendo una sorta di scudo  umano. Anche su tale fatto le posizioni dei vari gruppi parlamentari furono divergenti. La sinistra sollecitò un maggiore impegno del Governo per ricondurre in patria gli ostaggi, mentre i partiti di governo valutarono la tattica di Hussein come tesa a rompere lo schieramento internazionale e, pertanto, sostennero l’indisponibilità a dare il minimo segno di cedimento. Tuttavia nel mese di novembre si recarono in Iraq delle delegazioni “non ufficiali” per chiedere il rilascio degli ostaggi e, tra queste, quelle per l’Italia dei deputati Mario Capanna (Democrazia Proletaria) e Roberto Formigoni (DC) e di Monsignor Capucci. Ma, poi, il 6 dicembre Saddam Hussein assicurò che tutti i cittadini stranieri trattenuti in Iraq sarebbero stati liberati. Verosimilmente aveva compreso che tentativo di usarli per frammentare la solidarietà internazionale era fallito.
Sul fronte

L’operazione Desert Storm non fu una guerra dell’ONU

La Risoluzione ONU n. 678 del 29 novembre 1990, adottata con i due soli voti contrari di Yemen e Cuba, ma non dell’URSS, fissò il termine del 15 gennaio 1991, come limite oltre il quale il Consiglio di Sicurezza autorizzava gli Stati membri ad usare ogni mezzo per assicurarsi l’osservanza delle precedenti risoluzioni
deliberate dal Consiglio stesso. Sul piano giuridico la Risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non diede vita ad una guerra dichiarata dall’ONU. In tal caso, vi sarebbe stata un applicazione dell’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, in virtù del quale il comando delle operazioni sarebbe stato affidato al comitato militare che ha sede del palazzo di vetro di New York. Per effetto di quella risoluzione si trattò di una guerra autorizzata dall’ONU, nell’ambito della previsione dell’articolo 42 della Carta citata, cui si fece ricorso a seguito dell’inadeguatezza delle misure di embargo adottate ai sensi dell’articolo 41. In realtà, il Consiglio di sicurezza era disarmato, privo di forza militare, perché gli Stati non avevano dato corso articolo 43 dello Statuto, che li obbligava a porre a disposizione dell’Organizzazione mondiale delle truppe destinate ad agire come esercito dell’ONU, sotto comando unificato del Consiglio. Nella carenza del sistema collettivo di sostituzione si poté invocare allora la legittima difesa associata. Nel frattempo, infatti, il governo americano si impegnò nella costituzione di una coalizione di stati disposti ad intervenire militarmente per porre termine all’occupazione del Kuwait. Raccolsero l’adesione di 34 paesi, tra cui l’Italia.

Il Corriere della Sera titolò: “Per la prima volta dal 1950, quando diede via libera all’intervento armato in Corea, il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizza l’uso della forza per risolvere una crisi internazionale“. Su Il Manifesto le valutazioni della Risoluzione furono all’insegna della più totale disapprovazione: “la decisione del consiglio di sicurezza confligge con la carta delle Nazioni unite, la viola. La formula “tutti i mezzi necessari” significa consentire, raccomandare la guerra di uno o più stati nei confronti di un altro. Il che è l’esatto contrario di quanto è scritto nella carta, del perché fu scritto“.

Gli ultimi giorni prima dell’avvio di un’avventura senza ritorno

La sera 12 gennaio del ’91 per tentare di scongiurare in extremis, Javier Perez De Cuellaril Segretario dell’ONU, atterrò a Baghdad, ma l’incontro con Saddam avvenuto 24 ore dopo si rivelò inutile quanto breve. Dopo oltre cinque mesi la comunità internazionale, la Comunità Europea e il governo italiano ritennero che non vi fosse più alcuna chance di portare a successo il tentativo di comunicare all’Iraq una irriducibile fermezza circa la necessità di un’evacuazione totale ed incondizionata del Kuwait, senza, però, che tale ritiro gli procurasse un’umiliazione, e di connettere anche la crisi del Golfo alla drammatica situazione mediorientale.  Tuttavia nel dibattito del 16 gennaio alle Camere, la già palesata rinuncia governativa ad ogni politica diversa da quella di un intervento militare venne contestata dall’opposizione. Il segretario del PCI, Achille Occhetto, replicò, infatti, alla dichiarazione del presidente del Consiglio, in termini tali da rinsaldare le divisioni interne al Partito Comunista. “Non chiediamo che venga deliberato lo stato di guerra. Chiediamo invece il sostegno del parlamento per l’azione da svolgersi con la collaborazione delle unità navali ed aeree delle nostre Forze armate presenti nel Golfo“, aveva detto Andreotti. Ma l’On. Occhetto sostenne che, invece, era ancora possibile e doveroso puntare sul tempo, sulla fermezza, sull’inasprimento delle misure d’isolamento economico, politico e diplomatico dell’Iraq. Se era “inscusabile la rigidità di Saddam Hussein“, era da condannare anche la speculare rigidità americana. Per il segretario del PCI il governo avrebbe dovuto chiedere la convocazione di una conferenza internazionale sul Medioriente e rivolgere un appello all’alleato americano di non procedere ad un attacco militare nei confronti dell’Iraq. Contestando anche “l’ipocrisia” di chi, come l’on. Andreotti, “vuol coprire la realtà dietro le finzioni giuridiche“, pronunciò un esplicito “no” alla guerra e chiese il ritiro delle nostre forze armate nel Golfo.

Il dibattito italiano tra guerra giusta e guerra ingiusta

Il dibattito naturalmente non si svolse soltanto nelle sedi parlamentari. Si sviluppò in tutto il paese. Il 15 gennaio, il senatore a vita Norberto Bobbio, intervistato su Rai Tre, definì la guerra del Golfo come un caso esemplare di “guerra giusta”. Poi sul Corriere della Sera precisò che la guerra contro Saddam Hussein era giusta in quanto “fondata sul principio fondamentale delle legittima difesa“. Ma al senatore a vita Bobbio, con una lettera aperta all’Unità, replicò un gruppo di docenti universitari di Torino  definiti comunemente suoi allievi: “per principio non esistono guerre giuste. Il diritto internazionale va ripristinato in altri modi. La guerra non è neppure in generale e nel caso specifico, uno strumento efficace di soluzione dei conflitti tra Popoli. I problemi che provoca, lo strascico di lutti, rancori e – oggi – conseguenze sull’equilibrio ambientale, sono sistematicamente superiori a quelli che è in grado di risolvere“. Anche Giorgio Bocca e Umberto Eco intervennero e, di fatto, pur con altri argomenti, presero posizioni che convalidavano l’intervento militare.

16 gennaio 1991: la parola passa alle bombe

Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, poco dopo la scadenza dell’ultimatum, la coalizione guidata dagli USA iniziò a bombardare obiettivi militari ed infrastrutture di Baghdad, colpendo anche alcuni obiettivi civili. Saddam reagì con il lancio di otto missili Scud contro Israele. La sua idea era quella di suscitare una reazione militare israeliana, inducendo, così, questo paese ad entrare nella coalizione internazionale. Infatti, essendo all’interna di questa molti paesi arabi ostili ad Israele e indisponibili a restarvi in caso di ingresso di quest’ultimo, Saddam Ussein contava così di spaccare e indebolire la coalizione avversaria. Gli andò male. La diplomazia americana convinse Israele a non reagire e a non entrare nella coalizione.

Immediatamente dopo l’inizio della campagna aerea, cominciò anche quella terrestre. Non ci volle molto perché le truppe irachene capitolassero: il 26 febbraio cominciarono a ritirarsi dal Kuwait, dopo aver appiccato il fuoco alla maggior parte dei pozzi petroliferi del paese.

Il grosso delle truppe irachene in ritirata si ammassò sull’autostrada che collega Kuwait City all’Iraq. L’aviazione americana effettuò bombardamenti così intensi che la strada venne rinominata l’Autostrada della morte. Secondo molti analisti ciò fu un pesante crimine di guerra, dove persero la vita più di mille soldati inermi ed in fuga verso casa.

La guerra era (in)finita

Il 28 febbraio 1991 il presidente Bush dichiarò che la liberazione del Kuwait era avvenuta e che erano, pertanto, cessate le ostilità. Bush, infatti, evitò di destituire Saddam, temendo che un vuoto di potere potesse portare ad una guerra civile o ad un miglioramento dei rapporti tra Iraq e Iran, il che sarebbe stato quanto mai pregiudizievole per gli interessi americani nella regione. Com’è noto, però, non cessarono le sanzioni economiche contro l’Iraq. Si riteneva che la prosecuzione dell’embargo avrebbe impedito a Saddam di riarmarsi. E diversi osservatori ONU furono inviati per assicurarsi che il disarmo venisse portato avanti come concordato dalla comunità internazionale.
Come abbiamo ricordato in un altro post, la questione delle presunte armi irachene di distruzione di massa tornò in primo piano dopo l’11 settembre 2001, quando Bush Jr, decise di intraprendere una seconda guerra contro Saddam, nel 2003, sostenendo che il rais avesse dato inizio ad un intenso programma di riarmo, comprensivo della costruzione di armi chimiche e batteriologiche. Anche allora furono tacciati di essere filo-iracheni o affetti da un pacifismo acritico e irrealistico coloro che, pur detestando il dittatore iracheno, esprimevano contrarietà ad una soluzione bellica.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Enzo Biagi, La favola vera dell’orco cattivo, Corriere della sera, 19 agosto 1990

Riccardo Chiaberge, L’ora della decisione più sofferta, Corriere della Sera, 17 gennaio 1991

Editoriale, L’ultima sfida, Corriere della Sera, 30 novembre 1990

Lettera aperta di alcuni docenti dell’Università di Torino, L’ Unità, 19 gennaio 1991

Gianni Ferrara, La Carta violata. Perché è illegale la XII risoluzione ONU , Il Manifesto, 1 dicembre 1990

Claudio Monici, La guerra costruita a tavolino che l’Iraq ancora paga, www.avvenire.it, 29 aprile 2018

Francesco Risolo, La Guerra del Golfo nel dibattito parlamentare e nell’opinione pubblica, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma “LA SAPIENZA ” Facoltà di Scienze Politiche, Corso di Laurea in Scienze Politiche, Anno accademico 1993-1994, Pubblicazioni Centro Studi per la Pace www.studiperlapace.it

www.adista.it

www.it.wikipedia.org

www.linterferenza.info

1968, la Valle del Belice dopo il sisma

Il violento sisma che colpì la Valle del Belìce [ne abbiamo parlato ieri] non si esaurì nella devastazione della notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968: nel periodo 14 gennaio – 1º settembre furono registrate strumentalmente 345 scosse, tra cui 81 con magnitudo pari o superiore a 3.

A quel tempo la zona interessata non era considerata critica dal punto di vista sismico e il terremoto fu inizialmente sottovalutato nella sua entità. Il terremoto del Belice fu il primo grande “caso” del dopoguerra che mise a nudo l’impreparazione dei soccorritori, l’inerzia dello Stato, e portò alla luce una realtà sconosciuta, quella della Sicilia rurale e arretrata: tutto il Paese scoprì una regione povera e lontana dai fasti del boom economico.

Nei giorni immediatamente successivi al terremoto gli organi di stampa posero unanimemente l’accento sulla mancanza di qualsiasi piano d’intervento, tra ricorrenti sovrapposizioni di competenze e insensate competizioni tra le autorità civili e quelle militari o tra esponenti del governo regionale e funzionari del governo: quantità enormi di generi alimentari e attrezzature di soccorso furono concentrate dove non vi erano particolari bisogni, mentre dalle località più colpite si levavano drammatiche richieste di invio di soccorsi e materiali. Le disfunzioni e i ritardi ebbero tuttavia il merito di offrire lo spunto per avviare sulla stampa nazionale un vasto dibattito sulla legge di riordino del settore della protezione civile, la cui discussione era bloccata in Parlamento per contrasti fra diversi gruppi politici.

A dieci giorni dalla violenta scossa del 15 gennaio erano state impiantate 11 tendopoli, che accoglievano più di 16.000 persone, e gli sfollati ricoverati nei centri di raccolta (scuole, alberghi, edifici pubblici e case private) erano quasi 14.000; molti vennero sopraffatti da malattie respiratorie o dalla disperazione, poiché nelle baracche si viveva in condizioni degradanti.

Se ai dati relativi alla popolazione nelle tendopoli e nei centri di raccolta si aggiunge il numero di coloro che se ne erano andati – circa 10.000 persone – si ha un totale di circa 40.000 individui che avevano perso la residenza, su un totale di 80.000 residenti nelle aree maggiormente danneggiate. Le autorità facilitarono in ogni modo il movimento migratorio, concedendo biglietti ferroviari gratuiti e rilasciando, senza formalità o addirittura a vista, i passaporti. Con questa linea di condotta si accolsero le richieste dalla gente, ma soprattutto si percorreva la strada più semplice per attenuare la pressione sociale nei paesi devastati; contro questa strategia dell’abbandono si pronunciarono le organizzazioni locali degli agricoltori e le associazioni sindacali. Tra le conseguenze a medio termine si accentuò la tendenza all’accentramento della popolazione nelle città e lo spopolamento nelle campagne: iniziò l’afflusso di manodopera nordafricana impiegata nei lavori agricoli stagionali, che colmò i vuoti causati dall’emigrazione nelle schiere del bracciantato agricolo.

I decreti legge e la legge-quadro per la ricostruzione (n. 241 del 18 marzo 1968) indicarono le località di Montevago, Gibellina, Poggioreale e Salaparuta come centri da trasferire completamente; furono, invece, classificati come paesi soggetti a parziale trasferimento dell’abitato Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Sambuca di Sicilia, Calatafimi, Salemi, Vita, Camporeale e Contessa Entellina.

Non sempre però le scelte operate si dimostrarono valide e svariati fattori contribuirono ad accentuare le difficoltà della ricostruzione. Il potere decisionale e gestionale della ricostruzione fu accentrato nelle mani dello stato, che delegò il compito all’ISES, un istituto che si occupava di edilizia scolastica. A sua volta, l’ISES delegò all’Ispettorato per le zone terremotate, un ente appositamente creato alle dipendenze del Ministero dei Lavori Pubblici. Molti furono gli operatori, pubblici e privati, ai quali furono affidate competenze, causando sovrapposizioni e conflitti che ebbero l’effetto negativo di rallentare le operazioni svalutando, di fatto, l’entità dei finanziamenti concessi dallo Stato. La precaria situazione economica delle zone danneggiate, venendo a mancare l’effetto volano dei capitali locali e dei consumi, non favorì il formarsi di un nuovo tessuto socio-economico integrato. La mancanza in loco di materiali da costruzione fondamentali, quali ferro e cemento, ritardò ulteriormente l’opera di ricostruzione. Sul finire del 1973, solo il 10% degli alloggi necessari era stato edificato; per di più, questi alloggi non potevano essere assegnati in quanto non erano state ultimate le necessarie opere di urbanizzazione primaria (strade, acquedotti, reti elettriche) ed erano completamente assenti i servizi amministrativi e commerciali.

Nel 1975, l’Ispettorato fece sapere che i fondi erano stati tutti spesi per le opere di urbanizzazione: a otto anni dal terremoto ancora nessuna casa era stata ricostruita con i soldi dello stato. Il coordinamento dei sindaci del Belice continuò a fare pressione per ricevere i fondi necessari, che arrivavano sempre con il contagocce: solo la legge 120 del 1987, su richiesta dei sindaci, equiparerà i contributi per i terremotati del Belice a quelli del Friuli o dell’Irpinia.

Nel 1976, secondo i dati riportati dalla Commissione Lavori Pubblici della Camera dei Deputati, solo 225 abitazioni erano state assegnate e molte delle infrastrutture, “cattedrali nel deserto” sulle quali si erano concentrati gli interventi, giacevano inutilizzate: un caso emblematico fu l’Asse del Belice, una grande strada che attraversa la Valle e si ferma in aperta campagna. Oltre 47.000 cittadini risiedevano ancora nelle baraccopoli: le ultime 250 baracche saranno distrutte nel 2006.

Interi paesi come Gibellina, Poggioreale e Salaparuta vennero ricostruiti altrove. Antiche culture vennero cancellate, il tessuto sociale fu radicalmente mutato, la vita civile di migliaia di persone venne sconvolta. Cambiò anche il paesaggio del Belice: da un lato le “new town” con le grandi piazze e le lunghe strade, dall’altro le tracce di ruderi che restano ancora in piedi negli antichi abitati. Un coacervo di fattori fece di fatto fallire l’“utopia urbanistica” dei progettisti della ricostruzione.

Ma il Belice è stato molto altro. È stato teatro delle lotte non violente di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori per le dighe, il lavoro e la scuola; dell’attivismo di Lorenzo Barbera contro la speculazione sulla ricostruzione e in favore del servizio civile al posto di quello militare; artisti e progettisti hanno lavorato per attuare un sogno utopistico su Gibellina, i comitati locali hanno promosso progetti di ricostruzione dal basso in contrasto con la gestione ministeriale del governo da una parte e i tentativi della mafia di intercettare le risorse dall’altra. Tra una serie infinita di piani di ricostruzione, turbolente manifestazioni dei comitati a Roma e a Palermo, scioperi fiscali e proteste antileva, il Belice ha provato a cambiare il suo destino e a diventare una valle verde ricca di vigneti e ulivi.

Nell’introduzione al libro “Belice” di Anna Ditta, si legge:

che Danilo Dolci aveva capito tutto del sistema clientelare-mafioso della Sicilia occidentale. Che un sindaco chiese ai tre fornai del paese di fare il pane per tutti, e due dissero no. Che ai soccorsi parteciparono insieme ‘carabinieri e capelloni’. Che arrivò a un certo punto tra i terremotati una signora ‘dall’accento toscano’ e con il camion pieno di pannolini. Che si può avere nostalgia della vita nelle baracche, perché lì, raccontano le donne, ‘la vita di comunità era bellissima’.

Il sisma, metafora di rivoluzione, fu sentito come il principio di un’opera di ricostruzione morale e sociale, la possibilità di mettere in pratica le teorie della modernità più avanzata in sintonia con quanto andava maturando da anni in quell’area della Sicilia occidentale. Si ritrovarono nelle lotte contro il potere democristiano colluso con la mafia quanti, già tra il 6 e il 12 marzo del 1967, avevano partecipato alla Marcia per la Sicilia occidentale da Partanna a Palermo, 180 chilometri attraverso vari comuni.

Il Belice divenne un laboratorio del Sessantotto. Le idee urbanistiche e artistiche s’inserirono in un processo innovativo di autocoscienza popolare. Come nelle fabbriche, nelle aule e nei campus universitari, si sperimentò la democrazia diretta dell’assemblearismo, che trovò voce nella prima radio libera italiana, la locale “Radio dei Poveri Cristi”. Inefficiente, lontano, corrotto, ottusamente repressivo, lo Stato fu dichiarato fuorilegge perché non rispettava diritti e impegni e la protesta nonviolenta prese le forme dello sciopero fiscale. I ministri subirono processi popolari e furono “condannati” a trascorrere del tempo con le famiglie dei baraccati (nessun politico si offrì di scontare tale “pena”). Le visite delle autorità furono contestate perché passerelle propagandistiche. I giovani del Belice che dovevano fare il servizio militare conquistarono per la prima volta in Italia il diritto al servizio civile.

Furono lunghi anni di sofferenza, rabbia, lotte e disubbidienza civile, per uscire dalle tende nel fango, e poi dalle baracche. Il Belice divenne luogo di scontro politico, simbolo dell’impegno degli intellettuali, punto di riferimento delle avanguardie artistiche e rivoluzionarie, tirocinio per i sessantottini soprattutto palermitani. Nel corso degli anni la Valle offrì il suo sostegno a Franca Viola, che rifiutò il matrimonio riparatore con il mafioso che l’aveva rapita, e qui donne come Piera Aiello e Rita Atria trovarono il coraggio di dare una svolta alla loro vita diventando testimoni di giustizia. Come racconta Anna Ditta, oggi il Belice è feudo del capomafia castelvetranese Matteo Messina Denaro ed è una terra che i giovani continuano ad abbandonare; è, questa, una regione sconosciuta ai più che bisogna raccontare e conoscere.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; G. di Girolamo, Introduzione a A. Ditta, “Belice. Il terremoto del 1968, le lotte civili, gli scandali sulla ricostruzione dell’ultima periferia d’Italia”, Infinito Edizioni; E. Guidoboni e G. Valensise, “Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni”, Bonomia University Press; “I terremoti del ‘900: Il terremoto del 15 gennaio 1968 nella Valle del Belice”, www.ingvterremoti.wordpress.com; F. Nicastro, “Belice, una ferita ancora aperta dopo mezzo secolo”, www.ansa.it; S. Scalia, “Belice, la terra del terremoto laboratorio dell’utopia del ’68”, www.lasicilia.it; G. Marinaro, “Cinquant’anni dopo il terremoto, cosa resta della tragedia del Belice”, www.agi.it; “Diario civile. Il sisma dei poveri cristi. Cinquantanni dal terremoto del Belìce”, www.raiplay.it

Terremoto del Belice, Sicilia, 1968

Uno spettacolo da bomba atomica […] Ho volato su un inferno.
(Pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona)

L’isola trema, le case crollano, le persone muoiono.

Non si sa con certezza quante, ma il numero sale sicuramente oltre i 300. Sarebbero potute essere molte di più, ma, fortunatamente, la scossa non fu una sola. La prima fu avvertita a metà giornata di quel 14 dicembre, e questo permise a molti di lasciare le proprie abitazioni, che si sarebbero sbriciolate di lì a qualche ora. La terra tremò per altre quindici volte, radendo letteralmente al suolo interi paesi e distruggendo la vita di decine di migliaia di persone, seppur sopravvissute.

Quella valle, che prende il nome dal fiume che l’attraversa, si vide inferta una ferita terribile, che si sta rimarginando ancora oggi. Il 2018 è stato l’anno del 50° anniversario, e i numerosissimi eventi e manifestazioni organizzati testimoniano quanto, a distanza di così tanto tempo, quelle emozioni bruciano ancora nei cuori dei siciliani, e non solo. Non fu, infatti, il solo terremoto a recare dolore a un’inimmaginabile numero di persone.

Gli aiuti e le ricostruzioni estenuarono la popolazione, che, per quella parte che non fuggì dalla propria terra, fu costretta a vivere in baracche di legno o di lamiera e di eternit per quarant’anni. Le istituzioni incoraggiarono infatti a trasferirsi altrove, regalando biglietti ferroviari e concedendo passaporti a vista. Chi rimase, visse in baraccopoli paragonabili ai

[…] più efferati e abietti campi di concentramento.

per dirla con le parole di Leonardo Sciascia.

Negli ultimi cinquant’anni sono stati investiti 13mila miliardi di lire, ma servirebbero ancora, si stima, 300 milioni di euro per completare le ultime opere. Sembra che, però, la valle si sia ripresa dai peggiori momenti di devastazione e abbandono che ha affrontato in passato. Certo è che la memoria di racconti come il seguente non può essere cancellata.

Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Sentivo accanto a me la suora assistente che recitava le sue preghiere mentre mi porgeva i ferri, attenta e precisa come sempre[…] Eravamo in sala chirurgica dalle 8 del mattino. Non c’era un momento di sosta fra un intervento e l’altro[…] Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto. Aveva perso le gambe ed ambedue le arterie erano recise[…] Gli altri, senza una gamba, senza un braccio, li abbiamo tutti salvati. L’intervento più difficile fu una trapanazione del cranio: era una bambina di quattro anni che i vigili avevano trovato a Gibellina, fra le braccia della madre morta.
(Primario chirurgo dell’ospedale di Sciacca, prof. Giuseppe Ferrara)

Alessio Gaggero