1916, si conclude la battaglia di Verdun

Il 19 dicembre 1916 si concluse in territorio francese una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale, la battaglia di Verdun, nome in codice “Operazione Giorno del Giudizio” (Gericht), che vide opporsi gli eserciti di Francia e Germania.

Verdun è il simbolo della prima guerra mondiale, la prima guerra di massa della storia, la prima guerra con la morte di massa della storia: dieci mesi di scontri, un numero di caduti stimato in 420.000 – un morto al minuto, notte e giorno, per tutta la durata dell’operazione – 800.000 intossicati da gas tossici o feriti, interi paesi rasi al suolo, boschi e colline bruciati e cancellati in un paesaggio lunare di crateri scavati da mesi di bombardamenti, fra labirinti di trincee e selve di reticolati, e nessun risultato apprezzabile sotto il profilo strategico e militare. Nessuno dei due schieramenti in lotta “vinse” a Verdun. Fu una battaglia

non decisiva in una guerra non decisiva, una battaglia inutile in una guerra inutile.

Fu lo scontro più lungo della Grande Guerra e forse della storia, una successione di offensive senza vincitore, che non aveva “niente di simile a una battaglia vera e propria”, perché “lo stesso gioco può ripetersi senza limiti”, come scrisse un analista militare francese nell’aprile del 1916, pensando che

non sarà mai possibile mettere la parola fine alla battaglia di Verdun.

Per trecento giorni furono usate tutte le armi più moderne e micidiali. I soldati di entrambi gli schieramenti combatterono in condizioni terribili, tra feriti senza cure che agonizzavano, portaordini che non tornavano, soccorsi e razioni che non arrivavano e cadaveri seppelliti e disseppelliti dall’incessante bombardamento dell’artiglieria. Fu appunto il rombo continuo dell’artiglieria a caratterizzare la battaglia sul fronte di Verdun per quasi un anno, instaurando nei combattenti una specie di “perdita di volontà”, un’insensibilità alla sofferenza e alla morte, che se da una parte corrose gli animi, dall’altra permise di sopportare indicibili sofferenze. Finita la guerra, gli scampati di Verdun avrebbero condiviso, con il sollievo del ritorno a casa, il senso di colpa proprio di chi ha subito il male prima ancora di compierlo:

Quando torneremo, toccherà a noi raccontare la storia della guerra, e saremo dalla parte del torto.

Verdun è una cittadina-roccaforte a duecento chilometri da Parigi: la conquista della città avrebbe spalancato ai tedeschi le porte di ingresso alla capitale. Nel 1916 era considerata inattaccabile dai comandi francesi: da ogni lato era circondata da ripide colline lambite dalla Mosa, presidiate da numerosi forti, e munita di una serie di profonde trincee protettive, lunghe dai 4 ai 5 chilometri, da quando, nella precedente guerra franco-prussiana del 1870, era divenuta il nodo principale di una lunga linea fortificata, il sistema Séré de Rivières.

Dopo l’offensiva tedesca da nord che culminò nella carneficina della battaglia della Marna (settembre 1914), il fronte si era stabilizzato in una guerra di logoramento: 800 chilometri di trincee e filo spinato, dal canale della Manica alla Svizzera, segnavano la linea su cui i due eserciti si sarebbero confrontati negli anni successivi. A rompere la staticità del fronte provarono dapprima i francesi, nella zona della Champagne, e poi i tedeschi, che scelsero proprio Verdun, cerniera strategica della difesa francese e importante nodo ferroviario, come obiettivo per quello che avrebbe dovuto essere l’assalto finale e risolutivo alla Francia.

Nei piani del capo di stato maggiore generale tedesco von Falkenhayn lo scopo dell’offensiva fu quello di attirare il maggior numero di truppe nemiche attorno al caposaldo di Verdun, ritenuto di primaria importanza per la Francia, per poi colpirlo con la massima potenza con il violento impiego di artiglieria, in modo da infliggere il maggior numero di perdite possibile. Il memorandum di von Falkenhayn è divenuto storia militare: mai attraverso i secoli un grande comandante o stratega aveva proposto di vincere un nemico facendolo “dissanguare goccia a goccia”.

Ai tedeschi era infatti noto che la strategia militare francese era incentrata sulla “teoria dell’attacco ad oltranza”, in base alla quale “se il nemico osava prendere l’iniziativa anche per un solo istante, ogni pollice di terreno doveva essere difeso fino alla morte e, se perduto, riconquistato con un contrattacco immediato anche se inopportuno”. Era inoltre noto che il caposaldo di Verdun, nonostante la sua importanza strategica, era stato sguarnito di uomini e armi, inviati su altri fronti: conseguentemente, ai soldati francesi non fu possibile eseguire il completamento del sistema trincerato a difesa del settore che, al momento dell’attacco tedesco, era privo di trincee di collegamento, reticolati e collegamenti telefonici sotterranei.

Tutta la lunga battaglia fu combattuta all’aperto, in piena terra di nessuno, senza alcun tipo di riparo o caposaldo, contendendosi letteralmente semplici metri quadrati di un territorio annichilito e trasformato in un paesaggio infernale dove neanche i tronchi d’albero erano stati risparmiati dai bombardamenti. Le trincee francesi, i cui resti sono ancora visibili ai nostri giorni, furono scavate dopo la fine della battaglia e in previsione di una reiterata ripresa delle ostilità.

Il primo dei grandi forti, Douaumont, cadde appena quattro giorni dopo il 21 febbraio, giorno d’inizio dell’offensiva. Le redini dell’Armée furono prese dal Generale Philippe Pétain, il quale optò per il rafforzamento dello schieramento francese tramite il passaggio dall’unica via di comunicazione con Verdun, la “Voie Sacrée” battuta senza sosta dal fuoco nemico, arrestando momentaneamente lo sfondamento tedesco. Iniziò il lungo attrito tra gli eserciti, che arrivarono non di rado all’attacco all’arma bianca o addirittura a mani nude; i tedeschi introdussero per la prima volta l’impiego del lanciafiamme. Quando i tedeschi si risolsero a tentare l’ultima grande offensiva verso Verdun, gli inglesi, alleati della Francia, iniziarono la sanguinosa battaglia della Somme, che richiamò in loco le truppe germaniche: l’impeto dell’offensiva su Verdun si arrestò con i tedeschi già in vista delle torri della sua cattedrale.

Ci vollero altri 100.000 morti francesi per la riconquista dei forti occupati fino al 19 dicembre 1916, quando la battaglia si esaurì senza nessun vincitore. Ciò che i tedeschi avevano conquistato non era altro che un’estensione di territorio un po’ più larga dei parchi reali di Londra. Verdun lasciò un segno incancellabile anche nell’esercito del Kaiser, la fiducia nei capi fu scossa alle fondamenta, il morale non si ristabilì mai del tutto e anche in patria si manifestò un’evidente stanchezza nei confronti della guerra.

L’enorme quantità di armi utilizzate, granate, gas velenosi, proiettili di artiglieria ad alto tasso esplosivo, cambiarono per sempre il territorio di Verdun. Alla fine della guerra, nel 1918, nell’impossibilità di bonificare totalmente la zona tutti i villaggi agricoli che costellavano l’area furono spostati altrove e oggi rimangono abbandonati. Alcune aree appaiono come una foresta incontaminata, ma al loro interno si nascondono tuttora milioni di munizioni, sia esplose sia inesplose; vengono ancora ritrovati armi, caschi e frammenti di scheletri, ma ciò che rende l’area ancora inabitabile per gli uomini è l’inquinamento provocato dalle armi chimiche, dal piombo e dalla decomposizione di uomini e animali.

Nei pressi dell’omonimo forte, nel 1920 fu eretto l’ossario di Douaumont, una sorta di necropoli della prima guerra mondiale, monumento commemorativo degli orrori di quella battaglia, che ospita i resti di circa 130.000 soldati non identificati. Nel 1984, per il suo carattere simbolico e solenne, fu scelto proprio questo luogo per celebrare ufficialmente la riconciliazione franco-tedesca, con una visita congiunta al grande cimitero militare da parte del presidente francese Mitterrand e del cancelliere tedesco Kohl.

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.raistoria.rai.it; E. Frittoli, “21 febbraio 1916. Inizia l’incubo di Verdun”, www.panorama.it; www.lagrandeguerra.net; A. Lo Monaco, “La Zona Rossa di Verdun: Off-Limits e Venefica ad Un Secolo dalla Battaglia”, www.vanillamagazine.it; E. Gentile, “Verdun, la battaglia infinita”, www.ilsole24ore.com

1922, Strage di Torino

Il 18 dicembre Torino (e l’Italia dotata di memoria storica) ricorda la strage compiuta in città da squadre fasciste nel 1922: nell’arco di tre giorni, secondo le fonti ufficiali, undici antifascisti furono uccisi e una trentina feriti, nel corso di quella che all’epoca fu accreditata come una rappresaglia per l’uccisione di due fascisti, ma probabilmente fu una vera e propria azione punitiva preordinata contro gli oppositori politici e la stessa città di Torino, poco incline al neo-costituito regime.

Il Piemonte, nel suo complesso, era stato sufficientemente “normalizzato” dalle aggressioni mirate alle sedi di partito, di sindacato, dei circoli e della stampa della sinistra, che raggiungevano spesso lo scopo di intimidire e disperdere militanti e simpatizzanti, i quali finivano in buona parte per non partecipare più alla pubblica attività  politica, lasciando il campo libero ai fascisti e a coloro che nel fascismo avevano creduto di individuare la forza che avrebbe liberato l’Italia dal “pericolo rosso”. Era stato il caso di città come Alessandria, Biella, Novara, ma non di Torino.

In autunno il nuovo prefetto della città, Carlo Olivieri, aveva fatto perquisire la sede del giornale gramsciano “L’Ordine Nuovo”, guadagnandosi la benevolenza degli industriali che da più di un anno finanziavano il Fascio torinese. Il 28 ottobre squadre fasciste torinesi avevano disarmato una cinquantina di alpini davanti alla Caserma Rubatto, allontanandosi indisturbati con il bottino. Il giorno dopo fu devastata la sede de “L’Ordine Nuovo” sotto gli occhi del capo della squadra politica della Questura e del vice-questore; seguirono assalti e saccheggi dei negozi alimentari gestiti dall’Alleanza Cooperativa Torinese, storica cooperativa della sinistra cittadina, diretta espressione dell’Associazione Generale Operaia, conclusi con l’incendio della Camera del Lavoro nella notte del 2 novembre. Il 29 novembre veniva ucciso il comunista Pietro Longo.

Intanto nella FIAT la fine delle grandi commesse di guerra aveva gettato sulla strada 1.300 operai e il rinnovamento tecnologico aveva aumentato la produttività senza che a essa seguissero incrementi salariali. Rimaneva il problema delle commissioni operaie presenti nelle fabbriche e molto meno accomodanti dei sindacalisti riformisti; l’ex tribuno socialista Benito Mussolini – che da otto anni percepiva finanziamenti da agrari e industriali – minacciava: “gli operai hanno creduto di doversi e potersi rendere estranei alla vita nazionale […]. Se vi saranno minoranze ribelli e faziose che cercheranno di opporsi, esse saranno inesorabilmente colpite”. Quest’ordine non era certo nuovo, sulla bocca di Mussolini, ma ora aveva il crisma dell’ufficialità  e dell’autorevolezza data dal potere conferitogli dal re e dalla maggioranza del Parlamento.

In questo clima sociale e politico, la sera del 17 dicembre 1922, Francesco Prato, comunista militante noto per il temperamento battagliero e insofferente ai soprusi, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba; si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due.

La mattina dopo, 18 dicembre, si potevano vedere nelle strade del centro:

gruppi di camicie nere provenienti da altre città : essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta arrotolata […] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti.”.

Una cinquantina di camicie nere della squadra d’azione “La Disperata”, capitanate dal federale Pietro Brandimarte, fecero irruzione all’interno della Camera del Lavoro di Torino, dove il deputato socialista Vincenzo Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della Federazione dei metalmeccanici, Pietro Ferrero, furono picchiati dagli squadristi e poi lasciati andare.

Di qui ebbe inizio una serie di incursioni, sia nelle strade che nelle abitazioni: i fascisti iniziarono ad attaccare con il chiaro intento di uccidere, forti della garanzia di non intervento che le autorità cittadine avevano deciso di adottare in un vertice in Prefettura poche ore prima.

Il primo ad essere colpito fu Carlo Berruti, segretario del Sindacato ferrovieri e consigliere comunale comunista, caricato in macchina e portato in aperta campagna, per essere poi colpito alla schiena da diversi proiettili.

Nel primo pomeriggio un gruppo di squadristi fece irruzione in un’osteria di via Nizza, perquisendo e identificando i presenti: Ernesto Ventura, in possesso della tessera del partito Socialista, e Leone Mazzola, il gestore del locale che tentò di opporsi, furono uccisi, così come l’operaio Giovanni Massaro, rincorso fin dentro la sua abitazione.

In serata Matteo Chiolero, fattorino e comunista, venne freddato senza una parola da tre colpi alla testa, sotto gli occhi della moglie e della figlia di due anni. Il comunista Andrea Chiomo fu prelevato poco dopo da sette fascisti, trascinato in strada per i capelli e massacrato di botte, finito con una fucilata alla schiena. Emilio Andreoni, operaio di 24 anni, fu prelevato dalla sua abitazione (devastata alla presenza della moglie e del figlio di un anno) e ucciso poco fuori Torino. Matteo Tarizzo, 34 anni, venne sorpreso nel sonno dall’irruzione dei fascisti, prelevato e ucciso a bastonate poco lontano da casa sua. Furono uccisi anche l’ex brigadiere dei carabinieri Angelo Quintagliè, colpevole di avere stigmatizzato l’ assassinio del Berruti, l’artigiano Cesare Pochettino, “denunciato calunniosamente come comunista”, e l’operaio Evasio Becchio.

Pietro Ferrero, già vittima della violenza fascista durante la mattinata, aveva deciso di lasciare la città, ma di fronte alla Camera del Lavoro, assediata ormai da ore dalle camicie nere, fu sequestrato e picchiato selvaggiamente; verso mezzanotte, incapace di muoversi ma ancora vivo, fu legato a un camion e trascinato sull’asfalto per diversi metri per essere poi abbandonato in mezzo alla strada.

Durante la giornata del 18 dicembre e per i due giorni successivi molte altre persone vennero ferite, anche in modo grave, e furono assaltati il Circolo comunista di Borgata Nizza e il Circolo dei Ferrovieri.

Alla luce di quanto accaduto, l’omicidio dei due fascisti compiuto da Francesco Prato apparve a molti un mero pretesto per mettere in atto un piano preordinato con la connivenza delle autorità cittadine e delle forze dell’ordine. Lo stesso Brandimarte due anni dopo dichiarò a “Il Popolo di Roma”:

l’operazione era stata “ufficialmente comandata e da me organizzata […]: noi possediamo l’elenco di oltre tremila nomi sovversivi. Tra questi tremila ne abbiamo scelto 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia”.

Il 22 dicembre il governo Mussolini emanò un decreto con cui i responsabili di reati di natura politica venivano amnistiati, a condizione che i fatti delittuosi fossero stati commessi “per un fine, sia pure indirettamente, nazionale”. Pertanto, i crimini fascisti, essendo stati commessi per fini “non contrastanti con l’ordinamento politico-sociale”, non erano punibili, mentre lo erano quelli eventualmente commessi da “sovversivi”, essendo essi volti ad “abbattere l’ordine costitutivo, gli organi statali e le norme fondamentali della convivenza sociale”. Questo mostro giuridico fu subito controfirmato da re Vittorio.

Messi così al sicuro i responsabili degli omicidi, il fascismo poteva anche permettersi un’inchiesta sui fatti, non per accertare il loro reale svolgimento, ma per definire e sistemare i rapporti di potere all’interno del Fascio torinese. Una parte di quei dirigenti non sopportava infatti lo strapotere del quadrumviro De Vecchi e cercò, con il pretesto degli “eccessi” delle azioni squadristiche, di limitarne il ruolo e, se possibile, di farlo cadere in disgrazia presso lo stesso Mussolini. La documentazione della seduta del Gran Consiglio che esaminò la relazione Giunta-Gasti non è pervenuta: fu evidentemente distrutta a suo tempo per eliminare quanto di penalmente rilevante poteva essere contenuto in quei verbali. Ma le decisioni prese attestano che De Vecchi riuscì vincitore nello scontro con i suoi avversari interni: il Fascio torinese fu sciolto ma ricostituito ai vertici con uomini della sua corrente. De Vecchi, rimasto comandante della Milizia e ras piemontese, confermò Piero Brandimarte come console della Milizia e quadrumviro del Direttorio torinese.

Diventato console della Milizia, al momento della caduta del fascismo nel ‘43 Brandimarte fu denunciato per borsa nera; nella sua abitazione venne rinvenuto un vero tesoro di generi alimentari, di liquori, di oggetti preziosi, di denaro; a salvarlo furono l’occupazione tedesca e la Repubblica di Salò. Il massacratore di Torino si fece poi sorprendere, alla Liberazione, mentre si nascondeva a Brescia; rinviato a giudizio per gli omicidi di Torino, cinque anni dopo veniva condannato a 26 anni e tre mesi, benché avesse negato di avere organizzato la strage. Nell’aprile del ‘52, tuttavia, la Corte di Appello di Bologna lo assolse per insufficienza di prove. Ancora peggio si sarebbe fatto alla sua morte, nel 1971, quando gli furono resi gli onori militari:

Brandimarte, che nel frattempo s’era messo a fare il rappresentante, se ne andò come un eroe”.

Alle vittime è stata intitolata a Torino la piazza XVIII Dicembre, sulla quale si affaccia la stazione ferroviaria di Porta Susa. Sul cantone dell’edificio all’angolo con via Cernaia, fu apposta una lapide commemorativa, di fronte alla quale, ogni anno, il 18 dicembre, si svolge una commemorazione ufficiale da parte del Comune, dei Sindacati e delle Associazioni della Resistenza. Una seconda lapide è stata fissata, nel 2006, al piano interrato dell’ingresso nord alla stazione della metropolitana “XVIII dicembre”. Sulla lapide si legge:

Ai martiri dell’eterna libertà”.

Silvia Boverini

 

Fonti:
“18 Dicembre 1922: la strage di Torino”, www.infoaut.org; M. Novelli, “1922 Torino: la prima strage nera”, www.ricerca.repubblica.it; www.anpi.it; www.ita.anarchopedia.org

L’American Psychiatric Association toglie l’omosessualità dalla sua lista di malattie mentali

Le attrazioni, i comportamenti e gli orientamenti sessuali verso persone dello stesso sesso sono di per sé normali e positive varianti della sessualità umana – in altre parole, non indicano disturbi mentali o evolutivi.
(American Psychological Association, APA, 2009)

Così scrive l’associazione degli psicologi americani nel 2009, nonostante molto tempo sia già passato dalla prima cancellazione dell’omosessualità da un sistema diagnostico internazionale.

I comportamenti omosessuali possono essere rintracciati risalendo molto indietro lungo lo sviluppo della civiltà umana e gli atteggiamenti nei loro confronti hanno subito alterne vicende.

Durante il diciannovesimo secolo, l’argomento assunse rilevanza in ambito medico, e l’omosessualità iniziò a essere considerata una patologia necessitante una cura. Contestualmente scaturì il dibattito, riguardante l’origine dell’orientamento sessuale, tra le prime posizioni innatiste e quelle che lo ritenevano l’esito di una scelta cosciente.

È sempre in questo periodo che vennero coniati, all’interno di opuscoli propagandistici firmati da Kàrol Mària Kertbeny, i termini “omosessuale” ed “eterosessuale”, con l’intento di sostenere l’estraneità dello Stato rispetto alla vita privata dei cittadini.

Con la nascita della sessuologia si svilupparono inoltre due opposte visioni della patologia sessuale: la prima metteva in guardia dalla sterilità cui l’umanità sarebbe andata incontro a seguito della degenerazione di alcuni individui; la seconda poneva invece sullo stesso continuum normalità e patologia, che necessitavano dunque un approccio integrato di varie discipline, dalla medicina all’etnologia. All’interno di questi dibattiti figurano nomi come Freud, Bloch, Hirschfeld e Havelock Ellis.

La comunità scientifica arrivò alla prima derubricazione dell’omosessualità dai codici di patologia nel 1973: fu l’American Psychiatric Association, proprio il 17 dicembre di quell’anno, a iniziare un processo di modifica che avrebbe coinvolto le altre realtà.

All’espunzione della diagnosi di omosessualità egosintonica dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) fece seguito la variante egodistonica nel 1987; nel 1991 gli istituti di psicoanalisi furono invitati, da parte dell’American Psychoanalitic Association, a non scegliere i candidati sulla base dell’orientamento sessuale; nel 1992 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) prese una decisione nella medesima direzione, espressa all’interno della decima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), in cui si sottolinea che l’orientamento sessuale non costituisce un indicatore di patologia.

Alessio Gaggero

 

1942, Himmler emana il decreto per internare gli zingari ad Auschwitz

Saper leggere il
libro del mondo

con parole cangianti e
nessuna scrittura

nei sentieri costretti
in un palmo di mano

i segreti che fanno
paura

finché un uomo ti
incontra e non si riconosce

e ogni terra si
accende e si arrende la pace.

I figli cadevano dal
calendario

Jugoslavia, Polonia,
Ungheria

i soldati prendevano
tutti

e tutti buttavano via

(F. de André, Khorakhané – A forza di essere vento)

Il 16 dicembre 1942, Heinrich Himmler, comandante della polizia tedesca dal 1936 e delle forze di sicurezza del Terzo Reich dal 1939, firmò l’ordine di internare gli individui appartenenti al popolo Rom ad Auschwitz. Tutti avrebbero avuto sul petto un triangolo nero e una Z per Zigeuner (Zingari), cucita sul vestito.

In realtà, ben prima dell’ascesa al potere del nazismo, e non solo in Germania, ma in tutta Europa, esisteva una legislazione sugli zingari orientata prima al controllo e all’identificazione dei presenti sul territorio, poi alla loro omologazione e assimilazione. Fin dal XIV e XV secolo, nel continente europeo attraversato da una generale trasformazione economica, sociale e politica, varando il nuovo concetto della “inutilità sociale” molte categorie di individui furono emarginate e rifiutate in quanto elementi di disturbo per lo sviluppo e il progresso della società, e una tra le più bersagliate fu proprio la comunità zingara.

La persecuzione nazista degli zigani si inserì quindi in una storia di discriminazioni lunga secoli, che però solo nell’ambito della teoria e della conseguente prassi del potere nazionalsocialista poté trovare espressione tanto radicale e violenta.

La persecuzione degli zingari in epoca nazista risulta essere l’unica, con quella ebraica, dettata da motivazioni esclusivamente razziali: proprio come gli ebrei, infatti, gli zingari furono perseguitati e uccisi in quanto “razza inferiore” destinata non alla sudditanza e alla servitú al Terzo Reich, ma alla morte. Si trattò di una manovra di annientamento totale, indirizzata a spazzar via un intero popolo mediante l’annullamento fisico ma anche di tutto quel complesso sistema di valori culturali legati al linguaggio, alla religione, alle arti e ai costumi. Il genocidio dei Rom non si può configurare esclusivamente come culturale, né politico o religioso, ma può essere considerato un atto di sterminio per negare in maniera definitiva l’essenza stessa di quel popolo.

Va inoltre sottolineata la perdurante carenza di dati e informazioni in proposito. Per molto tempo dopo la guerra, lo sterminio nazista degli zigani non fu riconosciuto come razziale ma lo si considerò conseguenza – in un certo senso anche ovvia – di quelle misure di prevenzione della criminalità che, naturalmente, si acuiscono in tempo di guerra. Una tesi che trovò fondamento nella definizione di “asociali” con la quale, almeno nei primi anni del potere hitleriano, gli zingari vennero indicati nei vari ordini e decreti che li riguardavano; in realtà, il termine “asociale” venne usato per indicare coloro che, per diverse ragioni, non erano integrabili o omologabili col nuovo ordine nazionalsocialista. Gli stessi ebrei nei primi tempi venivano deportati e registrati come “asociali”.

Di fatto, gli zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, “razza inferiore” , indegna di esistere. La pericolosità – o asocialità – zigana non era, infatti, assimilabile a quella degli altri individui perseguitati per ragioni di ordine pubblico, poiché gli zingari erano “geneticamente ladri, truffatori, nomadi”: la causa della loro pericolosità era nel loro sangue, che precede sempre i comportamenti.

Dal 1933, data dell’ascesa al potere del nazismo, il regime sviluppò una politica repressiva contro gli zingari in tre direzioni: 1933–1937, si intensificarono le misure vessatorie e di controllo; 1937–1940, si svilupparono rigorosi controlli contro la delinquenza, il vagabondaggio e l’asocialità; infine, 1940–1943, si estesero le leggi razziali anche verso gli zingari.

 

Il decreto di Himmler del ’42 e le successive istruzioni per la sua esecuzione riassunsero l’intera storia della persecuzione del popolo Rom: vi ritroviamo tutte le elucubrazioni sulla razza zingara, dalla questione, sollevata da Himmler, della purezza di certi gruppi, alla identificazione di tutti gli altri come razza impura e indegna di vivere. Inoltre si affidò l’intera operazione alle autorità di polizia e si stabilì non solo che gli zingari dovessero essere tutti internati ma che il luogo del loro trasferimento fosse Auschwitz, il più noto campo di sterminio.

I rastrellamenti iniziarono nel mese di febbraio 1943. La vasta operazione proseguì rapidamente, persino ospedali e orfanotrofi furono perquisiti. Sulla presenza degli zingari nei campi di concentramento esiste una documentazione frammentata, ma sufficiente a testimoniare della loro prigionia un po’ ovunque.

Pořajmos, traducibile come “grande divoramento” o “devastazione”, è il termine con cui Rom e Sinti indicano lo sterminio del proprio popolo perpetrato da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Oltre 500mila morti, secondo recenti statistiche. Samudaripen, tutti morti. A questi vanno aggiunti quanti non si fecero riconoscere come zingari, quanti ai campi non arrivarono mai perché uccisi durante le incursioni della milizia nei campi nomadi e coloro che trovarono la morte nelle esecuzioni di massa che precedevano ogni registrazione.

Nello Zigeunerlager di Auschwitz i prigionieri vivevano in condizioni particolari: separati dagli altri internati, non erano sottoposti alla selezione iniziale – anche se si sa di alcuni convogli neanche registrati e mandati immediatamente nelle camere a gas – ma, tatuati e rasati a zero, subito destinati alle loro baracche dove rimanevano con le famiglie. Poi nessuno si preoccupava di loro: non avevano l’appello mattutino, non facevano parte dei gruppi di lavoro, le donne potevano addirittura partorire. Una condizione che potrebbe persino sembrare di privilegio, se non fosse che l’abbandono e il disinteresse sottintendevano, in realtà, condizioni di vita agghiaccianti: la mancanza di cibo, il freddo, le malattie rendevano difficilissima la sopravvivenza.

Il 31 luglio 1944 gli zingari vennero caricati su camion e trasportati nelle camere a gas. Raccontò un medico ebreo prigioniero ad Auschwitz:

L’ora dell’annientamento è suonata anche per i 4.500 detenuti del campo zingaro. […] Hanno detto loro che li portavano in un altro campo […] Il blocco degli zingari sempre così rumoroso, s’è fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e finestre lasciate aperte che sbattono di continuo.”. Molti dei sopravvissuti ad Auschwitz si soffermarono sulla ribellione degli zingari e un comandante nazista del campo affermò: “Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti, ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione di sterminio era stata così difficile”. Nel gennaio del 1945 gli zingari rimasti ad Auschwitz erano pochissimi: all’appello del 17 gennaio risposero solo 4 uomini.

Le cifre e l’estensione geografica della deportazione e persecuzione zingara sono impressionanti: Romania 300.000; Russia 200.000; Ungheria 100.000; Slovacchia  80.000; Serbia 60.000; Polonia 50.000; Francia 40.000; Croazia 28.500; Germania  20.000; Boemia 13.000; Austria 6.500; Lettonia  5.000; Estonia e Lituania 1.000 1.000; Belgio e Olanda 500; Lussemburgo 200.

In Italia le leggi razziali del 1938 colpirono anche la comunità zingara e i rom internati furono circa 25.000 (gli ebrei 7.000). Le prime disposizioni furono emanate l’11 settembre 1940; una circolare firmata dal capo della polizia Arturo Bocchini e indirizzata a tutte le prefetture del Paese conteneva un chiaro riferimento all’internamento di tutti gli zingari italiani a causa dei loro comportamenti antinazionali e alle loro implicazioni in reati gravi, ordinandone il rastrellamento, nel minor tempo possibile, provincia dopo provincia.

Negli anni è stato possibile ricostruire una lista abbastanza completa dei luoghi di detenzione per zingari: ad Agnone nel convento di San Bernardino, in Sardegna a Perdasdefogu, nelle province di Teramo a Tossicia, a Campobasso, a Montopoli di Sabina, Viterbo, Colle Fiorito nella provincia di Roma e nelle isole Tremiti; molti campi dell’Italia centrale e meridionale furono smantellati in vista dell’arrivo degli alleati e pertanto esistono pochissime prove della loro esistenza.

Nelle sentenze del processo di Norimberga, gli zingari furono nominati soltanto sporadicamente in poche righe della sentenza finale, pur considerando l’elevato numero di testimonianze chiare e inequivocabili delle atrocità subite nei lager dalla comunità Rom. Un oblio destinato a durare a lungo e che s’interruppe soltanto nell’aprile del 1980 quando, di fronte a un’esauriente documentazione stilata da diverse organizzazioni zingare, storici e giuristi, il governo tedesco si vide costretto a riconoscere ufficialmente l’esistenza di un olocausto zingaro e di una persecuzione razziale sotto il regime nazista.

Arrivarono così i primi indennizzi, i primi risarcimenti e le prime restituzioni. Il governo tedesco s’impegnò nella distribuzione di riparazioni e concessioni badando bene, però, di non perdere mai di vista il carattere singolo ed individuale di ciascun risarcimento. Nessun tributo, morale o materiale, è stato, infatti, conferito alla comunità Rom nella sua totalità se non una serie di monumenti eretti nei principali campi di concentramento del Terzo Reich.

Silvia Boverini

 

Fonti:
www.contropiano.org; www.assemblea.emr.it; M. Tomasone, “Il genocidio nazista dei rom”, www.akra.it; www.globalist.it; G. Boursier, “Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale”, www.storiaxxisecolo.it; www.it.wikipedia.it

Non mollare

È facile dire agli altri di non mollare. È un po’ meno facile dirlo a se stessi. Difficilissimo è riuscire davvero, giorno per giorno, a non mollare. Soprattutto, quando le spinte a lasciar perdere sono tante. Spinte dure, come le minacce, le botte, il carcere o il rischio di rimetterci la pelle. E spinte morbide, quali la famiglia, il posto di lavoro, la carriera, la quiete…

È difficile accettare di non mollare per altri tre anni ancora

Dopo 8 mesi di detenzione preventiva, arrivò la sentenza: veniva condannato a 10 mesi di reclusione. Gliene sarebbero rimasti, quindi, ancora due ancora da scontare, dati gli otto già passati dentro. Poca roba, pensò forse. Non mollare sembrava probabilmente ancora possibile. Se lo ebbe, questo pensiero, si rivelò presto eccessivamente ottimistico. Perché l’ordinanza del 15 dicembre gli tolse la libertà di movimento, lo “isolò”, per altri tre anni.

Qual’era la sua colpa? Quali delitti aveva commesso?

Non aveva rubato, non aveva truffato né aggredito nessuno, non aveva evaso le tasse e non aveva tentato di sovvertire l’ordine costituzionale dello Stato. Il suo crimine non era un vero crimine. Non secondo le leggi di un ordinamento giuridico democratico. Ma quello non era più uno stato democratico. E, se pensare con la propria testa era diventato pericoloso, darlo a vedere, metterlo in mostra, era stato trasformato in reato. Anzi, in più reati. E di non poco conto, visto che finivano col trasformare in un tradimento della patria sia il semplice dare voce al proprio pensiero in ambito politico, anche indirettamente, che, ancor di più, il realizzarlo concretamente, sia pure nel rispetto dell’ordine costituzionale formalmente in vigore.

Quest’uomo, quindi, viveva in un Paese in cui la costituzione, in linea di principio, garantiva i diritti di una liberal-democrazia e prevedeva la separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, ma la forza politica al governo aveva di fatto messo fuori legge tutti coloro che cercavano di organizzarsi per diffondere e realizzare delle idee diverse dalle sue. Aveva trasformato in reato il diritto di critica e persino il diritto-dovere di cronaca. Aveva di fatto mandato in soffitta la separazione tra i poteri. E stava sbranando tutti i diritti e i principi costituzionali vigenti da più di mezzo secolo. Non che fossero sempre stati rispettati dai precedenti governi, anzi! Ma mai nessuna forza politica, di maggioranza o di opposizione, aveva osato pensare di poterli sopprimere formalmente e di reprimerli nei fatti, facendone diventare l’esercizio un sinonimo di infedeltà allo Stato e alle sue istituzioni.

Non si era adattato alla supina acquiescenza

La colpa di quell’uomo, dunque, era quella di ostinarsi a non mollare, di non essersi piegato e di non essersene andato. Sì, perché avrebbe potuto vivere tranquillo rinunciando alle proprie idee, o almeno al manifestarle, mantenendole nel segreto della propria mente; oppure avrebbe potuto fare la valigia e andarsene altrove, dove l’esercizio delle libertà fondamentali – di manifestazione del pensiero, di stampa, di riunione e di associazione – non era stato trasformato in sedizione. In tal caso, non sarebbe stato un “povero esule”, perché i soldi non gli mancavano. «Tra la prigionia in patria o la libertà in esilio», come si era espresso un giorno, avrebbe potuto scegliere la prima o la seconda, vivendo in entrambi i casi comodamente. Apparteneva ad una famiglia più che benestante e aveva raggiunto assai presto all’interno del mondo accademico una posizione invidiabile. Anche davanti al tribunale, però, decise di non mollare dichiarò:

 «il responsabile primo e unico, che la coscienza degli uomini liberi incrimina è il fascismo […] che con la legge del bastone, strumento della sua potenza e della sua Nemesi, ha inchiodato in servitù milioni di cittadini, gettandoli nella tragica alternativa della supina acquiescenza o della fame o dell’esilio».

Si chiamava Carlo Rosselli

Si chiamava Carlo Rosselli, era nato il 16 novembre del 1899, aveva perciò ventisette anni da poco compiuti quando il 15 dicembre del 1926 la Commissione provinciale di Milano gli impose altri 3 anni di confino, da aggiungersi ai dieci mesi di detenzione previsti dalla condanna da parte del Tribunale di Savona.

A soli dodici anni aveva perso il padre, che già da 8 anni era separato dalla madre, entrambi di origine ebraica, con cui vivevano lui e i suoi due fratelli, Aldo e Nello. Appena diciasettenne gli morì il fratello maggiore, Aldo: ventunenne ufficiale di fanteria, morì in combattimento sul Carso nel 1916 [1].

Dall’interventismo democratico al socialismo liberale

Carlo l’anno dopo prese a scrivere per il foglio di propaganda «Noi giovani», che aveva fondato l’altro fratello, Nello, di un anno più giovane. Su quel foglio il secondo articolo di Carlo, «Wilson», pubblicato a maggio, generato dall’entusiasmo e dalla gratitudine per l’entrata in guerra degli USA al fianco dell’Italia e dei suoi alleati contro la Germania, l’Impero austro-ungarico e la Turchia, era dedicato al presidente degli Stati Uniti. Del democratico Woodrow Wilson, Carlo Rosselli condivideva la convinzione che quel conflitto mondiale era una guerra per farla finita con le guerre, «a war to end wars». Non era la guerra in sé ad essere esaltata, quindi, ma la speranza che questa guerra permettesse di porre fine ai mali e alle ingiustizie che affliggevano l’umanità [2]. Due mesi dopo fu chiamato alle armi e dopo il corso per allievi ufficiali fu inviato l’anno dopo in un battaglione di alpini in Valtellina.

Congedato come tenente nel ’20 si diplomò e si laureò in Scienze sociali, laureandosi a pieni voti l’anno dopo, con una tesi sul sindacalismo, nella quale Gaetano Salvemini (di cui si è ricordata la figura, insieme a quella degli altri 12 professori che si opposero all’obbligo di giurare fedeltà al fascismo) ravvisò «la ricerca di un socialismo che facesse sua la dottrina liberale e non la ripudiasse».

Dal PSI di Turati al PSU di Matteotti

Carlo Rosselli, infatti, era vicino, sì, al Partito Socialista Italiano, ma non alla sua corrente maggioritaria, dal carattere fortemente massimalista. Egli parteggiava per la corrente riformista di Filippo Turati, che conobbe proprio a Livorno, durante quel Congresso nazionale del PSI, che vide la sinistra interna filo-bolscevica staccarsi e costituire il Partito Comunista d’Italia.

Di lì a poco, però, l’Italia sarebbe cambiata. Mentre Turati e gli altri sostenitori della linea riformista e non rivoluzionaria si trovavano posti fuori dal Partito Socialista, Mussolini si apprestava a diventare il protagonista assoluto di tutte le vicende italiano per vent’anni successivi.

Mentre Mussolini, divenuto presidente del Consiglio dei Ministri,  chiedeva e otteneva i pieni poteri e faceva diventare la violenza fascista una prassi legittima dell’uso della forza da parte dello Stato, Carlo e Nello Rosselli con i socialisti liberali, Piero Calamandrei, Enrico Finzi, Gino Frontali, Piero Jahier, Ludovico Limentani, Alfredo Niccoli ed Ernesto Rossi, riuniti attorno a Salvemini, inauguravano il «Circolo di Cultura». Qui Carlo conobbe la sua futura moglie, la laburista inglese Marion Cave.

Inoltre ad aprile del ‘23, Carlo iniziava a collaborare con la rivista del torinese Piero Gobetti, «La Rivoluzione liberale», della quale condivideva non solo il liberalismo, ma anche e in primo luogo l’intransigente antifascismo. Infatti, il suo credo liberale, così come non gli permetteva di aderire al marxismo, gli rendeva intollerabile il massacro delle libertà compiute dal fascismo.

Del resto Piero Gobetti era confluito nell’appena fondato Partito Socialista Unitario (PSU), di cui era segretario Giacomo Matteotti e di cui faceva parte l’ala riformista espulsa dal PSI. Il PSU partecipò alle elezioni del ’24, ma tra alle sistematiche violenze terroriste dei fascisti, alla repressione svolta dalla polizia e dalla magistratura verso le iniziative e le manifestazioni antifasciste e ai brogli, Mussolini con il suo listone ebbe gioco facile e ottenne i due terzi dei seggi, grazie, alla nuova legge elettorale (legge Acerbo) che aveva fatto approvare tra luglio e novembre del ’23 dai due rami del Parlamento.

Com’è noto Matteotti denunciò alla Camera l’illegalità della campagna elettorale appena trascorsa, ricordando le tante violenze inflitte dalle camicie nere, inclusa quella del 26 dicembre del ’23 ai danni di Giovanni Amendola, il capo dell’opposizione costituzionale. Il 9 giugno tocca a Gobetti essere pestato, mentre la sua casa viene perquisita e le sue carte sequestrate. Poi gli sgherri di Mussolini ammazzarono Matteotti (anche Gobetti e Amendola moriranno, poi, in esilio, per le violenza fisiche e morali subite dalle camice nere). Carlo, allora, s’iscrisse al P.S.U. [3].

Anche clandestinamente, non mollare

I Rosselli cercavano di contribuire al formarsi di una ferma opposizione di area politico-culturale moderata che riuscisse persuasiva verso quella borghesia che era attratta da alcune parole d’ordine del fascismo. Nello Rosselli aveva aderito all’Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola, mentre Carlo parlava alla più a sinistra di quell’area, anche mentre dall’Inghilterra, inviava al giornale del PSU, la «Giustizia», le corrispondenze sulla situazione politica inglese, successiva alla vittoria elettorale dei conservatori e alla relativa frattura dell’alleanza tra liberali e laburisti. Carlo, però, stentava ad essere ottimista. L’atteggiamento degli aventiniani non portava da nessuna parte, mentre Mussolini non perdeva un momento per costruire lo Stato fascista.

Il foglio clandestino Non mollare

L’ultimo dell’anno di quel terribile 1924 il «Circolo di Cultura» di Salvemini subì un terribile assalto dei fascisti che lo devastarono. La reazione delle forze dell’ordine fu esemplare: il prefetto ordinò la chiusura del circolo perché «la sua attività provoca il giusto risentimento del partito dominante». Neppure quest’ipocrisia, squallida e insolente, indusse Carlo a rivedere il suo proposito di non mollare. Neanche un mese dopo egli e il fratello, con Salvemini, Calamandrei, Rossi, Nello Traquandi e Dino Vannucci, dettero vita ad un foglio clandestino, il cui nome proposto da Nello fu, ovviamente, Non mollare. Nel frattempo scriveva a Salvemini:

«sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi».

«Aspetteranno a lungo la mia rinuncia alla lotta»

Non mollare durò poco, a maggio un tipografo fece una soffiata alla polizia e, se Ernesto Rossi e Dino Vannucci riuscirono a fuggire all’estero – il primo in Francia, il secondo in Brasile – Salvemini, invece, venne arrestato per «vilipendio del governo». Rimesso in libertà in attesa del giudizio, l’anziano professore rischiava seriamente la vita per le minacce degli squadristi, così i Rosselli così lo accolsero per la notte, approfittando del fatto di non essere ancora non oggetto di sospetti. Gli andò bene, ma poi gli squadristi lo vennero a sapere gli squassarono l’appartamento. Riferendosi ai fascisti, Carlo commentò così la violenza subita:

«Aspetteranno a lungo la mia rinuncia alla lotta».

La persecuzione fascista

Ormai nel mirino del fascismo, Carlo Rosselli venne aggredito a Genova per strada e poi all’Università mentre teneva lezione. Anche questa volta decise non mollare, così con Pietro Nenni diede vita ad un’altra rivista di tipo culturale – non che contassero molto sul fatto che potesse sfuggire alla censura fascista -, dal titolo «Il Quarto Stato». Quattro mesi, dopo nel luglio del 1926 il Ministro dell’economia, Giuseppe Belluzzo, chiese il suo licenziamento dall’Università. Carlo Rosselli preferì dimettersi. A novembre «Il Quarto Stato» fu chiuso dalla polizia. Infatti, era intervenuto il Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926, infatti, stabiliva non soltanto lo scioglimento di tutti i partiti e di tutte le organizzazioni suscettibili di agire contro il regime, ma anche la revoca dei gestori di tutti i giornali antifascisti e la soppressione di tali giornali. Per chi come Rosselli era intenzionato a non mollare la clandestinità era l’unico modo possibile per continuare a fare politica attiva. Così con Claudio Treves e Giuseppe Saragat fondò clandestinamente il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), che prese il posto del P.S.U., che era stato sciolto in ossequio delle prime leggi fascistissime.

Il momento di non mollare anche con l’azione oltre che col pensiero e la parola

Carlo e suo fratello Nello, però, non erano solo intellettuali, ma anche uomini d’azione. E anche su tale registro giocarono la loro partita contro il fascismo.

La fuga di Pertini e Oxilia e la cattura di Rosselli

In tale prospettiva si colloca l’aiuto fornito a Filippo Turati per espatriare, raggiungendo, da Savona, la Corsica su un motoscafo, a bordo del quale viaggiavano anche Sandro Pertini e Italo Oxilia, che proseguirono per Nizza. Rientrati a Marina di Carrara, Ferruccio Parri e Carlo Rosselli furono sopresi e arrestati. Carlo fu anche accusato di aver aiutato Giovanni Ansaldo, Claudio Giuseppe Saragat, Claudio Silvestri e Claudio Treves a sottrarsi alla persecuzione fascista riparando in Svizzera.

La condanna

Detenuto in attesa di giudizio, restò nelle carceri di Como fino al maggio del ’27, poi venne inviato al confino di Lipari in attesa del processo, mentre l’8 giugno nasceva suo figlio John. Riportato a Savona per il processo, come anticipato in apertura di questo post, venne condannato a 10 mesi. Ne aveva già scontati 8 prima della condanna, ma la Commissione provinciale di Milano gli rifilò tre anni di confino sull’isola siciliana, dove nel frattempo era stato deportato anche suo fratello Nello (per disposizione della Commissione di Firenze contenuta nell’ordinanza del 3 giungo 1927, per «attività antifascista»), che ne doveva scontare 5. La motivazione dell’invio al confino di Carlo faceva riferimento ai seguenti illeciti:

 «Intensa attività antifascista; tra gli ideatori del giornale clandestino Non Mollare uscito a Firenze nel 1925; favoreggiamento nell’espatrio di Turati e Pertini».

Insomma era colpevole di avere manifestato il suo pensiero e di avere aiutato a rifugiarsi all’estero altri due che avevano commesso lo stesso reato.

A Lipari, dove erano confinati anche Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti (pronipote dell’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, di cui abbiamo parlato qui e qui) e Gioacchino Dolci, fu raggiunto dalla moglie, che portò con sé anche il piccolo.

Ancora una volta prevalse la decisione di non mollare: la fuga

Intanto tra i confinati di Lipari e gli esuli di Londra e Parigi cominciò un fitto intreccio di messaggi cifrati. Mentre i primi facevano di tutto per sviare i sospetti: Lussu rispettava gli orari con il cronometro e agiva con tale regolarità da dare l’impressione nei suoi guardiani di non saper far altro che vivere con un’abitudinarietà ossessiva. Carlo si diede on intensità esibita a migliorare le condizioni dell’abitazione in cui viveva con il bimbo e la moglie, per dare di sé l’immagine di un uomo tutto famiglia e studio. Nello, però, veniva prosciolto condizionalmente il 27 gennaio 1928.

Il piano

Il piano prevedeva di eludere la sorveglianza nel breve intervallo compreso tra la ritirata e i controlli serali, buttarsi in mare, approfittando dell’oscurità, e nuotare fino ad un punto prestabilito per essere raccolti da un’imbarcazione abbastanza veloce da sfuggire alla caccia dei MAS (Motoscafi armati siluranti della Regia Marina Italiana) che pattugliavano le acque dell’isola. Si erano impegnati, pertanto, a spiare i loro guardiani, per memorizzarne i movimenti e gli orari, e si allenavano a nuotare. Però, il tentativo di scappare di altri confinati, provocò un inasprimento della sorveglianza e i guasti al motore dell’imbarcazione che avrebbe dovuto prelevarli partendo dalla Tunisia resero vani due tentativi rispettivamente il 17 e il 19 novembre 1928, obbligandoli a rientrare precipitosamente in casa per non essere scoperti. Questi contrattempi e le condizioni del mare dovute alla brutta stagione indussero ad un rinvio del successivo tentativo fino a luglio del ’29.

Il terzo e ultimo tentativo di fuga

Nel frattempo Dolci venne liberato per fine pena, e subito espatriò clandestinamente in Francia per collaborare con chi cercava di aiutare a fuggire Lussu, i Rosselli e il nuovo arrivato Paolo Fabbri, un contadino, anch’egli socialista, amico e discepolo di Giuseppe Massarenti. Finalmente la sera del 27 luglio 1929, venne messe in esecuzione il piano. Fabbri, però, si imbatté in una pattuglia della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Finse, allora, di essere ubriaco, riuscendo a non far scoprire la fuga dei compagni, che raggiunsero il motoscafo, su cui li aspettavano Italo Oxilia. Gioacchino Dolci e un motorista francese. Quando fu dato era ormai troppo tardi per raggiungerli

Diciotto ore dopo sbarcavano vicino a Capo Bon e il 1° agosto la comunità dei fuoriusciti parigini poteva abbracciarli.

Quella persistenza nel non mollare che i fascisti punirono con la morte

Per Rosselli e i suoi compagni di avventura la libertà riguadagnata fu «il più potente stimolo all’azione» e fece riaccendere le speranze dei fuoriusciti, al punto che la Polizia francese registrò dopo l’evasione da Lipari, un improvviso dinamismo della numerosa colonia degli esuli italiani. Inoltre l’eco mediatica dell’impresa costituì un duplice danno d’immagine per il regime fascista: richiamò l’attenzione internazionale sul carattere repressivo del regime, sbugiardandone la propaganda intesa a veicolare un’immagine di ordine e sereno consenso; dimostrò che il mitizzato sistema di controllo poteva essere ingannato.

Ma il regime non si trattenne dal vendicarsi. In primo luogo, se la prese con il fratello Nello e con la moglie. Il primo fu di nuovo deportato a Lipari.  La moglie fu rinchiusa in carcere e soltanto le insistenti proteste della madre dei Rosselli, Amalia, che aveva seguito la nuora ad Aosta, indussero le autorità a trasferire la giovane donna, malata di cuore e incinta, con il figlio di due anni in un albergo. Posta sotto stretta sorveglianza doveva comparire davanti alla Commissione provinciale per il confino. La stampa britannica e quella di altri Paesi denunciò a più riprese «il carattere odiosamente persecutorio e vendicativo» del provvedimento e ciò, unitamente alle lettere di protesta ai giornali e i telegrammi di solidarietà, firmati da nomi di altissimo prestigio, costrinsero Mussolini, che non voleva sfigurare all’estero e soprattutto in Gran Bretagna a far restituire a il passaporto Marion Cave, che così riuscì a riunirsi a Carlo. Mussolini fu costretto anche a liberare Nello sia dall’intervento di Gioacchino Volpe, che dalla mobilitazione in favore del giovane storico da parte di personalità come come Bolton King, Harold Laski, Henry Wickham Steed.

Per questo morirono e per questo vivono

Com’è noto i fratelli Rosselli furono trucidati in Francia il 9 giugno 1937. Ad ucciderli provvide una squadra di miliziani della “Cagoule”, una formazione eversiva di destra francese, su mandato dell’OVRA, i servizi segreti fascisti, e di Galeazzo Ciano (Ministro degli Esteri e genero del duce). Colpito da raffiche di pistola Carlo morì all’istante, mentre Nello fu finito a coltellate. I colpevoli, dopo numerosi processi, riusciranno quasi tutti farla franca.

I fratelli Rosselli vennero sepolti nel cimitero monumentale parigino del Père Lachaise, poi a guerra finita, nel 1951, le loro salme furono portate nel Cimitero Monumentale di Trespiano (Firenze), dove il vecchio Salvemini fece il discorso commemorativo funebre, alla presenza del presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Nello stesso cimitero furono sepolti anche Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini. Sulla tomba vi è il simbolo della “spada di fiamma”, emblema di Giustizia e Libertà, il movimento antifascista che con Lussu avevano fondato a Parigi nel ’29 e che aveva aderito nel ‘31 alla Concentrazione Antifascista, un’unione di tutte le forze antifasciste non comuniste (repubblicani, socialisti, CGL) intesa a promuovere e coordinare dall’estero ogni possibile azione di lotta al fascismo in Italia. L’epitaffio scritto da Calamandrei e apposto sulla tomba di Carlo e Nello è:

«GIUSTIZIA E LIBERTA’ PER QUESTO MORIRONO PER QUESTO VIVONO»

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Giovanni Belardelli, Nello Rosselli, Rubbettino, Soveria Mannelli, Catanzaro, 2007

Giuseppe Fiori, Casa Rosselli, Einaudi, Torino, 1999

Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico“, Mondadori, Milano 2007

Gianfranco Porta, L’evasione da Lipari, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri, direzione scientifica di Mario Isnenghi, vol. IV, Il Ventennio fascista, t. 1, Dall’impresa di Fiume alla Seconda guerra mondiale (1919-1940), Torino, UTET, 2008,

Nicola Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, La Nuova Italia, Firenze 1989

www.it.wikipedia.org

[1] C’era la Grande Guerra e lui e suoi fratelli erano stati interventisti, a ciò li aveva condotti, come accadde molti allora, il tradizionale attaccamento della famiglia agli ideali repubblicani e mazziniani. Quella che si rivelò essere la prima di due guerre mondiali veniva vista in una patriottica prospettiva di prosecuzione e rilancio del Risorgimento.

[2] Questo amore incondizionato per l’umanità, che aveva fatto schierare Carlo e i suoi famigliari nelle schiere dell’interventismo democratico, traspariva anche nel suo precedente e primo articolo, Libera Russia. Era un pezzo dedicato alla rivoluzione di febbraio, vista come culmine di un lungo processo per l’affermazione “pacifica” di una società più giusta.

[3] Nel frattempo si era laureato in giurisprudenza, aveva soggiornato a Londra e aveva iniziato l‘attività di assistente volontario alla Facoltà di economia dell’Università Bocconi a Milano, mentre scriveva anche su «Critica Sociale» di Turati. Qui aveva pubblicato un articolo in cui esortava il PSI a superare il marxismo. Dal febbraio ‘24, aveva iniziato la collaborazione con la rivista della Federazione giovanile del PSU, «Libertà».

Israele occupa il Golan a suon di leggi

Il 14 dicembre 1981 lo Stato d’Israele, a guida nazionalista, approvò la Legge delle Alture del Golan, ponendo la regione sotto il diritto civile, l’amministrazione e la giurisdizione israeliana. Che cos’era successo prima? Torniamo un po’ indietro.

Le Alture del Golan sono un altopiano montuoso che si estende tra Siria, Israele, Libano e Giordania, in una zona del mondo dove i confini sono decisamente sfumati. Sono le prime due nazioni a contenderselo.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, il territorio è sotto il controllo siriano e così rimarrà per circa vent’anni: sarà la Guerra dei sei giorni a modificarne per la prima volta gli equilibri.

Nel 1967, infatti, scoppiò il conflitto che vide fronteggiarsi, da un lato, Israele (guidato da quell’Yitzhak Rabin di cui abbiamo parlato in questo articolo), e dall’altro Egitto, Siria e Giordania. Il primo riuscì in pochi giorni ad sopraffare tutti i proprio nemici, grazie ad un massiccio attacco a sorpresa che sbaragliò l’aviazione nemica. Ebbe quindi vita facile ad occupare il Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e il Golan.

Non passarono nemmeno dieci anni e, nel 1973, Egitto e Siria attaccarono improvvisamente Israele sui due fronti, infliggendo enormi perdite umane e causando, in conclusione, le dimissioni dell’allora premier Golda Meir. Così iniziò la Guerra del Kippur. Il conflitto si concluse anche grazie all’intervento diplomatico di Stati Uniti e Unione Sovietica, che facilitarono il cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite. L’Organizzazione internazionale, pochi mesi dopo, decise di inviare una missione che facesse da cuscinetto tra Siria e Israele, proprio nel 5% di territorio del Golan che gli Israeliani acconsentirono a restituire ai nemici: la Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF) è a tutt’oggi presente in quella pericolosa lingua di terra, con un contingente di oltre mille uomini.

Arriviamo così al giorno in questione: fino ad allora, il 95% del territorio rimanente era stato controllato militarmente da Israele, seppur colonizzato con insediamenti civili; tuttavia, a partire da quel quattordici dicembre e da quella legge approvata dalla Knesset, la regione passava sotto il diritto civile, l’amministrazione e la giurisdizione israeliana.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non la prese bene e, per mezzo della Risoluzione 497, decretò tale decisione:

Nulla e priva di ogni rilevanza giuridica internazionale.

Le quasi 40.000 persone che abitano la zona, tra israeliani, drusi e musulmani, quindi, chi sono?

Il 25 marzo del 2019, Donald Trump, dopo averlo annunciato su Twitter, in presenza del suo alleato Netanyahu, premier e candidato alle imminenti elezioni politiche israeliane appoggiato dal presidente USA, ha riconosciuto ufficialmente le alture del Golan come parte del territorio israeliano. Tuttavia quei 1800 km quadrati, sono ancora considerati territorio occupato dalle Nazioni Unite e da buona parte della Comunità internazionale.

Dal 14 dicembre del 1981 nessun presidente americano aveva osato riconoscere quell’annessione.

 

Alessio Gaggero

Il naturale colore della verità

«Il naturale colore della verità»

Nell’Enrico V di William Shakespeare, il giovane re, all’inizio della seconda scena del primo atto, rivolge all’arcivescovo di Canterbury la seguente richiesta:

« (…) vi preghiamo ora di spiegarci, se, secondo giustizia e religione, la legge salica esistente in Francia, potrebbe o no precluderci la via a far valere le nostre pretese. Dio ne guardi, però, vi dico subito, che voi, mio caro e fedele signore, aggiustiate e pieghiate e snaturiate, per compiacenza, le vostre letture, così da caricarvi la coscienza di bei sofismi a difesa di titoli bastardi, la cui pretesa legittimità non sia d’accordo con il naturale colore della verità: perché Dio solo sa quanti che oggi son vivi e in salute dovran versare il sangue per sostenere quelle decisioni alle quali la reverenza vostra potrà spronarci con il suo responso. Perciò pensate ben a quali impegni voi potrete esporre questa nostra persona, e risvegliare la spada della guerra, ora assopita. Vi comandiamo nel nome di Dio, di ponderare bene il vostro avviso: perché questi due regni mai vennero a conflitto tra di loro senza che fosse sparso molto sangue; ed ogni goccia innocente di esso sarebbe come un grido di dolore, una voce d’accusa e di protesta contro chi avesse, senza giusta causa, affilato le spade a cagionar tal massacro di vite già fatte da natura tanto brevi. Con questo avvertimento, monsignore, parlate pure, e noi vi ascolteremo prendendo nota dei vostri consigli, convinti come siamo, in fondo all’animo, che tutto quanto vi uscirà di bocca ha già trovato purificazione nel lavacro della coscienza vostra, come il primo peccato nel battesimo».

Quel 13 dicembre di 17 anni fa era raggiunto lo scopo di una guerra proposta come conforme al naturale colore della verità

Quel 13 dicembre i media diffusero la notizia: la guerra, avviata secondo giustizia e religione e in accordo col naturale colore della verità, aveva conseguito il suo obiettivo.

«Missione compiuta»: era stato preso e messo in prigione il “mostro”, colui che con i suoi crimini passati e presenti e con le sue nefaste intenzioni imbrattava di sangue il naturale colore della verità e sempre di più voleva farlo, colui per eliminarle il quale si era iniziata la guerra, secondo giustizia e religione.

13 dicembre 2003, la cattura di Saddām Hussein

Saddām Hussein fu catturato, a Tikrit, il 13 dicembre 2003. La guerra era iniziata 9 mesi prima, il 20 marzo del 2003. Una guerra lampo fino a quella «missione compiuta» [1].

L’uomo che aveva dominato l’Iraq per quasi 25 anni – dal 1979 –, esercitando un potere assoluto, incluso quello di togliere, oltre che la libertà, la vita a migliaia di persone, era ridotto alla condizione fuggiasco, quando venne arrestato[2].

Venne costituito un tribunale ad hoc – il Supremo tribunale criminale iracheno –  per giudicarlo. Condannato a morte, fu impiccato tre anni dopo, il 30 dicembre 2006.

Non si fa mai la guerra sentendosi dalla parte del torto marcio

A voler ragionare in termini un po’ banali, si potrebbe osservare che, tanto a livello micro quanto a livello macro, le parti in conflitto non si rappresentano mai come se stessero dalla parte del torto. Ciascuna dice a se stessa e si propone agli altri come la parte gloriosamente installata sul versante in cui si trovano la Giustizia, il Bene, la Virtù e la Verità. Dalla parte di Dio o, almeno, laddove riluce in tutta la sua nitida schiettezza il naturale colore della verità.

Come spiega, in The Heart of Conflict, Brian Muldoon: è la convinzione di avere ragione che dà fuoco alle polveri del conflitto.

Il conflitto è orfano

Inoltre, e di conseguenza, nessuno degli attori del conflitto è incline a dichiararsi come colui il quale ha dato l’avvio alle ostilità. Vi sono delle scene efficacissime in No Man’s Land (2001, di Danis Tanović) che pongono efficacemente in evidenza come nessuna delle parti contrapposte fosse disposta a dichiararsi responsabile dell’inizio della guerra serbo-bosniaca [3].

Il conflitto è orfano abbiamo scritto in un altro post della rubrica Riflessioni di Me.Dia.Re.

Del resto, è esperienza comune che i soggetti – individuali o collettivi – intenti a confliggere si descrivono invariabilmente come coloro la cui presenza nel conflitto non è frutto di una libera scelta, ma di una costrizione o di una scelta grandemente vincolata dalla malvagità e pericolosità della controparte. La propria partecipazione all’evento bellico viene, quindi, proposta come un fatto di natura reattiva. È la reazione all’attacco conflittuale altrui o ad un’altra condotta ingiusta, dannosa o pericolosa, posta in essere dall’altro.

Tornando a Saddām…

Tornando a Saddām Hussein, è noto a tutti che il rais era un dittatore sanguinario e che il suo regime era di una perversità e di una ferocia rare. Tanto che riesce perfino difficile quantificare le vittime irachene degli orrori del suo dispotismo: si stima che siano state all’incirca 250.000. È, a dire il vero, appena un po’ più semplice quantificare la copiosità del sangue che ha fatto versare ad altri popoli: la lunga (8 anni, tra il 1980 e il 1988) guerra contro l’Iran, ad esempio, costò la vita a circa mezzo milione di iraniani – ma vi è chi sostiene che furono quasi un milione -, e altrettanti iracheni [4]. Nell’ambito di tale conflitto, il rais non ebbe remore nel fare ricorso all’uso di armi chimiche sia verso i combattenti iraniani sia nei confronti dei curdi iracheni, i quali subirono nella città di Halabja la morte istantanea di 5.000 civili e la menomazione di altri 10.000, senza che ciò desse luogo alcuna sanzione internazionale verso il governo di Bagdad. Sanzioni che vi furono, invece, allorché Saddām Hussein, nell’agosto del 1990, attaccò il Kuwait, innescando la Prima Guerra del Golfo [5]. Per quanto clamorosamente persa dall’Iraq, neppure quest’altra disperata impresa bellica mise fine alle politiche sanguinarie del dittatore né attenuò le sofferenze del suo popolo[6].

Nonostante tutto ciò, oggi risulta davvero arduo affermare che la coalizione dei volenterosi (coalition of the willing), come la definì George W. Bush, fosse collocata laddove risalta il naturale colore della verità. Infatti, a fondamento dell’invasione dell’Iraq al fine di rovesciarne il regime non venivano posti gli orrori commessi da Saddām sul suo popolo, bensì ulteriori motivi, posti come cause principali dell’intervento, mentre le atrocità sui curdi e le nefandezze della sua guardia repubblicana costituivano elemento di rincalzo nell’opera di persuasione dell’opinione pubblica interna e internazionale.

Il naturale colore della verità è la prima vittima del conflitto

Da sempre, dai tempi della clava, la prima vittima della guerra è la verità. E la Seconda Guerra del Golfo non fece eccezione alla regola. Anzi, ne costituì una formidabile conferma. Pochi altri conflitti di tale portata furono basati su una tale complessa, articolata opera di metodico e insistito offuscamento del naturale colore della verità.

Le ragioni della guerra che, però, avevano un naturale colore della verità assai sbiadito

La guerra fu intrapresa sulla base di due premesse: i fautori della guerra sostenevano che il regime di Saddām Hussein, in violazione delle risoluzioni dell’ONU, era ancora impegnato nella costituzione di un arsenale di armi di distruzione di massa [7]; l’Iraq, secondo costoro, collaborava con vari gruppi terroristici e avrebbe potuto fornire ad essi armi atomiche da impiegare in un attentato. Il vicepresidente Cheney, in particolare, arrivò a sostenere che esistevano indubitabili riscontri su legami fra al-Qāʿida e l’Iraq. E lo stesso Bush, per quanto stesse attento a non essere mai altrettanto esplicito sul punto, fece diversi riferimenti impliciti a questo legame, inducendo ad una costante associazione tra l’11 settembre 2001 e Saddām Hussein [8].

Argomenti non dissimili furono utilizzati all’interno dei rispettivi Paesi dagli alleati degli USA. In Italia furono il governo Berlusconi e la sua maggioranza di centrodestra (Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega Nord, CCD-CDU/UDC, NPSI, PRI) a proporre tali contenuti al Parlamento e al popolo italiano. Nel Regno Unito, governato dal laburista Tony Blair, che per l’amministrazione Bush rappresentò il più forte e convinto alleato, fu soprattutto il Primo Ministro a perorare con determinazione inesorabile la legittimità dell’intervento bellico in Iraq, ribadendone costantemente il suo accordarsi con il naturale colore della verità.

O con la «coalizione dei volenterosi», o con il sanguinario Saddām Hussein

Quindici anni fa non c’era posto nel dibattito pubblico per le vie di mezzo. Essere pacifisti era un’eresia, dubitare della legittimità delle ragioni della guerra, del loro accordarsi con il naturale colore della verità, significava essere traditori. In particolare, fu davvero radicale e proposta in maniera martellante l’attività di delegittimazione, da parte delle diverse forze politiche di governo negli USA, in Italia e negli altri Paesi schierati con Bush e Blair, sia contro quella parte di opinione pubblica avversa all’invasione, o dubbiosa sulla sua legittimità e preoccupata per le conseguenze,  sia nei riguardi dei movimenti di protesta e dei partiti avversi all’intervento armato [9].

Il conflitto, si sa, non ammette mezze misure e, anche in quel caso, non furono ammesse. Chi protestava – ed erano centinaia di migliaia di persone tanto in Europa che negli altri continenti – veniva tacciato nella migliore delle ipotesi di essere un idealista, ingenuo e involontariamente alleato del sanguinario despota iracheno. A nulla valevano gli argomenti razionali, morali o giuridici di chi riteneva pericolosa e avventata l’avventura irachena e discutibili le ragioni che venivano poste a suo fondamento[10]. Costantemente il dissenziente veniva posto di fronte ad argomenti pesantissimi: da un lato, gli oggettivi orrori di cui aveva dato prova il governo di Bagdad e, con efficacia dialettica ancora più soverchiante, le sataniche intenzioni che lo animavano riguardo agli arsenali proibiti e ai legami con al-Qāʿida; dall’altro, la gratitudine dovuta al popolo e al governo americano che sessant’anni prima aveva liberato l’Europa da Adolf Hitler e da Benito Mussolini e poi l’aveva aiuta a risollevarsi dalla devastazione bellica, difendendola anche dal comunismo. Frequente, infatti, nella narrazione dei sostenitori della guerra era il parallelo tra l’Iraq e la Germania nazista. E non a caso, Bush espressamente e ripetutamente affermava che Saddām Hussein costituiva un attuale pericolo l’intero mondo occidentale [11].

Il tardivo, anche se rapido, ritrovamento del naturale colore della verità

In realtà, in breve tempo, i più importanti argomenti proposti a fondamento della guerra contro il regime di Saddām Hussein si rivelarono di inconsistenza rara: alcuni, i principali, erano del tutto falsi, altri, quelli presentati per persuadere i sostenitori dei diritti umani, si rivelarono ingenui o distorti. Il tempo, invece, confermò la gran parte delle tesi e dei dubbi proposti dagli oppositori, radicali e moderati, dell’invasione.

Le squadre di ricerca americane, infatti, immediatamente dispiegate nel Paese appena conquistato, malgrado le ricerche spasmodiche, non trovarono che quantitativi irrilevanti di armi di distruzione di massa. E, come previsto da molti, i legami del rais con al-Qāʿida e con il terrorismo islamico restarono non dimostrati. L’abbattimento del regime e le successive elezioni irachene non portarono ad una vera democrazia, come invece avrebbe dovuto certamente accadere secondo le previsioni dei sostenitori della guerra, né alla nascita di un governo abbastanza forte e legittimato dal consenso popolare da riuscire a gestire i conflitti interni [12].

Il rapporto Chilcot che ci riavvicina al naturale colore della verità

Per quanto riguarda le menzogne dell’amministrazione Bush una sintesi efficace è costituita da un  video vedibile su Youtube, mentre per quanto riguarda quelle proposte al suo Paese e alla comunità internazionale da Tony Blair si può dare un’occhiata al rapporto proposto al termine dell’inchiesta ufficiale guidata da sir John Chilcot e avviata nel 2009, su disposizione del premier Gordon Brown, succeduto a Blair, nel 2007, sia come leader del partito laburista che come primo ministro. I 12 volumi del rapporto Chilcot, a conclusione di questa inchiesta governativa durata sette anni anziché uno, costituiscono una valutazione, che non concede attenuanti, sull’operato dell’amministrazione britannica rispetto alla guerra in Iraq. Il rapporto Chilcot, infatti, acclarò che Tony Blair aveva «deliberatamente ingigantito» la pericolosità dell’Iraq, poiché, in base agli accordi presi con George W. Bush, doveva garantirgli un sostegno «in qualsiasi modo» [13]. Inoltre, l’invasione, come prevedibile al momento della sua deliberazione, afferma il rapporto Chilcot, non aveva portato al raggiungimento degli obiettivi prefissati di stabilire una condizione di pace e ridurre la minaccia di attacchi terroristici.

Diciassette anni dopo il naturale colore della verità continua ad essere quello del sangue continuamente versato

A 17 anni dall’intervento, non soltanto l’Iraq non si è ancora ripreso, la violenza continua a dominare in ampie zone del paese e il terrorismo jihadista è cresciuto fino a svilupparsi in Siria [14].

Il sedicente Stato Islamico

Come ha spiegato Andrea Lanzetta, la caduta del regime, insieme con la decisione americana di sciogliere sia il partito Baath che le formazioni militari e paramilitari, come moltissimi analisti imparziali avevano previsto, determinò la repentina slatentizzazione delle antiche rivalità tra la comunità arabo-sciita (numericamente maggioritaria e insediata nel sud ricco di petrolio) e quella arabo-sunnita (da sempre culla della classe dirigente irachena e numericamente prevalente nelle forze armate e nella Guardia repubblicana), la quale subito si tradusse in una sanguinosa rivolta sunnita contro l’invasione, e generò quell’impressionante sviluppo terroristico che oggi ben conosciamo e che l’invasione, era stato detto, avrebbe stroncato per sempre.

Milioni di sfollati e di profughi

Secondo un rapporto del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University, dal 2003 al 2007 gli attacchi terroristici in Iraq sono passati da 78 a 204, provocando la morte di 13.000 civili nel 2007. E se tale numero è calato di oltre l’82% tra il 2008 e il 2012, è poi risalito a 10.000 vittime sia nel 2014 che nel 2016, per scendere 4.269 uccisi nel 2017 [15]. Inoltre gli scontri esplosi dal 2014 tra vari gruppi armati e le forze fedeli al governo iracheno hanno prodotto più di 5 milioni di sfollati interni in Iraq (quasi 2 milioni sono ancora nei campi profughi) e ha spinto almeno 360.000 iracheni a rifugiarsi nei paesi vicini e altri 270.000 a chiedere asilo in Occidente. Infine, ricorda Lanzetta, la terribile fragilità dell’Iraq e della Siria «ha favorito l’intervento e l’influenza iraniana, sia sui gruppi armati e politici locali che nei rapporti tra i governi» [16].

Non fu rispettando il naturale colore della verità che venne deciso di cagionar tal massacro di vite già fatte da natura tanto brevi

Parafrasando le ultime parole del passo di Shakespeare citato in apertura, procura un certo disagio il chiedersi se Bush, Blair, Berlusconi, Aznar e gli altri leader possano affermare che tutto quanto gli uscì di bocca allora avesse già trovato purificazione nel lavacro della coscienza loro, come il primo peccato nel battesimo.

Quella di Saddām Hussein era una dittatura spietata, ma non fu per esportare la democrazia in Iraq, né per impedirgli di usare inesistenti armi di distruzione di massa o per impedirgli di sostenere un’organizzazione terroristica jihadista (che non sosteneva), che fu deciso di cagionar tal massacro di vite già fatte da natura tanto brevi [17].

 Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Andrea Lanzetta, A che punto è la guerra al terrorismo lanciata da Bush, 14 novembre 2018, www.tpi.it

Mitchell C., The structure of International Conflict, MacMillian, 1981, London

Muldoon B., The heart of conflict, G.P. Putnam’s Sons, 1996, New York

Maria Grazia Rutigliano, L’Iraq, l’instabilità e la corruzione, 5 dicembre 2018, www.sicurezzainternazionale.luiss.it

War in Iraq: Not a Humanitarian Intervention, Human Rights Watch, 26 January 2004.

www.documenti.camera.it/Leg14/BancheDati/ResocontiAssemblea/sed283/s030.htm

www.internazionale.it

www.watson.brown.edu

www.wikipedia.org

[1] In realtà già il 1º maggio 2003, il presidente Bush, a bordo della portaerei Abraham Lincoln, avendo alle spalle uno striscione con sopra scritto Missione Compiuta (Mission Accomplished) dichiarò la conclusione delle operazioni militari su larga scala in Iraq.

[2] I suoi figli, di 37 e 39 anni, erano già stati uccisi mesi prima dai soldati statunitensi. Il 22 luglio, infatti, ʿUday e Quṣayy Hussein si trovavano in una casa di Mosul, dove furono sorpresi da paracadutisti della 101ª Divisione Aviotrasportata e membri d Delta Force della Task Force 20. Anche il figlio quattordicenne di Quṣayy fu ucciso. L’incursione non era avvenuta per caso. Gli americani avevano ricevuto una soffiata. Il loro padre, Saddam, fu catturato quasi 5 mesi dopo, a Tikrit, sua città natale, già caduta il 15 aprile.

[3] Quando è il miliziano bosniaco a puntare l’arma sul soldato serbo, toccherà a questi ammettere di essere stati i serbi quelli che hanno iniziato la guerra; quando sarà il bosniaco a trovarsi nella stessa posizione gli toccherà dichiarare che è stata la Bosnia a dare il via alla guerra.

[4] Tale conflitto si inseriva nel quadro di un allontanamento del suo regime dall’iniziale posizione filo-sovietica dei suoi predecessori e di un avvicinamento agli Stati Uniti, inteso a costituire con la Giordania e l’Egitto di Hosni Mubarak un “asse arabo moderato”. La guerra contro l’Iran venne condotta da Saddām Hussein  con un rilevante appoggio di diversi Paesi, tra i quali in prima fila, proprio gli USA.

[5] L’ONU intimò all’Iraq il ritiro delle truppe dal territorio kuwaitiano da esse invaso, entro il 15 gennaio ’91. Ma il rais lasciò scadere l’ultimatum, pur conscio del fatto che gli Stati membri delle Nazioni Unite da quel momento sarebbero stati autorizzati a ricorrere ad ogni mezzo possibile per restituire la sovranità al Kuwait (uno stato verso il quale l’Iraq, fra l’altro, l’Iraq aveva un debito di 10 miliardi di dollari, ottenuti proprio a supporto della guerra contro l’Iran dell’ayatollah Khomeini). La notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991, infatti, una coalizione guidata dagli Stati Uniti e formata da 35 Stati avviò la campagna aerea contro l’Iraq e le truppe irachene nel Kuwait. Il presidente americano aveva dichiarato che con quei bombardamenti l’Iraq sarebbe stato riportato all’età della pietra. Esagerava, ma non troppo. Di fatto, la campagna aerea sortì gli effetti previsti in così breve tempo che l’operazione Desert Storm passò rapidamente alla fase terrestre. Le truppe della coalizione, guidate dal generale Norman Schwarzkopf misero in rotta l’esercito iracheno in meno di quattro giorni. Il 27 febbraio il presidente statunitense George W. Bush annunciò che il Kuwait era stato liberato

[6] Rassicurato dal fatto che la coalizione, guidata dagli USA non intendeva porre fine al suo regime, Saddām Hussein volse la sua attenzione alle rivolte interne dei musulmani sciiti e alle aspirazioni separatiste dei curdi. La repressione verso entrambi i gruppi fu feroce: almeno 60.000 morti. Anche l’embargo proclamato dalle Nazioni Unite provocò sofferenze pesantissime agli iracheni. Tanto che ne l’ONU, visti anche gli studi sul numero di vittime tra la popolazione dovute all’embargo tra la popolazione, il 13 dicembre del 1996 avviò il programma Oil for food (cioè, petrolio in cambio di cibo) per contenere gli esiti infausti delle sanzioni. Oil for food fu chiuso dopo la caduta del regime: si apprese che tanta parte dei fondi era stata distratta dal dittatore per un vasto sistema di tangenti e di sovrapprezzi coinvolgente esteso numero di compagnie internazionali che trafficavano, a dispetto dell’embargo, trafficavano con lo stato iracheno.

[7] Baghdad, dichiarò a più riprese George W. Bush, fin dal 2002, possiede armi chimiche e biologiche ed anche missili di gittata superiore a quella permessa dalle restrizioni imposte dall’ONU ed è probabile che arrivi a possedere armi nucleari entro il 2010.

[8] In questa prospettiva si voleva che venisse interpretato il presunto traffico di materiali nucleari tra il Niger e l’Iraq, poi rivelatosi, però, del tutto infondato.

[9] Impressionanti manifestazioni contro la guerra si svolsero in tutto il mondo, a cominciare dal Nord America e dalla Gran Bretagna nel settembre del 2002, cioè già nella fase in cui gli USA tentavano di persuadere il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (vedi nota successiva) ad autorizzare l’invasione dell’Iraq. Nelle piazze si scandiva che quella era una «una guerra per il petrolio» e che non si era disposti a credere che i reali motivi dell’intervento militare fossero quelli comunicati dal governo americano e dagli altri. Nel gennaio 2003 le manifestazioni di protesta si svolsero in moltissime metropoli (Roma, Parigi, Oslo, Rotterdam, Tokyo, Mosca…) e il 20 marzo, nel primo giorno di guerra, milioni di persone manifestarono in tutto il mondo. Per quanto imponenti per diffusione e dimensioni oceaniche tali proteste non ostacolarono in alcun modo i propositi bellici delle amministrazioni statunitense e britannica.

[10] Gli USA avevano ottenuto presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU l’approvazione unanime della risoluzione 1441 dell’8 novembre 2002, con la quale si offriva all’Iraq un’ultima possibilità per rispettare i propri “obblighi in materia di disarmo”, a pena di “serie conseguenze” nel caso cui non fossero state rispettate le scadenze entro le quali il disarmo sarebbe dovuto procedere. L’Iraq aveva accettato la risoluzione e permesso il ritorno degli ispettori, concedendo loro anche quell’accesso illimitato ai “siti presidenziali” precedentemente negato. I capi degli ispettori dell’ONU, Hans Blix e Muḥammad al-Barādeʿī, presentarono un primo rapporto il 30 gennaio 2003, nel quale Blix sostenne che l’Iraq non aveva del tutto accettato i propri obblighi, per quanto non avesse posto ostacoli diretti alle ispezioni, mentre per al-Barādeʿī (il capo dell’AIEA e l’incaricato della distruzione del programma nucleare) era assai verosimile che l’Iraq non avesse un programma atomico degno di nota. Entrambi gli ispettori chiesero più tempo per produrre una valutazione completa e definitiva. I successivi rapporti di Blix e al-Barādeʿī (del 14 febbraio e del 7 marzo) espressero valutazioni più favorevoli all’Iraq, indicando rilevanti progressi nelle ispezioni, anche se secondo Blix, sarebbero stati necessari parecchi mesi di ispezioni per venirne a capo. Tali rapporti, associati all’annuncio della Francia un suo probabile veto presso il Consiglio di Sicurezza, tolsero fiducia agli anglo-americani circa la possibilità di ottenere un’ulteriore risoluzione dell’ONU che autorizzasse in maniera esplicitamente l’invasione. Gli USA, infatti, appurarono, che nonostante le forti pressioni esercitate, solo 4 dei 15 Stati presenti nel Consiglio (USA, Regno Unito, Spagna e Bulgaria) erano intenzionati ad approvare la risoluzione, quindi Bush e Blair decisero di non proporre una nuova risoluzione al voto. Bush giunse a dichiarare che la diplomazia aveva fallito.

[11] L’amministrazione Bush poteva contare su un elettorato (prevalentemente repubblicano) in maggioranza favorevole alla guerra, visto che in termini propagandistici la sua perorazione era dalla propaganda governativa strettamente ricondotta agli attacchi dell’11 settembre 2001; mentre i governi italiano e spagnolo, politicamente, sapevano di potersi permettere di appoggiare l’invasione a dispetto dell’opposizione in Parlamento e nelle piazze. Attraverso i diversi mezzi di comunicazione si erano assicurati, infatti, che la decisione presa fosse approvata più o meno freddamente da una parte rilevante dei loro elettori. In particolare, erano riusciti a far sì che la protesta contro la guerra venisse interpretata come una mossa politica messa in atto da un’opposizione eticamente incapace di rispondere positivamente agli appelli all’unità della nazione e moralmente ingrata oltre che pregiudizialmente ostile, per il proprio lontano passato filosovietico, verso gli americani, cioè verso quel popolo che, versando il proprio sangue dalle spiagge del nostro Meridione e della Normandia fino alla Cecoslovacchia, aveva liberato l’Europa dal nazifascismo.

[12] Il “nuovo” Iraq ha continuato a vivere sull’orlo del baratro, tra l’intensificarsi dei conflitti fra i vari gruppi etnici e religiosi e il ruolo centralissimo svolto nelle vicende del sedicente Stato Islamico; tra il protagonismo di partiti religiosi con esplicite e caratterizzanti tendenze teocratiche e anti-occidentali, appena modulate per ragioni di interesse, e un livello di corruzione tale da renderlo uno dei Paesi più corrotti del Pianeta.

[13] In virtù di ciò, quindi, aveva presentato un rapporto al Parlamento che esasperava le minacce provenienti dall’Iraq, andando ben oltre le informazioni ricevute dall’intelligence. I servizi segreti, infatti, non avevano prove che Saddam Hussein fosse ancora in possesso di armi di distruzione di massa. Anzi, da questo punto di vista, la Libia, la Corea del Nord e l’Iran erano paesi assai più pericolosi in ordine alla proliferazione di armi chimiche, biologiche e nucleari.

[14] Infatti, la rivolta sunnita contro l’invasione fece proliferare il terrorismo soprattutto nella parte ovest dell’Iraq, mentre la decisione di Paul Bremer, a capo dell’amministrazione dell’occupazione, di sciogliere sia il partito Baath che le formazioni militari e paramilitari (quali la Guardia repubblicana) costituite soprattutto da arabo-sunniti, spinse queste truppe addestrate ed esperte ad aderire prima alla rivolta prima e poi al terrorismo. E queste formazioni, spesso finanziate da paesi del Golfo arabo, si accostarono sempre di più al jihadismo. Tanto che a Fallujah, sede di una sanguinosa rivolta del 2004 contro le forze di occupazione, operava Abu Musab al-Zarqawi (quel terrorista giordano, legato ad al-Qāʿida che per primo procedette alla decapitazione degli ostaggi e alla diffusione dei relativi video su internet) dalla cui organizzazione sorse nel 2014 il sedicente Stato Islamico. Il quale, approfittando della guerra civile in corso in Siria, provvide a costituire a cavallo dei due paesi il cosiddetto Califfato, guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. E il Califfato raccolse un vasto consenso proprio tra i sunniti iracheni, decisi a ribellarsi al governo di Baghdad, visto come espressione dell’antico rivale sciita.

[15] Secondo un rapporto pubblicato il 12 novembre dall’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite, almeno 6 città irachene del nord ovest sono state completamente distrutte nel solo conflitto contro l’Isis

[16] Un rapporto pubblicato il 9 ottobre da un gruppo di lavoro sull’Iran del dipartimento di Stato degli Stati Uniti rivela che dal 2012 a oggi, Teheran ha speso oltre 16 miliardi di dollari per finanziare milizie e governi alleati impegnati nelle guerre in Iraq, Siria, Libano, Palestina e Yemen. I fondi destinati alle formazioni siriane e irachene hanno sostenuto in massima parte gruppi nati solo dopo l’intervento occidentale in Iraq.

[17] Tra le vite perdute vanno calcolate naturalmente anche quelle degli occupanti. Gli USA che nel 2003 avevano schierato 150.000 soldati, saliti a 171.000 nel 2007, sono certamente il paese che ha subito le perdite maggiori, cioè 4.520, contro le 180 del Regno Unito. Gli italiani uccisi sono stati 33, mentre 23 sono stati i morti del contingente polacco, 18 di quello ucraino. La Bulgaria e la Spagna hanno avuto rispettivamente 13 e 11 morti.

 

La bomba di Piazza Fontana esplode il 12 dicembre 1969

Il fischio d’inizio della strategia della tensione si ebbe, secondo alcuni, quel venerdì pomeriggio di dicembre, quando la Banca nazionale dell’agricoltura brulicava ancora di persone. Tredici di queste morirono sul colpo; altre quattro successivamente; 87 rimasero ferite. Sette chili di tritolo hanno un potere distruttivo enorme.

Come per la strage di Bologna e quella dell’Italicus, i dubbi su mandanti ed esecutori rimangono insoluti. A complicare la situazione, il caso Pinelli (anarchico sospettato di complicità, che morì, dopo tre giorni di interrogatori, per la caduta dal quarto piano della Questura milanese), al cui internò si aprì il caso Biotti (giudice milanese che fu poi assolto con formula piena da tutte le accuse, ma che, nel frattempo, non poté portare a compimento le sue indagini), il caso Calabresi (Commissario incaricato delle indagini, assassinato da Lotta Continua per la presunta responsabilità della morte di Pinelli) la contro-inchiesta messa in atto dalle Brigate Rosse (secondo cui la strage fu il risultato di un errore degli anarchici) e il coinvolgimento dei servizi segreti (nella persona di Guido Giannettini, l’Agente Zeta).

La Corte di Cassazione ha detto l’ultima parola nel 2005, riconoscendo il coinvolgimento di Ordine nuovo*, ma assolvendo i vari imputati per vari motivi. I parenti delle vittime sono stati invece costretti a pagare gli oneri processuali. Come se non avessero pagato a sufficienza. Un altro buco nero della nostra storia.

Alessio Gaggero

*Abbiamo fatto riferimento ad Ordine Nuovo in diversi altri post: 1972, strage di PeteanoStrage di piazza della LoggiaQuel “no” di Maurizio ArnesanoIl 10 luglio del ’76 il giudice Occorsio fu ucciso da un terrorista neofascista di Ordine Nuovo

1942, inizia la seconda battaglia sul fiume Don

So che per qualcuno sarà ridicolo quello che sto per dire, ma la differenza tra la prima e la seconda guerra mondiale è la stessa che c’è tra il rugby e il calcio: la guerra antica/il fattore terra.
Il calcio è più veloce, si fanno i blitz, la guerra lampo, il contropiede, c’è il possesso di palla, il fattore tempo e c’è la novità del pubblico che è coinvolto nel conflitto. Per la prima volta nella guerra moderna era ammesso il tiro a segno sui civili con ogni tipo di arma disponibile. La seconda guerra mondiale è stata una gara tra potenze industriali, tra chi aveva le armi più potenti, i mezzi più veloci, più micidiali, e a volte una gara tra chi ha avuto prima le armi segrete e quelle più semplici, l’atomica e il kalajnikoff.
Gli italiani furono mandati a giocare a calcio con un pallone da rugby.
(M. Paolini, “Quaderno del sergente”)

L’11 dicembre 1942, nel settore sud del fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale, l’Armata Rossa avviò una serie di azioni belliche preliminari a quella che la storiografia internazionale ricorda come Operazione Piccolo Saturno ma per la storia militare italiana fu la Seconda Battaglia Difensiva del Don, il cui esito si tradusse in una disfatta materiale e simbolica per l’Asse Roma-Berlino.

L’8ª Armata italiana in Russia (ARMIR), al comando del generale Italo Gariboldi, era stata attivata a luglio per potenziare il corpo di spedizione già presente sul fronte orientale e contava quasi 230.000 uomini, di cui circa 57.000 alpini; avversata da molti generali del Comando Supremo, corrispondeva alle esigenze di prestigio di Mussolini e alle richieste di supporto di Hitler.

Le forze italiane non vennero impegnate accanto alle formazioni mobili tedesche nella grande avanzata dell’estate 1942 verso il Volga e il Caucaso, ma furono collocate lungo i 40 km del fronte sud, in copertura ai tedeschi che combattevano a Stalingrado, in mezzo a reparti alleati ungheresi e romeni lungo il corso del fiume Don: i tedeschi infatti utilizzarono le deboli divisioni alleate in funzione anti-partigiana o per mantenere le linee del fronte, mentre per sfondare le linee nemiche fecero affidamento sulle proprie armate. Le peculiarità dei corpi scelti del Regio Esercito non furono valorizzate in un contesto ove tutti i reparti venivano impiegati per la tenuta delle linee, con gli uomini sovente esposti al tiro dei cecchini russi: così gli alpini, truppe scelte da montagna, furono inizialmente destinati alle pianure del Caucaso assieme ai loro muli, mentre i bersaglieri, truppe d’assalto e da movimento rapido, furono lasciati ad ammuffire nelle trincee. Pietro Gay, comandante del 3º Reggimento artiglieria da montagna, scrisse una lettera di protesta all’allora Presidente del Senato italiano, che si concludeva con queste parole:

Io affermo e denuncio che, non so se per ambizioni o incompetenze di comandanti o per altre ragioni, si sta addivenendo a una determinazione d’impiego delle truppe alpine che non esito a definire bestiale e delittuosa.

Gay fu rimosso dall’incarico da Mussolini nel dicembre 1942. La lettera è integralmente riportata nel romanzo di Giulio Bedeschi “Centomila gavette di ghiaccio”.

Dopo una prima offensiva sovietica nell’estate del ’42, che impegnò anche le truppe italiane, in novembre i tedeschi a Stalingrado furono accerchiati e poco dopo i russi sferrarono l’operazione Piccolo Saturno, con lo scopo di allontanare il fronte tedesco dalla sacca di Stalingrado.

Con attacchi violenti alle posizioni italiane, le meno dotate di mezzi di tutto lo schieramento, una superiorità numerica in rapporto di sei a uno e la preponderanza assoluta nei corazzati, il piano sovietico prevedeva lo sfondamento del fronte e l’aggiramento delle unità italiane. L’11 dicembre l’Armata Rossa attaccò a nord le Divisioni Ravenna, Cosseria e 385ª Germanica e a sud la 3ª Armata Romena; mentre dai superiori Comandi italiani giungevano soltanto messaggi di incitamento a tenere duro con fede incrollabile, le truppe sovietiche travolsero le retrovie sconvolgendo i servizi logistici e i collegamenti, avvolsero i reparti rimasti in prima linea e ripresero possesso del territorio.

Tra il 16 e il 17 dicembre arrivò per i primi reparti italiani l’ordine di ripiegare: la situazione era disperata, l’equipaggiamento invernale fortemente deficitario o addirittura assente, le armi obsolete e a corto di munizioni, il cibo iniziava a scarseggiare e l’ARMIR era stata accerchiata. Dalla metà di gennaio il ripiegamento fu esteso anche agli alpini, che per ultimi erano rimasti a coprire il fronte del Don, riparando la ritirata di altre grandi unità. I soldati italiani coprirono circa 120 km a piedi, senza cibo, continuamente attaccati da piccole incursioni sovietiche, nella neve alta e con punte di -42°C: i feriti e congelati sfiorarono le 30.000 unità; nelle parole di un testimone, furono “lacrime e dita mozze, piedi verdi di cancrena, fame e pidocchi”. Solo dopo il 26 gennaio ’43 e la battaglia di Nikolajevka (oggi Livenka) i militari italiani sopravvissuti raggiunsero le retrovie.

Qualche volta, il percorso riservò delle sorprese, come narrato da Rigoni Stern:

Sento che ho fame e il sole sta per tramontare. Passo lo steccato, una pallottola mi sibila accanto. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta dell’isba, entro. Soldati russi, armati, stella rossa sul berretto. Io ho il fucile e li guardo, loro mangiano. Prendono col cucchiaio di legno dalla zuppiera comune, mi fissano col cucchiaio sospeso nell’aria… “Mnié khocetsia iestj” – “Datemi da mangiare”. Una donna mi riempie il piatto di latte e miglio, faccio un passo avanti, metto il fucile in spalla, mangio… I russi mi guardano, non fiata nessuno, solo i cucchiai. “Spaziba”, “Pasausta”. Mi guardano uscire senza che si siano mossi.
…così è andato questo fatto nel febbraio 1943, durante la ritirata di Russia. E oggi a pensarci non mi sembra affatto strano. Sono entrato, ho chiesto permesso… In quel momento non eravamo nemici.

Nel corso del ripiegamento maturò invece, tra ufficiali e soldati italiani, una generale ostilità nei confronti dell’alleato germanico, spesso protagonista di episodi di scarsa solidarietà verso gli italiani oltre che di azioni criminali nei confronti dei civili locali. La realtà fu che i Comandi italiani non avevano previsto la ritirata e nulla era stato approntato in tal senso, eppure

[…] era la presenza di mezzi di trasporto che poteva fare la differenza, garantendo pezzi anticarro e munizioni, viveri e generi di conforto, collegamenti radio e assistenza medica: quello che avevano i reparti tedeschi che fecero la ritirata con il corpo alpino.

Le veline del regime fascista, che esaltavano “le gravi perdite inflitte al nemico”, tentarono di nascondere la realtà della disfatta; nel finale del romanzo di Bedeschi, i militari nei treni che rientrano in Italia immaginano di essere festeggiati dalla popolazione, ma le sofferenze dei loro corpi non devono essere viste e i vetri dei treni, giunti al Brennero, vengono oscurati:

– La popolazione non vi deve vedere: è l’ordine – spiegò seccamente al più vicino grappolo d’uomini che si affannavano sbracciandosi dal finestrino.
– Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, cavallo vestìo da omo! – gli gridò esasperato Scudrera, mentre il treno già si muoveva.
– Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? – urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; – vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?

Tra marzo e maggio del 1943 i resti dell’ARM.I.R. furono rimpatriati: mancavano all’appello 84.830 uomini. Oggi, dopo approfondite indagini del Ministero della Difesa, il numero degli italiani che non hanno fatto ritorno dal Fronte Russo risulta di circa 100.000; tenuto conto che circa 5.000 erano caduti per i fatti d’arme antecedenti all’11 dicembre, le perdite della ritirata furono di 95.000 uomini. Particolarmente colpito fu il Corpo d’armata Alpino: per riportare dalla Russia gli 11.000 alpini superstiti bastarono quattro tradotte, all’andata ce ne erano volute 55.

Secondo i dati più recenti, desunti dalla documentazione esistente negli archivi russi, 25.000 militari italiani sono morti combattendo o di stenti durante la ritirata e 70.000 sono stati fatti prigionieri. Questi prigionieri furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento – improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali – erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte. Solo tra il 1945 e il ‘46 circa 10.000 sopravvissuti furono restituiti dall’Unione Sovietica.

Silvia Boverini

Fonti:
www.unirr.it; www.it.wikipedia.org; G. Tedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”; M. Rigoni Stern, “Il sergente nella neve”; M. Paolini, “Quaderno del sergente” (allegato al DVD “Il sergente”, Einaudi/Stilelibero); F. Tegani, “16 dicembre 1942. Inizia la ritirata di Russia”, www.ilritaglio.it; M. Innocenti, “16 dicembre 1942: la morsa russa sugli alpini”, www.ilsole24ore.com; A. Ferioli, “Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia”, www.bibliotecapersicetana.it

La prima cerimonia dei Premi Nobel si svolge il 10 dicembre 1901

I proventi del brevetto della dinamite permisero ad Alfred Bernhard Nobel di istituire, tramite il proprio testamento, gli omonimi premi, riuscendo, forse, a rendere il proprio cognome immortale sotto una buona luce. L’invenzione dell’esplosivo, probabilmente, gli fece temere di essere ricordato come un mercante di morte, inducendolo a trovare un modo per riabilitare la propria memoria.

Non si sposò, né ebbe figli, per cui poté destinare la quasi totalità del suo considerevole patrimonio, ottenuto proprio grazie ai brevetti chimici, ai famosi premi, e lo fece con queste parole:

Io, Alfred Bernhard Nobel, dichiaro qui, dopo attenta riflessione, che queste sono le mie Ultime Volontà riguardo al patrimonio che lascerò alla mia morte. […]
La totalità del mio residuo patrimonio realizzabile dovrà essere utilizzata nel modo seguente: il capitale, dai miei esecutori testamentari impiegato in sicuri investimenti, dovrà costituire un fondo i cui interessi si distribuiranno annualmente in forma di premio a coloro che, durante l’anno precedente, più abbiano contribuito al benessere dell’umanità. Detto interesse verrà suddiviso in cinque parti uguali da distribuirsi nel modo seguente: una parte alla persona che abbia fatto la scoperta o l’invenzione più importante nel campo della fisica; una a chi abbia fatto la scoperta più importante o apportato il più grosso incremento nell’ambito della chimica; una parte alla persona che abbia fatto la maggior scoperta nel campo della fisiologia o della medicina; una parte ancora a chi, nell’ambito della letteratura, abbia prodotto il lavoro di tendenza idealistica più notevole; una parte infine alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace. [...]

Gli esecutori del testamento istituirono la Fondazione Nobel per la gestione del patrimonio e la distribuzione dei premi, che, dunque, si dividevano in queste categorie: pace, letteratura, chimica, fisica e medicina. Solo nel 1968 fu aggiunto, ad opera della Banca Centrale di Svezia, il riconoscimento per l’economia. All’epoca, Nobel era già mancato da circa 70 anni: colpito da un’emorragia cerebrale mentre soggiornava in Italia, a Sanremo, lasciò 31 milioni di corone svedesi da amministrare. Era il 10 dicembre 1896.

La prima cerimonia si ebbe a cinque anni dalla morte del filantropo: in quel tempo, Norvegia e Svezia non erano ancora separate. Oggi, l’evento si divide tra Stoccolma e Oslo, con il premio per la pace assegnato da un apposito comitato che ha sede nella capitale norvegese.

Per il massimo beneficio dell’umanità.

Alessio Gaggero