Verso uno Stato etico, religioso e sociale

Il 9 dicembre si compie un altro passo verso l’edificazione di uno Stato etico, religioso e sociale. Un passo, che nel suo compiersi pare quasi scontato e che agli italiani sfugge pressoché del tutto. L’intenzione, infatti, è quella di far passare sotto silenzio questo decisivo passaggio della transizione in corso. Il Parlamento è stato adeguatamente demonizzato, i partiti che un tempo vi erano rappresentati, di maggioranza e di opposizione, sono stati prima delegittimati nella percezione di una parte dell’elettorato, poi, divenuti tutti minoranza parlamentare, sono stati emarginati. I governi precedenti sono stati oggetti di una tale campagna di discredito che sono davvero pochi quelli che li rimpiangono. Perciò, questa ulteriore tappa, dal punto di vista del potere, va affrontata senza suscitare alcun clamore, facendola apparire, ai pochissimi che dovessero farci caso, come qualcosa di rilevanza davvero modesta.

Del resto, perché un governo intento ad edificare uno Stato etico, religioso e sociale dovrebbe prendersi la briga e il rischio di rivolgersi al popolo annunciandogli che gli si sta togliendo anche l’ultimo brandello del diritto di eleggere i propri rappresentanti? Perché correre il pericolo che il cittadino si ricreda e si accorga che il Potere sta per riprendersi quasi tutto quello che lui aveva guadagnato nel corso dei secoli, affrontando lotte e repressioni, rivoluzioni e restaurazioni, riforme e controriforme?

Dux

Nel 1923 lo scultore Adolfo Wildt, sul modello dei busti romani, ne aveva realizzato uno per Mussolini, presentato alla Biennale di Venezia l’anno dopo. Nel giungo del ’26 Margherita Sarfatti, la direttrice di “Gerarchia”, amica, amante e concubina semiufficiale di Benito Mussolini, sua confidente privilegiata, da lui ascoltatissima consigliera in ambito culturale e rilevantissima organizzatrice del suo mito, oltre che dama di compagnia della regina, aveva dato alle stampe, presso Mondadori, la biografia del «Capo del governo e Duce del fascismo», intitolata “Dux” [1].

Con l’immagine e con la parola si sviluppava ulteriormente, prendendo un nuovo slancio, l’edificazione del mito mussoliniano, concepito dalla stessa Sarfatti e condiviso da Mussolini: questi nella mente degli italiani doveva diventare l’uomo della Provvidenza, colui al quale l’Italia aveva assegnato l’alta impresa di restaurare la grandezza della Roma dei Cesari.

La via costituzionale verso l’instaurazione dello Stato etico, religioso e sociale

Com’è noto, era occorso un po’ di tempo a Mussolini per arrivare fino a lì. Neanche troppo, in effetti, trattandosi di sbranare, un pezzo alla volta, il corpo già ferito, afflitto e stanco del regime democratico dello Stato liberale [2]. Tutti i provvedimenti visceralmente antidemocratici fin lì adottati da Mussolini (riassunti alla nota 2), che avevano portato alla soppressione o alla fortissima restrizione delle libertà fondamentali degli italiani e alla messa fuori legge dell’opposizione, erano stati presi, però, nel rispetto formale della costituzione vigente, grazie all’abilità del Ministro della Giustizia, Alfredo Rocco. Lo Statuto Albertino restava in piedi e non veniva abrogato [3].

Ma per il Duce tutto questo potere non era abbastanza.

Mussolini voleva di più, molto di più. Non gli era sufficiente essere a capo di una tipica dittatura militare, né si accontentava di governare “un regime eccezionale” come quelli instaurati nel periodo liberale per fermare l’affermazione del comunismo. Voleva radicalmente  trasformare gli individui che compongono la società, per sottoporla all’onnipotenza dello Stato. Ma non di uno Stato qualsiasi, bensì di quello che il ministro Rocco, in un discorso del marzo del ’28, chiamò lo Stato etico, religioso e sociale.

Il Partito Nazionale Fascista, come strumento per l’edificazione dello Stato etico, religioso e sociale in senso fascista, con un solo uomo al comando

Dalla sua fondazione nel marzo del 1919 il movimento fascista aveva subito una significativa trasformazione, funzionale ai traguardi che di volta in volta il suo capo e fondatore si dava.

Da “antipartito” a partito di Stato

Fino al ’21 era stato l’“antipartito” generativo di una forza politica nuova in tutto e per tutto, rappresentante il meglio della gioventù uscita e forgiata dalla Grande Guerra. Tra il ’21 e il ’22 era divenuto un’organizzazione politica, classica, sì, ma la cui violenza intrinseca era organizzata militarmente onde costituire un efficace e potente strumento per la conquista del governo. Con la crisi innescata dall’omicidio di Matteotti, il PNF, con il suo braccio armato, poliziesco e militare insieme, era diventato uno strumento per reprimere e isolare l’opposizione. Il 7 aprile del ’26, poche ore dopo il fallito attentato compiuto da Violet Gibson (ne abbiamo parlato qui), Mussolini aveva detto chiaramente che il PNF, divenuto nel frattempo partito unico, sarebbe stato subordinato al governo e al suo capo, che erano l’incarnazione suprema dello Stato. E intendeva uno Stato etico, religioso e sociale fascista.

«Lo Stato fascista è il governo fascista, e il Capo del governo fascista è il capo della rivoluzione fascista»

In quell’occasione davanti al direttorio del PNF, Benito Mussolini aveva affermato:

«La più alta espressione del regime è il governo […] Lo Stato fascista è il governo fascista, e il Capo del governo fascista è il capo della rivoluzione fascista».

Un mese e mezzo dopo, il 25 maggio 1926, a Genova aveva aggiunto:

«Nella vita nazionale vi deve essere uno solo che comanda».

Per ridurre il PNF all’obbedienza più totale, Mussolini aveva silurato Farinacci, colui al quale, già ras di Cremona, nel febbraio ’25, aveva affidato il compito di ridurre il partito all’obbedienza, contando sulla brutalità e l’efficienza che aveva sempre dimostrato. Farinacci, però, per il duce era incline all’indipendenza, quindi, era stato sostituito nel ’26 da Augusto Turati, più capace di trattare con Mussolini, ma di rigorosa intransigenza anch’egli. Tanto che da subito si dedicò a all’espulsione dei militanti sgraditi [4]. Ne risultò un cambiamento anche sociologico, un imborghesimento assai marcato [5].

Il PNF come «strumento cosciente della volontà dello Stato»

Soprattutto, Augusto Turati aveva sottoposto il partito ad una rigida disciplina: non vi erano ammesse le correnti, non poteva valere il principio democratico dell’elezione, visto che era stato abolito per l’intero Paese, doveva essere totalmente subordinato allo Stato. La sua funzione era quella di «strumento cosciente della volontà dello Stato». E in tal senso era concepito il nuovo statuto approvato il 18 ottobre del 1926, che poneva formalmente il Duce al vertice della gerarchia del partito e innalzava il Gran Consiglio del Fascismo (ne abbiamo parlato qui, qui e qui) a «organo supremo del fascismo». Un organo, però, presieduto da Mussolini e convocato su sua iniziativa.

La passività di Vittorio Emanuele III e dei senatori

Certamente il Capo del Governo pativa il non poter essere anche il Capo dello Stato ed era costretto a mettere la sordina ai suoi sentimenti anti-monarchici, che aveva da sempre nel sangue e ribollivano per farsi realtà.

Ma il duce sapeva anche che il Re non avrebbe interferito seriamente nei suoi programmi di fascistizzazione dello Stato e del popolo.

L’accordo tacito tra il Re e il duce per mantenere la finzione della monarchia costituzionale

Formalmente vigente, lo Statuto Albertino conservava al Re il potere di revocare il Capo del Governo e di nominarne un altro, ma Mussolini conosceva due punti deboli del sovrano che erano altrettanti punti di forza per lui: sapeva che per il Re contemplare la decisione di revocargli l’incarico significava misurarsi con il timore che insieme al fascismo potesse cadere anche la monarchia; ne aveva valutato puntualmente il carattere timoroso e indeciso e l’attitudine formalista. D’altra parte, Vittorio Emanuele sapeva che il duce era cosciente di non poter mettere in pratica il suo sogno fondare una repubblica fascista e di essere costretto a preservare la facciata della monarchia costituzionale. Il tentare di farlo, infatti, lo avrebbe portato allo scontro con una forza pericolosissima: quegli ambienti conservatori legati a Casa Savoia in cui si installavano le più alte gerarchie militari

L’inconsistenza quasi totale del Senato

Mussolini aveva accettato anche di conservare il Senato. Ne stimava assai poco i membri e non li riteneva capace di assurgere al rango di difensori della democrazia che egli stava smembrando. Eppure, costoro, di nomina regia e aventi una posizione e uno status tali da non esporli a seri rischi di contraccolpi, se si fossero compattati a difesa della democrazia, magari con il sostegno e lo stimolo di un monarca meno timoroso, avrebbero potuto costituire un centro di opposizione vera. Ma non fu così. Con poche eccezioni, lodevolissime e coraggiose proprio in quanto isolate, i senatori si limitarono a lasciarsi ricoprire dagli onori elargitigli generosamente dal regime, approvandone in cambio anche i più antidemocratici provvedimenti.

La legge del 9 dicembre del ’28 che segnò la totale scomparsa di ogni residuo di democrazia rappresentativa

Analogamente anche la Camera avrebbe potuto essere risparmiata, essendo già stati espulsi gli oppositori ritiratisi sull’Aventino e sciolti e dichiarati fuori legge tutti i partiti tranne quello fascista. Però attorno a Giolitti si era costituita una piccola cerchia di oppositori al regime, che pur costretta a votare, a scrutinio segreto, soltanto contro i bilanci e le leggi proposti dal governo, costituiva per Mussolini un fastidio intollerabile, un ostacolo verso la meta dello Stato etico, religioso e sociale in senso fascista.

La legge sull’ammissibilità delle sole «liste di sicura fede fascista»

Così Mussolini chiese al Gran Consiglio del Fascismo di elaborare una legge che modificasse radicalmente l’elezione dei deputati: il testo, approvato dalla Camera dei Deputati nel marzo del ’28 e promulgato due mesi dopo, istituiva le «liste di sicura fede fascista». Di fatto, veniva meno ogni criterio elettivo degno di tale nome e si introduceva il meccanismo plebiscitario [6].

La reazione della sparuta opposizione al Senato

Tra i senatori dell’opposizione sopravvissuti alcuni fecero rilevare l’incompatibilità costituzionale oltre che l’assurdità logica (assurdità logica, se vista in una cornice democratica, ma perfettamente logica in prospettiva autoritaria) del provvedimento: che senso aveva, chiesero, far scegliere la lista dei deputati eleggibili da un organo di partito che non aveva alcuna rilevanza istituzionale in senso legale?

Il Gran Consiglio diventa l’organo supremo dello Stato e il canale per la sua infiltrazione da parte del PNF

Mussolini, da par suo, prese quei senatori in parola. Se il problema era quello, bastava dare al Gran Consiglio del Fascismo piena esistenza legale. E così si ebbe la legge del 9 dicembre del ’28. Secondo tale normativa il Gran Consiglio del Fascismo, presieduto dal Capo del governo e composto dai quadrumviri della marcia su Roma, da altri vertici del PNF, nonché dai ministri in carica e dai sottosegretari alla presidenza del Consiglio e all’Interno, dal capo della Polizia, dallo Stato Maggiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza dello Stato, diventava l’organo supremo dello Stato. Infatti, aveva non soltanto il compito di redigere le liste dei candidati alla Camera dei Deputati, ma anche quello formare la lista dei nomi da sottoporre al Re per la nomina del Capo del Governo, in caso di vacanza di questi.

In pratica, per l’art. 13, il Gran Consiglio era l’intermediario insostituibile per la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri. Si introduceva, quindi, lo strumento principale per imporre una legalità fascista e infiltrare attraverso il Gran Consiglio fascisti di sicura fede ai vertici di tutte le istituzioni dello Stato. Ogni traccia di democrazia rappresentativa dileguava. Le elezioni sarebbero state, da quel momento in poi e fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un mero proforma.

Lo Stato etico, religioso e sociale in senso fascista, però, si rivelava di cartapesta. Lo stesso duce, al fine, risultò anche agli occhi dei più distratti, assai meno di un colosso dai piedi di argilla: una tragicomica e grottesca figura, per quanto sanguinaria, astuta e spietata.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Renzo De Felice, Breve storia del Fascismo, Mondadori, Milano, 2002

S. Luzzatto e V. De Grazia (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino, 2005

P. Milza, Mussolini, Carocci, Roma, 2000

G. Pisanò, Storia del Fascismo, Pizeta, Milano, 1990

 

 

[1] Il testo era stato pubblicato in prima edizione a Londra nel settembre del 1925, in una tradizione inglese dal titolo The Life of Benito Mussolini. Prima che avvenisse la pubblicazione dell’edizione italiana comparve un’altra biografia del giornalista Giorgio Pini, un’apologia breve, destinata ad un pubblico popolare: Mussolini. La sua vita fino ad oggi dalla strada al potere, edito dalla casa Cappelli, di Bologna (1926). Il libro di Pini ebbe 19 edizioni e fu tradotto in dodici lingue, quello della Sarfatti ne ebbe 5 solo nel ’26 e 17 nei dodici anni seguenti, venendo tradotto in circa venti lingue, tra cui il turco e il giapponese.

[2] A farla breve, vi erano stati: la marcia su Roma esitata nell’affidamento da parte del Re dell’incarico di Presidente del Consiglio; la violenza squadrista dispiegata contro l’opposizione in modo diffuso, ancorché mirato; il consolidamento dell’appoggio da parte del Re, dei vertici militari e dei capitani dell’industria; l’estensione e il rafforzamento dell’originaria approvazione degli ambienti conservatori e di destra, preoccupati dal riformismo dei socialisti moderati e atterriti dal bolscevismo; l’ottenimento da pare del Parlamento dei “pieni poteri”, che permisero tra le altre cose, l’istituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, da impiegarsi verso gli oppositori nella politica, nei sindacati e nella cultura; l’ulteriore consolidamento dell’area conservatrice del Paese, fino a farne confluire la rappresentanza politica quasi integralmente nel Partito Nazionale Fascista o, comunque, in liste minori ad esso alleate; l’approvazione della legge Acerbo, studiata per assicurare al PNF e ai suoi alleati il successo più completo alle elezioni, grazie alla intimidazioni fasciste, ai primi provvedimenti antidemocratici e ai brogli elettorali; dopo l’assassinio del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti, un’impennata repressiva ai danni di tutti gli antifascisti; i provvedimenti legislativi resi “digeribili”, grazie al fallito, e irrealizzabile, attentato di Tito Zaniboni, che consentì l’istituzione della funzione per Mussolini di «Capo del Governo e Duce del fascismo», responsabile solo davanti al Re e sottratto alla fiducia del Parlamento, l’attribuzione del potere legislativo al Governo con riduzione del Parlamento a camera di registrazione delle leggi governative, l’eliminazione del carattere elettivo delle Provincie e dei Comuni, la dichiarazione della decadenza da parlamentari di coloro che si erano ritirati sull’Aventino per reazione al delitto Matteotti all’involuzione dittatoriale, la revoca degli impiegati pubblici infedeli al fascismo; l’emanazione delle “leggi fascistissime”, autentici pilastri dell’erigendo Stato totalitario, che, oltre a dare luogo allo scioglimento di tutti i partiti e di tutte le associazioni anti-fasciste e alla soppressione della stampa anti-regime, istituì il confino di polizia per i dissidenti, la polizia politica segreta (l’O.V.R.A.) e il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.

[3] La costituzione – concessa dal Re Carlo Alberto nel 1948 e che aveva reso i piemontesi sudditi di una monarchia costituzionale e, poi, con l’Unità d’Italia, aveva reso gli italiani cittadini di un Paese fondato sui pilastri del sistema liberale (separazione dei poteri, con quello legislativo avente natura elettiva; uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; presunzione di innocenza nei tribunali, impossibilità di essere perseguiti penalmente se non si è commesso un fatto già previsto dalla legge come reato …) -, formalmente, cioè in termini strettamente procedurali, era stata grosso modo rispettata da Mussolini, che, così, poteva contare anche su questa legittimazione formale.

[4]  7400 dal primo mese del suo mandato, tra cui 5 deputati; tra il ’26 e il ’27 altri 2000 dirigenti e ben 30.000 aderenti, arrivando entro il ’30 a fare fuori 60.000 iscritti, senza contare le migliaia di aderenti che si tolsero dai piedi senza sollevare formali polemiche. Poi, data una certa caduta delle adesioni al partito sotto la sua direzione, pur in presenza di un saldo attivo, e a causa dell’emersione degli sporchi affari (stornamento di fondi, ecc.) da parte dei dirigenti locali, anche Turati fu dimissionato e sostituito da Giuriati nel ‘30.

[5]  Chi se ne andava o veniva cacciato apparteneva alla piccola borghesia, cittadina e delle campagne, artigiani inclusi, e in minore ma non insignificante parte al mondo operaio e contadino; i nuovi arrivati erano, invece, della classe media agiata – liberi professionisti e impiegati – e della casta dei ricchi possidenti. Costoro, per effetto dell’epurazione, potevano stare dentro il PNF senza avere a che fare con la volgarità e il linguaggio rivoluzionario di quelli che fin lì avevano svolto il ruolo di truppe d’urto e repressione della “rivoluzione” fascista.

[6] Le Confederazioni Nazionali delle Corporazioni presentavano 800 candidati, mentre altri 200 erano proposti da organismi pubblici, poi spettava al Gran Consiglio del Fascismo selezionare tra questi 1000 candidati 400 da sottoporre al voto popolare per eleggere appunto 400 deputati.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara»

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» : proposta di un sottotitolo per Il cacciatore di Micheal Cimino

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» : potrebbe essere questo il sottotitolo della celebrata, discussa e famosissima, opera seconda di Micheal Cimino, Il cacciatore (The Deer Hunter), che uscì nelle sale italiane l’8 dicembre del 1978 (supponendo che tutti o quasi lo abbiamo visto e lo ricordino, per una sintesi della trama si rimanda alla nota[1]).

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» si presterebbe come sottotitolo o come frase di lancio, perché, in qualche misura, è quel che succede ai personaggi del film. «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» fa venire in mente, però, anche l’attualità, se non si intende quello «spara» in senso letterale, ma nel senso di un agire irriflessivo. In senso anche letterale, comunque, rinvia alle stragi che di tanto in tanto insanguinano gli States da decenni. E al cinefilo può far rammentare una celebre battuta pronunciata da Humphrey Bogart, nei panni di Philip Marlow, in Il grande sonno (1946), di Howard Hawks: «Così tante pistole in giro e così pochi cervelli!».

Tornando a Il cacciatore, tutti i personaggi sembrano avere enormi difficoltà nel rapportarsi con le loro emozioni e con i loro sentimenti. Se sullo schermo, grazie all’accortezza della sceneggiatura, balza all’occhio dello spettatore quanto per ciascuno di essi sia difficile comunicare con l’altro, la regia di Cimino e le qualità straordinarie degli attori (Robert De Niro – Mike, Christopher Walken – Nick, John Savage – Steve, John Cazale – Stan, Meryl Streep – Linda, George Dzundza – John, Chuck Aspegren – Axel) riescono a far arrivare alle platee qualcos’altro, qualcosa di più profondo [2]. Quegli interpreti, grazie ad un lavoro sottile sulle sfumature, riescono a far sentire allo spettatore come quello dei personaggi da essi interpretati sia un problema non riconducibile ad uno scarso livello di istruzione [3].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara», cioè, agisce quel che non sa di sentire

Sono della classe operaia e non sono andati all’Università, d’accordo, ma ciò non significa che non sappiano parlare. Sono cittadini americani figli di immigrati lituani, sì, ma parlano un buon inglese [4].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» perché non riesce a comunicare ciò che prova

Tutti i personaggi hanno momenti in cui il loro relazionarsi con l’altro pare sospeso. È come se fossero sul punto di dire qualcosa che poi però le loro labbra non pronunciano. Esitanti e perplessi in molte situazioni, quindi, lo sono tutti, ma i loro tentennamenti raramente vengono espressi in termini di dubbi consapevolmente nutriti. E anche quando ciò accade è solo una sorta di incespicare del pensiero, lo sforzo appena accennato di una mente che non riesce a racchiudere con le parole il sentimento che si vorrebbe, si dovrebbe o si potrebbe esprimere.

In queste condizioni, allora, agiscono. E ciò riguarda invariabilmente i giovani protagonisti, i loro amici e almeno uno dei loro genitori.

Perché, se la madre di Steven, all’inizio del film, parlando con il prete, dà voce al suo disorientamento, alla sua impotenza e alla sua preoccupazione rispetto alla ragazza che suo figlio sta per sposare e alla sua immediatamente successiva partenza per il Vietnam, il padre di Linda, invece, è decisamente incapace di comunicare, sia pure con parole semplici, le sue emozioni. Infatti, è un alcolizzato che vive da solo con la figlia e che, quando è ubriaco, la picchia. La picchia e fa discorsi senza senso (biascica rabbioso che bucherà le gomme di tutte le auto della città): non riesce a “star dentro” ai suoi tormenti né a comunicare ciò che prova. Si potrebbe dire che «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» alcool giù nello stomaco. Il che, però, non vale solo per il padre di Linda.

Analogamente agiscono anche gli altri, che, seppure non maltrattanti verso i loro famigliari, ingollano birra o whiskey ad ogni occasione e nella prima ora del film sono quasi sempre con una bottiglia o un bicchiere in mano, anche quando vanno a caccia sulle montagne. E le loro azioni, i loro atteggiamenti sono quasi sempre condizionati dall’alcool generosamente ingurgitato, per addomesticare, reprimere, esaltare o alleggerire le emozioni provate.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» perché non riesce a comprendere ciò che prova

Certo non sono poche nel film anche le interazioni in cui sulla spontaneità paiono prevalere il riserbo, il pudore, l’imbarazzo o un terribile disagio.

Ma anche in tal caso il rapporto conflittuale con il sentimento provato – forse anche per la paura che possa essere ingombrante per l’altro non meno che per che se stessi -, in effetti, pare essere così radicato da dare luogo ad una sua inconoscibilità più che ad una incomunicabilità. Quasi che la costante repressione della comunicazione dei propri vissuti abbia dato luogo alla difficoltà di racchiuderli, definirli e contenerli in pensieri coscienti, vale a dire, in parole pensate.

Anche qui gli esempi sono davvero numerosi: Angela che, ridotta quasi alla catatonia, non riesce a dire a Mike dove si trova suo marito Steve, rientrato dal fronte con le gambe amputate, e arriva, così, a dover scrivere su un quadernetto il nome dell’istituto di cura in cui è inserito; Mike che, nella stessa scena, le ripete invariabilmente e meccanicamente, con progressiva malcelata impazienza, la stessa domanda: «dove sta Steve? Dove sta?». Poi ottenuto il pezzetto di carta con sopra l’informazione richiesta, non riesce a dirle altro che un banale «abbi cura di te»; ancora Mike, che, adirato con Stan, come sempre disorganizzato e propenso a scordarsi l’equipaggiamento per la montagna e la caccia, dice, in maniera sibillina per gli altri, con la voce adirata: «Lo vedi Stan? Questo è questo. È un proiettile. E non è un’altra cosa» [5].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a parole

Un altro esempio di incapacità, o indisponibilità, radicale di comunicare con il mondo esterno è quella dimostrata dal sergente dei Berretti Verdi, reduce dal fronte vietnamita, che, seduto al bancone ingolla whiskey, e ripete meccanicamente, come uno sparo, «In culo». Mike, da quell’impulsivo, solo apparentemente controllato, che è, naturalmente reagisce e cerca la lite.

Non si ferma a pensare che, forse, quell’uomo ha “qualche problema”, ma agisce la sua delusione per un berretto verde il cui comportamento si rivela ben lontano da quello che egli e i suoi amici, nella loro idealizzazione, si aspettavano da parte di chi indossa quella divisa. Tocca a Nick tentare di calmarlo.

Anche Nick, però, come abbiamo visto, fatica ad avere dimestichezza con il suo mondo emotivo, per quanto sia il più sensibile, il più capace di avere dubbi e quello maggiormente disposto sia ad interrogarsi che a mettersi nei panni altrui. Tutte queste doti gli sono riconosciute da Mike. Il quale gli dice apertamente che, pur volendo bene agli altri amici, se non fosse per lui, egli andrebbe a caccia da solo. Ma, anche in tal caso, questo sentimento di Mike per Nick è espresso in modo involuto, elusivo, esitante. 

Così è trattenuta anche la tentennante proposta di matrimonio che Nick fa a Linda durante la festa, quando costei afferra il bouquet lanciato da Angela. Una proposta che si conclude con un «non lo so», cui segue un’imbarazzata, intenerita ma frustrata, replica di Linda che mormora «Io credo che tu stia dicendo quello che ti passa per la testa». Il punto è che Nick, forse, almeno rispetto al suo rapporto con Linda, non sa esattamente cosa gli passa per la testa.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a vuoto, per fortuna

Certo Mike Vronsky è capace di essere freddo e di pensare con logica matematica nel momento di massima tensione e disperazione. Catturato dai vietcong insieme a Nick e Steve, accetta la sfida dei carcerieri e usa il suo ascendente, il suo carisma di guida morale, di principale referente affettivo per Nick, per convincerlo a giocare alla roulette russa, cui sono costretti, con più proiettili. Si tratta dell’unico modo per tentare di uccidere, a sorpresa gli aguzzini ed evadere. È un lucido calcolo della probabilità. Se non rischiamo di uccidere noi stessi, siamo già morti, è l’argomento che propone all’amico.

Nick aderisce, sì, al piano di Micheal, ma non perché lo valuti come unica logica possibile via di salvezza. Non riuscendo a pensare (il che è assai più che comprensibile in quella estrema situazione!), accetta di giocare e di spararsi in testa, fortunatamente a vuoto, soltanto perché ha fiducia nel suo amico. Si affida totalmente ai suoi nervi, alla sua autorevolezza, alla sua padronanza di sé, rimasta intatta anche in mezzo al delirio. Quindi, quasi magica e onnipotente.

Mike, però, quell’autorevolezza ce l’ha perché Nick gliela concede. Quella padronanza di sé – già stressata dalle pulsioni che teneva nascoste dentro di sé prima dell’arruolamento -, dopo l’esperienza bellica, è ormai a brandelli. È ancora il più determinato del gruppo. Ma ancor più di prima, non comunica ciò che prova. Lo tiene nascosto e, con apparente paradosso, lo agisce.

Tornato in patria, dice al tassista di non lasciarlo davanti alla sua roulotte e di proseguire per non incontrare gli amici che gli hanno organizzato la festa di bentornato.

E, al massimo della propria capacità comunicativa, poco dopo, rispondendo a Linda, quando costei gli propone di passare la notte insieme, riesce a malapena a dire: «Mi sento lontano. Molto lontano». Decisamente significativa è anche la reazione che Mike ha verso Stan, quando questi, un po’ per finta un po’ sul serio, minaccia Axel, che lo sfotte per la sua abitudine di andare in giro con un revolver.

Altro che autocontrollo! E, in fondo, tra lui e Stan le differenze non sono poi così abissali: Stan va in giro con la pistola, «come se fosse John Wayne», e non sa spiegarne a se stesso e agli altri il perché; Mike, che si sente decisamente superiore a lui, è partito per il Vietnam senza saper illustrare un perché intellegibile al suo amico-discepolo Nick, né a se stesso.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a se stesso, all’amico e all’amicizia

Mike, come gli altri, ha dei tratti di ingenuità notevoli, che in lui, però, assurgono a livello idealistico, e ciò lo rende una persona animata da istanze contrastanti, pressoché inconciliabili [6]. E anche Nick non ne è privo, anzi, ne è in parte perfino conscio.

Nick, tuttavia, ha del tutto perso la capacità di pensare e di parlare. Lo si è già visto piangere all’ospedale, silenziosamente singhiozzante, davanti all’ufficiale medico che gli chiede i nomi dei suoi genitori [7]. Ha tentato di parlare al telefono con Linda, di cui porta con sé la foto, ma vi ha rinunciato alla prima difficoltà. Ha disertato, ma è rimasto a Saigon, senza riuscire a superare il trauma dell’abbandono da parte del suo amico-mentore. Privato di quella guida morale e di quel sostegno psicologico che l’amicizia di Mike gli assicurava, Nick ripete come una macchina il gesto di puntarsi la pistola alla tempia e di premere il grilletto. Come, involontariamente, gli aveva “insegnato” a fare Micheal, quand’erano prigionieri dei vietcong. Ipnotizzato, perso nella tossicodipendenza e ancor prima in un’angoscia indicibile, ritualizza quella scena all’infinito. E non riconosce Mike, quando questi lo scova nel locale delle macabre scommesse della roulette russa [8].

Così, questa volta è Micheal a dover accettare di partecipare alla roulette russa. Anzi, gli tocca dare tutto il denaro che ha per prendervi parte. Spera, così, di riuscire a ridestare Nick, a riportarlo a sé, a trarlo fuori dall’incubo e riportarlo agli alberi del Nord America, che gli piacevano tanto.

Quando Nick, però, pare ricordare subito si ritrae immediatamente da quel loro rapporto, ne nega l’attualità e, facendolo, ne svela i sotterranei non-detti e le antiche ambivalenze.

Ancora una volta tutto ciò non è detto a parole e non è neppure consapevolmente provato. È piuttosto vissuto da Nick come un guizzante, ottenebrato e riottoso, stato d’animo. Quindi, non essendo una consapevole emozione, quello stato interiore viene tradotto in azione non pensata, in agito. È da lui agito, in effetti, quello stato d’animo repentino, sparandosi il colpo fatale alla tempia. E a Mike non resta che cercare inutilmente di trattenerne tra le mani la vita, anche psichica, nutrita dei loro trascorsi tacitamente conflittuali e del loro antico affetto; ma essa, con il sangue, schizza irrecuperabilmente fuori dalla tempia forata di Nick.

L’amore di Micheal Cimino e la sua sospensione del giudizio verso i suoi personaggi

Ogni inquadratura del film denuncia l’amore di Micheal Cimino per i personaggi che racconta, anzi direi, per gli attori che dirige. A tutti, anche a quelli più collaterali, infatti, riserva momenti di grande vicinanza, che ne pongono in risalto la bellezza, imperfetta e, così, ancor più toccante e idonea a stimolare nel pubblico una sorta di identificazione (proiettiva?).

Se, com’è probabile che sia, Micheal Cimino era ben consapevole delle difficoltà dei suoi personaggi di relazionarsi con se stessi e con gli altri, non per questo voleva loro meno bene. Anzi, li accettava e li amava così com’erano. Senza giudicarli. E in ciò, non meno che nelle riprese dei paesaggi, pareva aver assimilato un bel po’ della grandezza d’animo, prima che tecnica, di uno dei maestri tra i maestri della Settima Arte, John Ford.

Anche negli altri suoi film, precedenti e successivi, è evidente che Cimino è innamorato dei suoi attori, tanto che regala loro inquadrature e sequenze che ne illuminano le più efficaci sfumature d’espressione: accennati indugi della macchina da presa su quei minimi accenni del volto, su quella gestualità del corpo e su quelle movenze, che subliminalmente sono capaci di suscitare il piacere dello sguardo nello spettatore. Ma la sua  consueta riserva di ammirazione estetica per tutti, in questo film, risulta davvero generosa verso i tre protagonisti maschili e verso la Streep. E, soprattutto in quest’opera, tale capacità del regista di usare la macchina da presa per far amare i suoi interpreti non è mai sganciata dalla sospensione del giudizio sui personaggi cui essi danno vita.

Be’, su questo aspetto occorrerebbe tentare di non essere da meno, riconoscendo, perciò, che porre l’occhio sulle difficoltà di Steven, Micheal, Nick e gli altri di relazionarsi con la loro vita interiore, non significa non affezionarsi ad essi. Né significa credersi superiori e supporre di non doversi misurare con analoghe difficoltà. Chi di noi non si trova, del resto, nella propria vita sociale, a volte, ad annaspare in un mare, o in un laghetto, di non-detti, talora inconsapevolmente?

Le reazioni al film possono essere interpretate come “agiti”? «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» giudizi (non meditati e, forse, non meritati)?

Quando il film uscì venne tacciato, negli USA come in Europa e altrove, da buona parte dell’opinione pubblica di sinistra (dai liberal ai comunisti) di essere un’opera reazionaria, veicolante un patriottismo regressivo e fuori luogo, oltre che fuori tempo massimo [9].

In realtà, come fu riconosciuto, il film non ritraeva la guerra come uno sport o come una nobile e cavalleresca impresa, anzi, ne sbatteva in primo piano l’angosciante, dolorosa, macabra e rivoltante insensatezza. Però, pur negando ogni celebrazione eroica, rappresentava la guerra in Vietnam come un incubo assurdo e spietato in cui vengono coinvolti i protagonisti, ma di cui essi non hanno alcuna responsabilità. È qualcosa che accade a loro, ma non che accade anche per causa loro [10].

Tuttavia, se allora, si fosse potuto prendere un po’ di tempo per pensare a quanto il conflitto (ideologico, culturale e politico) stava emotivamente influenzando spettatori, critici, diplomatici e commentatori vari, magari, le reazioni di rigetto sarebbero state giustificate diversamente. O, almeno, non avrebbero assunto quei toni di condanna. Se fosse stato possibile ai critici dell’epoca ascoltarsi un po’ di più, sarebbero riusciti ad evitare di sparare tanti giudizi davvero fuori bersaglio? Con senno del poi è facile rilevare che accusare un umanista come Micheal Cimino di fare apologia del fascismo, o del revanscismo, significava davvero confermare che «chi non riesce a pensare, alla fine, spara» giudizi affrettati.

Esagerando con questa chiave di lettura…

Esagerando con la chiave di lettura fin qui proposta, questa suggestione interpretativa si potrebbe applicare anche al patriottismo acritico espresso dai personaggi e dai loro concittadini [11]. Anzi, potrebbe essere impiegata per rimarcare l’attualità dell’opera, osservando come nel nostro presente tante spinte rabbiosamente nazionaliste siano suscettibili di essere interpretate come agiti, cioè, come comportamenti meramente reattivi. E sono proprio questi immediati trasferimenti di emozioni e pregiudizi inconsapevoli in condotte impulsive a procurare grandi soddisfazioni a quei leader politici intenti a stimolarli e ad avvantaggiarsene, con il loro “parlare solo alla pancia” e mai alla testa dei loro concittadini (su un’altra sezione di questo blog di Me.Dia.Re. sono stati pubblicati dei post – qui, qui, qui e qui – su tale tema, nonché su quello “dell’ascolto politico“, ossia di quell’ascolto che cerca di fare da ponte tra la testa e la pancia dell’elettorato).

Tornando a Micheal Cimino e al suo film di quarant’anni fa, ci si potrebbe spingere anche a dire che la riflessione sulla difficoltà di pensare – che porta a mettere direttamente in atto, senza il filtro della ragione, i propri sentimenti ed emozioni, cioè, appunto ad agirli (spesso con esiti distruttivi o autodistruttivi) -, in qualche modo, fosse anche la prospettiva del regista. Si potrebbe sostenere che questo fosse il suo modo di pensare, anzi, non solo a questi personaggi ma agli americani in generale. Concludendo, su questa falsa riga. che la critica di Cimino alla guerra in Vietnam fosse ancora più severa e profonda di quella di tanti altri, liberal o meno., che ne attribuivano le responsabilità al cinismo o all’ottusità dei leader politici, ma non alla scarsa capacità riflessiva del popolo americano.

E si potrebbe giungere a confortare questa tesi interpretativa con il richiamo al successivo I cancelli del cielola cui battuta chiave è «Sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese». Ricordare la denuncia, disperata, rabbiosa e commossa di questo capolavoro maledetto, il suo dolente contemplare il carattere sanguinario, razzista e proto-fascista delle origini e dello sviluppo dell’America capitalista, potrebbe servire, allora, a smentire le accuse di filofascismo di cui furono oggetto Il cacciatore e, soprattutto, Micheal Cimino.

Tuttavia, prima di “sparare” una simile conclusione è bene ascoltarsi e riconoscere che la simpatia e la gratitudine nei confronti del regista per le opere dirette, possono, per così dire, prendere la mano e indurre a tentarne una stiracchiata difesa. Una difesa, sul piano morale ancor prima che politico-ideologico, che, in realtà, consisterebbe nell’attribuire a Cimino delle riflessioni e delle analisi probabilmente non sue e che, semmai, potrebbero essere soltanto quelle che il sottoscritto, sotto sotto, vorrebbe che il regista e i suoi collaboratori avessero sviluppato.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Il film Il cacciatore (1978) di Micheal Cimino.

 

[1] La trama si articola in tre parti. Com’è noto, il film racconta le esperienze di alcuni giovani operai di una fonderia di Clayton, Pennsylvania, Mike Vronsky (Robert De Niro), Nick Chevatorevich (Christopher Walken), Steve Pushkov (John Savage), Stan (John Cazale) e Axel (Chuck Apsegren) e del barista John Welsh (George Dzundza), accomunati oltre che dalla fabbrica e dalle abbondanti bevute, dalla passione per le escursioni sui monti per la caccia al cervo. Ad essi si aggiungono la ragazza di Nick, Linda (Meryl Streep), maltrattata da un padre alcolista, e la fidanzata di Steve, Angela Ludhjduravic-Pushkov (Rutanya Alda), che è incinta, ma non è Steve il padre della creatura che porta in grembo. Tutti costoro vivono in un quartiere operaio, fanno una vita dura e sono immigrati di seconda generazione, di origine lituana e di religione cristiana ortodossa. Il film inizia la mattina di un sabato, con la fine del turno in fabbrica per i primi quattro personaggi sopra citati. Nel pomeriggio verrà celebrato e festeggiato il matrimonio di Steve e Angela, che sarà seguito da una battura di caccia la domenica. Il lunedì Mike, Nick e Steve saranno arruolati per essere destinati nel Sud Est asiatico.

La seconda parte del film si svolge In Vietnam. Qui, catturati dai nordvietnamiti, vengono sottoposti al letale gioco della roulette russa. Riescono, però, a fuggire dai vietcong, grazie alla determinazione di Mike che propone ai loro aguzzini di giocare, insieme a Nick, con tre pallottole nel tamburo, riuscendo a farli fuori.

La terza parte, mostra come tutti e tre finiscano male, uno nella tomba e gli altri segnati per sempre nel corpo e nella mente: Steve perderà l’uso delle gambe; Nick, scampato con una leggera ferita alla gamba, diserterà per perdersi nel sottobosco criminale di Saigon, dove, drogato, si dedicherà al “gioco” della roulette russa, diventando un “campione”. Ma la roulette russa gli sarà fatale, proprio giocando con Mike. Costui, tornerà a Saigon, a cercare Nick, avendo scoperto che invia forti somme di denaro a Steve. Mentre la città, abbandonata dagli americani e in preda al panico, sta cadendo in mano ai nord-vietnamiti, Mike scoprirà che Nick è la “star” degli scommettitori della roulette russa e accetterà di partecipare alla mortale partita col suo amico, nella speranza di indurlo a tornare in sé, a ricordarsi chi è, e a venire via da quel macabro girone infernale; Mike, il leader del gruppo, quindi, sul piano fisico non riporterà che un dolore ricorrente sopra l’occhio destro, ma sul piano morale una completa disfatta di ogni sua precedente convinzione.

[2] La sceneggiatura di Michael Cimino, Deric Washburn, Louis Garfinkle e Quinn K. Redeker, fu candidata all’Oscar, ma il premio venne vinto dall’altro Vietnam-movie di quell’anno, Tornando a casa, di cui abbiamo parlato sempre su questa rubrica. Il cacciatore vinse in tutto 5 Oscar: Miglior film a Barry Spikings, Michael Deeley, Michael Cimino e John Preverall; Miglior regia a Michael Cimino; Miglior attore non protagonista a Christopher Walken (che si aggiudicò il premio per cui concorreva anche Bruce Dern per Tornando a casa); Miglior montaggio a Peter Zinner; Migliore sonoro a Richard Portman, William L. McCaughey, Aaron Rochin e C. Darin Knight. Le altre candidature furono per De Niro (attore protagonista), che venne battuto da Jon Voight (interprete principale di Tornando a casa, premiato insieme alla co-protagonista Jane Fonda), per Meryl Streep (attrice non protagonista) e per Vilmos Zsigmond, quale direttore della fotografia.

[3] E anche se Axel (Chuck Aspegren) ripete continuamente «d’accordissimo», la sua è più una posa che una limitazione di vocabolario (è questa la battuta con cui lo sfotte Nick).

[4] Robert De Niro è Michael “Mike” Vronsky, Christopher Walken è Nikanor “Nick” Chevatorevich, John Savage interpreta Steven Pushkov, mentre il personaggio interpretato da John Cazale viene chiamato talora Stosh, oltre che con l’abbreviativo inglese Stan

[5] Altre situazioni analoghe a quelle citate possono essere le seguenti: Stan che chiede Mike, appena tornato dal Vietnam, se gli piace la sua nuova ragazza e se la trova intelligente e, quando, questi gli risponde negativamente ad entrambe le domande, replica che anche a lui non piace né la trova intelligente. Ci sta insieme, ma non sa perché; Linda che chiede a Nick, mentre si accingono ad entrare nella roulotte-appartamento che questi condivide con Mike, se potrà andare a vivere lì, quando loro due saranno sotto le armi, e che, invece, di comunicare la sua disperata rivolta al padre maltrattante, si propone di pagare loro l’affitto. Mike, che, nel frattempo, esce frettolosamente, fingendo, in modo poco credibile, di non incontrarli, per la sofferenza che gli procura il vederli insieme, essendo anch’egli innamorato di Linda. Sempre Mike che, durante la festa per il matrimonio di Steve e Angela, ubriaco, balla con Linda, ma poi non riuscendo a starle vicino, né a parlarle, le chiede se vuole una birra e cerca di superare l’imbarazzo di entrambi, che egli ha provocato con il suo palese, ma non-comunicato disagio, ma tentando di appurare con una serietà fuori posto quale marca preferisca. Poi tenterà maldestramente di baciarla, salvo ritrarsi e riprovarci ancora.

[6] Durante la prigionia prima di dice a Nick che deve scordarsi di Steve, spiegandogli seccamente che quello, poiché ha ceduto ai nervi ed è stato rinchiuso in una gabbia mezza sprofondata nel fiume, è già morto, poi, però, quando vengono soccorsi dall’elicottero, molla la presa e si lascia cadere nel fiume per restare proprio con Steve. Abbandona, in seguito, Nick, stabilisce uno strano rapporto di coppia con Linda, sottraendo all’amico abbandonato anche la fidanzata. È un traditore, quindi, che, tuttavia, cerca di restare fedele all’amicizia, così, mentre Saigon sta per cadere in mani nordvietnamite, egli vi torna per riportare Nick a casa.

[7] Quando questi, avendo letto il suo cognome, osserva che è russo, la risposta spontanea, inconsapevole di tutte le implicazioni di cui è intrisa l’osservazione dell’ufficiale, risponde: «No, americano»

[8] Esattamente come, tempo prima, scaricato, insieme a Steve, da un elicottero nei pressi del campo di battaglia, sulle prime, non era stato riconosciuto da Mike, che, avendo appena bruciato vivo un soldato nordvietnamita era come intossicato da un furore nauseante.

[9] La gran parte delle critiche negative riguardavano la descrizione dei vietmhin come feroci e crudeli aguzzini: gettano una bomba nella buca in cui è nascosta una famiglia, per poi mitragliare la madre mezza carbonizzata che ne esce con una bimba ferita in braccio; costringono i loro prigionieri americani e sudvietnamiti alla roulette russa e non fanno altro che picchiarli e strillare loro addosso, quando non li chiudono in una gabbia nel fiume infestato di topi. Anche, se occorre rilevarlo, la loro crudeltà non è mai in alcun modo ricondotta al fatto che siano comunisti, e d’altra parte, i collaborazionisti filo-americani del Vietnam del Sud non fanno, certo, una bella figura, sprofondati come sono nell’immoralità più disperata. Infine, non se la cavano meglio gli americani nelle scene della caduta di Saigon.

[10] Questa assenza di risvolti critici sul conflitto in Vietnam, associata alla rappresentazione dei nordvietnamiti e dei vietcong come disumani torturatori, provocò l’abbandono del festival di Berlino da parte della delegazione dell’URSS e degli altri Paesi comunisti, ma destò anche la reazione indignata di Jane Fonda.

[11] Mentre escono dalla fabbrica nel loro ultimo giorno di lavoro prima della partenza, Nick, Steve e Mike incontrano chi li saluta dicendo: «Per favore, ammazzane qualcuno anche per me»; alla festa, tutti e tre vanno in visibilio alla vista di un sergente dei Berretti Verdi. Successivamente in auto cantano l’inno delle Eagles Screaming, cioè della 101esima aviotrasportata. Il proprietario del supermarket in cui lavora Linda interloquisce con Mike dicendogli «Allora abbiamo vinto davvero», quasi come se ripetesse lo slogan del presidente Richard Nixon sulla pace con onore, mentre il regime fantoccio del Sud Vietnam sta per cadere totalmente dopo il completo ritiro americano. Tutti, dopo il funerale di Nick, incapaci di parlare e intenti a superare il disagio, ponendo un’attenzione esagerata alla tavola da apparecchiare, incapaci di parlarsi, cantano sommessamente nel finale God Bless America.

Quello strano colpo di Stato della notte dell’Immacolata

«Il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo»

«Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo».

 Queste parole avrebbe voluto pronunciare, la notte dell’Immacolata del 1970, il sessantaquattr’enne principe Junio Valere Borghese, già comandante della Xª Flottiglia MAS durante la Seconda Guerra Mondiale, aderente alla Repubblica di Salò, dopo l’8 settembre del ’43, presidente del Movimento Sociale Italiano dal ’51 al’53, e fondatore nel ’68 del Fronte Nazionale[1].

Cosa prevedeva il colpo di Stato?

Il colpo di Stato non fu portato a termine, lo sappiamo. Cioè, sappiamo che non fu realizzato quel particolare piano di colpo di Sato, il quale in ogni caso non era affatto una tardiva goliardata di senescenti generali, come si cercò, invece, di farlo passare.

Il colpo di Stato era stato progettato fin dal 1969, con la formazione di gruppi clandestini armati, in accordo con diversi vertici militari e con rilevanti membri interni ai Ministeri. Avrebbe dovuto consistere nel rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (del Partito Socialdemocratico Italiano), nell’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, nell’occupazione dei ministeri dell’Interno e della Difesa e delle sedi Rai, nell’assunzione del totale controllo dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni), nonché nella deportazione di tutti i parlamentari comunisti e degli altri presumibili oppositori al colpo di Stato presenti nel Parlamento, quale che fosse il partito di appartenenza.

I golpisti facevano sul serio o per finta? Oppure facevano sul serio a fare per finta?

Il colpo di Stato era in fase di avanzata esecuzione quando, improvvisamente, Junio Valerio Borghese, attorno alle ore 24 del 7 dicembre, ne ordinò l’immediato annullamento[2]. Perché?

Era previsto fin dal principio che il colpo di Stato non giungesse a completo compimento e che avesse la funzione di indurre con la minaccia una correzione politica da parte del governo in carica e soprattutto della Democrazia Cristiana?[3] Oppure, il piano era stato concepito per dare luogo realmente ad un colpo di Stato, ma, poi, all’ultimo, era venuto meno l’appoggio di chi aveva promesso di fornirlo, come se al momento della verità, i cospiratori avessero appreso che il sostegno e gli appoggi internazionali su cui avevano fatto assegnamento non vi erano?

Il “principe nero” non era solo

Certo è che il principe (“nero”, come fu definito) Borghese non aveva agito da solo. Nel rapporto che il Servizio informazioni della difesa (Sid) inviò ai giudici di Roma nel ’74 furono eliminati molti nomi di personaggi eccellenti che vi avevano avuto a che fare. Tra questi Licio Gelli, il capo, cioè, della Loggia Propaganda 2, inoltre, come abbiamo visto il colonnello Lovecchio e il generale Casero, il generale Miceli, l’ammiraglio Torrisi e Filippo De Iorio: anch’essi della P2[4].

Il disegno politico del colpo di Stato

Che i cospiratori guidati da Borghese, o che lo guidavano, facessero sul serio o meno, rispetto all’attuazione del colpo di Stato pianificato, appare quasi certo che il fine fosse quello di spostare l’asse politico del Paese verso destra.

Cioè: verso un ripristino di stampo marcatamente reazionario dell’ordine, turbato soprattutto dall’onda lunga del ’68, con lo sviluppo del movimento studentesco e di quello operaio; verso l’adozione di una linea politica conservatrice che interrompesse, quindi, quel riformismo sviluppatosi fin dai primi governi di centro sinistra (sorti sull’accordo tra la DC e il Partito Socialista di Pietro Nenni) e che pareva in procinto di avviarsi sempre di più verso approdi che irritavano e preoccupavano il mondo economico-finanziario e coloro che, per cultura e per valori, preferivano una politica decisamente più moderata.

Costoro, come del resto il governo americano di Richard M. Nixon, vedevano con orrore lo spostamento a sinistra sia delle iniziative adottate dal potere legislativo ed esecutivo che dell’elettorato. Non soltanto appena una settimana prima era stata approvata una legge che riconosceva a ciascun coniuge il diritto di divorziare – quindi, era “cambiata la Storia”, almeno sotto questo profilo -, ma in quel 1970 era stato anche approvato lo Statuto dei Lavoratori, una riforma che, insieme, a quella urbanistica – tutte novità alimentate dai socialisti -, creava allarme negli ambienti conservatori.

Inoltre, era da poco trascorso il cosiddetto Autunno caldo, e le elezioni del ’68 avevano visto prodursi un successo dei comunisti, che avevano ottenuto 11 seggi in più, e il fallimento – 29 seggi in meno – dell’unificazione tra socialisti e socialdemocratici (Partito socialista unificato), che avrebbe dovuto dare luogo ad una grande forza di sinistra moderata, capace di isolare il Partito Comunista, riducendone parecchio l’area di consenso. Mentre Aldo Moro, ormai fuori dal governo, si proponeva di dare luogo ad una nuova apertura proprio verso il Pci, questo partito, proprio nell’estate di quell’anno, aveva attuato il suo primo strappo dall’U.R.S.S., criticando l’invasione della Cecoslovacchia. Del resto, dalla metà degli anni Sessanta, dopo la pubblicazione del memoriale su Yalta, il Pci era sospettato di eresia negli ambienti sovietici più ortodossi, un sospetto acuito dal discorso pronunciato, l’11 giugno 1969, a Mosca nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti, da Enrico Berlinguer, all’epoca vicesegretario del Pci: il suo intervento venne ricordato come «il più duro discorso mai pronunziato a Mosca da un dirigente straniero» contro la linea del Partito Comunista Sovietico.

Il “fallito” colpo di Stato e la strategia della tensione

Su questo sfondo era maturata, l’anno prima del tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese, la strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre del 1969, che, oltre a togliere la vita a 16 persone, aveva dato il via alla “strategia della tensione”[5].

Questa strategia, in realtà, secondo Giovanni Pellegrino, presidente, tra il ’94 e il 2001, della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, per i suoi vari protagonisti aveva obiettivi diversi. Per la manovalanza neofascista, che metteva materialmente le bombe e massacrava decine di esseri umani, il fine era quello di provocare allarme sociale e paura, anzi di far sì che tali massacri fossero attribuiti all’estrema sinistra, collegati, quindi, almeno emotivamente, alla protesta studentesca e operaia e al Pci, cosicché la cosiddetta maggioranza silenziosa auspicasse, o almeno, accettasse, una risposta d’ordine e una netta emarginazione, anche violenta e illegale, dei comunisti. In altre parole, il loro obiettivo era funzionale ad un vero e proprio colpo di Stato, come quello progettato nel golpe Borghese. I mandanti, ovvero, gli istigatori, invece, avevano come fine non un rovesciamento dell’ordinamento giuridico, ma uno spostamento in senso conservatore del Paese. A livello internazionale, invece, l’obiettivo di convergenti interessi politici era quello di mantenere l’Italia in una condizione di disordine e instabilità interna.

Come ha osservato Giovanni Pellegrino, «gli anni tra il 1969 e il 1974 [anno della strage di Piazzale della Loggia a Brescia, preceduto da quella di Petano del 1972, ma anche delle dimissioni di Richard Nixon a seguito del Watergate e della caduta della giunta militare dei “colonnelli” in Grecia, così come di quello del regime fascista in Portogallo, grazie alla “rivoluzione dei garofani”, entrambe favorite dal venir meno dell’appoggio statunitense] sono costellati da una serie impressionante di omicidi o di morti misteriose di persone che avrebbero potuto rivelare verità scottanti, capaci di far fallire i piani mentre erano in corso, o di indirizzare i giudici verso i mandanti una volta che i piani erano stati abbandonati. Ma a ritardare l’accertamento della verità ha contribuito per molti anni anche l’assenza del “pentitismo”, dal momento che i terroristi neri avevano paura di parlare, non sapendo mai, durante gli interrogatori, chi avevano di fronte: se un servitore fedele dello Stato o, magari, proprio uno dei mandanti dell’attentato per il quale si trovavano sotto inchiesta».

L’insofferenza verso il sistema parlamentare e il pluralismo partitico, cioè verso la democrazia rappresentativa

Quale che fosse il fine ultimo perseguito dagli ispiratori e dai sostenitori del fallito colpo di Stato tentato da Borghese nel 1970, così come dagli altri, sanguinosi, attacchi precedenti e successivi, posti in atto dall’eversione di destra, con la complicità, o almeno, con la copertura di apparati dello Stato, in primis dei servizi segreti (deviati) – dalla strage alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, del 12 dicembre ’69, alla strage di Bologna, del 2 agosto 1980 -, una cosa appare difficilmente controvertibile: che fossero concepiti in senso anti-comunista o, più probabilmente, in una prospettiva anti-progressista, ovvero ancora all’interno di un più ampio quadro internazionale, risultava evidente l’intenzione di ridurre all’irrilevanza o a mera parvenza formale il sistema della democrazia rappresentativa.

La preminenza del Parlamento sul Governo, la subordinazione di questo a quello, l’affidamento pressoché esclusivo del potere legislativo al primo e la dipendenza del secondo dal voto di fiducia parlamentare, la connessa assenza del vincolo di mandato per gli eletti, costituivano per i golpisti non meno che per gli stragisti un nemico da abbattere. Gli erano visceralmente avversi la Loggia P2, il principe Junio Valerio Borghese e l’organizzazione fascista da lui fondata, come gli altri movimenti neo-fascisti di quegli anni – e di quelli attualmente attivi -, i loro sostenitori occulti all’interno dell’amministrazione dello Stato.

Un popolo a sovranità molto limitata

Ai neofascisti, come ai loro predecessori del Ventennio, il sistema parlamentare proprio non poteva andare giù, essendo essa il vero e il più forte baluardo posto a presidio della libertà e della sovranità del popolo.

Lo statuto del Fronte Nazionale fondato nel ’68 da Junio Valerio Borghese, infatti, dichiarava quale scopo da perseguire «tutte le attività utili alla difesa e il ripristino dei massimi valori della civiltà italiana ed europea». Nel documento pubblicato l’anno dopo dal titolo “Orientamenti programmatici” venivano meglio specificate quelle attività utili: la soppressione dei partiti politici e delle istituzioni parlamentari definiti «germi di disintegrazione, focolai di corruzione» (De Lutiis, 1996).

Se per quell’organizzazione era facilmente ravvisabile la prossimità con l’antiparlamentarismo fascista, un discorso più complesso vale per coloro che all’interno del nostro Stato e all’esterno lo appoggiarono o lo sfruttarono.

Una facoltà di scelta limitata dagli equilibri internazionali

Il Pci, dal 1948, come la DC credeva nella Costituzione e svolgeva una funzione di opposizione democratica, però, faceva riferimento ad un ordine internazionale, quello comunista cino-sovietico, che tutto era tranne che democratico. Tuttavia, il Pci si rendeva conto che l’equilibrio Est-Ovest stabilito a Yalta, in particolare per quanto riguarda l’Europa, ovvero la spartizione delle aree di influenza tra l’URSS, con i suoi alleati, da una parte, e gli USA con i loro alleati dall’altra, non poteva essere alterato, sicché poteva solo aspirare ad essere il maggiore partito di opposizione, contribuendo al governo del Paese esclusivamente attraverso la propria azione politico-parlamentare[6].

Le ingerenze USA e le “covert operations”

Se già ciò, in linea di principio, costituiva un limite preciso, ancorché non esplicito, alla libertà di scelta degli elettori italiani, un altro aspetto più marcatamente illegale era costituito dall’ingerenza americana nella politica nostrana. Ad esempio, tra le tante direttive del National Security Council dedicate ad assicurare che l’assetto politico del nostro Paese non subisse variazioni, vi era il NSc 1/3 dell’8 marzo 1948, in cui al punto 5 si affermava che in caso di partecipazione dei comunisti nel governo italiano o nel caso in cui il governo italiano avesse cessato di opporsi con determinazione all’avanzata comunista, gli USA dovevano adottare “operazioni coperte”, anche illegali, per sradicare la presenza dei comunisti dall’Italia[7]. In altre parole, si tratta della operazione Chaos, svolta tra il ’67 e il ’73, che, secondo il rapporto che nel 1975 la Commission on C.I.A. Activities within the United States inviò al Presidente Gerald Ford, consisteva nell’infiltrazione di agenti americani o da questi “arruolati” in partiti, associazioni, organizzazioni e gruppi dell’estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, marxisti-leninisti, operaisti e castristi) in Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Repubblica Federale Tedesca perché compissero azioni violente o addirittura eversive, così da stimolare una reazione popolare di avversione alla sinistra quale portatrice di sovversione e terrorismo (De Lutiis, 1996). Del resto la strage di Piazza Fontana fu in un primo momento attribuita al gruppo anarchico di Pietro Valpreda.

Grazie al Freedom of Information Act, nel 2004 è stato possibile apprendere che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti, anche se ancora oggi non è possibile affermare irrevocabilmente se esso lo abbia avvallato o discretamente scoraggiato.

Fanno, comunque, venire i brividi le parole dette dal segretario della DC, Arnaldo Forlani, il 5 novembre 1972, in un comizio al Teatro Civico della Spezia:

« È stato operato il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia tentato e portato avanti dalla Liberazione ad oggi. Questo tentativo disgregante, che è stato portato avanti con una trama che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti e che ha trovato delle solidarietà probabilmente non soltanto di ordine interno ma anche di ordine internazionale, questo tentativo non è finito: noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso».

Nessuna verità

Gli italiani appresero la notizia del colpo di Stato solo 3 mesi dopo, grazie al quotidiano Paese Sera, che titolò: “Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra“. Il 18 marzo 1971 il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firmò i mandati di arresto, per usurpazione dei poteri dello stato e cospirazione, a carico del costruttore edile Remo Orlandini, di Mario Rosa, di Sandro Saccucci, di Giuseppe Lo Vecchio e di Junio Valerio Borghese.

Costui fuggì in Spagna, dove morì il 26 agosto 1974, anche se nel 1973, era stato revocato l’ordine di cattura.

La procura della Repubblica di Roma archiviò l’indagine del 1971 per mancanza di prove, ma riaprì l’istruttoria il 15 settembre 1974, e il 30 maggio 1977 cominciò il processo per il golpe a 68 imputati. Con la sentenza della Corte d’Assise d’appello del 29 novembre 1984 si ebbe una complessiva assoluzione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, sicché anche gli imputati che avevano ammesso di aver preso parte al fatto vennero assolti. L’assoluzione interessò tutti i 46 imputati dall’accusa di cospirazione politica, e la sentenza liquidò il colpo di Stato tentato come «conciliabolo di 4 o 5 sessantenni», riformando completamente la decisione di primo grado, inoltre riduceva le condanne, inflitte nel luglio del ’78,  a carico di alcuni imputati minori, rei di detenzione e porto di armi da fuoco.

Però qualcosa sappiamo

Naturalmente, il colpo di Stato tentato e poi annullato dal principe Borghese non soltanto non fu un golpe da operetta, ed è anche dubitabile che, avventura eversiva mancata o gesto riuscito con finalità di avvertimento alla classe politica del tempo, si sia trattato di un’iniziativa ispirata solo dalla lotta contro il comunismo. Cioè, quale che fosse il fine, come suggeriscono diverse analisi, si può supporre che non si tratti di un’azione collocabile esclusivamente in una dimensione politico-ideologica.

Appare quanto mai improbabile che coloro che appoggiarono prima il “principe nero” e si occuparono poi di depistare per decenni le indagini fossero mossi soltanto da un viscerale anticomunismo e dalla paura paranoica del pericolo rosso.

Il pericolo rosso poteva essere sbandierato nelle campagne elettorali, ma a quei livelli era indubbiamente noto che il Pci, anche in caso di vittoria schiacciante alle elezioni, non aveva alcuna intenzione di portare l’Italia nell’orbita sovietica, né di dare luogo alla dittatura del proletariato. Pertanto, sembra più credibile che la vera preoccupazione nutrita nell’ambiente in cui maturò quel tentativo di colpo di Stato, come, del resto, per il precedente “Piano Solo”, sul fronte interno, non fosse quella dell’impossibile formazione di un governo comunista o anche-comunista, ma del costituirsi di una maggioranza parlamentare e di un governo intenti a realizzare politiche economico-sociali di tipo progressista; mentre, a livello internazionale, a procurare agitazione era la possibilità di un assetto politico italiano capace di intraprendere una propria autonoma politica su temi delicatissimi, quali i rapporti con i cosiddetti Paesi in via di sviluppo e, ad esempio, l’approvvigionamento energetico.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal 1946 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1996

Giuseppe De Lutiis, I servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelligence del XXI secolo, Sperling & Kupfer, 2010.

Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri e Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 2000.

Parlamento Italiano, XIII Legislatura, Relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. On. Giovanni Pellegrino

https://it.wikipedia.org/

 

[1] Il discorso che Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese aveva previsto di rivolgere al popolo italiano, quella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, dagli studi della RAI, proseguiva così: «La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso TRICOLORE, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: ITALIA, ITALIA, VIVA L’ITALIA!»

 

[2] Quella notte tra il 7 e l’8 dicembre ’70 centinaia di congiurati si erano raggruppati a Roma e in molte altre città. Al ministero della Difesa il generale dell’Aeronautica militare Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe Lo Vecchio erano già arrivati per svolgere la loro parte, così come al ministero dell’Interno erano state distribuite armi e munizioni ai congiurati, mentre circa 190 uomini del Corpo Forestale dello Stato erano in attesa del “via” nei pressi degli studi televisivi della RAI.

[3] E, in tal caso, doveva servire da scusa per l’emanazione di leggi speciali, simili – ma, forse, ancora più severe – a quelle che poi furono adottate a seguito del rapimento di Aldo Moro nel ’78?

[4] Sul coinvolgimento di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta si veda https://it.wikipedia.org/wiki/Golpe_Borghese#Il_ruolo_di_Cosa_Nostra_e_della_’Ndrangheta

[5] In questa rubrica abbiamo ricordato la strage dell’Italicus, l’uccisione del giudice Occorsio e di Francesco Straullu, la strage di Bologna e la sentenza su quella strage

[6] Del resto l’ex capo del Sismi, ammiraglio Martini, rivelò che anche i vertici sovietici gli confidarono che erano pronti ad attivarsi per evitare che un’eventuale vittoria elettorale del Pci alterasse gli equilibri di Yalta.

[7] Analogamente, esattamente 22 anni dopo, cioè l’8 marzo 1970, nove mesi prima dell’abortito colpo di Stato di Borghese, un altro documento che evidenzia l’illegalità del pianificato intervento del governo e dell’esercito USA in caso di vittoria delle sinistre è il “supplemento B” al Field Manual 30-31 del Gen. Westmoreland  (il documento fu trovato e sequestrato nella valigia di Maria Grazia Gelli, la moglie di Licio Gelli, all’aeroporto di Fiumicino, il 4 luglio dell’81), in cui si fa esplicito riferimento all’utilizzo di organizzazioni di estrema sinistra, opportunamente infiltrate.

Il 6.12.2002 muore a Firenze Antonino Caponnetto

È finito tutto.

Una delle frasi più celebri del magistrato siciliano è forse quella che meno lo rappresenta. La pronunciò, come noto, poco dopo aver baciato la fronte di Paolo Borsellino, fredda di morte: uscito dall’obitorio, distrutto dalla perdita del secondo “figlio adottivo”, fu lo sconforto a prendere il sopravvento. Lo sguardo quasi assente, la voce rotta dalla tristezza, che più di quelle tre parole non riesce a dire. Il dolore di un collega, di un fratello, di un amico, di un padre che seppellisce un figlio. Per Caponnetto, Falcone e Borsellino erano tutto questo, e forse più.

Dopo cinque anni di lavoro insieme, erano riusciti a costruire una bella realtà personale, oltre che professionale. Il successo del maxi processo a Cosa Nostra ebbe eco internazionale, e fu raggiunto anche grazie all’idea del già defunto Rocco Chinnici, come abbiamo ricordato in questo articolo. L’invenzione del pool risale infatti all’83, quando Caponnetto non era ancora tornato in terra natia: l’omicidio del capo dell’Ufficio istruzione di Palermo consentì al nostro di trasferirsi in Sicilia, dove avrebbe raccolto l’eredità del collega in modo egregio, con centinaia di mafiosi messi alla sbarra.

Dopo la morte dei due amici, fratelli, figli, ebbe solo quel momento di debolezza. Da lì in poi, nonostante fosse in pensione, intensificò il proprio impegno nella lotta alla mafia, con lo strumento che essa teme di più: l’istruzione. Innumerevoli scuole e piazze prestarono orecchio alla voce del vecchio magistrato, che voleva raccontare chi fossero stati Falcone e Borsellino e per quali grandi valori avessero perso la vita.

Ci piace ricordarlo, dunque, non con le tre parole dell’inizio, ma attraverso quelle di un altro siciliano famoso:

Il suo volto, le sue parole, in quel momento mi fecero molta paura. Una paura quasi fisica che mi spinse immediatamente a spegnere il televisore. Se uno come Caponnetto arrivava a toccare quel fondo di scoramento assoluto, pensai, allora tutto era veramente perduto. Ma già dalla celebrazione del funerale di Borsellino capii che quella sua forza interiore si era non solo ricompattata, ma aveva preso un nuovo slancio. E infatti continuò a combattere sino alla fine, non più nelle aule giudiziarie, ma nelle aule scolastiche, o dovunque fosse possibile, per spiegare cosa era la mafia, quale tremendo danno arrecava al tessuto vitale non solo della Sicilia, ma dell’intero nostro Paese.
(Andrea Camilleri)

 

Alessio Gaggero

 

Tra il 5 e il 6 dicembre 2007 si scatena il fuoco omicida della ThyssenKrupp

Il fuoco che brucia la pelle degli uomini. Che mangia vivo chiunque capiti a tiro. Si avvinghia ai corpi, finché qualcuno non lo spegne o non rimane più nulla da bruciare. E nel frattempo strappa la vita alle persone che incatena.

Questo è accaduto a quei sette uomini che, nella notte di tredici anni fa, sono stati coinvolti nell’incidente della ThyssenKrupp, nello stabilimento di Torino. La dinamica, ricostruita in tre gradi di giudizio, vede un piccolo incendio trasformarsi in un mostro di fuoco, che travolge gli operai come uno tsunami, senza lasciare loro alcuno scampo. Se ne salva solo uno, casualmente dietro un muletto lasciato in mezzo al corridoio, che lo protegge dall’ondata di fiamme, ma non dal vedere i propri “fratelli” bruciare vivi: corpi arroventati che vagano urlando in quella fabbrica che è stata la loro casa ed è diventata la loro tomba.

Tre gradi di giudizio, appunto, necessari per accertare le responsabilità. Quasi dieci anni di procedimento. Lacrime rabbiose dei famigliari per la riduzione in Appello: quasi tredici milioni di euro di risarcimento non servono a restituire padri, figli e mariti. Soprattutto se strappati alle proprie case da un momento all’altro, nonostante, probabilmente, l’incidente si sarebbe potuto evitare. Se gli estintori fossero stati pieni; se i corsi sulla sicurezza fossero stati tenuti; se lo stabilimento non fosse stato sull’orlo della chiusura, quando la soglia dell’attenzione inevitabilmente si abbassa.

Harald Espenhahn e Gerard Priegnitz. Evidentemente non i nomi degli operai italiani, i cui visi costruiscono l’immagine dell’articolo, ma dei manager tedeschi condannati, che non hanno fatto un giorno di carcere, essendo a piede libero in Germania. Chissà le famiglie delle vittime quanto dovranno attendere per poter dire appagata la propria sete di giustizia.

 

Alessio Gaggero

Il quattro dicembre 1997 si spegne il maestro Alberto Manzi

Infilare le dita nelle piaghe del mondo era vietato, quindi mi attirò subito.

Il 4 dicembre 1997 si spegne all’età di 73 anni Alberto Manzi: personaggio complesso e a modo suo rivoluzionario, docente, pedagogista, scrittore, divulgatore, cooperatore internazionale ante litteram, riconosciuto e premiato in tutto il mondo, è perlopiù ricordato presso il grande pubblico come “il maestro” della trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi.

Nato a Roma nel 1924, vanta un curriculum formativo vasto e articolato, essendosi diplomato contemporaneamente all’Istituto Magistrale e al Nautico e, dopo la guerra, laureato in Biologia e anche in Pedagogia e Filosofia, con una specializzazione in Psicologia; in quest’ambito prosegue l’attività di ricerca.

Ottiene il suo primo incarico di insegnamento nel 1946, presso l’istituto romano di rieducazione Aristide Gabelli: poco più che ventenne, Manzi si trova a fronteggiare una classe di 94 allievi, tra i nove e i diciassette anni. Racconterà in un’intervista del 1997:

All’inizio della prima lezione mi s’avvicina un ragazzo, il boss dei detenuti e mi dice: ‘Tu ti metti lì a leggere il giornale e noi ci godiamo quattro ore di tranquillità’. E io: ‘Mi spiace ma mi pagano, qualcosa devo insegnarvi’. E lui: ‘Allora ce la giochiamo, se vinci tu insegni, se vinco io te ne stai zitto e buono’. ‘Bene, ce la giochiamo a carte?’ ‘No, a botte.’ Eravamo quasi coetanei, ma io uscivo da quattro anni di Marina. Vinsi senza fatica e salii in cattedra.

Al Gabelli, Manzi realizza un giornale mensile, “La tradotta”, il primo nel suo genere in un riformatorio, e dalla collaborazione con i giovani detenuti nasce la storia da cui nel 1950 deriverà il suo primo romanzo, “Grogh, storia di un castoro”, insignito del premio Collodi (tra i giurati Silone, Alvaro, Zavattini) dal Movimento di collaborazione civica, che si prefiggeva di educare i cittadini dell’Italia appena uscita dalla guerra ai costumi della democrazia. Pochi anni dopo, pubblica  Orzowei, il suo libro di maggior successo, premio Andersen nel 1956 e tradotto in 32 lingue.

Nel 1954 lascia l’Università e prende servizio come insegnante elementare presso la scuola Fratelli Bandiera di Roma, per effettuare direttamente ricerche di psicologia didattica, studi che proseguirà per tutta la vita. Nello stesso anno, si reca per la prima volta in Sud America, nella zona orientale della Foresta Amazzonica, con un incarico di ricercatore scientifico per l’Università di Ginevra. Lì si interessa dei problemi dei nativi; da quel momento torna in Sud America ogni anno, per svolgere attività di scolarizzazione, esperienza che si protrae fino al 1977: prima da solo, poi con un gruppo di studenti universitari provenienti da ogni parte d’Italia, organizza un vero e proprio programma di aiuto solidale occupandosi, oltre che d’insegnamento, di problemi sociali e sanitari. Accusato dal governo peruviano di essere legato ai movimenti rivoluzionari guevaristi, per continuare nel suo programma di aiuti si appoggia al Pontificio Ateneo Salesiano, e nei viaggi successivi entra in contatto con molti sacerdoti che aderiscono alla teologia della liberazione. Da quell’esperienza nasceranno quattro romanzi.

Di fronte alla violenza dello sfruttamento dei contadini e alle inquietudini teologiche incontrate nel subcontinente latino-americano, Manzi ritrova le ragioni di un’opzione a favore della “periferia” nella costruzione della sua pedagogia. La generazione di giovani studiosi di pedagogia e maestri a cui apparteneva Alberto Manzi si metteva in contatto con quelle questioni che una società arretrata, a forte base rurale contadina, poneva sul terreno della riforma scolastica ed educativa: il problema di come insegnare ai poveri.

Nei primi anni Cinquanta, tale complesso di questioni ricompare nella sensibilità che Manzi riserva ai problemi della scolarizzazione delle classi popolari, la perifericità del mondo rurale, la sua irraggiungibilità. Le scuole dei contadini, abbandonate nelle loro strutture materiali e nella qualità degli insegnanti loro destinate, mancavano al loro obiettivo minimo, insegnare a leggere e scrivere.

“Non è mai troppo tardi” nasce nel quadro di un impegno all’epoca molto forte della televisione di Stato sul terreno dell’alfabetizzazione delle classi popolari e più in generale della divulgazione culturale. La trasmissione fa parte dei programmi di Telescuola, i cui corsi erano iniziati nel 1958 con il sostegno del ministero della Pubblica istruzione e con l’obiettivo di consentire ai ragazzi che risiedevano in zone dove non era arrivata l’istruzione post elementare di portare a compimento il ciclo dell’obbligo.

La struttura del progetto prevede che la messa in onda sia accompagnata e sostenuta sul territorio nazionale dalla costituzione di oltre duemila punti di ascolto televisivo: un insegnante segue la trasmissione insieme al pubblico di allievi e poi svolge con loro l’attività didattica di consolidamento. A supporto delle lezioni televisive, la casa editrice della RAI (ERI) pubblica materiale ausiliario, quaderni e brevi libri di testo.

La trasmissione va in onda durante il tardo pomeriggio; Manzi utilizza un grosso blocco di carta montato su cavalletto sul quale scrive a carboncino lettere e parole semplici, accompagnate da un simbolico disegno di riferimento dalla grafica accattivante: questa modalità didattica innovativa per l’epoca e l’attitudine a improvvisare, tratti distintivi del programma, si erano imposte fin dal provino preliminare, nel corso del quale il maestro aveva rifiutato e strappato il copione. Si stima che poco meno di un milione e mezzo di persone abbia conseguito la licenza elementare grazie a quelle lezioni a distanza; l’immensa classe di alunni è composta da persone adulte, con un grado di analfabetismo totale o molto grave. La pedagogia antiformalistica di Manzi, quel suo muovere da casi concreti, è profondamente radicata nella tradizione scolastica risalente a Platone e Aristotele, nell’idea che l’allievo non entra in classe con la testa vuota, pronta per essere riempita dal maestro, che insegnare significa al tempo stesso trasmissione di contenuti e confutazione di false credenze e che l’insegnamento è sempre commisurato alla capacità di colui che lo riceve: principi alla base della fondazione della scuola in senso moderno, in quanto cioè scuola per tutti.

I rapporti con la RAI non sono idilliaci, per l’insofferenza di Manzi ai tentativi di controllo e alla burocrazia; tra l’altro, il maestro non è mai stato retribuito per la trasmissione, salvo duemila lire a puntata per il “rimborso camicia”, dato che gli indumenti si rovinavano a causa del gessetto nero usato per i disegni.

Comunque, “Non è mai troppo tardi” viene trasmessa ininterrottamente dal 1960 al ‘68, suscitando l’interesse internazionale: pluripremiata in Italia, i diritti televisivi venduti in tutta Europa, ottiene nel ’60 il premio dell’UNESCO; nel 1987, su invito del governo argentino e per conto dell’UNESCO, Manzi tiene un corso a Buenos Aires sull’utilizzo di radio e televisione per l’alfabetizzazione, l’aggiornamento dei docenti, l’educazione permanente; per aver applicato le metodologie suggerite, la Repubblica Argentina riceverà il riconoscimento dell’ONU e un premio internazionale per la migliore soluzione adottata per l’alfabetizzazione in tutto il Sud America.

Si torna a parlare del maestro Manzi nel 1981, quando rifiuta di redigere le “schede di valutazione”, che la riforma della scuola aveva appena introdotto al posto della pagella:

Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni.

Tale rifiuto gli costa la sospensione dall’insegnamento e dello stipendio; l’anno seguente, di fronte alle pressioni del Ministero della Pubblica Istruzione, Manzi fa intendere di non avere cambiato opinione, mostrandosi al tempo stesso disponibile a redigere una valutazione riepilogativa, ma il giudizio è uguale per tutti e apposto tramite un timbro: “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Alle rimostranze del Ministero per la valutazione timbrata  Manzi ribatte: “Non c’è problema, posso scriverlo anche a penna”.

Il clima che si respira nelle sue classi è ben rappresentato nelle parole di una sua ex alunna:

Si rideva tutti insieme di tutti e non qualcuno di qualcun’altro. Il bullismo lo subivamo noi dalle altre classi perché eravamo considerati quelli strani. Noi? Strani rispetto a cosa? Al fatto che non sapevamo dove fosse Bologna, o quante province avesse il Lazio? Ma sapevamo com’era fatto un vulcano perché eravamo andati a vederlo o cos’era un campo di concentramento perché ci eravamo entrati. A noi interessava questo, conoscere la vita , non sentircela raccontare. Nessuno di noi è diventato chissà chi, ma ho ognuno di noi è diventato speciale per se stesso, per gli altri e per il Maestro.

Nel 1992 la RAI ripropone Manzi ne L’italiano per gli extracomunitari, 60 puntate televisive; nel 1993 ha fatto parte della Commissione per la legge quadro in difesa dei minori; nel 1994 è eletto sindaco di Pitigliano (Grosseto), dove risiede fino alla morte.

Lo ricordiamo oggi con le sue stesse parole:

In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare.

Silvia Boverini

Fonti:
www.biografieonline.it; www.centroalbertomanzi.it; www.treccani.it; C. Gaggero, “Alberto Manzi: “Non è mai troppo tardi”, anche a 20 anni dalla sua morte”, www.ultimavoce.it; www.oblique.it; A. Corlazzoli, “Il maestro Manzi ci insegnava la vita”. A tu per tu con l’ex allieva”, www.ilfattoquotidiano.it; www.it.wikipedia.org; http://dev.mce-fimem.it/wp-content/uploads/2015/01/clas_manzi.jpg

3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteri

Possono bastare 33 giorni alla violenza fascista per ottenere i pieni poteri?

Possono bastare 33 giorni per sostituire lo stato di diritto, la separazione dei poteri e le libertà fondamentali con la violenza fascista? Possono bastare 33 giorni per far diventare la violenza fascista il principale criterio e il fondamentale metodo di governo di una nazione? Possono bastare 33 giorni perché si eclissino principi e valori che parevano acquisiti definitivamente? Possono bastare 33 giorni perché ottenga i pieni poteri una forza politica radicalmente antitetica a quelle che per almeno sessant’anni avevano governato un Paese?

Sì, visto che è quanto accaduto proprio da noi, tra il 31 ottobre, con la formazione di un governo di violenti, e il 3 dicembre, con la concessione ad esso, da parte del Parlamento, dei pieni poteri. Trentatré giorni, anche se il processo ha avuto radici ben più profonde e un lunghissimo sviluppo.

L’Italia, uscita malridotta da una catastrofe mondiale, non riusciva a risolvere quelle ingiustizie sociali che sempre di più affliggevano la gran parte della popolazione. La disoccupazione dilagante e l’emigrazione crescente costituivano solo la punta dell’iceberg di una crisi spaventosa, che investiva anche le finanze dello Stato. Essendo il bilancio statale gravato da un debito impressionante, gli stessi margini di manovra a disposizione dei governi, infatti, erano piuttosto contenuti; ristretti ulteriormente da una fitta rete di veti incrociati e di richieste, reciprocamente incompatibili, provenienti da diverse parti della società. Così, l’onda nazionalista, che la memoria del passato avrebbe dovuto indurre a guardare con sospetto, se non con angoscia e repulsione, cresceva rapidamente. E non veniva seriamente contrastata dai governi che si susseguivano, espressione di quello che si potrebbe chiamare “establishment”. Anche al loro interno c’era chi credeva  possibile cavalcare tale onda così da conservare il potere.

Avevano perso credibilità e lo sapevano, almeno in parte. Però, forse, venendo a patti con quel nazionalismo, s’illudevano di poterla recuperare presso una parte consistente dei loro elettori tradizionali. Costoro, però, scontenti della loro azione, si lasciavano sedurre da una propaganda, fatta di slogan, intrisa di un viscerale antipartitismo e di un violento antiparlamentarismo.

Il nazionalismo a squarciagola anestetizzava un plurisecolare e diffuso sentimento di inferiorità rispetto ad altri popoli e nazioni d’Europa. L’antipartitismo e l’antiparlamentarismo offrivano la facile soluzione di un nemico da odiare e a cui attribuire tutte le colpe delle antiche e delle crescenti frustrazioni, delle irrisolte ingiustizie e delle profonde sofferenze. Gli slogan, per quanto rozzi, avevano una formidabile efficacia nell’incantare e nell’appannare il senso critico di un popolo stanco e amareggiato, spaventato dal futuro e incatenato dall’immobilismo sociale, dalla povertà e dall’ignoranza.

Il tramonto di un’epoca

Il sistema e lo stesso orizzonte culturale e politico che aveva sorretto il Paese per sessant’anni erano giunti al tramonto. Un’intera epoca, in realtà, stava tramontando, e la violenza fascista (quella del linguaggio e quella degli scontri di piazza e delle spedizioni punitive) stava per entrare nel cuore delle istituzioni. Stava per diventare una componente fondamentale della politica di governo, così com’era stata un ingrediente indispensabile del movimento.  Del resto, la violenza fascista non suscitava troppe riserve neppure in coloro che vedevano di buon occhio l’affermarsi di «un’associazione di tipo nuovo, l’antipartito, formato da spiriti liberi di militanti politici che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito», cioè di quei tanti che, delusi e frustrati, erano più che sensibili ai richiami dell’antiparlamentarismo.

Gli ultimi rantoli dell’epoca liberale

Alla fine di giugno del 1919, quando Francesco Saverio Nitti ricevette l’incarico dal Re di formare un nuovo governo l’epoca liberale aveva i minuti contati [1]. Nitti conscio della gravità assoluta del momento, non perse tempo e procedette subito alla smobilitazione militare e ad un tentativo di risanamento del bilancio statale, afflitto dagli enormi debiti di guerra. Il suo proposito, ovvero la necessità del Paese, era passare da un’economia di guerra ad un’economia di pace. Ciò, però, collideva con i programmi espansionistici dell’industria bellica (resa ancora più agguerrita per la decisione del governo di bloccare una spedizione militare in Georgia) e con l’irredentismo nazionalista di Gabriele D’Annunzio, Alfredo Rocco e Benito Mussolini, che si erano coalizzati in una campagna diffamatoria contro Nitti, accusandolo di avere rinunciato alla difesa degli interessi nazionali [2]. Nitti ne risultò così fortemente indebolito che, complice la batosta presa dai liberali alle elezioni del ’19, i quali per la prima volta erano finiti in minoranza, pur essendo riuscito a ricostituire il governo, a giugno dovette dimettersi, per essere sostituito dall’anziano Giolitti [3].

Quella conflittualità interna ai liberali e tra le altre forze democratiche e di sinistra che favorì i fascisti

Giovanni Giolitti e Francesco Saverio Nitti erano diventati nemici, nemici giurati [4]. Ed entrambi, intenti ad odiarsi e a contrastarsi, caddero negli stessi fatali errori: non compresero che quella violenza era violenza fascista, cioè un elemento caratterizzante e ineliminabile di quel movimento; stimarono eccessivamente la loro capacità di gestire la crisi politica e sociale; guardarono ai partiti di massa (il PPI, il partito socialista e quello fascista) come ad entità che si sarebbero potuto controllare e strumentalizzare. E non seppero capire l’enorme potere attrattivo, in tutti gli strati sociali, della proposta di una “terza via”. Terza, cioè, perché coloro che la sostenevano si proponevano come né di sinistra né di destra, rivendicando la facoltà di poter essere:

«aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».

La speranza di Nitti di formare un governo con il sostegno di socialisti, popolari e fascisti

Infatti, nell’estate del ’22, pochi mesi prima della marcia su Roma, Nitti, sconfitto alle elezioni del ’21, aveva esplorato personalmente la possibilità di un governo da lui presieduto col sostegno dei tre partiti di massa: socialisti, popolari e fascisti. In seguito alla dichiarata disponibilità di Mussolini, che pareva accontentarsi di un ministero e di due sottosegretariati, Nitti aveva consultato, quindi, Sturzo. Costui, nelle memorie nittiane, aveva accettato la proposta, ritenendo che un tale governo avrebbe potuto «evitare più grandi danni». Con serio dispiacere di Nitti, invece, i socialisti si erano opposti fermamente. Nitti, però, non aveva desistito del tutto: mentre, il primo agosto, si svolgeva lo sciopero generale, proclamato dall’Alleanza del lavoro per protesta contro le violenze fasciste, aveva pensato di agganciare il movimento fascista, tramite D’Annunzio. Riteneva possibile sia la trasformazione del fascismo in forza politica pacifica che la sua integrazione nello Stato liberale. Poiché prima dell’appuntamento D’Annunzio era caduto dalla finestra, l’incontro era saltato.

L’illusione, comune a Giolitti e a Nitti, di poter manovrare il fascismo per conservare il regime liberale e mantenere l’ordine

Mussolini, in realtà, trattava contemporaneamente anche con Giolitti. Il quale, alla pari di Nitti, pensava di essere il solo a negoziare con il capo del movimento fascista. Costui, in realtà, non aveva alcuna intenzione di entrare in un governo a guida liberale, gli interessava prendere il potere, tutto il potere. E per arrivarci gli occorrevano le elezioni anticipate. Anzi aveva bisogno che fossero i due esponenti liberali a richiederle[5].

Costoro, come la gran parte della classe dirigente liberale, vedevano i fascisti come strumenti più o meno manovrabili, utili, anzi a garantire l’egemonia liberale, la quale sapeva che a volte occorreva collocarsi un po’ a sinistra e altre volte un po’ di più a destra. La violenza fascista, quindi, invece di essere vista con sgomento e indignazione, era considerata una forma estrema, sì, ma necessaria, per la restaurazione dell’ordine. Un ordine, in realtà, che si temeva minacciato nelle sue fondamenta dal bolscevismo.

Una decisione suicida

Il 31 ottobre era sorto il governo di Benito Mussolini. Di fronte all’incalzare dello squadrismo fascista, che vedeva il suo apogeo nella mezza fallita marcia su Roma (visto che vi presero parte non più di 26.000 fascisti, invece dei 200.000 annunciati o dei 300.000 dichiarati poi dalla propaganda del regime), Vittorio Emanuele III di Savoia, ignorando i suggerimenti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, Luigi Facta, che gli chiedeva di firmare il decreto di proclamazione dello stato d’assedio, aveva deciso di affidare l’incarico di Presidente del Consiglio a Mussolini, sebbene, in quel momento, in Parlamento non sedessero più di 35 deputati fascisti (eletti nel 1921).

Avrebbe potuto finire lì, in forma di farsa. Invece, proseguì e divenne tragedia

Se il re avesse aderito alla richiesta di Facta, il fascismo e il suo capo avrebbero perso, verosimilmente, ogni credibilità[6]. Ma il re optò per un’altra soluzione e, così, per la formazione del governo Mussolini, formalmente, venne seguita la procedura costituzionale.

Affidando a Mussolini l’incarico di dirigere il governo il re, i grandi interessi privati e la borghesia nel suo complesso non intendevano sostituire il regime esistente con una dittatura del partito unico con al vertice un capo onnipotente, come accadde nell’arco di pochi anni (abbiamo ricordato, su questa rubrica, diversi passaggi di questa involuzione: dal delitto Matteotti, alla repressione successiva al fallito attentato di Tito Zaniboni, dalle prime “leggi fascistissime”, all’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo per i docenti)[7]. Se per le classi dirigenti tradizionali il conferimento dei pieni poteri doveva essere limitato al tempo necessario al risanamento dell’Italia, per Mussolini, invece, l’alleanza tra fascismo e classi dirigenti serviva a dare modo e tempo alla nuova élite in camicia nera di occupare i posti-chiave e prendere il controllo dello Stato.

Mentre Nitti, ritiratosi dalla politica attiva, si concentrava nella produzione di saggi divenuti fondamentali (un’attività che gli guadagnò una proposta di candidatura al Nobel per la Pace), l’Italia entrava, dunque, nel più buio dei suoi periodi neri: il cosiddetto “Ventennio fascista”.

La dittatura legale e i pieni poteri

Il 19 novembre del 1922, la Camera votò con larga maggioranza la fiducia al Governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore vi furono: Facta, Bonomi, Giolitti, Orlando, Salandra, Gronchi (futuro presidente della Repubblica Italiana nel dopoguerra), Alcide De Gasperi, il presidente della Camera dei Deputati Enrico De Nicola (che sarà poi il primo Presidente della neonata Repubblica Italiana). Poi, dopo che anche il Senato ebbe votato la fiducia, Mussolini, il 24 novembre, chiese ed ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno.

I pieni poteri, il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale

La legge 3 dicembre 1922, n.1601, garantì appunto a Mussolini i pieni poteri per tutto il 1923. E con i primi decreti legge elargì compensi agli industriali e ai ricchi possidenti terrieri che ne avevano favorito l’ascesa al potere.

In particolare, abolì la nominatività dei titoli azionari, procedette alle privatizzazioni, eliminò la tassa di successione familiare, ridusse l’imposta sugli immobili e sulla ricchezza mobile (estesa anche agli stipendi dei lavoratori pubblici e parastatali), sbloccò i fitti e interruppe i progetti di riforma agraria.

Preoccupato di non creare attriti irrisolvibili con la Chiesa, Mussolini si avvalse anche dei pieni poteri per ingraziarsi il Vaticano[8].

Mussolini provvide, però anche alla costituzione del Gran Consiglio del Fascismo (un organo che in teoria doveva discutere delle iniziative del governo e delle questioni interne al partito fascista, ma che di fatto si limitava a ratificare le decisioni del capo: ne abbiamo parlato qui), che il 14 gennaio 1923 formò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale: in essa affluirono le fedeli camicie nere, che giuravano fedeltà a Mussolini ma non al re, anche se la M.V.S.N. sostituiva la Guardia Regia, che aveva avuto la funzione di prevenire e contrastare eventuali sommosse. Era un vero e proprio corpo paramilitare, incaricato di svolgere compiti di polizia territoriale, i cui membri, stipendiati dallo Stato, dovevano essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Coloro che, a capo delle squadre fasciste, avevano commesso i più svariati crimini ne divennero ufficiali, e primo console (un grado corrispondente a quello di colonnello) fu nominato Piero Brandimarte, che si era messo in triste evidenza a Torino come capo del Fascio[9]. Con la M.S.V.N. la difesa dello Stato (liberale) veniva assegnata ai fascisti.

L’onnipresenza di Mussolini e la seduzione del popolo

A pochi mesi dall’insediamento come presidente del Consiglio, Mussolini stava già diventando un mito per un gran numero di italiani. Non potendo contare sugli attuali mezzi di comunicazione, il capo fascista usava le piazze e il contatto diretto con la folla per conquistarsi il favore popolare. E se la sua retorica, la sua gestualità suscitava lo scherno della classe dirigente tradizionale, una larga parte del popolo minuto ne era, invece, sedotto.

Instancabile Mussolini era ovunque, teneva discorsi, inaugurava e parlava… E parlando, inviava alle folle dei riconoscimenti che esse troppo a lungo e vanamente avevano atteso dai precedenti governanti. Compativa a parole le miserie dei contadini del Sud o dei pastori sardi, chiamava camerati gli operai della FIAT e non trascurava alcuna occasione per esporre la sua appartenenza al popolo, per ostentare le sue origini contadine e proletarie.

Tutto ciò, lo sappiamo, funzionava. Il fatto che, grazie ai pieni poteri, avesse spazzato i progetti di riforma agraria non gli alienò in blocco, infatti, la simpatia della classe contadina, anche se egli aveva di fatto dimostrato quanto vuote erano state le precedenti promesse di dare la terra ai contadini. Analogamente i favori concessi ai vertici dell’industria, a discapito degli operai non diedero luogo ad una reazione compatta di dissenso da parte di questi. La propaganda instancabile si rivelava, perciò, anche sotto questo profilo, terribilmente redditizia.

L’ordine della violenza fascista

Mussolini, però, non si limitava a blandire la parte più povera della popolazione. Utilizzava anche le truppe e in particolare la Milizia, formata grazie ai pieni poteri, per tenere sotto pressione la maggioranza silenziosa del Paese e per intimidire gli avversari. Scatenava, inoltre, le organizzazioni fasciste provinciali contro centinaia di dirigenti locali di organizzazioni sindacali e politiche di sinistra, lasciando loro come unica via d’uscita dalla violenza fascista quella dell’esilio. Ad esempio, nel febbraio del ’23 le camicie nere aggredirono nel Palazzo di Giustizia il deputato socialista Modigliani e, a Torino, per ordine di Mussolini venne arrestato Piero Gobetti. Il giovane giornalista liberale, accusato di aver commesso un reato di opinione, fu scarcerato dopo pochi giorni, per le proteste che arrivarono a Palazzo Chigi, tra cui quelle di Benedetto Croce, ma in manette finirono Serrati, Pietro Nenni e tutta la redazione dell’Avanti.

Il tardivo sorgere dei dubbi nei moderati sulla reale volontà di Mussolini di “normalizzare” la situazione

Quei liberali, che, già nel precedente decennio, (anche) per “normalizzare” gli estremismi nazionalistici, avevano svolto una vergognosa, sanguinosa e fallimentare invasione della Libia (l’abbiamo ricordata qui, qui e qui) e avevano gettato l’Italia nell’orrendo massacro della Grande Guerra (ne abbiamo parlato qui, qui e qui), cominciavano a rendersi conto che la fase di “normalizzazione”, per instaurare la quale appoggiavano il governo di Benito Mussolini, approvando anche la sua legge per i pieni poteri, era soltanto un’altra illusione.

I moderati rimasti legati all’idea della democrazia liberale, all’inizio della primavera del ’23, realizzarono, pertanto, che Mussolini non era la cura, ma il male. Così Francesco Saverio Nitti prese posizione contro il fascismo su un giornale latino-americano, e analogamente agì Giovanni Amendola, direttore del quotidiano Il Mondo. Perfino Il Corriere della Sera espresse dure riserve sulla legalità fascista.

La rottura con i popolari

Al congresso di Torino del Partito Popolare Italiano, il suo segretario politico, don Luigi Sturzo riuscì, con mille difficoltà, a far approvare la decisione sulla prosecuzione del sostegno al governo di Mussolini. Ma venne anche adottata una dichiarazione con la quale il PPI si opponeva alla concezione fascista dello Stato e alla violenza fascista, quindi, rivedendo di fatto la bontà della legge sui pieni poteri, chiedeva il ripristino delle libertà politiche e della legalità costituzionale.

Mussolini, infuriato, chiese le dimissioni dei due ministri popolari del suo governo, mentre l’ala destra di quel partito se ne separava del tutto. Ma per togliersi dai piedi il fondatore del PPI, Mussolini moltiplicò i gesti di pacificazione verso il Vaticano e, contemporaneamente, ordinò l’uso del manganello e dell’olio di ricino verso i più ostili rappresentanti del PPI e verso singoli preti sospettati di antifascismo. L’uso del bastone e della carota funzionò: Il Corriere d’Italia pubblicava un articolo ispirato dalla Santa Sede in cui Sturzo era rimproverato di creare difficoltà alla Chiesa e l’Osservatore Romano, l’11 luglio, commentava le dimissioni di Don Sturzo dalla carica di segretario del partito come un contributo alla «pacificazione degli spiriti in Italia»

La legge Acerbo

I Popolari avevano chiesto che nella nuova legge elettorale il premio di maggioranza fosse concesso alla lista che otteneva il 40% dei voti, ma la legge proposta da Giacomo Acerbo prevedeva che quella che raggiungeva il 25% avesse i due terzi dei seggi e che l’altro terzo fosse distribuito tra le liste minoritarie con criterio proporzionale. La legge Acerbo fu discussa mentre la M.V.S.N. pattugliava le vie di Roma e Mussolini sul suo giornale minacciava l’opposizione di «dare libero sfogo alla rivoluzione» fascista in caso di bocciatura. La legge passò alla Camera con una maggioranza risicata il 23 luglio del ’23 e a novembre fu approvata dal Senato. Il Parlamento aveva, così, approvato la propria condanna. E Mussolini lo sapeva, visto che quello era stato il suo fine. Tanto che non chiedeva la proroga dei pieni poteri, certo com’era di vincere le elezioni.

Il listone e la frammentazione degli antifascisti

Il presidente del Consiglio, per garantirsi la perpetuazione del suo potere, però, non esitò a formare una lista – Lista nazionale del Fascio littorio – che includesse anche candidati non fascisti. Respinse, quindi, l’alleanza con i vecchi partiti che avevano fin lì sostenuto il suo governo, ma accolse nel suo «listone» personalità come De Nicola, Salandra e Orlando, nonché degli ex popolari di destra e alcuni professori universitari conservatori. Tra coloro che entrarono nel listone non vi furono Giolitti, che rifiutò le proposte di Mussolini, né i democratici sociali e i popolari. Queste tre liste, però, furono di fatto gli alleati dei fascisti nella battaglia elettorale. L’opposizione costituzionale, venne così ad essere interpretata soltanto da Amendola e Bonomi. Separatamente concorrevano i socialisti e i comunisti, che, non avendo formato un’unica lista, offrivano una ulteriore chance di vittoria al listone, il quale poteva contare sul sostegno, anche finanziario, della Confindustria (con la quale Mussolini aveva concluso un accordo), nonché sull’azione terroristica svolta in tutta Italia dai Fasci.

Novembre – dicembre ’23: una nuova ondata di violenza fascista

La violenza fascista, infatti, non aveva atteso l’apertura ufficiale della campagna elettorale per dispiegarsi. Già il 30 novembre, come abbiamo ricordato, diverse centinaia di camice nere assaltarono l’abitazione di Francesco Saverio Nitti, in via Alessandro Farnese, e la saccheggiarono. Poi, indisturbati, sfilarono lungo il corso. Nessun agente delle forze dell’ordine tentò di fermarli, né ci furono arresti o incriminazioni poi. In effetti, sarebbe stato alquanto bizzarro se la polizia fosse intervenuta, visto che l’assalto era stato organizzato dal capo della polizia Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, su ordine diretto di Mussolini [10].

 

Il giorno di Santo Stefano ad essere oggetto di un agguato fu Giovanni Amendola, il capo dell’opposizione liberale. Assalito da un gruppetto di camice nere vicino a casa sua, fu violentemente bastonato.

Nelle settimane successive, con l’apertura della campagna elettorale, la violenza fascista si scatenò ferocissima verso i candidati di tutte le forze di opposizione e, com’è noto, insieme ai brogli, fu determinante nell’attribuire al listone la vittoria (oltre il 66%, cioè 4.305.000 voti). Le opposizioni ottennero 3 milioni di voti e si divisero un terzo dei seggi secondo il criterio proporzionale.

Mussolini era riuscito ad associare un centinaio tra conservatori e liberali allo zoccolo duro fascista (i fascisti avevano da soli 275 seggi, cioè la maggioranza assoluta). In tal modo poteva servirsene per rinforzare il suo potere, dando luogo alla dittatura, così come prima aveva saputo sfruttare le prudenze, i timori e i tatticismi dei moderati, per raggiungere il potere.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

 

Renzo De Felice, Breve storia del Fascismo, Mondadori, Milano, 2002

Emilio Gentile, Fascismo storia e interpretazione, Editori Laterza, Roma, 2007

S. Luzzatto e V. De Grazia (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino, 2005

P. Milza, Mussolini, Carocci, Roma, 2000

G. Pisanò, Storia del Fascismo, Pizeta, Milano, 1990

Angelo Tasca, La nascita del fascismo, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2006.

http://www.tuttostoria.net/

https://it.wikipedia.org/

 

[1] Nitti era entrato in Parlamento, come deputato, a trentasei anni, nel 1904, aderendo al raggruppamento radicale di opposizione al governo Giolitti, nei confronti del quale, però, Nitti, seppe conservare un atteggiamento di rispetto. Già docente universitario, avvocato, pubblicista e membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, era una figura nota sulla scena intellettuale e politica. Proveniente da una famiglia lucana, che si era contraddistinta per la sua opposizione al regime borbonico prima del 1860, sarebbe stato il primo “meridionalista” a diventare presidente del Consiglio dei Ministri. Ma, prima di ricevere quell’incarico del re, nell’immediato, primo, dopoguerra, era già stato nominato da Giolitti Ministro dell’agricoltura, industria e commercio nel suo quarto governo (1911-1914), ottenendo, tra gli altri risultati, la costituzione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA). Poi lasciato fuori dal governo Salandra, era stato “richiamato” al ruolo di ministro, del Tesoro, nel 1917, dopo la sconfitta militare di Caporetto, all’interno del governo di Unità Nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. Due anni dopo, visto anche l’insuccesso diplomatico della Conferenza di Parigi, Orlando diede le dimissioni, e il Re si rivolse a Nitti.

[2] Lo slogan dannunziano della «vittoria mutilata» e la spedizione di volontari e di militari ammutinati che occuparono Fiume e ne proclamarono l’annessione al Regno d’Italia indebolirono notevolmente il governo Nitti, già traballante nei consensi per via di quella sequenza di lotte e rivendicazioni sociali che venne denominata il biennio rosso, essendo alimentata dalla radicalizzazione politica successiva alla rivoluzione bolscevica. L’opposizione allo Stato liberale, rappresentata dai cattolici, raggruppati da don Luigi Sturzo nel Partito popolare italiano (PPI), e dai socialisti, ormai lontani dal riformismo di Filippo Turati e orientati su posizioni massimaliste e rivoluzionarie, alle elezioni politiche del novembre del 1919, svolte con il nuovo sistema proporzionale, vide il tradizionale equilibrio politico frantumarsi: il PSI ottenne il 32,6% dei voti, il PPI arrivò al 20,6% e per la prima volta i liberali finirono in minoranza, passando dai 200 deputati eletti nel 1913 a 90.

[3] La sua decisione di abolire il prezzo politico del pane (che proprio lui aveva in precedenza introdotto), misura presa per contenere il disavanzo statale, gli scatenò contro non soltanto le opposizioni ma anche una parte della sua maggioranza.

[4] A tal punto era giunto il livello di scontro che due decenni dopo, avendo trascorso quei vent’anni in esilio a causa del fascismo, Nitti scrisse: «Ho sempre considerato Mussolini come un avversario e Giolitti come un nemico»

[5] Nitti, infatti, il 19 ottobre, meno di dieci giorni prima della marcia su Roma, quando le violenza fasciste stavano insanguinando l’Italia, in un discorso a Lauria disse: «Noi dobbiamo utilizzare tutte le forze vive per raccogliere dal Fascismo la parte ideale, che è stata la causa del suo sviluppo, dobbiamo utilizzare insieme le forze più sane e più operose che vengono dalle masse popolari, incanalandole nelle forme legalitarie delle nostre istituzioni… Il solo modo di avere un Governo forte è consultare il Paese. Ogni ritardo può essere un danno»

[6] Il consenso popolare verso i fascisti in quella fase era davvero contenuto e, se lo Stato avesse deciso finalmente di applicare la legge, l’avventura politica di Mussolini e dei suoi sarebbe, probabilmente, finita prima nei tribunali e poi nel dimenticatoio, rivelandosi per quel bluff, quella farsa, che, in effetti, sotto molti aspetti, era.

[7] L’obiettivo era quello di uno smantellamento totale delle organizzazioni contadine e operaie, per tre quarti già devastate dalla violenza squadrista, e di un rafforzamento dei poteri del governo per impedire qualsiasi disegno rivoluzionario.

[8] Rispetto al Vaticano operò salvando il Banco di Roma a spese degli italiani, introducendo la presenza obbligatoria del crocifisso in tutti gli edifici e uffici statali, aumentando le rendite per i parroci e i vescovi ed esentando i seminaristi e sacerdoti dagli obblighi militari

[9]  Fra il 18 ed il 22 dicembre 1922 a causa dell’uccisione di un fascista, vennero assassinati 22 attivisti di sinistra Anche Gennaro Gramsci, scambiato per suo fratello Antonio Gramsci, venne bastonato. A Torino furono incendiati la locale Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri e altri centri di organizzazioni di sinistra, e del movimento operaio. Anche nelle altre città i fascisti somministravano bastonate ed olio di ricino. Tra i pochi in Parlamento a denunciare tali oscene violenze vi era il deputato socialista Giacomo Matteotti, mentre nel Paese tra il 1° novembre 1922 ed il 31 marzo 1923 i fascisti uccidevano più di 100 persone senza subire alcuna conseguenza legale.

[10] L’ex presidente del Consiglio che, già, per puro caso era scampato ad un’aggressione presso la sua villa da parte di un gruppo fascista, grazie all’intervento di alcuni amici intervenuti in sua difesa, fu il primo, tra gli antifascisti, ad andare in esilio all’estero. Si rifugiò dapprima in Svizzera e poi a Parigi. Qui, per 20 anni, si dedicò all’attività antifascista e la sua casa divenne di riferimento per diversi oppositori del regime: Pietro Nenni, Filippo Turati, Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Sturzo, Modigliani, Treves e Chiesa.

La fine della caccia alle streghe moderna: il maccartismo

Quanti avranno tirato un sospiro di sollievo quel due dicembre 1954? Dopo anni di accuse false e infondate, per cui chiunque poteva essere indicato come comunista o simpatizzante, rischiando severe conseguenze giudiziarie, il maccartismo poté dirsi concluso.

Joseph McCarthy fu l’uomo da cui originò il termine, che finì per indicare, secondo The American Heritage Dictionary of the English Language:

la pratica di pubblicizzare accuse di slealtà politica o sovversione con un insufficiente riguardo per le prove [e] l’uso di metodi sleali d’investigazione e d’accusa per eliminare gli avversari politici.

Senatore repubblicano degli USA, incardinò la propria carriera politica proprio sulla caccia ai traditori della patria, specialmente quelli, presunti, alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Il clima di sospetto generalizzato che contribuì a creare fu tanto intenso e trasversale da favorire la nascita di un’opera teatrale: Il Crogiuolo, di Arthur Miller. Il dramma di quattro atti narra le vicende dei personaggi di Salem di fine 1600, cittadina del Massachusetts che diventa improvvisamente teatro di una vera e propria caccia alle streghe. Miller, all’epoca marito di Marylin Monroe, traccia un evidente parallelismo con la situazione a lui contemporanea.

Così come nella Salem del XVII secolo, negli Stati Uniti degli anni 50 sono le istituzioni a condurre la persecuzione. McCarthy, infatti, dapprima entra a far parte del Tydings Committee, e poi presiede il sottocomitato investigativo del Senate Committee on Government Operations. Tuttavia, se inizialmente l’approccio aggressivo gli risultò utile, l’assenza di prove certe con cui sostenere le proprie accuse gli giocò a sfavore: sia l’opinione pubblica che i media capirono la sua strategia, e il Tydings Committee concluse che le sue azioni portarono a

confondere e dividere il popolo americano […] a un livello ben maggiore di quello in cui speravano i comunisti stessi.

E arriviamo al 2 dicembre 1954, quando il Senato approvò la mozione di censura nei suoi confronti: il gennaio seguente fu costretto a dimettersi dalla presidenza del sottocomitato. Mantenne il proprio seggio, ma la sua carriera era irrimediabilmente stroncata. Il terribile periodo del maccartismo volgeva al termine.

Alessio Gaggero

La legge sul divorzio è approvata

Il primo dicembre 1970 fu approvata dal Parlamento italiano la legge 898, nota come Fortuna-Baslini (dal nome dei due deputati promotori, un socialista e un liberale), che regolamentò l’istituto giuridico del divorzio; significativamente, in tutto il testo della legge la parola divorzio non compare mai, sostituita dal più neutro “scioglimento del matrimonio”, segnalando la complessità del dibattito che, fuori e dentro le istituzioni, aveva accompagnato l’elaborazione della normativa.

Nonostante i mutamenti sociali e di costume sviluppatisi dal dopoguerra in poi, l’Italia repubblicana era rimasta a lungo senza una legislazione specifica. Le persone facoltose potevano rivolgersi al Tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, oppure far delibare in Italia sentenze di divorzio pronunciate dai tribunali di Paesi (come il Messico o la Repubblica di San Marino) dove la legislazione locale consentiva il divorzio anche di cittadini stranieri; diversamente, i coniugi potevano separarsi “di fatto”, ma non per la legge, e dovevano rassegnarsi a non poter regolarizzare le unioni con i/le nuovi compagni/e né i figli nati da esse, i quali, fino alla riforma del diritto di famiglia nel 1975, continuarono a subire discriminazioni.

L’art. 34 del Concordato del 1929 (“Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è a base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili…”) dava alla Chiesa Cattolica un ampio potere in materia matrimoniale. Per questo, quando l’Assemblea Costituente decise di inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione, all’art. 7, ci furono legittime perplessità da parte laica; con tali presupposti, parve importantissima la vittoria riportata dallo schieramento laico, il 23 aprile 1947, con soli tre voti di scarto, che impedì l’inserimento nel testo costituzionale dell’aggettivo “indissolubile” accanto alla parola “matrimonio”.

Sul tema si scontrarono due visioni difficili da conciliare.

Per i politici di area cattolica diritti e doveri della famiglia erano “il problema fondamentale di tutta la Costituzione”, essendo il nucleo familiare una comunità naturale basata su principi etici e spirituali, preesistente alle leggi del diritto positivo: dunque, prima la famiglia, poi lo stato, con il matrimonio come vincolo naturale e inscindibile. Per la sinistra le famiglie italiane erano il vettore principale della ricostruzione materiale e morale del paese: in questa prospettiva, la possibilità di esercitare il diritto di voto, attivo e passivo, il diritto al lavoro e allo studio sottrasse il matrimonio a una logica secolare di scelta quasi obbligata per le donne per assicurarsi l’esistenza, sistemarsi ed essere socialmente accettate.

Alle spalle della battaglia per il divorzio ci fu indubbiamente il contesto storico e sociale degli Anni Sessanta. La famiglia italiana di quel periodo fu l’indicatore più attendibile delle trasformazioni della società nel passaggio dall’economia di guerra alla crescita impetuosa degli anni del boom economico, fino alla rottura del ‘68; meglio di qualunque altra istituzione, il nucleo familiare riproduceva i meccanismi e le contraddizioni del cambiamento, e sarà proprio nella famiglia che esploderanno i contrasti, le fratture, gli attriti anche generazionali del decennio.

Fin dall’inizio dell’iter parlamentare del progetto di legge si infiammò nel paese lo scontro fra il fronte antidivorzista e quello laico, un dibattito così aspro che si protrasse per dieci anni, senza esclusione di colpi, di mezzi e forze in campo, tra l’intransigenza della DC, il favore del PSI, il tatticismo del PCI, che non assunse subito una posizione netta, sostenendo una posizione più sfumata di riforma del diritto di famiglia.

Partì invece subito la mobilitazione della stampa: il settimanale milanese “ABC” iniziò una campagna di sostegno al progetto di legge del socialista Fortuna.

Loris Fortuna era un avvocato di Udine fuoriuscito dal PCI dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria; fin dal suo esordio alla Camera dei Deputati per il PSI si era impegnato sulla materia del divorzio, ma fu inizialmente scoraggiato da Pietro Nenni. L’occasione per ritentare gli fu fornita da Marco Pannella che, attivatosi insieme alla Lega italiana per l’Istituzione del Divorzio (LID), portò l’attenzione dell’intero paese su un tema fino a quel momento tabù, mobilitando l’opinione pubblica con grandi manifestazioni di massa e una continua azione di pressione sui parlamentari laici e comunisti ancora incerti. Nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e nel dibattito, ebbero un ruolo importante anche le associazioni culturali che promossero centri di discussione costruttivi sulla questione (tra queste quella facente capo alla rivista “Il Mulino”). Tuttavia, la singolarità della nuova stagione divorzista stava nel fatto che l’interlocutore di Fortuna, della LID e di “ABC” fosse non solo la classe colta, ma la gente qualunque: Loris Fortuna ricevette oltre 36.000 messaggi di sostegno da comuni cittadini.

Così, nella notte del 1º dicembre ’70, la proposta di legge, risultato della combinazione del progetto di legge di Fortuna con quello (più moderato) presentato dal deputato liberale Antonio Baslini, fu approvata con 325 sì e 283 no alla Camera e 164 sì e 150 no al Senato. Votarono a favore tutta la sinistra e il Partito Liberale Italiano, contrari la Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale Italiano, la Sudtiroler Volkspartei e i monarchici.

Meno di due mesi dopo, fu depositata in Cassazione la richiesta di referendum da parte del “Comitato nazionale per il referendum sul divorzio”, presieduto dal giurista cattolico Gabrio Lombardi, con il sostegno dell’Azione cattolica e l’appoggio esplicito della CEI e di gran parte della DC e del MSI. Dopo un’iniziale contrarietà circa l’uso dello strumento referendario (appena introdotto nell’ordinamento) in materia di diritti civili, il Partito Radicale e il PSI parteciparono alla raccolta delle firme necessarie, mentre lo stesso non fecero gli altri partiti laici.

La campagna referendaria fu scandita da anni di durissima battaglia politica e culturale – contro o a favore del divorzio – col coinvolgimento di tutti i partiti di allora, di tutte le componenti della società civile e di quasi tutti gli organi di stampa, i principali quotidiani nazionali e locali e anche i periodici più disparati, comprese le riviste femminili. Tuttavia il mondo cattolico non era tutto compatto e appiattito sul fronte del SI, cioè contro il divorzio: c’era l’impegno dei “Cattolici per il NO”; nemmeno il fronte a sostegno del NO, cioè per il mantenimento della legge, era monolitico e compatto, e il PCI tentò di evitare il referendum anche a rischio di modifiche, in senso restrittivo e peggiorativo, della legge approvata.

La mobilitazione attorno al referendum del 1974 fu la prima lotta politica di vero impatto mediatico.  Se il fronte del SI era più tradizionalista e si limitava a interviste “all’uomo della strada” sul tema, a comizi di un agguerrito Fanfani e a qualche video in cui si demonizzava il divorzio, la vera ventata di novità proveniva dal fronte divorzista, che chiamò a raccolta la società civile e ingaggiò numerosi testimonial del mondo del cinema e della musica, inaugurando il connubio tra politica e spettacolo. Il PCI, per esempio, finanziò la produzione di filmati pro divorzio diretti da Ugo Gregoretti, con protagonisti come Gianni Morandi e Nino Manfredi.

Il 12 e 13 maggio del 1974, 33 milioni di italiani si recarono alle urne, pronunciandosi nettamente a favore del mantenimento del divorzio (59,2 % dei votanti). Fu una vittoria clamorosa che rivelò un’Italia divisa, con il NO in vantaggio al Nord (ad eccezione del Veneto) e nelle isole e il SI vincente al Sud, e manifestò la spaccatura dell’unità politica del mondo cattolico.

Era la prima volta che in Italia la libertà di scelta si imponeva su una concezione diffidente verso la libertà individuale e della donna, a torto ritenuta tutelata da matrimoni indissolubili. Un aspetto importante della legge, all’epoca all’avanguardia, fu l’introduzione del principio per cui, trascorso il periodo stabilito dalla formalizzazione della richiesta, indipendentemente dai comportamenti e dalla volontà, il divorzio è un diritto di ciascun coniuge, anche per scelta unilaterale: se un coniuge vuole il divorzio, lo ottiene anche senza avere dimostrato la colpa dell’altro o averne acquisito il consenso.

Successivamente, la normativa fu modificata, ampliata e migliorata nel 1978 e nel 1987, snellendo tempi e procedure e nel 2015 è entrato in vigore il cosiddetto “divorzio breve” (L. n. 55/2015): i tempi si sono ridotti a 6 mesi nel caso di separazione consensuale e a 12 mesi negli altri casi.

La “battaglia sul divorzio” lasciò sul campo due governi, provocò la fine anticipata della quinta legislatura e portò allo svolgimento del primo referendum popolare nella storia repubblicana. Come ha osservato in tempi recenti una nota associazione laica:

La separazione era già in uso nell’antichità presso i greci e i romani, nonché nei primi secoli della cristianità: il Codice di Giustiniano ancora consentiva il divorzio. […] L’assurdità di costringere a vivere insieme persone che non hanno più nulla da dirsi ha dunque richiesto oltre un millennio per essere dichiarata nuovamente tale.

Silvia Boverini

Fonti:

www.it.wikipedia.org; www.uaar.it; F. Seccia, “1 dicembre 1970: l’Italia si dà il divorzio”, www.agenziacomunica.net;  “1 dicembre 1970: approvata la legge sul divorzio”, www.lalottacontinua.it; “Il divorzio. Quando la società italiana cambiò radicalmente”, www.novecento.org; S. Ferrari, “L’anno del divorzio”, http://www.instoria.it; www.radicalifriulani.it