L’URSS parte alla volta della Luna

Il 31 gennaio 1966 iniziò il viaggio della sonda spaziale Luna 9, che avrebbe segnato un punto a favore dell’Unione Sovietica nella corsa al nostro satellite. Gli Stati Uniti, infatti, entrarono in competizione con l’avversario russo anche per quanto riguardava le ricerche spaziali. La Guerra fredda divampava.

I primi ad approdare sulla Luna, dunque, furono i Sovietici: Lunik 9 atterrò il 3 febbraio, dimostrando che il corpo celeste poteva effettivamente reggere il peso di una capsula spaziale (99 chili in questo caso). Stabilizzatosi, il modulo si aprì a petalo, liberando la sonda che, con antenna e telecamera, iniziò a riprendere i dintorni, inviando le prime immagini dalla superficie. Non erano, però, le prime in assoluto.

Negli anni precedenti, infatti, diverse sonde furono inviate da entrambi gli schieramenti, e molte di esse riuscirono a scattare numerose fotografie, anche se in condizioni non esattamente ideali: durante la caduta che precedeva lo schianto al suolo. Luna 9, infatti, fu la prima ad atterrare dolcemente, rimanendo integra.

Negli anni successivi, gli Americani recuperarono terreno con le sonde Surveyor, che permettevano di analizzare la natura delle rocce e del suolo lunare, e con gli orbiter, dispositivi che, rimanendo in orbita, riuscirono a mappare la pressoché totalità della superficie.

Infine, come noto, il viaggio dell’Apollo 11 con a bordo Neil Amstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins: l’uomo, per la prima volta nella sua storia, aveva poggiato il piede su un corpo celeste che non era la Terra. E gli USA recuperarono terreno ad ampie falcate.

Alessio Gaggero

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Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione

Quel 30 gennaio del 1933 non ci fu un colpo di Stato né una rivoluzione

Adolf Hitler non ottenne il potere con un colpo di Stato. Egli divenne cancelliere del Reich il 30 gennaio del 1933, ricevendo l’incarico dal presidente Paul Von Hindenburg, secondo le procedure previste dalla costituzione di quella repubblica democratica che si apprestava ad assassinare. Che da sempre aveva annunciato di voler assassinare. In ciò seguì di fatto l’esempio, che lo aveva molto impressionato, di Benito Mussolini (ne abbiamo parlato in questo post, sulla rubrica Corsi e Ricorsi) Il dittatore italiano 11 anni prima aveva raggiunto il potere, ottenendo dal Re, Vittorio Emanuele III, a seguito della marcia su Roma, l’incarico di formare un governo, nel rispetto delle procedure costituzionali. Hitler aveva tentato quasi dieci anni prima una fallimentare imitazione della marcia di Roma (il “Putsch di Monaco” dell’8 novembre 1923), senza assicurarsi il controllo di quelle condizioni che avevano portato Mussolini ad essere Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ex caporale austriaco, perciò, aveva deciso, di seguire meglio l’esempio mussoliniano, adattandolo allo specifico della situazione tedesca. Come il duce anch’egli voleva realizzare la sua “rivoluzione” soltanto dopo aver preso il potere con il voto dei tedeschi o con il consenso dei governanti.

Come poté quell’ex caporale austriaco, fino a poco prima privo anche della cittadinanza tedesca, diventare il Führer?

La crisi del ’29: una manna dal cielo per il Partito Nazionalsocialista

Nel febbraio del ‘1920 Adolf Hitler era diventato il leader di un partito nazionalista di estrema destra, anti-capitalista e anticomunista, ferocemente antisemita, anti-liberale e antidemocratico, nemico giurato non soltanto della socialdemocrazia, ma soprattutto della democrazia parlamentare: il Partito dei Lavoratori Tedeschi. Un anno prima il misero e incolto reduce della prima guerra mondiale, con aspirazioni artistiche irrealizzabili per carenza di reale talento, era entrato in contatto con questo partito ,avendo avuto l’incarico di spiarlo per conto della polizia e dell’esercito. Divenutone il capo, cambiò subito il nome facendolo diventare il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP). Un mese dopo il partito adottò il saluto romano, seguendo l’esempio dei fascisti italiani, e come simbolo la svastica, ritenendolo il simbolo solare “ariano” e indoeuropeo da contrapporre graficamente alla luna, della quale gli ebrei, secondo alcuni, sarebbero stati “adoratori”. Inoltre, in pochissimo tempo Hitler arrivò ad assumere un potere di controllo assoluto sul partito applicando il principio per cui esso, come il popolo, doveva essere retto e guidato da un solo Führer.

Una catastrofe economico-sociale di utilità prodigiosa

Alla fine del ’29 la crisi economica si propagò come un incendio indomabile nel mondo intero. Hitler vide subito che poteva essere una meravigliosa e irripetibile occasione per far schizzare alle stelle la fiducia dei tedeschi nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. La Grande depressione seguita al crollo di Wall Street permise ad Hitler di sfruttare con spietata lucidità le frustrazioni popolari. La gente faceva la fila per interi isolati per acquistare il pane, le banche chiudevano, i disoccupati erano milioni, perché l’industria era al collasso. C’erano ovunque fame, angoscia, paura, rabbia e dolore. E disperazione. Hitler, nei comizi e in ogni altra sede possibile, prometteva di riportare il benessere economico, ma non si arrischiava a spiegare realmente come. Diceva che egli si sarebbe rifiutato di pagare le riparazioni di guerra che la Germania doveva secondo il Trattato di Versailles (anche se il governo era già riuscito ad ottenerne la moratoria), che avrebbe eliminato la corruzione e piegato i magnati della finanza (specie se ebrei) e avrebbe provveduto affinché ad ogni tedesco non mancassero lavoro e pane. Gridava che avrebbe restituito orgoglio al popolo tedesco, facendo tornare la Germania allo splendore che gli spettava, ma anche in tal caso si trattava di una comunicazione priva di argomenti razionali, giocata soltanto sul piano emotivo. E batteva ripetutamente su un semplice tasto: quelli che governano hanno ridotto il popolo alla fame, perciò abbiate fede in me.

La manipolazione delle paure e delle energie distruttive delle masse

«La sensazione di impotenza portò la maggioranza dei tedeschi a rifugiarsi proprio nell’estremismo di Hitler: in molti si convinsero infatti di poter trovare in lui protezione e sicurezza», spiegò Hans Magnus Enzensberger.

Così, già nelle elezioni del 14 settembre 1930 i nazisti si assicurarono il 18,3% dei voti, portando il NSDAP da quel nono posto conseguito con le elezioni del ’28  – che gli avevano procurato 12 seggi – al secondo posto nel Reichstag (il parlamento). Due anni prima aveva avuto la fiducia 810.000 tedeschi. Nel settembre del ’30 la ebbe da 6 milioni e 409 mila elettori. I suoi deputati divennero 107. «A differenza dei politici di Weimar, ­Hitler fu abile nel convogliare le paure e l’energia distruttiva delle masse».

Anche il Partito Comunista aveva avuto un buon risultato salendo da 54 deputati a 77, mentre, tolto il Centro Cattolico, gli altri partiti moderati delle classi medie avevano perso un bel po’ di voti. I socialdemocratici detenevano ancora il primo posto (24,5 %), subendo però un’erosione (- 10%), a dimostrazione del fatto che si ampliava quella crisi di consenso nei loro riguardi, che aveva già portato alle dimissioni del loro leader, Hermann Müller, dall’incarico di cancelliere (cioè di capo del governo) e alla sua sostituzione, in aprile, con il capo del Centro cattolico Heinrich Brüning.

L’appoggio di militari, finanziari, industriali e grandi proprietari terrieri

In primo luogo Hitler si preoccupò di assicurare gli alti ufficiali che il NSDAP lungi dall’essere un pericolo per l’esercito nel costituiva la salvezza. Le corde giuste da toccare con i militari, come con i magnati dell’industria e della finanza erano quelle del patriottismo, dell’anticomunismo, dell’anti-sindacalismo e dell’antiparlamentarismo. Non gli occorrevano, perciò, grandi sforzi di inventiva, essendo proprio quelli anche insieme agli ebrei l’oggetto del suo odio più profondo. Così come lo era il Partito Socialdemocratico. Se, però, persuadere i militari non comportava il rischio di contraddirsi, la faccenda era ben diversa con i vertici dell’industria e della finanza. Infatti, il Partito Nazionalsocialista doveva adescare le masse con la parola “socialismo”, spacciandosi per nemico mortale dei “baroni dell’oro” e contemporaneamente convincere i magnati a fornirgli appoggio politico e, soprattutto, fiumi di denaro per il partito. Ci riuscì, incontrando segretamente le personalità più eminenti del mondo degli affari. In tal modo si assicurò l’appoggio e i denari di Emil Kirdof, barone del carbone e controllore del “tesoro della Ruhr”, di Fritz Thyssen capo del trust dell’acciaio, di Georg Von Schnitzler ai piani alti della IG-Farben, il gigantesco consorzio chimico tedesco, del banchiere di Colonia Kurt Von Schroder, della Deutsche Bank e di altri istituti bancari, nonché della maggiore compagnia di assicurazioni tedesca, l’Allianz.

Dritti verso la catastrofe

L’11 ottobre 1931 tutte le forze conservatrici e un po’ anche quelle moderate, erano decise a porre fine alla repubblica e resuscitare l’Impero, estinto a seguito della sconfitta della prima guerra mondiale.

La tentazione di resuscitare la monarchia per fermare il nazismo

Anche Brüning, la cui impopolarità era tale da essere soprannominato il “cancelliere della fame” era intenzionato a cambiare la costituzione per restaurare la monarchia. Il piano che propose al presidente della Repubblica Hindenburg era semplice: il mandato del presidente, che sarebbe scaduto nel ’32, doveva essere prorogato (ed egli contava sull’appoggio di tutti i partiti eccetto quello comunista), poi egli avrebbe proposto al parlamento di proclamare la monarchia proponendo l’ultraottantenne presidente come reggente a vita, per poi assicurare il trono a uno dei figli del Kronprinz, alla morte di Hindenburg. In tal modo Brüning pensava di levare ai nazisti l’appoggio dei conservatori, dei nazionalisti e dei moderati. Ma il vecchio Hindenburg respinse decisamente il piano. Intanto i conservatori e i nazisti formarono un Fronte unitario – in cui, oltre ad Alfred Hugenberg, capo dei nazionalisti e al grande finanziere Hjalmar Schacht, vi era anche il generale Hans Seeckt- per provocare le dimissioni di Brüning al govenro dall’aprile 1930 e nuove elezioni politiche.

Hitler contro Hindenburg alle presidenziali del 1932

Nel marzo-aprile 1932 si svolsero le presidenziali. La costituzione infatti prevedeva che fosse il popolo ad eleggere il presidente della Repubblica, il quale aveva il potere di nominare il primo ministro (cioè il cancelliere del Reich) e in casi di emergenze di sospendere in parte il potere legislativo del parlamento legiferando con decreti presidenziali. I candidati principali erano: Hindenburg, appoggiato da una parte dei nazionalisti e dei monarchici, ma soprattutto dai socialdemocratici, dal Centro cattolico e dai sindacati, diventando, così, paradossalmente, il candidato del “blocco popolare” (paradossalmente perché nel 1925 era stato eletto proprio in quanto rappresentante delle froze più reazionarie; Adolf Hitler che poteva contare quasi solo sul suo partito e su una parte dei nazionalisti; il comunista Thälmann.

Quello 0,4 % che mancò ad Hindenburg

Il 13 marzo le elezioni si chiusero con un risultato che non assicurava al vincitore la maggioranza assoluta: Hindenburg ottenne il 49,6% dei voti, mentre Hitler si fermò al 30,1 e Thälmann al 13,2%. Occorreva un secondo turno, all’esito del quale avrebbe ottenuto la carica di presidente chi raccoglieva la maggioranza relativa dei voti. Hitler era rimasto parecchio indietro rispetto al vecchio presidente, ma aveva aumentato il suo gradimento di altri 5 milioni di voti.

La rielezione di Hindenburg

Forte di questa consapevolezza il capo nazista non si scoraggiò. Al Lustgarten di Berlino, alla folla che lo ascoltava stregata dalla sua oratoria furibonda, arrivò a promettere: «Nel Terzo Reich ogni ragazza tedesca troverà marito».

Il 10 aprile Hindenburg fu rieletto con il 53% dei voti contro il 36,8% di Hitler e solo il 10,2% del candidato comunista. Hitler aveva guadagnato altri 2 milioni di voti. Sembrava che oltre la metà del popolo tedesco avesse ancora fiducia nella Repubblica democratica e respingesse il comunismo e il nazismo.

 «Chi è responsabile della nostra miseria?». «Il sistema!». «E chi c’è dietro il sistema?» «Gli ebrei!»

Hitler non mollò un secondo la sua presa sulle masse che voleva portare a sé. Sapeva che presto si sarebbe giunti a nuove elezioni, visto la situazione politica del Parlamento e del Paese.

Un esempio paradigmatico del modo con il quale manipolava le masse è il modo con cui interloquì con le 120 mila persone che lo ascoltavano il 27 giugno nel Grunewald stadium di Berlino.

Una voce chiedeva:Chi è responsabile della nostra miseria?. Un coro rispondeva:Il sistema!”. “E chi c’è dietro il sistema?”, chiedeva ancora la voce. “Gli ebrei, gridava il coro.Che cos’è per noi Adolf Hitler?”. “Una fede!”.E cos’altro?”. “La nostra unica speranza”. Poi la voce gridava: “Germania!”. E lo stadio quasi crollava con un potentissimo:Risvègliati!”.

Von Papen il penultimo cancelliere

Brüning fu convocato da Hindenburg il 29 maggio per chiedergli di rassegnare le dimissioni. Dietro questo passaggio vi erano le pressioni di un militare, Kurt Von Schleicher, amico di Oskar Hindenburg, il figlio del presidente. Schleicher che, con l’appoggio dell’esercito, aveva già convinto il presidente ad affidare il governo al democratico cattolico Brüning e non ad un socialdemocratico, ora proponeva che il governo fosse guidato dal barone Franz von Papen. Un latifondista reazionario e monarchico, il cui nome Schleicher aveva concordato con Hitler, il quale aveva assicurato che avrebbe appoggiato il nuovo governo alle seguenti condizioni: se fosse stato composto da ministri scelti direttamente da Hindenburg, se fosse stato revocato il decreto di soppressione dell’esercito privato di Hitler (le SA e le SS) che aveva proposto Brüning, e se fosse stato sciolto il Reichstag. Hindenburg non poté far altro che accettare le condizioni del leader nazista. Schleicher in cambio dei suoi intrighi ottenne la carica di Ministro della Difesa. E Papen, come promesso a Hitler il 4 giugno sciolse il Reichstag e indisse nuove elezioni. Undici giorni dopo revocò la messa al bando per le SA. Ne seguì un’ondata di violenze e si assassinii quali la Germania non aveva mai visto prima

Elezioni del 31 luglio del ’32 il partito nazista diventa il primo partito

L’esito delle elezioni del 31 luglio segnò il trionfo nazista: il NSDAP raggiunse il 37,4%, corrispondenti a 230 seggi, diventando il primo partito più forte del Reichstag. I socialdemocratici scesero a 133 seggi, i comunisti guadagnarono 12 seggi, diventando il terzo partito con 89 deputati, mentre il Centro cattolico passò da 68 a 73 seggi.

Papen si persuase che Hitler non potesse essere lasciato fuori dal nuovo governo, visto che i nazisti erano il partito più forte in parlamento. Schleicher incontrò, quindi, Hitler, che settò le sue condizioni: per sé il ruolo di cancelliere e l’assegnazione ai suoi camerati nazisti anche dei ministeri della Giustizia, dell’Economia, dell’Aviazione e di un nuovo ministero, quello della Propaganda (per Joseph Goebbels), accordava a Schleicher quello della Difesa, ma Papen rifiutò qeuste condizioni, essendo disposto a concedere a Hitler, al massimo, la carica di Vicecancelliere. Hitler si indignò e Papen irritatissimo affermò che avrebbe lasciato la decisione ultima a Hindenburg.

Hindenburg respinge le richieste di Hitler e si va a nuove elezioni

Hindenburg rifiutò nettamente la proposta di Hitler e il comunicato ufficiale del suo incontro, immediatamente pubblicato, sottolineava con sdegno che Hitler aveva richiesto il “controllo completo dello Stato”. Ma ormai la Repubblica si stava squagliando. Erano rimasti in pochi nel Paese e nelle istituzioni, tolti i socialdemocratici, a credere ancora nel sistema di governo democratico e parlamentare. L’esercito e il generale Schleicher aspiravano ad una “dittatura militare”, pur non volendo Hitler al potere, anzi ritenendo che quello fosse il solo modo per far fuori in un colpo solo nazisti, comunisti, socialdemocratici, sindacati, e quella “costosa perdita di tempo” che era il parlamento. Messo in minoranza dal Reichstag anche dai nazisti, Papen tentò allora di nuovo la carta elettorale e sciolse il parlamento.

Hitler perde consensi

Le elezioni del 6 novembre 1932, le ultime della repubblica, videro regredire i nazisti di oltre 6 punti, In 3 mesi scesero al 31,1%, e i loro seggi passarono da 230 a 196, a vantaggio dei comunisti che salirono da 89 a 100, mentre anche i socialdemocratici scendevano ancora, da 133 a 121. Papen tentò ancora una volta di accordarsi con Hitler, ma l’intransigenza del capo nazista non ebbe cedimenti. Schleicher sollecitò Hindenburg a chiedere le dimissioni di Papen e a consultare Hitler. Il 17 novembre Papen, che era stato piazzato in quel ruolo dagli intrighi di Schleicher, su richiesta di Hindenbrug rassegnò le dimissioni. Il presidente propose ad Hitler la scelta tra il cancellierato, se fosse riuscito ad assicurarsi una maggioranza in parlamento, e il vicecancellierato sotto Papen. Hitler però sapeva di non poter avere abbastanza voti in parlamento per avere una maggioranza e non era disposto ad essere il vice di nessuno. Sicché rispose negativamente ad entrambe le offerte.

Il turno di Schleicher

Hindenburg tentò quindi la carta di Kurt Von Schleicher: si trattava di un governo reazionario, anche se non nazista, che, vista la situazione criticissima del Paese, tentò un’apertura ai sindacati socialisti, risultando così non solo sospetto, ma addirittura inviso agli industriali e ai grandi proprietari terrieri, i quali chiesero espressamente ad Hindenburg di consegnare il potere ad Hitler. Questi infatti aveva assicurato al suo partito una vittoria nelle elezioni locali svolte nello staterello del Lippe, raggiungendo il 39%. Non era granché sul piano oggettivo, ma Goebbeles seppe fare abbastanza chiasso da impressionare anche Oskar Hindenburg che, dopo un incontro con Hitler, si rassegnò al fatto che «bisognava prendere i nazisti nel governo». Intanto Schleicher, capo del governo dal 2 dicembre 1932, verificava che non riusciva ad ottenere l’appoggio di nessuno, riuscendo invece a scontentare tutti. Il 20 gennaio 1933 si recò da Hindenburg e si dimise.

Hitler cancelliere

Il 30 1933 gennaio Hindenburg, anche se pochi mesi prima era stato rieletto con i voti popolari proprio in contrapposizione a Hitler, nominò cancelliere del Reich quell’omino con i baffetti alla Chaplin, di cui non aveva alcuna stima e di vedeva chiaramente le aspirazioni dittatoriali e liberticide. La Repubblica democratica di Weimar era morta. E con lei da quel momento iniziarono a morire tante cose e tante persone. Il Nazismo saliva al potere in maniera formalmente legale. E spianargli la strada erano state tante cose.

Un costante sottovalutazione non tanto dell’abilità del suo capo quanto dell’inesorabile ferocia che pervadeva e irradiava da quell’ideologia. Lo stesso Hindenbrug credette che il neocancelliere potesse essere controllato, grazie al fatto che al suo partito erano assegnati soltanto tre ministeri.

La superficialità delle masse, che si erano lasciate incantare da chi aveva incanalato la loro rabbia verso nemici tanti facili quanto assurdi il “sistema” e gli ebrei, e la loro facilità nel trasformare la fame e il bisogno di giustizia in odio e violenza sfrenati.

Le divisioni tra le forze democratiche, che non fecero fronte comune contro il nazismo, lasciando così che il 37% degli elettori potesse prevalere sul 63%, che era antihitleriano, sì, ma frazionato in rivalità e competizioni a ben vedere autodistruttive. La scelta folle dei comunisti, che fino all’ultimo fecero di tutto per delegittimare i socialdemocratici, i sindacati socialisti e le forze democratiche rappresentative delle classi medie, perché, secondo “il verbo di Mosca”, se anche tale linea politica avesse portato la Germania ad avere un regime nazista, ciò avrebbe favorito il crollo del capitalismo e l’affermazione della dittatura del proletariato. L’incapacità dei socialdemocratici di reagire alla crisi in corso, finendo col diventare un partito infiacchito, in mano a leader vecchi, fedeli fino in fondo alla Repubblica di Weimar, ma politicamente mediocri. La destra, che non seppe mai essere davvero liberale e ancor meno sviluppò una prospettiva sinceramente democratica, anzi sconfinò troppo spesso in un nazionalismo spinto, mescolato ad un classismo retrogrado al punto che non realizzò e quindi non tentò di far capire al suo elettorato quanto la Repubblica di Weimar fosse stata generosa nei suoi riguardi. Il Centro, che, addirittura, finì con l’appoggiare proprio il suo killer, Adolf Hitler.

In qualche misura errori non tanto dissimili commisero dopo quel 1933 anche molti leader di altri Paesi. E l’umanità tutta pagò a carissimo prezzo la sottovalutazione della disumanità nazista.

Alberto Quattrocolo

 

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Fonti

Enzo Collotti, Hitler e il nazismo, Giunti, Firenze, 1994.

Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein, o dell’ostinazione. Una storia tedesca, Einaudi, Torino, 2008

Joachim C. Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti Libri, Milano, 2005

W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962

La mediazione familiare va sospesa nei casi di violenza psicologica

La violenza psicologica nelle relazioni di coppia

La violenza psicologica è il tentativo di controllare l’altra persona senza ricorrere alla violenza fisica, ma mediante minacce e intimidazioni, ricatti, atteggiamenti e comunicazioni squalificanti e offensivi. La violenza psicologica, quindi, non utilizza la forza fisica. Si manifesta soprattutto con parole e con atteggiamenti e atti volti a piegare la volontà altrui in termini complessivi, cioè ad alterare o perfino annullare la capacità decisionale, l’indipendenza e l’autostima della vittima. Sul piano concreto tale violenza si estrinseca nel tentativo di sopprimere la libertà altrui, esercitando uno stretto controllo sulle sue frequentazioni, sul suo comportamento in diversi contesti. Quindi, nelle relazioni di coppia, il partner psicologicamente violento può essere incline ad una sorveglianza stretta sui mezzi finanziari dell’altro, ma può anche cercare di controllare e manipolare i gusti, il pensiero, il tempo, insomma, la vita della sua vittima.

Le persone vittime di violenza psicologica da parte del loro partner assai spesso non sono prese sul serio o non sono credute da coloro che le circondano. Così, non beneficiando di un approccio adeguato, finiscono col sentirsi abbandonate e giungono anche a ritenere giusta o naturale la violenza cui sono sottoposte, colpevolizzandosi per quanto subiscono.

Per chi si trova ad ascoltare queste persone nel tentativo di supportarle, infatti, oltre alla loro sofferenza soffocata e ad altri aspetti strettamente connessi alla violenza posta in essere dai partner, emergono altri due aspetti: il primo è che spesso sono circondate da soggetti che le considerano incoerenti nei loro sentimenti verso il partner e che ritengono che esse abbiano una certa tendenza a drammatizzare quel che accade loro e ad autocompatirsi. Insomma, sarebbero tendenzialmente orientate a cercare aiuto all’esterno per difficoltà che dovrebbero saper gestire da sole, esagerando tali difficoltà quando non trovano supporto; il secondo, connesso al primo, è che sono assai diffusi degli stereotipi che portano a liquidare la situazione di violenza psicologica subita come un fatto incidentale di poco rilevo, una dinamica di matrice culturale, o come una normale dinamica conflittuale, cioè eventi che sarebbero, secondo il pregiudizio, esasperati nella narrazione proposta dalla vittima, soprattutto quando si tratta di una donna.

Da qualche tempo, assai di più di quanto accadeva in passato, il parlare di conflitto fa venire in mente la mediazione anche a chi non è un addetto ai lavori. Quando si parla di conflitto coniugale, poi, da qualche mese in qua, soprattutto da quando è stato depositato il Ddl n.735 in Senato, viene in mente la mediazione familiare. Proviamo, perciò, svolgere qualche considerazione sul tema della mediazione familiare – che nel disegno di legge proposto come primo firmatario dal senatore Pillon è prevista come “obbligatoria” per le coppie che non approdano ad una separazione consensuale – e, in particolare, su come chi svolge quella professione si dovrebbe comportare incontrando il fenomeno della violenza psicologica.

Non tutte le mediazioni portano al superamento del conflitto

La realtà del mediatore civile e commerciale, del mediatore penale e del mediatore familiare, è fatta di soddisfazioni come di scacchi, di insuccessi. Di conflitti superati e di conflitti che non si riescono, non si possono o non si devono risolvere e, talora, forse, di conflitti che neppure si dovrebbe tentare di mediare.

Soffermiamoci, però, sul mediatore familiare. Costui opera nel campo della conflittualità familiare, anzi, più precisamente, agisce in maniera elettiva in quello dei conflitti interni alle coppie che hanno dei figli di minore età e che, interessate da una vicenda separativa, non riescono a conseguire autonomamente un accordo rispetto a questioni economico-finanziarie e/o alla gestione del rapporto con i figli.

Ebbene, in questo specifico ambito della mediazione, succede talora che l’intervento mediativo non esiti in una soluzione concordata degli aspetti controversi. Le ragioni possono essere le più diverse. Possono spaziare dall’inefficacia dell’azione mediativa per motivi attribuibili al mediatore – quando, cioè, il percorso di mediazione è declinato con modi e in maniera tali da incrementare la conflittualità già presente o, comunque, da non riuscire a contenerla -, alla presenza di una oggettivamente irriducibile ostilità tra gli attori del conflitto, oppure alla presenza di una condizione che dovrebbe precludere alla radice lo sviluppo di un percorso di mediazione familiare.

Quest’ultimo caso è, soprattutto, quello della violenza nelle sue varie forme, inclusa quella psicologica.

Non è detto che la vittima si riconosca come tale

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Occorre tenere presente, accanto alle considerazioni già svolte in un precedente post, che non è affatto detto che la donna vittima di violenza “sappia” di esserlo.

In tal caso, andrebbero esplorati aspetti vittimologici di primaria importanza. Qui ci si può limitare ad osservare che è tutt’altro che infrequente che, ad esempio, la donna vittima di violenza (sia esso “solo” o anche psicologica) patisca e soffra non soltanto per le botte e/o le minacce, ma anche per i soprusi, le umiliazioni, le restrizioni, la de-umanizzazione di cui è fatta oggetto, senza arrivare, però, a rappresentarsi come vittima di una condotta violenta, cioè di un comportamento intollerabile e inescusabile. A volte a tale mancato riconoscimento di sé come vittima di un comportamento lesivo ingiusto concorre il mancato riconoscimento, della sua condizione di vittima di violenza, da parte dei famigliari e/o degli amici o conoscenti. Spesso il mondo che la circonda le comunica che quanto le accade non è una cosa ingiusta, che è lei che la vive in maniera esasperata, che il partner ha soltanto un carattere “focoso” o “forte”, che in qualche modo “lei se le cerca”.

Neppure è raro che – per quanto sensibilmente cresciuta la consapevolezza e la preparazione degli operatori della sanità, delle forze dell’ordine, del diritto e dei servizi sociali ed educativi sull’accoglienza e il riconoscimento delle vittime di violenza – le vittime si trovino di fronte del personale che, non soltanto non le aiutano, ma, talora, addirittura, assume atteggiamenti che ne pregiudicano le possibilità di difendersi.

Tale ultimo aspetto si amplifica nel caso, decisamente complesso e drammatico, della violenza psicologica.

La (ancora largamente) misconosciuta e disconosciuta violenza psicologica

Il fenomeno della violenza psicologica nelle relazioni affettive o intime, infatti, è ancora oggi caratterizzato da scarsa attenzione e considerazione, sicché il numero oscuro relativo a tale forma di violenza costituisce tuttora un elemento problematico e segnala l’esistenza di un’inadeguata preparazione da parte della società in generale, e non soltanto dei rappresentanti di enti specifici (forze dell’ordine, autorità giudiziaria, organizzazioni sanitarie), nel rilevare questa forma di vittimizzazione. Forse per la carenza di sensibilizzazione sul tema, ne deriva che le donne vittime di questa forma di violenza perlopiù non sono supportate dal mondo relazionale che le circonda (amici, familiari, colleghi), né dalle agenzie ufficiali, nel diventarne consapevoli e, dunque, nell’essere poste nella condizione di reagire e proteggersi. Inoltre, anche quando si riconoscono come tali o sono prossime a farlo, spesso non trovano negli interlocutori più prossimi così come in quelli istituzionali più rilevanti (forze di polizia e servizi socio-sanitari) un ascolto e un supporto. Sviluppano, pertanto, un senso di abbandono, una forma di vittimizzazione secondaria, o addirittura finiscono con il colpevolizzare se stesse per le sofferenze che gli abusi procurano loro.

Qui, però ci si occupa di mediazione familiare e, a tale riguardo la questione è:

può accadere che la stessa disattenzione, la stessa sottovalutazione si verifichino nell’ambito della mediazione familiare?

L’utilità dei colloqui individuali rispetto alle situazioni di violenza psicologica (o di altro tipo) nei percorsi di mediazione familiare

La risposta al quesito di cui sopra è: sì, può accadere. Però, non dovrebbe, anzi, non deve accadere.

Ad incrementare questo rischio, tuttavia, occorre rilevarlo, potrebbe contribuire quanto previsto dal già citato disegno di legge del senatore Simone Pillon.

Ciononostante è anche doveroso riflettere sul fatto che fintantoché quel disegno di legge non venga approvato e, forse, anche quando diverrà legge, qualche possibilità di prevenzione di tale danno, invero, per chi opera nel campo della mediazione familiare sussiste.

Nel modello mediativo, definito di Ascolto e Mediazione, ad esempio, come in altri, si prevede che sempre, per tutti i conflitti presi in carico, il percorso inizi con dei colloqui separati. Sicché prima degli eventuali incontri al tavolo della mediazione tra i protagonisti del conflitto, questi sono ascoltati più volte separatamente. Succede, quindi che tali colloqui individuali svolgano proprio la funzione di accompagnare la persona vittima di violenza psicologica verso una maggiore consapevolezza circa il fatto che quella posta in essere nei suoi riguardi è una condotta violenta, non riducibile a mera divergenza di vedute, di opinioni, di interessi, ecc.

Escalation conflittuale e violenza

Infatti, il conflitto all’interno della coppia può essere interessato anche da un’escalation molto significativa, che finisce con il ridurre vistosamente le possibilità dei singoli di comunicare tra di loro e di conservare un minimo di fiducia e di rispetto reciproci, ma la violazione dei limiti individuali e l’arrecare volutamente danno ad altri non sono comportamenti assimilabili ad una mera condotta conflittuale: in tali condizioni, la condotta dispiegata è violenza. E per potersi proteggere da essa occorre avere la possibilità di riuscire a riconoscere tale situazione. Ed essere supportati nel doloroso, tormentato e angosciante percorso necessario per arrivarci.

Le conoscenze del mediatore sul fenomeno della violenza e le competenze vittimologiche

Ora tutti questi, e altri ulteriori e non meno complessi, aspetti, come già accennato, possono entrare in gioco nella pratica della mediazione, soprattutto in quella familiare. E, in tal senso, chi scrive ritiene molto importante che chi si occupa di mediazione familiare abbia quel minimo di competenze per poterli fronteggiare. Una certa padronanza di nozioni vittimologiche e la capacità di declinare degli accorgimenti pratici idonei ai fini di un basilare victim support, ad esempio, sono non solo auspicabili, ma probabilmente necessari e imperativi [1].

In mancanza di ciò, i mediatori familiari nella loro quotidianità rischierebbero, da un lato, di ravvisare la violenza psicologica quando non c’è e, dall’altro, di non riconoscerla quando c’è, scambiandola per normale conflittualità coniugale o familiare, oppure considerandola un aspetto culturale incontestabile del gruppo cui appartiene la donna [2]. Se ciò accadesse, ne risentirebbe la tutela delle persone, per lo più donne, realmente vittime di tale forma di violenza.

D’altra parte è doveroso fare presente che per i mediatori familiari è obbligatorio avvalersi di una supervisione ad hoc, così come svolgere percorsi di aggiornamento (si veda al riguardo il regolamento dell’A.I.Me.F., ad esempio).

Va da sé che in tutti i casi in cui la violenza dovesse emergere il percorso di mediazione familiare deve essere interrotto, dando luogo all’attivazione di altre iniziative di sostegno.

Quindi, appare più che opportuno che i mediatori familiari siano in grado di connettersi agevolmente con le realtà del territorio che si occupano di violenza.

In conclusione, non tutti i conflitti sono mediabili, e probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore familiare potesse permettersi di pensare con Goethe:

su tutte le vette è pace”.

D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.

 

Alberto Quattrocolo

 

Rielaborazione da

– lezioni di A. Quattrocolo nella XII Edizione del Corso in Mediazione Familiare e nella XII Edizione del Corso in Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

– formazioni di Silvia Boverini e A. Quattrocolo nel progetto “Eyes Wide Open. Cicli di incontri gratuiti sulla violenza psicologica sulle donne”, realizzato nel 2016 con il contributo e il patrocinio della Circoscrizione I della Città di Torino

Il presente articolo è stato pubblicato su www.studiocataldi.it (https://www.studiocataldi.it/articoli/32578-la-mediazione-familiare-va-sospesa-nei-casi-di-violenza-psicologica.asp). Una versione più contenuta dello stesso contributo è stata pubblicata su www.ilsussidiario.net (https://www.ilsussidiario.net/news/cronaca/2018/11/25/quattrocolo/1813093/).

[1] Ciò, anzi, pare al sottoscritto ancora più urgente e imperativo ponendo mente al disegno di legge proposto dal senatore Pillon, con specifico riguardo al tema della mediazione familiare come condizione di procedibilità per la separazione giudiziale, la quale, infatti – fatta salva l’ipotesi di modifiche particolarmente incisive -, si profila come fortemente stridente con il divieto posto dalla Convenzione di Istanbul, che, giova ripeterlo, l’ordinamento italiano ha doverosamente oltre che saggiamente recepito.

 

[2] Ad esempio, è essenziale per il mediatore familiare non confondere le situazioni di violenza psicologica con le tensioni, le ostilità, le rigidità contrapposte, le difficoltà di comunicazione, le incomprensioni e le sofferenze tipiche delle dinamiche conflittuali non violente. E, allo stesso tempo, occorre prevenire il rischio di considerare le tradizioni, la mentalità, gli usi o i costumi della coppia che si sta seguendo – non necessariamente costituita da persone di origine straniera – come fattori che escludono la presenza di tale forma di violenza.

Emilio Alessandrini, pubblico ministero ucciso da Prima Linea

Il 29 gennaio del 1979 un altro magistrato perdeva la vita per mano delle persone su cui stava indagando (pochi giorni fa abbiamo ricordato l’omicidio del Pubblico Ministero Montalto). Alessandrini, infatti, era giunto ad occuparsi di eversione rossa dopo aver affrontato il terrorismo di colore politico opposto, nella fattispecie con l’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, all’inizio degli anni 70.

Forse furono le sue indagini sull’Autonomia operaia milanese ad attirargli le attenzioni di Prima Linea, organizzazione che contribuì, insieme alle Brigate Rosse, ad attribuire il tristemente noto nome di Anni di piombo a quel periodo del nostro Paese. Quel piombo che raggiunse il sostituto procuratore di Milano una mattina d’inverno, da poco salutato il figlio che entrava a scuola: morì sul colpo. Alla redazione de La Repubblica furono i primi a sapere della rivendicazione di Prima Linea, che chiamò direttamente in sede. Due giorni dopo i volantini confermarono l’attribuzione di responsabilità.

Fu Roberto Sandalo, terrorista pentito, a imprimere la svolta decisiva alle indagini: rivelando i membri del commando, permise di inserire anche questo crimine all’interno del procedimento instaurato per tutta l’attività svolta dall’organizzazione terroristica tra il ’76 e l’80. Nel 1983 si concluse l’istruttoria e furono rinviati a giudizio ben 124 indagati. La Corta d’Assise di Torino impiegò sette mesi ad emettere sentenza, all’interno della quale non mancarono diversi ergastoli.

Con questo e altri processi di quegli anni, Prima Linea si sciolse ufficialmente, ponendo fine a una parte della lotta armata che tanto sangue ha versato.

Alessio Gaggero

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La tortura libera il Generale Dozier dalle BR

Verona, 17 dicembre 1981. Il Generale statunitense James Lee Dozier, all’epoca comandante NATO per l’Europa meridionale, viene improvvisamente rapito da un Commando delle Brigate Rosse, mentre si trova nel suo appartamento con la moglie.

Ci vorranno circa quaranta giorni perché possa vedere nuovamente la luce del sole da uomo libero. Quaranta giorni in cui, come facilmente immaginabile, la pressione nazionale e internazionale gravava come un macigno sugli agenti e gli ufficiali responsabili delle indagini: il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza), corpo speciale della Polizia di Stato, riuscì nell’impresa con un’incursione nell’appartamento dove era tenuto il militare americano, a Padova, arrestando tutti i terroristi. Più di un mese passato col fiato sospeso, che si concluse con un successo delle forze dell’ordine: arrivarono addirittura le congratulazioni direttamente dal Presidente americano, Ronald Reagan.

La storia, però, non finisce quel 28 gennaio 1982.

Si dice che fu proprio quella “sconfitta” a segnare l’inizio del declino del terrorismo rosso, ma che prezzo fu pagato? Già allora qualche domanda iniziò ad affiorare alla superficie, ma un giornalista de L’Espresso fu arrestato per calunnia.

Buona parte di verità emerge solo a distanza di decenni, quando Salvatore Genova, ormai protetto dalla prescrizione, decide di rivelare ciò che avvenne in quei giorni. Le parole del commissario di Polizia, coinvolto insieme a molti altri colleghi e alte sfere, lasciano poco spazio all’immaginazione:

Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare.

Racconta che gli ordini arrivavano dall’alto, che non furono iniziativa degli agenti: ricevettero il via libera dal Ministero, tramite il Prefetto, e non si fecero ulteriori scrupoli. La questione ruotava solo intorno all’avere protezione se qualcosa fosse trapelato. In effetti, così andò.

Nazareno Mantovani, un fiancheggiatore, fu il primo a cadere preda dei “quattro dell’Ave Maria”, come veniva chiamata la squadra preposta alle maniere forti. Guidati da Nicola Ciocia,

Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.

Dopo Mantovani, è la volta della BR Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli. Così continua Genova:

Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie.

Alla fine, dopo il trattamento ad acqua e sale, Volinia rivela l’ubicazione di Dozier, e la storia si conclude.

Una vicenda buia del nostro Paese, che però, forse, ha contribuito, insieme alla condanna del 2015 da parte della Corte europea dei diritti umani, a cambiare la legge. Nel 2013, infatti, a un anno dalle dichiarazioni del commissario Genova, è iniziato l’iter parlamentare della ddl contro la tortura, di cui eravamo sprovvisti. Il percorso è giunto al termine a luglio 2017, lasciando insoddisfatto anche chi ha firmato la proposta stessa, ma, quantomeno, ha posto il problema sotto i riflettori.

In sostanza, oggi, in Italia, è punibile chi:

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[…] con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa…, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Certamente, rimangono controversi i passaggi riguardanti la verificabilità del trauma psichico e le condotte ripetute, per citarne alcuni. Il Parlamento ha senz’altro da lavorare ancora sul tema.

Alessio Gaggero

 

Oggi è il 27 gennaio

L’Associazione Me.Dia.Re. si unisce a tutti coloro che il 27 gennaio onorano la memoria della Shoah. Lo fa per esprimere rispetto e vicinanza a chi ancora oggi soffre per quegli orrori e ai milioni ai quali fu tolta la vita.

Ma Me.Dia.Re. si associa alla commemorazione delle vittime dell’Olocausto anche perché ritiene che, se è sempre fondamentale ricordare, anche per evitare che quel passato si ripeta, oggi, lo è ancora di più, visti che paiono moltiplicarsi gli sforzi dei negazionisti dichiarati e di coloro che intendono ridimensionare, sminuire, relativizzare… negare.

Oggi, crediamo, occorre ricordare bene. Ricordare non solo a cosa portò il nazismo, ma anche come iniziò quell’orrore, rammentando anche come in realtà l’intenzione criminale che venne poi compiuta fosse stata preannunciata esplicitamente . Non solo nel Mein Kampf (che fu pubblicato vent’anni prima che l’Armata Rossa, il 27 gennaio del ’45, arrivasse ad Auschwitz), ma in tutta la campagna d’odio dispiegata da Hitler e dai suoi collaboratori e seguaci prima di dare il via allo sterminio.

Oggi, dunque, è indispensabile ricordare che il nazismo (prendendo a modello il fascismo italiano) aveva fin dal principio offerto al popolo – frustrato, arrabbiato e impoverito da una lunga e spaventosa crisi – qualcuno da incolpare. E le colpe del disastro sociale non erano attribuite all’iniqua distribuzione della ricchezza, oppure al nazionalismo esasperato che aveva scaraventato il mondo nella prima guerra mondiale. La colpa, veniva detto, era degli ebrei, dei rom, dei partiti, del sistema parlamentare, dei liberali, dei comunisti, dei democratici, dei socialdemocratici, dei sindacati, dei banchieri (specie se ebrei), della finanza internazionale, dei governi stranieri, della Società delle Nazioni… Il nazismo indirizzò la rabbia verso questi e altri bersagli e ne selezionò alcuni, i meno potenti e perciò i più indifesi, per farli diventare agnelli sacrificali. E l’operazione funzionò.

Solo ricordando, secondo noi di Me.Dia.Re., si può contrastare la sleale, cinica e opportunista propaganda di chi, per calcolo politico o per ottusità, da sempre tenta di  negare la verità di quella tragedia immane. E si può smascherare chi cerca di impedire che la memoria collettiva aiuti a riconoscere la natura delle atrocità commesse allora, come quella di altre, perpetrate in altri luoghi e tempi, incluse quelle in corso ai giorni nostri.

Ci riferiamo a chi non vuole che si scorgano alcuni elementi comuni tra i discorsi e i comportamenti intrisi di odio e violenza di oggi e le campagne di demonizzazione degli anni Trenta del Novecento. Tra questi elementi figura anche l’oscuro e indicibile scopo di acquisire o estendere il potere, manipolando le emozioni e i sentimenti dei cittadini.

Per ricordare quel che significa il 27 gennaio, rimandiamo ad uno spezzone tratto dal film Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961, di Stanely Kramer). Il film racconta un processo fittizio a carico dei funzionari della Giustizia del Terzo Reich, nell’ambito di quel processo di Norimberga, che, invece, realmente si svolse a carico di coloro che erano accusati di aver commesso crimini contro l’umanità. In Vincitori e vinti la sequenza più sconvolgente è quella in cui si vedono i filmati girati dai nazisti sulle mostruosità da esse commesse nei campi sterminio. Qui, però, ne proponiamo un’altra: il monologo di un imputato, un ex giudice, accusato con altri suoi colleghi, di aver violato i più elementari diritti umani, nell’esercizio delle sue funzioni durante il regime nazionalsocialista. Questo imputato (Ernst Janning, interpretato da Burt Lancaster) tenta di spiegare a coloro che lo devono giudicare come fu possibile che “persone normali”, anche particolarmente avvedute,  potessero varcare soglie così estreme di disumanità.

Alberto Quattrocolo

1944, viene ucciso il partigiano Felice Cascione, autore di “Fischia il vento”

È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone.
(B. Fenoglio, “Il partigiano Johnny”)

Tra i boschi, nel Comune di Stellanello (SV), coperto dalla vegetazione incolta, sorge un vecchio casolare. All’apparenza non è che un rudere, ma sul finire del 1943 il casone di “Passu du Beu” fu il rifugio della banda di partigiani di Felice Cascione e proprio lì fu ideato “Fischia il vento”, inno dapprima della Divisione Garibaldi e poi della Resistenza tutta. A riscoprire il luogo è stata l’associazione “Eppur bisogna andar”, che si propone di recuperare e valorizzare i siti, i sentieri, i manufatti che hanno segnato il difficile cammino di giustizia e dignità dei partigiani della “I Zona Operativa Liguria”.

Teatro di un possibile sbarco alleato, strategica via di transito lungo la dorsale tirrenica e attraverso i valichi appenninici, l’intera regione ligure mantiene, per tutto il periodo della lotta di Liberazione, una posizione centrale e strategica per le forze naziste di occupazione. L’entroterra  montuoso, con  i  contrafforti  delle  Alpi  Liguri, è il naturale scenario della Resistenza armata, resa possibile, per venti mesi, dal sostegno delle popolazioni rurali, che pagano a fianco dei partigiani un alto prezzo in privazioni e ritorsioni nazi-fasciste, con la perdita di numerose vite umane, circa 650 solo tra i civili, oltre a deportazioni e distruzioni di interi paesi.

Nel dicembre del 1943, poco più di venti giovani partigiani della divisione garibaldina al comando di Felice Cascione – per tutti “u Megu” (il medico) – cominciano a percorrere un sentiero che sale da Casanova Lerrone, entroterra di Albenga, verso le prime pendici delle Alpi Marittime. Su quel sentiero, questo gruppo di ventenni alla guerra cammina di notte, si ferma di giorno, nei casoni dove si ripara il bestiame, o dove i contadini tengono gli attrezzi o qualcosa per affrontare la fame della guerra.

Cascione ha solo 25 anni, bello e carismatico come dev’essere un eroe; orfano di padre in tenera età, cresce con la madre, maestra elementare determinata e antifascista, che riesce a farlo studiare. È uno sportivo, campione italiano di nuoto e pallanuoto: capitano della squadra imperiese del Gruppo Universitario Fascista e secondo ai Mondiali con la nazionale universitaria, lascia Genova per la Sapienza a Roma e infine si laurea in Medicina a Bologna nel ’42, in fuga dalla burocrazia fascista che lo ostacolava negli esami e nelle graduatorie per un posto alla Casa dello Studente.

Il giovane Felice era nel mirino per le sue frequentazioni, che lo avevano introdotto nel partito comunista clandestino e presentato a Natta e Pajetta: decide di aderire al partito ancora prima di essere medico, la sua scelta di vita. Appena laureato, diventa subito popolare a Oneglia perché non fa pagare medicine né visite a chi ha bisogno e non ha soldi. Arrestato con la madre durante le manifestazioni successive alla caduta di Mussolini, nell’agosto del ‘43 sconta venti giorni di prigione per adunata sediziosa e, dopo l’armistizio, si rifugia sui monti coi compagni.

Tra loro c’è Giacomo Sibilla detto Ivan, operaio che ha fatto la campagna di Russia e porta una chitarra a tracolla accanto al mitra. È lui che la sera, nei casolari diroccati, strimpella Katjuša, la celebre melodia popolare russa; il testo del poeta Isakovskij parlerebbe di meli e peri in fiore, ma già i soldati italiani nella steppa l’avevano storpiato con riferimenti al vento e alle loro scarpe di cartone. “U Megu” s’ingegna a riadattarlo, per questa nuova guerra.

La canzone viene scritta su un foglietto staccato da un ricettario medico, il suo; nevica, fa freddo, la tramontana scura urla sui costoni.

Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita, in calligrafia ordinata.

Cascione la spedisce dai monti liguri alla mamma Maria, che gliela fa riavere corretta e dattiloscritta: soffia è diventato fischia, agir è ardir, e la primavera non ha più punto interrogativo, non è più nostra ma rossa. La prima volta viene intonata dalla brigata di Cascione davanti al portone della chiesa di un borgo isolato in valle Arroscia, dopo la messa della vigilia di Natale, davanti a un pentolone di castagne; la ricanteranno, questa volta completa, davanti alla chiesa di Alto, il giorno dell’Epifania del ‘44.

Pochi giorni più tardi Cascione viene trucidato dai fascisti, dopo solo 141 giorni di lotta partigiana, mentre i suoi versi, cantati di bosco in bosco, diventano l’inno ufficiale della Resistenza, prima ancora della più trasversale “Bella ciao”.

Il partigiano Tonino Simondi, guardia del corpo di “u Megu”, rievoca le circostanze che ne provocarono l’uccisione il 27 gennaio 1944:

Erano circa le 6,30 del mattino e faceva un gran freddo. Eravamo in allerta per possibili attacchi tedeschi perché due giorni prima era scappato uno dei prigionieri fascisti catturati nella battaglia di Montegrazie. Il Battaglione tedesco ci attaccò con mezzi pesanti dal basso, nello scontro a fuoco Cascione fu ferito ad una gamba, rifiutò ogni tipo di soccorso per non mettere a repentaglio le nostre vite e per non pregiudicare la nostra ritirata. Ci ordinò […] di scappare verso Alto per mettere in salvo la banda. Ci siamo diretti per la mulattiera che portava verso Ormea e quando abbiamo saputo che Cascione era stato ucciso, ci siamo messi a piangere come dei bambini.

Qualche settimana prima, dopo un conflitto a fuoco il gruppo di “u Megu” aveva catturato il tenente Luciano Di Paola e il milite Michele Dogliotti, entrambi appartenenti alla Guardia Nazionale Repubblicana. Cascione ne impedisce l’esecuzione, proponendo di avvicinarli alla causa partigiana e portarli in banda, perché studino, capiscano la vita e le scelte dei partigiani:

Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo, come posso acconsentire a dare la morte a due persone che hanno errato perché non hanno avuto, come noi, la fortuna di essere educati alla libertà, alla bontà, alla giustizia? I due prigionieri hanno salva la vita.

Il reparto di Cascione si sposta in valle Arroscia; in occasione del Natale e del Capodanno, nonostante il parere contrario degli altri partigiani, Cascione vuole che alla cena siano presenti anche Di Paola e Dogliotti. Il 7 gennaio ‘44 i due prigionieri, condotti a una pozza d’acqua, riescono a disarmare il partigiano che li sorveglia e, nella colluttazione che ne segue, Dogliotti fugge e raggiunge a piedi la caserma della Milizia di Albenga. Cascione immediatamente ordina di smobilitare l’accampamento per sfuggire a un eventuale rastrellamento e il gruppo si trasferisce in località Case Fontane di Alto, nel basso Cuneese.

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Il 27 gennaio, alle sette del mattino una colonna tedesca cui erano aggregati anche dei fascisti raggiunge e occupa la sede del comando partigiano. Nel tentativo di recuperare i documenti conservati all’interno, Cascione viene ferito gravemente a una gamba; secondo fonti partigiane viene preso prigioniero e immediatamente fucilato dai fascisti aggregati, ma secondo altre versioni potrebbe essere morto in battaglia o suicida per evitare la cattura. Nella motivazione ufficiale per la Medaglia d’oro al Valor Militare, conferitagli postuma, si legge:

Ferito in uno scontro con preponderanti forze nazifasciste rifiutava ogni soccorso e rimaneva sul posto per dirigere il ripiegamento dei suoi uomini. Per salvare un compagno che, catturato durante la mischia, era sottoposto a torture perché indicasse chi era il comandante, si ergeva dal suolo ove giaceva nel sangue e fieramente gridava: «Sono io il capo». Cadeva crivellato di colpi immolando la vita in un supremo gesto di abnegazione.

La brigata, ampliata da nuove forze e inquadrata nella struttura organizzativa della Resistenza, prenderà poi il nome di II Divisione Garibaldi “Felice Cascione”.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; E. Marrese, “Felice che acchiappò il vento e lo fece poi fischiare”, https://genova.repubblica.it; www.targatocn.it; “Fischia il vento per il comandante Megu”, http://leca.anpi.it; F. Moriani, “La Resistenza nell’imperiese (1943-1945)”, www.provincia.imperia.it; www.isrecim.it; http://eppurbisognaandar.blogspot.com; www.memoranea.it/luoghi/liguria-sv-albenga-museo-della-resistenza

Paul Newman, un uomo oggi

Paul Newman, una delle più amate superstar del cinema mondiale, fu molto più di questo. Fu molto più di un attore, di un  grande attore. Fu un uomo del suo tempo.

«Ciò che vorrei scritto sulla mia tomba», disse una volta, «è che sono stato parte della mia epoca».

«Tranquillo, Paul, lo sei stato. Eccome se lo sei stato», verrebbe da rispondergli. In primo luogo perché non perse mai il contatto con la realtà [1]. Non solo nel senso che “non si montò la testa”, ma, soprattutto, in quanto restò sempre saldamente collegato a quanto accadeva nel mondo reale, cercando di intervenire, di migliorarlo. Inoltre, non passò la vita soltanto sui set cinematografici o sui palchi dei teatri. La visse, e la visse davvero fino in fondo, in tanti altri ambiti. E, infine, considerandosi baciato dalla dea bendata della fortuna, la ridistribuì per condividere i benefici che l’esistenza gli aveva concesso.

 

Fortunato dalla nascita, ma determinato

Era nato il 26 gennaio del 1925. Silenzioso e un po’ insicuro, fisicamente goffo e magrolino, da ragazzino, Paul Newman avrebbe potuto restare al sicuro nel mondo tranquillo, iper-protetto e un po’ chiuso, in cui nacque e crebbe. Invece, complice la fortuna e una tenacia inossidabile, sgusciò fuori alla ricerca di sé e di qualche verità, per scomoda che fosse [2].

A Shaker Hieghts nei pressi di Cleveland, Ohio, trascorse un’infanzia serena. Anche se non si sentiva mai del tutto a suo agio e aveva una scarsa considerazione di sé. Era poco portato per gli sport e la sua goffaggine lo portava spesso a farsi male. «Mi attiravo gli accidenti», ricordò in seguito [3]. Inoltre, cresceva poco. A sedici anni pesava 45 kg e superava appena il metro e mezzo d’altezza. Anche se poi arrivò a misurare 1,77 cm, una sorta di complesso di inferiorità legato alla bassezza non lo lasciò mai del tutto [4].

Salvato da un mal d’orecchi

Dopo un anno di college, nel ‘43 si arruolò volontario in marina per combattere il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Voleva fare il pilota, ma essendo daltonico lo misero a fare il radiofonista e il tiratore e lo spedirono sul fronte del Pacifico. Nel maggio del ’45 avrebbe dovuto partecipare con la sua squadra ad un’esercitazione di atterraggio, lunga alcuni giorni, sulla portaerei Bunker Hill, ma quel mattino il pilota del suo aereo si svegliò con il mal d’orecchi e non poterono partecipare. Due giorni dopo, due piloti kamikaze giapponesi lanciarono i loro aerei sulla Bunker Hill: morirono circa 400 americani, inclusi tutti i suoi 15 compagni di squadra [5].

La tenacia e… ancora la fortuna

Tornato al College nel ’46, aveva ormai un fisico decisamente invidiabile. Ma non aveva perso un grammo di quell’umiltà che gli aveva trasmesso il padre come un valore e che egli aveva trasformato in un aspetto caratteriale, sconfinante in una scarsa autostima [6]. Così si sforzava di recitare. Era il solo mezzo che avesse per sentirsi degno di attenzione, però gli costava moltissimo. «Ero impacciato, non riuscivo a farcela. Però volevo recitare» [7]. Entrò nel giro delle compagnie teatrali, dove conobbe Jackie Witte. Si sposarono nel dicembre ’49 e insieme ebbero tre figli [8]. Sognava di diventare insegnante di recitazione. Ma nell’estate del ’52 i suoi maestri lo spinsero a ad andare a New York. E qui bruciò le tappe. Divenne un attore apprezzato della televisione e ancor di più a Broadway [9]. Incontrò una giovane bravissima attrice, Joanne Woodward, e se ne innamorò. Restò con lei per tutta la vita [10]. Intanto si iscrisse all’Actors Studio, dove si applicò con ferrea autodisciplina [11]. La Warner Bros. lo notò e gli offrì un contratto.

Il diritto-dovere di schierarsi

Ma in quei primi anni Cinquanta la politica, soprattutto il suo lato osceno e disumano, penetrava ovunque, arrivando a condizionare perfino i rapporti personali, oltre che quelli di lavoro e sociali. Molti suoi conoscenti, alcuni già affermati, erano finiti vittime delle “liste nere”. Cioè, venivano perseguiti legalmente ed emarginati dal lavoro e dalla comunità, in quanto tacciati di comunismo e anti-americanismo. Spesso per il solo fatto di aver espresso una certa sensibilità verso il disagio e l’esclusione sociale, o per avere appoggiato iniziative antifasciste e antinaziste prima della guerra, oppure per avere partecipato o finanziato i movimenti per i diritti civili [12]. Paul Newman, consapevole di mettere a rischio la carriera appena, e così felicemente, avviata, si schierò  [13]. E sia nelle primarie democratiche che nella campagna elettorale per le presidenziali del ’52, s’impegnò a favore di Adlai Stevenson (che fu sconfitto dal candidato repubblicano Dwight Eisenhower). Cioè, proprio il candidato democratico più bersagliato dalla destra, soprattutto da quella più fanatica o più cinica, la quale, per screditarlo, non esitava ad accusarlo di essere un comunista e un traditore.

«Paul Newman chiede scusa tutte le sere, questa settimana, sul nono canale»

Il suo primo film a Hollywood fu un kolossal dai costi spaventosi e dalla bruttezza rara. Il calice d’argento (1954, di Victor Saville), uscito a Natale del ’54, fu snobbato dal pubblico e stroncato dalla critica, che recensì negativamente anche la sua performance, qualificandolo come un emulo di Marlon Brando pateticamente inespressivo [14]. Conscio di aver recitato male in un pessimo film, quando apprese la decisione di una rete televisiva di Los Angeles di trasmetterlo per un’intera settimana, Paul Newman mise un’inserzione sui giornali: «Paul Newman chiede scusa tutte le sere, questa settimana, sul nono canale». Intanto «riportami subito a Broadway», scriveva al suo agente. Due mesi dopo prese parte alla commedia che salvò la sua carriera: Ore disperate. La sua interpretazione elettrizzò le platee e suscitò le lodi unanimi dei critici.

Al posto di James Dean

Il suo compagno di scuola dell’Actor Studio, James Dean, intanto stava diventando una leggenda, ma il 30 settembre del ’55 si schiantò fatalmente sulla sua auto, poco prima di cominciare a lavorare in un dramma televisivo in diretta. La parte fu assegnata a Paul Newman [15]. Egli risultò così convincente (nella parte di un pugile, irrimediabilmente deviante, di cui si ripercorre la ventennale carriera dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle), da indurre Robert Wise, che doveva dirigere Lassù qualcuno mi ama (del film abbiamo parlato anche qui su questa rubrica, Corsi e Ricorsi), sulla vita di un pugile italo-americano, a contattarlo immediatamente. Anche quel film avrebbe dovuto essere interpretato da James Dean. Ebbe, così, inizio la carriera di una delle più acclamate e redditizie star del cinema mondiale.

Ribelle per una causa

Interpretando pellicole entrate a pieno titolo nei successi intramontabili della storia del cinema, Paul Newman, portò avanti la sua battaglia per i valori e i principi in cui credeva [16].

La critica di costume

Nella vita privata era un progressista attivamente impegnato in politica e nel sociale, ma sullo schermo rappresentava molto spesso personaggi caratterizzati dall’indifferenza verso il prossimo e dal qualunquismo. Individui astuti, alla ricerca di scorciatoie, anche illecite, pur di vincere la corsa al successo, e mossi da un individualismo sfrenato. Un individualismo, in ultima analisi, tanto conservatore e conformista, quanto materialista e autodistruttivo [17].

Il lato oscuro della mentalità dominante

Da La lunga estate calda (1958, di Martin Ritt) a I segreti di Filadelfia (1959, di Vincent Sherman), da Dalla terrazza (1960, di Mark Robson) a Lo spaccone (1961, di Robert Rossen), da La dolce ala della giovinezza (1962, di Richard Brooks) a Hud, il selvaggio (1963, di Martin Ritt), i suoi personaggi erano quanto di più moralmente e socialmente spregevole l’uomo Paul Newman potesse immaginare. Ambiziosi, intimamente frustrati e talmente terrorizzati dal finire nel novero dei falliti, cioè di coloro che “non ce l’hanno fatta”, da essere disposti ad ogni sorta di bassezze, raggiri e furbizie. Ostentavano freddezza, arroganza e sarcasmo, abilmente mescolati con quel tanto di attrattiva e sfrontatezza che gli consentivano di approfittare dei sentimenti più genuini di coloro che per qualche ragione li amavano o li ammiravano [18].

La critica politica

Sul finire degli anni Sessanta e, in particolare, dal ’67 l’oggetto della sua contestazione, sul piano cinematografico, divenne sempre più esplicitamente politico. Nel ’67 uscirono Hombre (di Martin Ritt) e Nick mano fredda (di Stuart Rosenberg). Il primo era un ritratto al vetriolo del razzismo, dell’ipocrisia e dello sfruttamento da parte della società bianca nei confronti delle minoranze (nativi americani e messicani). Mentre il secondo, una delle sue interpretazioni più celebri ed iconiche, era un preciso ed esplicito atto di accusa nei confronti del fascismo, appena mascherato, e della disumanità sadica dell’universo carcerario e, più in generale, del sistema penale americano [19]. Nel ’70 produsse e interpretò, accanto alla moglie Joanne Woodward e ad altri attori superlativi, come Anthony Perkins e Laurence Harvey, Un uomo oggi (di Stuart Rosenberg), il cui titolo originale era WUSA. Un film talmente sincero, scomodo e urticante da non riscuotere alcun successo commerciale [20].

WUSA

A differenza degli altri personaggi precedentemente interpretati, il protagonista di Un uomo oggi aveva una penosa aggravante morale: la lucida consapevolezza di aver scelto il lato corrotto della barricata. La sceneggiatura non offriva alcuna scusa, infatti, allo speaker radiofonico, interpretato da Paul Newman. Un intellettuale, i cui valori sarebbero quelli della Costituzione, che, pur di restare a galla, si mette al servizio di un’organizzazione di estrema destra (la WUSA, appunto). Un partito impegnato nel promuovere una forma esasperata di americanismo, attraverso una campagna mediatica che soffia sui temi della paura, dell’insicurezza e del disagio dei bianchi anglosassoni e protestanti, e che, con la corruzione e altre losche manovre, aggrava volutamente disagi e tensioni sociali. Il personaggio di Newman è assolutamente conscio delle menzogne e delle distorsioni che la WUSA propone alla popolazione bianca, ma non esita a collaborare con i suoi datori di lavoro nell’indirizzare la rabbia verso un capro espiatorio da odiare e nel fomentare la violenza e la paranoia razziste contro la minoranza nera e immigrata.

Antirazzista, pacifista ed ecologista di sinistra

I suoi ideali erano quelli di un democratico di sinistra (un liberal) e Paul Newman li affermava e sosteneva anche quando ciò significava mettersi contro il potere o scontare un minore gradimento da parte del pubblico e, quindi, un peggioramento degli esiti commerciali dei film in produzione o in distribuzione. Così, fin dai primi anni Sessanta, con altri divi (Sidney Poiter, Harry Belafonte, Sammy Davis Jr, James Garner, sua moglie Joanne Woodward, Rita Moreno, Marlon Brando, Charlton Heston, Shirley MacLaine, Tony Curtis, Jack Lemmon, Warren Beatty, Anthony Franciosa…), sostenne Martin Luther King e si impegnò costantemente come attivista e sostenitore del movimento antirazzista. La sua partecipazione alla lotta degli afro-americani per l’affermazione dei diritti civili fu ripagata dai proprietari dei cinema del Sud, con il rifiuto di proiettare i suoi film nelle loro sale, e da moltissimi media di destra, con l’accusa di anti-americanismo e tradimento. Successivamente non esitò a schierarsi attivamente contro la guerra in Vietnam, e fu uno dei primi a dedicarsi seriamente e instancabilmente alle battaglie sul fronte dei diritti sociali e su quello dell’ecologia.

L’onore di essere tra i primi venti della lista nera del Presidente degli Stati Uniti

Nel ’60 appoggiò un altro liberal, lo scrittore Gore Vidal, candidato al Congresso, oggetto di pesanti tentativi di delegittimazione da parte della destra, che lo accusava di filo-comunismo. Nel ’68 finanziò e partecipò alla campagna del senatore democratico Eugene McCarthy (dichiaratamente avverso alla guerra in Vietnam), concorrente del candidato repubblicano Richard M. Nixon. Contro costui Paul Newman si schierò anche nelle elezioni del ’72. Dapprima parteggiando per Pete McCloskey, il rivale repubblicano (di area liberal moderata) di Nixon alle primarie del Partito Repubblicano, poi sostenendo il candidato democratico George McGovern. Com’è noto le elezioni assegnarono a Nixon un secondo mandato come presidente. Per questo attivismo, caratterizzato non solo dall’erogazione di fondi, ma anche dalla partecipazione a dibattiti pubblici, conferenze e dall’apparizione in messaggi televisivi di propaganda, fu in seguito incluso da Richard Nixon nella sua “lista dei nemici”. Quando, nel ’73, durante le indagini sul Watergate, divenne di dominio pubblico che egli, con l’etichetta di pericoloso «radical-liberale», era inserito in questa lista nera, redatta segretamente dai collaboratori di Richard Nixon (contenente i nomi di coloro che erano definiti nemici pericolosi per il presidente), Paul Newman dichiarò che quella deprecabile dimostrazione di autoritarismo paranoico era per lui l’equivalente di un premio.

Ecologia e solidarietà sociale

Paul Newman considerava il suo inserimento nella lista dei nemici di Nixon come un inequivocabile attestato di aver militato dalla parte giusta. Gli spiaceva soltanto che suo padre, morto oltre vent’anni prima, non potesse inorgoglirsi per tale “riconoscimento”. Disse, inoltre, che la cosa era per lui più appagante di quell’Oscar cui era stato più volte candidato ma che continuava a sfuggirgli [21].

L’appoggio a Jimmy Carter e la lotta alle lobby petrolifere

Nel ’77, mentre girava Colpo secco (di George Roy Hill), un’opera di denuncia sulla corruzione nel mondo dello sport generata dalle logiche del profitto), divenne membro fondatore della Energy Action Caucus, un gruppo che cercava di contrastare l’influenza politica delle lobby petrolifere e stimolava l’attenzione del pubblico sui danni ambientali provocati da industrie petrolifere irresponsabili. Intanto appoggiava senza successo Ramsey Clark, candidato senatoriale democratico. Mentre a gennaio partecipò al gala per l’elezione del democratico Jimmy Carter alla presidenza degli USA (di cui aveva sostenuto la campagna l’anno precedente). In quell’occasione il suo vecchio amico e irriducibile avversario politico John Wayne, dichiarò la propria fedeltà al nuovo presidente come membro di una leale opposizione. Paul Newman osservò che quello era stato il momento più alto della serata.

Il sostegno economico alle iniziative umanitarie ed educative e per la libertà di espressione di culto e di stampa

Con lo scrittore Aaron Edward Hotchner, nel 1982, Paul Newman fondò la “Newman’s Own“, un’azienda alimentare specializzata in produzioni biologiche, che in breve ebbe un successo commerciale impressionante. I ricavi furono sempre interamente devoluti in beneficenza per scopi umanitari ed educativi. Inoltre con il PEN American Center, la Newman’s Own finanziò fino al 2006 un premio annuale di 20.000 dollari riservato al cittadino statunitense che aveva più coraggiosamente difeso il “primo emendamento” della costituzione statunitense, relativo alla libertà di espressione, di culto e di stampa.

Il sostegno per i bambini malati

Nel 1988 fondò l’Associazione “Hole in The Wall Camps (il nome è ispirato a quello della banda di Butch Cassidy), per realizzare dei programmi di terapia ricreativa per bambini gravemente malati. Il progetto, avviato nel Connecticut, fu poi diffuso anche in Europa, inclusa l’Italia, e in Africa  [22].

La vita a modo mio

Nonostante la tendenza a sfruttare la propria celebrità per le cause in cui credeva, Paul Newman era piuttosto riservato e taciturno nella vita privata, specie nelle relazioni affettive. Imparò il valore di comunicare i propri sentimenti, ma vi arrivò troppo tardi, e forse fu questo a rendere particolarmente tormentato suo figlio Scott, che morì di overdose. Paul Newman non si perdonò mai, ma seppe mettersi radicalmente in discussione come padre, come marito e come uomo.

L’uomo che dentro di sé non credeva realmente di essere Paul Newman

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Del resto, non gli mancavano le contraddizioni. Aveva un fisico eccezionalmente tonico, anche da ultracinquantenne, grazie alla costante attività fisica e al cibo sano, ma si scolava decine di birre ogni giorno [23]. Il suo viso e, soprattutto, i suoi occhi, fin da giovane di una bellezza non comune, con il trascorrere del tempo diventavano sempre più belli, però del suo sex-appeal egli era assai poco consapevole.

Disse di lui il cronista sportivo Jim Murray: «è probabilmente l’unico uomo in America che non vorrebbe essere Paul Newman». William Goldman, che scrisse la sceneggiatura di due suoi immensi successi Detective’s Story e Butch Cassidy, si espresse in maniera analoga: «Non penso che Paul Newman dentro di sé creda realmente di essere Paul Newman».

«È stato un privilegio essere qui» (Paul Newman)

Paul Newman verso la fine della sua vita si era ormai convinto che l’eredità più importante che lasciava su questa terra erano quei campeggi per i bambini e i ragazzi malati. Ma il suo non era orgoglio, bensì gratitudine. Era diventato nonno nel ’96 e, in generale, si era ammorbidito.

«Mi sento più agio nella mia pelle. Non cerco più di nascondermi», spiegò.

Nel 2007 la sua salute divenne un po’ meno salda di quanto non fosse stata fin ad allora.

«Vado dal dottore una volta all’anno per farmi scorticare la faccia. Fa malissimo. È quella che chiamano crescita pretumorale. Una delle cose a scelta che vengono con l’età».

Verso la fine dell’anno gli diagnosticarono un cancro ai polmoni. Però continuava a sentirsi fortunato. Il 26 gennaio festeggiò l’83esimo compleanno e il 29 le nozze d’oro.

«Mi sento un privilegiato ad amare questa donna», disse. «Il fatto di essere sposato con lei è la gioia della mia vita».

Durante una visita con Joanne – l’ultima – al campeggio per i bambini di Ashford, con commossa gratitudine, disse: «Riesco ancora a sentire le risate dei bambini».

Morì il 26 settembre del 2008. Pochi giorni prima seduto in giardino insieme alle figlie, con la sua voce roca e grave, disse: «è stato un privilegio essere qui».

«Aveva piazzato l’asticella troppo in alto per il resto di noi. Non solo noi attori, tutti noi»: si espresse così George Clooney, quando apprese la notizia della morte di Paul Newman.

Alberto Quattrocolo

[1] Fin dall’inizio del suo successo cinematografico rifiutò di adeguarsi allo stile di vita hollywoodiano. Di quei simboli (ville enormi, coperte di visione, interviste, feste…), non sapeva cosa farsene, tanto che non abitò mai a Hollywood. Si vestì sempre in modo informale. Espresse le sue opinioni politiche quando il farlo equivaleva a “suicidarsi” professionalmente e socialmente. Schivò ogni esibizionismo mediatico, accettò piccole parti contro la norma che vietava ai divi di farlo, tornò al palcoscenico quando avrebbe potuto trionfare facilmente sugli schermi. Divenne regista, evitando per lo più di mettersi davanti alla macchina da presa (o facendolo senza narcisismo), per realizzare film intimisti, realistici e toccanti.

[2] Figlio di Arthur Sigmund (per tutti Art) Newman e Theresa Fetzer, entrambi americani di seconda generazione (Art apparteneva ad una famiglia ebrea tedesca, Theresa ad una famiglia cattolica), crebbe a Shaker Heights, in una casa di undici stanze (il padre e lo zio Joe erano i proprietari del negozio di articoli sportivi di maggior successo della regione)

[3] Si sentiva negato per l’attività sportiva. Reagì, allora, con la forza di volontà, e trasformò il suo severo spirito autocritico in stimolo a cercare di migliorarsi. Però da adolescente la sua crescita di colpo si fermò. Voleva a tutti i costi giocare bene a football, e l’autodisciplina con cui si dedicava agli esercizi lo avevano reso molto muscoloso, ma era di taglia piccola.

[4] Anche se il suo viso era già di una bellezza non comune e gli occhi erano di quel blu che incantava e ingelosiva chiunque lo conoscesse, Paul Newman era convinto di non valere un granché sul piano estetico né si riteneva dotato di qualche particolare dote o talento. Per combattere l’innata timidezza e il senso di inadeguatezza, cominciò, allora, a “recitare”: non gli piaceva il suo fisico minuto e aveva un’eccessiva coscienza di sé che lo punzecchiava di continuo, ma il darsi da fare per essere qualcun altro gli dava qualche sollievo. E la madre lo stimolava ad interessarsi alla recitazione.

[5] «Non sono una persona religiosa», disse in seguito. «Non si può dire che Dio protegge proprio te, perché ha fatto venire il mal d’orecchi al tuo pilota, ma ha messo gli altri 15 ragazzi in una bara».

[6] Prese il diploma di primo grado in economia. Nel ’49 conseguì il baccelleriato in scienze (disse che i suoi insegnanti lo addottorarono “magna cum gentilezza”).

[7] Quell’estate recitò in una compagnia di repertorio e in autunno entro nella compagnia di Woodstock, Illinois.

[8] Scott, nel ’51, Susan, nel ‘53 e Stephanie, nel ’54. Suo padre, però, non divenne il nonno dei suoi figli. Morì nel ’49. Ed egli tornò a casa per mandare avanti il negozio di famiglia. Ma dopo due anni, nel ’51, lasciò l’impresa al fratello Art Jr per iscriversi alla scuola teatrale di Yale.

[9] Fu chiamato a recitare in alcune serie televisive di successo e fu inserito nel cast di una produzione di Broadway, Picnic, di William Inge. Picnic ebbe un successo sorprendente: 14 mesi di cartellone e premio Pulitzer.

[10] Si sposarono il 29 gennaio 1958. Insieme ebbero tre figlie: Elinor “Nell” Teresa (8 aprile 1959), Melissa “Lissy” Stewart (17 settembre 1961), e Claire “Clea” Olivia (1965). Nel ’58 Joanne fu premiata con l’ Oscar come migliore attrice protagonista per La donna dai tre volti (1957, di Nunnally Johnson) e recitò con Paul in Missili in giardino (di Leo McCarey) e La lunga estate calda (il primo dei film in cui Paul Newman fu diretto da Martin Ritt). Paul e Joanne avrebbero interpretato ancora insieme i film Dalla terrazza (1960, di Mark Robson), Paris Blues (1961, di Martin Ritt), Il mio amore con Samantha (1963, di Melville Shavelson), Indianapolis, pista infernale (1969, di James Goldstone), Un uomo oggi (1970, di Stuart Rosenberg), Detective Harper: acqua alla gola (1975, di Stuart Rosenberg), Mr. & Mrs. Bridge (1990, di James Ivory) e la miniserie televisiva Empire Falls – Le cascate del cuore (2005, di Fred Shepisi). Paul Newman si avvalse del talento di Joanne Woodward in tutti i suoi film da regista, escluso Sfida senza paura (1971). La diresse, infatti, in: La prima volta di Jennifer (1968), il suo esordio dietro la macchina da presa; Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilda (1972); Harry & Son (1984), di cui Newman era interprete principale; Lo zoo di vetro (1987); The Shadow Box (1980), adattamento televisivo del testo teatrale di Michael Cristofer.

[11] Cercava di imparare sia dai maestri (Elia Kazan e Lee Strasberg) sia dai condiscepoli, tra cui James Dean.

[12] Tra le vittime c’era suo cugino, Robert Newman (figlio dello zio Joe), anch’egli attore teatrale, che era stato perseguitato dall’isteria anticomunista, fino ad essere addirittura cacciato dagli USA, con “l’accusa” di aver sposato un’americana di origine russa e di aver invitato degli omosessuali al matrimonio.

[13] In ciò – e non soltanto nel non riuscire a comunicare facilmente, e soprattutto con le parole, il proprio amore ai figli – era figlio di suo padre. Art, infatti, era di sinistra, anzi, “un socialista”, lo definì Paul Newman, ma probabilmente durante la lunga amministrazione del democratico Franklin Delano Roosevelt era stato un convinto sostenitore del New Deal di area “wallasiana”

[14] Quell’anno Marlon Brando, una star anticonformista in ascesa folgorante dal suo esordio nel ’50, trionfava sugli schermi con Il selvaggio (di Laszlo Benedek) e Fronte del porto (di Eliza Kazan), e una certa somiglianza, vaga, tra i due attori c’era in effetti. Inoltre entrambi erano figli dell’Actors Studio.

[15] Ore disperate aveva ricordato a tutti quanto fosse bravo e poi, sebbene più vecchio di cinque anni, somigliava, in qualche modo, un po’, a James Dean.

[16] Non tutti i suoi film furono opere impegnate. Non poche, e di successo, erano pellicole di intrattenimento. Ma anche in questi casi, talora, saltava fuori qualche zampata di critica di costume, sociale o esplicitamente politica. Ad esempio, in: Detective’s Story (1966, di Jack Smight), Butch Cassidy (1969) e La stangata (1975), entrambi di George Roy Hill, L’uomo dai 7 capestri (1972) e Agente speciale Mackintosh (1973, tutti e due diretti da John Huston, La vita a modo mio (1994) e Twilight,(1998), entrambi di Robert Benton.

[17] Paul Newman era straordinariamente efficace nel mettere in evidenza la forza magnetica, ma superficiale, del potere attrattivo di questi inconsistenti narcisisti, come nel comunicarne il vuoto e l’inconscia sofferenza. E, nel farlo, era tenacemente interessato a denunciare la dannosità di questi campioni di qualunquismo culturale e sociale, nonché di egoismo ed egocentrismo.

[18] Paul Newman sapeva che questo suo disvelamento delle meschinità correnti lo poneva in contrasto con i dogmi indiscutibili della società occidentale e, in particolare, di quella americana, ma egli aveva ben chiaro che il cinema era uno strumento potente ed efficacissimo nel mettere in luce le zone d’ombra di quel che il pensiero mainstream dell’american way of life proponeva come modello maschile da imitare. Carrierismo, machismo, aggressività, slealtà, furbizia e fascino malandrino: era quanto trasudava dagli antieroi che impersonava così bene. Però, riusciva a renderli umani, per quanto fossero privi di scrupoli morali e propensi all’auto-assoluzione. Talvolta, poi, la trama prevedeva che si ravvedessero o che pagassero con la sofferenza fisica o, almeno, con un’angoscia repressa il vuoto che creavano attorno e dentro di sé.

[19] Con Nick mano fredda, Paul Newman inaugurò anche un modo diverso di recitare. Disse più volte che quello era stato il ruolo della sua vita, quello decisivo. E in effetti forse ancor più di Eddie (Lo spaccone), di Hud Bannon (Hud, il selvaggio) e di Lew Harper (Detective’s Story, 1966 di Jack Smight), il suo Nick Jackson (Luke nell’originale) di Nick mano fredda è entrato nella memoria collettiva. Ma, soprattutto, con e da quel personaggio in poi, la sua resa interpretativa acquisì un’autenticità e una spigliatezza che gli permisero di attraversare con spontanea eleganza i quasi quarant’anni seguenti, riempiendoli di autentiche gemme: da Butch Cassidy (1969, di George Roy Hill) a Colpo secco (1977, di George Roy Hill); da Bronx, 41° Distretto (di Daniel Petrie, 1981) a Il verdetto (di Sidney Lumet); da Il colore dei soldi (1986, di Martin Scorsese, che gli fruttò il suo unico Oscar come migliore attore protagonista) a La vita a modo mio (1994, di Robert Benton) e via elencando fino alle sue ultime apparizioni cinematografiche (Era mio padre) e televisive (Empire Falls).

[20] Il suo personaggio era perfino più corrotto del suo più celebre eroe negativo, Hud, del film omonimo di 7 anni prima e, a differenza di quello, non aveva alcuna traccia di aggressivo appeal.

[21] Paul Newman, d’altra parte, era sempre impegnato in qualche sfida. Amava mettersi alla prova. Soffriva di vertigini ma volle ricorrere il meno possibile alla controfigura in Sfida senza paura (1970, di Paul Newman), in cui interpretava un ostinato, retrogrado, boscaiolo, costringendosi a salire su alberi alti come palazzi per tagliarne i rami con la moto sega. Pur avendo avuto un rapporto non facile con lo sport, spesso interpretò la parte dello sportivo, arrivando a livelli di bravura imprevedibili, anche quando aveva superato la cinquantina, come nel caso dell’hockey su ghiaccio (Colpo secco, di George Roy Hill, 1977). Del resto, pochi anni prima, quasi quarantacinquenne, interpretando la parte di pilota automobilistico (Indianapolis, pista infernale, di James Goldstone, 1969), aveva imparato talmente bene le tecniche da appassionarsi e diventare un corridore professionista. Vinse quattro titoli nazionali dilettanti, due corse da professionista, un secondo posto alla 24 ore di Le Mans e, a settant’anni, un primo posto nella sua categoria alla 24 ore di Daytona, diventando il più vecchio vincitore di sempre, a livello mondiale, di una gara automobilistica ufficiale.

[22] In Italia venne realizzata la Dynamo Camp, una struttura ricreativa senza fine di lucro, rivolta ai bambini e ai ragazzi dai 6 ai 17 anni affetti da gravi patologie. Paul Newman venne ad inaugurarne una struttura in provincia di Pistoia.

[23] Ci sarà una ragione per cui le confezioni di birra sono da 24 lattine, esattamente come le ore del giorno, osservava.

Fonti

AA.VV., Il cinema. Grande storia illustrata, De Agostini, Novara, 1982

Micheal Kerner, Paul Newman, La storia illustrata del cinema, Milano Libri, Milano, 1975

Shawn Levy, Paul Newman. Una vita, Baldini e Castoldi, Milano, 2010

 

Ciaccio Montalto è condannato a morte dalla mafia

Tristemente, si ingrossano le fila degli uomini di legge uccisi dalla mafia. Ne abbiamo ricordati molti in questa rubrica, ma la lista è ancora lunga. Oggi si aggiunge un magistrato siciliano, di Trapani, che nella sua città cercò di riportare la voce dello Stato, così a lungo silente.

Trapani è la provincia dove lo Stato che ha comandato è quello di Cosa Nostra, dove per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia ci sono voluti decenni, dove anche i fidanzamenti e i matrimoni sono stati regolati dalle regole dell’onorata società, dove potrebbe anche non essere necessario leggere atti giudiziari, intercettazioni, relazioni della Commissione antimafia, saggi e articoli di stampa per farsi un’idea di cosa si intende per mafia: basterebbe vedere il numero delle estorsioni denunciate per capire quante non lo saranno mai […]
(Rino Giacalone, Liberainformazione.org)

Nato a Milano da famiglia trapanese, Giangiacomo Ciaccio Montalto fece ritorno nei suoi luoghi d’origine e a neanche trent’anni divenne Sostituto Procuratore. Qui, la sua vita iniziò a incrociarsi con quella della famiglia Minore: Antonino, Calogero, Giuseppe e Giacomo, quattro fratelli, quattro “uomini d’onore” tra i più potenti della provincia, e non solo. La loro attività era tra la peggiore immaginabile, cui non mancò la corruzione di un collega di Montalto: grande scandalo destarono i 150 milioni accettati dal Sostituto Procuratore di Trapani Antonio Costa per un’assoluzione su un caso di omicidio.

Più volte il magistrato mise i bastoni fra le ruote al clan trapanese, che a quel tempo poteva vantare anche il sostegno dei sanguinari Corleonesi. Si ipotizza che cercarono, dapprima, di scoraggiarlo “con le buone”: famose le assoluzioni per insufficienza di prove che costellarono la carriera del procuratore (quaranta ordini di cattura con l’accusa di associazione mafiosa erano intollerabili). Poi passarono alle minacce. Un giorno trovò il disegno di una croce nera sul cofano della propria auto, ma rifiutò la protezione personale:

Le poche volte che aveva accennato all’argomento sicurezza era stato per dire che le scorte non salvano la vita ma ne mettono in pericolo altre e che, in ogni caso, non riteneva di essere così “importante” da essere ucciso.
(Salvatore Mugno, “Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto la tenacia e la solitudine”)

Decise quindi di seguire il filone d’indagine che aveva aperto in quei dieci anni di lavoro in Sicilia, risalendo però la penisola: chiese il trasferimento a Firenze, dove si temeva che si estendessero i tentacoli della piovra mafiosa, sia trapanese che corleonese. Fu probabilmente, questa, l’ultima goccia per i clan: in quella notte del 1983, fu crivellato di colpi insieme alla propria auto a Valderice, mentre rientrava a casa. Lo piansero la moglie e le tre figlie, oltre a ventimila persone accorse per rendere omaggio a quel combattente caduto.

Quattro anni dopo l’omicidio di Guido Rossa, di cui abbiamo parlato ieri, è ancora il Presidente Pertini a dare voce allo Stato:

Il popolo italiano non può essere confuso con il terrorismo e il popolo siciliano non può essere confuso con la mafia.

Alessio Gaggero

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Guido Rossa, primo sindacalista ucciso dalle BR

Guido Rossa ha pagato, con la sua famiglia, il prezzo supremo di chi ha voluto tener fede ai valori della Repubblica, che a Genova e nelle sue fabbriche hanno trovato radice profonda nell’impegno nato dalla Resistenza.
(Sergio Mattarella)

Così il Presidente della Repubblica ha ricordato, nel 2020, la morte dell’operaio genovese, in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario, a cui ha partecipato, appunto, anche la massima carica dello Stato, per ribadire ancora una volta che il ricordo di ciò che avvenne, e di quanto rappresenta, è vivo nelle istituzioni.

Guido Rossa trovò la morte in una fredda mattina lavorativa, quando ancora in fabbrica non era arrivato. Operaio dai 14 anni, si era trasferito da Torino a Genova, dove aveva trovato un posto presso l’Italsider di Cornigliano, e dove aveva messo su famiglia. Comunista militante e delegato sindacale, si accorse che un collega, Francesco Berardi, lasciava dei ciclostilati in officina, il cui contenuto non era equivocabile, soprattutto in quegli anni:

Attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo nazionale nel suo cuore: la fabbrica. Sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo a partire dalla fabbrica il partito comunista combattente e gli organismi rivoluzionari di massa.

Preso il fiancheggiatore con l’aiuto dei colleghi, si trovò però da solo al momento di mettere la firma al fondo della denuncia. Berardi venne comunque condannato per direttissima a quattro anni, ma a Rossa la vicenda costò molto più cara. Quella mattina, infatti, il commando delle BR lo gambizzò, lasciandolo in vita come da programma. Riccardo Dura, però, decise in autonomia di tornare sui propri passi e di piantare due proiettili nel petto dell’operaio, che spirò di lì a poco.

Dunque, la scelta autonoma di un componente del commando decreta la morte, stavolta, non di un “padrone”, ma di un “compagno”. Nondimeno, alcuni giorni dopo il gruppo decise di rivendicare l’omicidio con un volantino molto chiaro:

Un nucleo armato della BR ha giustiziato Guido Rossa, spia e delatore all’interno dello stabilimento Italsider di Cornigliano. […]

La risposta della società arrivò forte e chiara, con la partecipazione di 250.000 persone ai funerali, e attraverso le parole dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, anche lui presente quel giorno:

Non vi parla il presidente della Repubblica. Vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!

Alessio Gaggero

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