Corsi e ricorsi 2018

Su Corsi e ricorsi, a partire dal 1° luglio di quest’anno, è stato pubblicato ogni giorno un post relativo a qualche fatto tra quelli accaduti tra l’anno 1900 e il 2017.

Molti sono stati dedicati a ricorrenze note, perfino scontate (come, ad esempio, gli assassinii di John Kennedy e Yitzhak Rabin, l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, l’8 settembre del ’43, le 4 giornate di Napolila cattura di Saddam Hussein o la strage della Thyssen Krupp), mentre altri a fatti meno noti (come quello sullo “scandaloso” matrimonio tra Sammy Davis Jr e May Britt o quello sulla spedizione dell’imbarcazione Kon Tiki). E non pochi attenevano a stragi e attentati, di matrice mafiosa e/o eversiva oppure riconducibili al terrorismo di stampo politico e religioso (dalle stragi di piazza Fontana, dell’Italicus, del rapido 904 e di Bologna a quella di via Palestro a Milano; dalla strage alle Olimpiadi di Monaco del ’72 a quella di Beslan del 2004; da quella di Nizza, del 2016, a quelle di Barcellona e di Mogadiscio dello scorso anno; dalle due stragi compiute da razzisti di estrema destra, entrambe il 22 luglio, una in Norvegia, nel 2011, e una a Monaco di Baviera nel 2016, a quella di Las Vegas del 1° ottobre del 2017, ecc.). Naturalmente, non poche tra le stragi ricordate si inserivano in precisi scenari bellici, e moltissimi sono stati i post rievocativi delle guerre che hanno insanguinato il cosiddetto Secolo breve e i primi 18 anni del nuovo Millennio.

Alcuni post di Corsi e ricorsi, però, sono stati scritti in relazione ad eventi di particolare rilevanza sul piano dei diritti civili e sociali o in termini culturali e di costume (dall’eliminazione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali da parte dell’American Psychiatric Association all’anniversario della morte del maestro Alberto Tanzi o di Mercedes Sosa; dai pugni alzati di Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, del ’68, alla prima marcia Perugia-Assisi del ’61; dall’approvazione della legge introduttiva del divorzio nell’ordinamento italiano, nel’70, alla legge Merlin, del ’58, che, finalmente, aboliva la schiavitù sessuale legalizzata della donna e poneva fine allo sfruttamento sessuale perpetrato all’ombra delle leggi dello Stato; dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del ’75 all’abrogazione del “delitto d’onore”, nel 1981). Alcuni sono stati dedicati all’uscita di certe opere cinematografiche particolarmente significative dal punto di vista di questa rubrica (da Guardie e ladri a Umberto D., da Il cacciatore a Tornando a casa e I cancelli del cielo).

Se numerosi post di Corsi e ricorsi sono stati dedicati alle atrocità commesse in nome del comunismo o per realizzare il progetto nazista, tanti sono stati dedicati all’avvento del fascismo, al suo progressivo affermarsi e, infine, alla caduta della dittatura fascista, col sanguinoso e infernale strascico della Repubblica di Salò. Diversi post poi hanno rammentato altre pagine storiche di cui gli italiani hanno ben poco di cui andare orgogliosi, incluse le mostruosità commesse nella conquista e nella gestione delle colonie in Libia e in Etiopia e la vergognosa condotta del contingente militare italiano inviato a Pechino.

Non si può essere orgogliosi, come italiani, neanche di altre vicende rievocate su Corsi e ricorsi, quali quelle relative al golpe Borghese, alla P2, al terrorismo di estrema sinistra e di estrema destra e al G8 di Genova del 2001, e ai tanti, troppi, misteri d’Italia, spessissimo connessi con il terrorismo, le mafie e la corruzione. Né, del resto, c’è alcunché di cui vantarsi rispetto alle sofferenze e alle morti ingiuste dei migranti di oggi, di ieri e dell’altro ieri.

Il senso di Corsi e ricorsi, però, non è quello di blandire un vago orgoglio nazionale, bensì quello di aiutare gli autori dei post e coloro che li leggono a ricordare e a riflettere, magari nella speranza che certi “errori” del passato non si ripetano. Anche per tale ragione si è voluto dare così tanto spazio alla memoria dei tanti – fossero preti, giornalisti, poliziotti, carabinieri, magistrati, politici, sindacalisti, ecc. – che hanno perso la vita, spesso anche per la solitudine nella quale li aveva lasciati lo Stato, nella lotta contro le mafie e il terrorismo. Per analoghe ragioni si è scelto di ricordare chi ha deciso di opporsi alla dittatura fascista, prima (come Giacomo Matteotti o Carlo e Nello Rosselli, oppure come i 12 professori universitari su 1200 che nel ’31 rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista), e all’occupazione nazifascista, poi, fino a rimetterci la vita; come si è deciso di rendere omaggio a figure che nel nostro Paese e altrove si batterono per la libertà, la pari dignità tra gli esseri umani e la giustizia. Persone, quali Ken Saro-Wiwa, Carlo CasalegnoGiorgio Ambrosoli, don Peppe Diana, Mauro Rosstagno, Antonino CaponnettoMinerva, Maria Teresa e Patria Mirabal, Harvey Milk, Steven Biko, Desmond TutuNelson Mandela e Leonard Matlovich per non citare che alcune persone, tra quelle rammentate su questa rubrica, che meritano un grato e inestinguibile ricordo. Parafrasando Gaetano De Sanctis, uno di quei 12 docenti che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista e di educare alla devozione ad esso, dovremmo sempre ricordare che tutto quel che abbiamo, in fondo, in termini di diritti civili, politici e sociali, quei principi che sono fissati nella Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio di 71 anni fa, lo dobbiamo a coloro che ebbero «parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori».

Così, se i fatti recuperati in Corsi e ricorsi  sono tutti, direttamente o meno, attinenti con il conflitto nelle sue più diverse manifestazioni e accezioni, sullo sfondo di molti di questi post, se non della loro totalità, s’intravvede sempre un elemento terribilmente ricorrente della dinamica conflittuale, sia essa di genesi spontanea ovvero studiata a tavolino: la trasformazione dell’altro in nemico e la sua de-umanizzazione. Elementi, questi, che, com’è noto, consentono e facilitano la commissione delle peggiori ingiustizie, permettendo all’autore di queste di autolegittimarsi e di cercare consenso presso coloro che suppone possano essere persuasi dai suoi argomenti.

Corsi e ricorsi da oggi si prende una pausa fino al 7 gennaio dell’anno che sta per iniziare, ma prima di augurare a tutti buon anno, ricorda che i sette fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore -, contadini dalle salde convinzioni democratiche e, quindi, antifascisti, per il loro impegno nella Resistenza, una volta catturati, vennero torturati e fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943, nel poligono di tiro di Reggio Emilia.

In qualche misura è anche un omaggio a loro la scelta dell’immagine adottata per questo post. Si tratta di una foto di scena del film C’eravamo tanto amati (1974, di Ettore Scola). Un’opera che, come scrisse Gianpiero Brunetta, illustrava «speranze, utopie, fame, benessere, battaglie culturali vissute con grande partecipazione e perdute regolarmente, rinunce, grandi e piccole passioni, vigliaccherie, compromessi, ma anche piccole riserve di capacità di pensare ancora ai mondi possibili».

Buon 2019, con l’augurio che ci porti un po’ più vicino ad un migliore mondo possibile.

Alberto Quattrocolo

 

 

1947, promulgata la Costituzione della Repubblica italiana

Il 27 dicembre 1947 fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola la Costituzione della Repubblica italiana, approvata dall’Assemblea Costituente pochi giorni prima, che sarebbe entrata poi in vigore il 1º gennaio 1948.

L’Assemblea costituente era stata eletta il 2 giugno 1946, contestualmente al referendum istituzionale in cui i cittadini italiani, a suffragio per la prima volta universale, scelsero la forma repubblicana per il nuovo Stato italiano che doveva sorgere dalle macerie del fascismo e della Seconda guerra mondiale.

Eletta con il sistema proporzionale, la Costituente era composta da 556 membri, di cui 21 donne; da quel momento, i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale cessarono di considerarsi uguali, e si poté constatare la loro effettiva rappresentatività. Dominarono le elezioni tre grandi formazioni: la Democrazia Cristiana, che ottenne il 35,2% dei voti e 207 seggi; il Partito Socialista, 20,7% dei voti e 115 seggi; il Partito Comunista, 18,9% e 104 seggi. La tradizione liberale (riunita nella coalizione Unione Democratica Nazionale), protagonista della politica italiana nel periodo precedente la dittatura fascista, ottenne il 6,8% dei consensi; il Partito Repubblicano, anch’esso d’ispirazione liberale ma con un approccio differente nei temi sociali, arrivò al 4,4%; il Partito d’Azione, nonostante un ruolo di primo piano nella Resistenza, ebbe solo l’1,5%. Raccolsero i voti dei nostalgici del precedente regime la formazione dell’Uomo qualunque (5,3%) e il Blocco Nazionale della Libertà, lista elettorale d’ispirazione conservatrice e monarchica (2,7%).

Per la prima volta nella storia del paese si avviava un processo costituente dal basso, marcando la differenza con le costituzioni ottocentesche octroyeés, concesse dal re “per grazia di Dio”.

Secondo Michele Ainis, nell’Assemblea costituente vi era:

il meglio della cultura giuridica dell’epoca, da Mortati a Perassi, da Tosato a Calamandrei […]; le nuove istituzioni vennero progettate da una élite, da un gruppo composito e compatto d’intellettuali e di politici quale forse mai l’Italia aveva avuto nel passato. Una élite forgiata dalla guerra.

La Costituzione della Repubblica Italiana è frutto dello spirito unitario delle forze politiche antifasciste che già aveva portato all’elezione del liberale Enrico De Nicola a Capo Provvisorio dello Stato, del socialista Giuseppe Saragat prima, e del comunista Umberto Terracini poi, a presidente dell’Assemblea Costituente, del democristiano Alcide De Gasperi a capo del Governo Provvisorio della Repubblica. È stata da più parti sottolineata la lungimiranza politica, lo spessore intellettuale, l’ampia visione culturale, la consapevolezza dell’eccezionale momento storico che i membri della Costituente e i leader politici dell’epoca seppero esprimere in quel tempo. Nei giorni e nelle settimane in cui si andava frantumando l’alleanza antinazista e antifascista e si andavano preparando gli anni della futura guerra fredda, i maggiori partiti italiani, che pure facevano ideologicamente riferimento a blocchi contrapposti, riuscirono a trovare un compromesso alto tra le ispirazioni culturali cattolica, liberale e socialista.

Inizialmente previsti per una durata di otto mesi, i lavori lunghi e complessi dell’Assemblea furono prorogati più volte. Il 15 luglio 1946, l’Assemblea deliberò l’istituzione della Commissione per la Costituzione, composta da 75 Deputati, incaricata di “elaborare e proporre il progetto di Costituzione”. Su questo progetto l’Assemblea iniziò a discutere nel marzo del 1947, e il testo finale fu approvato il 22 dicembre con il 90% di voti favorevoli.

La legge fondamentale dello Stato è composta da 139 articoli, ma cinque di questi (115, 124, 128, 129 e 130) nel corso degli anni sono stati abrogati. A sua volta, la Carta è suddivisa in quattro sezioni: i principi fondamentali, i diritti e i doveri dei cittadini, l’ordinamento della Repubblica (ovvero come funziona e come è organizzato lo Stato) e le disposizioni transitorie finali che servirono nei primi anni del dopoguerra per passare dal sistema monarchico a quello repubblicano. Alcuni degli istituti previsti nel testo costituzionale hanno dovuto attendere molti anni prima di entrare in funzione, mentre altri attendono ancora attuazione da parte del legislatore ordinario (art. 39, sui sindacati, art. 49 sui partiti politici).

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Il fatto che sia nata dalla sintesi di anime ideologicamente diverse e votata a larga a maggioranza comporta il fatto che la Costituzione italiana sia “lunga”, cioè, come scrive il costituzionalista Roberto Bin, “scritta non sommando e non selezionando gli interessi e i valori delle diverse componenti” e necessariamente “aperta”, “nel senso che non pretende di individuare il punto di equilibrio tra i diversi interessi ma non si limita a elencarli, a giustapporli, lasciando alla legislazione successiva di individuare il punto di bilanciamento”. Non indica alla maggioranza la strada da prendere, ma si limita a fissare i confini oltre i quali la volontà della maggioranza politica non può spingersi. La Costituzione italiana “afferma valori opposti, spesso conflittuali, senza dire quale dovrà prevalere. Da ciò la Costituzione trae una notevole dinamicità e capacità di adattarsi ai tempi”.

La si definisce “rigida” perché, fortemente improntata a prevenire la prevalenza arbitraria di un potere sull’altro, volta a evitare ogni deriva antidemocratica dopo l’esperienza del fascismo (la XII disposizione vietò la ricostituzione del partito fascista), la Costituzione italiana può essere cambiata soltanto tramite un procedimento legislativo più complesso e a maggioranza più larga di quanto previsto per le leggi ordinarie. Con un ulteriore limite invalicabile fissato nell’ultimo e 139° articolo: la forma repubblicana non può essere modificata.

La Costituzione tratteggia una concezione pluralista, in cui la società non è una mera somma di individui sotto un’unica legge, ma il prodotto di realtà differenziate, con propri desideri e autonomia; mantiene i diritti classici liberali dell’individuo, riassumibili nei concetti di dignità e libertà umana, facendo proprie le conquiste internazionali in tema di diritti universali; tutela le comunità “naturali” (famiglia, chiesa, fabbrica, scuola, sindacato), riconoscendo loro diritti inviolabili; contempera le esigenze e prerogative individuali e collettive, delineando il passaggio da uno stato “guardiano” a uno sussidiario.

Così ebbe a descriverla Pietro Calamandrei, nel noto discorso rivolto nel ‘55 agli studenti milanesi:

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La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. […]
In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. […]
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.

Silvia Boverini

Fonti:
E. Chiari, “La Costituzione italiana ha 70 anni, una guida per saperne di più”, www.famigliacristiana.it; P. Calamandrei, Discorso ai giovani tenuto alla Società Umanitaria, Milano, 26 gennaio 1955; M. Ainis, “Vita e morte di una costituzione”, Laterza; www.treccani.it; www.it.wikipedia.org

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Terremoto, maremoto, tsunami: centinaia di migliaia di vite trascinate via

In Italia sono quasi le due di notte del 2004: c’è chi brinda, chi festeggia, chi dorme, chi lavora. Incurante delle faccende umane, un fondale marino dall’altra parte del mondo fa uno scatto lungo 1.200 chilometri e a tratti si solleva di 5 metri. Risultato: un terremoto di magnitudine superiore a 9 della scala Richter, che provoca un maremoto con scarsi precedenti. La Terra si muove. Si muove bruscamente.

Siamo al largo dell’isola Simeulue, a ovest di Sumatra, in Indonesia. Là sono quasi le 7.00 del mattino, ma alla crosta terrestre poco importa dell’orario: le onde scattano immediatamente a 800 chilometri orari, ma, in mare aperto, non sono particolarmente alte. Arrivate a poca distanza dalla riva, però, possono raggiungere anche i trenta metri. Come un palazzo di dieci piani.

Com’è ovvio, raggiungono per prime le coste dell’Indonesia, con le sue numerose isole, Sumatra in testa. Purtroppo, quell’immensa mole d’acqua devasta anche altre parti del mondo che affacciano sull’Oceano Indiano: Bangladesh, Thailandia, India, Sri Lanka, Maldive, fino ad arrivare, ore più tardi, a Somalia, Seychelles e Kenia. Circa 230.000 morti. Numeri spaventosi.

Quattordici anni dopo quelle tremende ore di disperazione, un altro tsunami si abbatté sulle stesse coste: il vulcano Krakatoa eruttò, il fondale marino sottostante franò e il mare si agitò, provocando onde enormi e devastanti, che si abbatterono su una popolazione non pronta a difendersi. Più di 400 morti, più di 1.400 feriti, quasi 130 dispersi. 11.000 sfollati. Ancora una volta, la natura spaventa, irriguardosa di qualsiasi umano interesse.

Alessio Gaggero

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1996: il “naufragio fantasma” della Yohan

Mucchi di carne umana, stracci che spuntano dai fondali. Merce, soltanto merce, e non dovrebbe importare se non sono tutti angeli quegli uomini che hanno tentato l’avventura. Ma la pietà sembra davvero morta.
(Corrado Stajano, 2002)

Nella notte di Natale del 1996, al largo delle coste della Sicilia sud-orientale, ebbe luogo il naufragio della nave F174, causando la morte di almeno 283 persone provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka. La cosiddetta “Strage di Natale” rappresentò all’epoca la più grande tragedia navale del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale, almeno fino al 2013, anno a partire dal quale l’asticella del tasso di mortalità nello Stretto di Sicilia si è alzata vertiginosamente: 368 morti davanti a Lampedusa, 700 o forse 900 dispersi in un unico incidente al largo della Libia nel 2015, per un totale stimato di oltre 20.000 decessi negli ultimi sette anni.

L’imbarcazione Yohan, battente bandiera honduregna e capitanata dal libanese Youssef El Hallal, era partita dall’Egitto con a bordo quasi 500 persone, costrette a versare un migliaio di euro a testa per il viaggio della speranza e a giorni interi di attesa nel porto prima della partenza, per poi essere stipate nella stiva con scarse quantità di cibo ed acqua. La motonave salpò nonostante le condizioni meteorologiche avverse e un mare a forza 8.

Durante il tragitto, in un tratto di mare tra Malta e la Sicilia, i migranti furono trasbordati su una nave della marina inglese F714 risalente alla seconda guerra mondiale, in pessimo stato, in legno e con i sistemi di sicurezza fuori uso, che nella migliore delle ipotesi poteva imbarcare non più di 80 persone. I passeggeri della Yohan salirono in massa sul battello maltese, fino a che la nave non cominciò a dare segni di instabilità a causa dell’eccessivo peso. I trafficanti decisero allora di riportare sulla Yohan un centinaio di persone, lasciando sull’altra imbarcazione circa 300 migranti per effettuare due viaggi; la F174 ripartì, non accorgendosi però di una falla sulla prua apertasi dopo un urto con la Yohan nelle operazioni di trasbordo.

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Di lì a poco la tragedia: l’F174 iniziò a imbarcare acqua dalla falla e fu costretta a chiedere aiuto alla Yohan, mentre le condizioni del mare peggioravano ulteriormente; alle tre del mattino, complici una scarsa visibilità e manovre azzardate dei due equipaggi, avvenne lo scontro fatale tra le due imbarcazioni, e la fatiscente nave inglese si spezzò in più punti, affondando velocemente.

La Yohan, a quel punto, si allontanò in tutta fretta con 30 superstiti, tra cui il comandante Sheik Thourab, e si diresse verso la Grecia, prendendo letteralmente in ostaggio i sopravvissuti e imponendo loro il silenzio sui fatti avvenuti la notte precedente.

Alcuni di loro riuscirono a fuggire e denunciare l’accaduto alle autorità greche, senza peraltro esser creduti (molti furono anzi arrestati come clandestini): quattro giorni dopo la tragedia, i superstiti raccontarono alla polizia greca di quella “bara bianca galleggiante di diciotto metri per quattro giunta da Malta”. Dicevano di averla osservata con immediata preoccupazione dal ponte della grossa motonave Yohan: sarebbero dovuti salire lì, col mare in tempesta, per arrivare fino alle coste italiane delle quali si scorgeva in lontananza solo qualche debole luce. Con rabbia spiegarono che in molti avevano tentato di rifiutare il trasbordo, ma erano stati convinti con le armi dal comandante ubriaco. Dicevano che i loro compagni erano stati costretti a entrare a uno a uno in un buco che conduceva alle celle del pesce: per questo, infatti, quella barca maltese era usata normalmente.

Solo il 4 gennaio iniziarono a trapelare le notizie dei sopravvissuti in Grecia e, dopo un lancio dell’agenzia di stampa britannica Reuters, il quotidiano italiano il Manifesto, insieme al britannico The Observer e al greco Ethnos, mandarono i propri inviati ad Atene per ricostruire l’accaduto, mentre le autorità italiane restarono scettiche, nonostante l’allerta data la notte del 31 dicembre dalla capitaneria di porto di Catania circa possibili naufragi avvenuti lungo la costa orientale dell’isola.

Il 9 gennaio del 1997 il governo pachistano chiese ufficialmente all’Italia informazioni sulla vicenda; circolò una prima lista di 68 dispersi, confermati dalla comunità pakistana di Roma, ma in assenza di riscontri oggettivi e soprattutto senza il rinvenimento dei cadaveri la tragedia rimase avvolta nel silenzio delle istituzioni, tanto da far parlare i media di “naufragio fantasma”.

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Nonostante la strage fosse probabilmente avvenuta in acque internazionali, la Procura di Siracusa decise di applicare la norma del codice penale che, in casi di eccezionale gravità, prevede di indagare su fatti non accaduti in Italia, e due mesi dopo la tragedia, il 28 febbraio, si aprì un primo spiraglio nell’inchiesta, con il sequestro lungo le coste calabre della nave Yohan.

Nel dicembre del 1999, su disposizione della magistratura di Siracusa, il comandante della Yohan fu arrestato in Francia, dove si era rifugiato chiedendo asilo politico, dichiarandosi innocente; la Corte d’assise d’appello di Catania lo condannò in secondo grado a 30 anni insieme all’armatore pachistano Sheik Thourab, considerato l’organizzatore del viaggio, ma questo avverrà solo tra il 2008 e il 2009, dopo più di un decennio di impunità.

L’indagine mise inoltre in luce l’esistenza di un ramificato sistema di mercificazione della disperazione di migliaia di persone, un sistema spesso noto tanto alle autorità dei paesi di provenienza dei migranti quanto a quelle europee: otto natanti coinvolti nell’organizzazione del viaggio, tra raccolta dei passeggeri nei porti di partenza e traversata vera e propria; un sistema misto aero-navale a vasi comunicanti fino al carico ottimale; un’economia aziendale anche nell’evitare gli sprechi, come può essere un  cibo decente per la “merce”; uno schiavismo aggiornato e ferreamente centralizzato. Fu ipotizzata la mafia turco-greca come regista dell’operazione.

Poco dopo la tragedia, in Sicilia, al largo di Capo Passero alcuni pescatori iniziarono ad avvistare i cadaveri dei naufraghi, che si incagliavano nelle loro reti, senza però denunciare i fatti e spesso rigettando in acqua i corpi per paura del sequestro delle proprie imbarcazioni. Nonostante circolassero voci tra gli abitanti di Portopalo, solo uno dei tanti pescatori della zona ebbe il coraggio di denunciare la presenza di corpi al largo della costa, indicando alle autorità il presunto punto dell’affondamento: Salvatore Lupo, che inizialmente non fu ascoltato dalle autorità e decise quindi di mettersi in contatto con il giornalista di Repubblica Giovanni Maria Bellu, che avviò un’approfondita inchiesta e nel 2001, mediante un robot subacqueo telecomandato munito di telecamera (ROV) mostrò al mondo le immagini del relitto della F714, ormai sepolto da cinque anni a 100 metri di profondità con gli scheletri intrappolati all’interno.

Ci sono corpi che comunicano una lotta feroce con la morte. Sono le camicie e i pantaloni con le braccia e le gambe aperte, con la posa del pugile steso sul ring. Ce ne sono altri, e sono i più, che raccontano la paura impotente, l’orrore. E questi fai fatica a individuarli come corpi umani perché sono fagotti di stracci chiusi in posizione fetale. In comune, gli uni e gli altri, hanno l’assenza della testa. Il mare ha decapitato tutte le vittime del naufragio di Natale. Ma quando il ROV sorvola l'”area cimiteriale”, noti che spesso ai crateri dei gamberi s’alternano piccoli rilievi, mezze sfere coperte di fango.

L’operazione di recupero sarebbe costata meno di un milione di euro, perché il relitto si trovava a una profondità di poco più di 100 metri, ma venne costantemente rimandata; a sensibilizzare in proposito l’opinione pubblica si mobilitarono artisti, intellettuali e giornalisti: il 16 febbraio 2007 il governo stanziò le risorse finalizzate al recupero del relitto della nave, ma per le alterne vicende della politica italiana le operazioni furono realizzate solo nel luglio del 2016.

Silvia Boverini

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Fonti:
“Il relitto recuperato pieno di cadaveri il racconto dell’orrore di un vigile del fuoco”, www.lasicilia.it; www.it.wikipedia.org; “25 Dicembre 1996: la strage di Natale”, www.infoaut.org; L. Balzarotti e B. Miccolupi, “La strage di Natale e le vittime dimenticate di Capo Passero”, www.corriere.it; G. M. Bellu, “Il cimitero in fondo al mare. Prova del naufragio fantasma”, www.repubblica.it; D. Frisullo, “Buon Natale, clandestino”, www.a-dif.org

Tregua: tacciono spontaneamente i fucili in quei giorni di festa del 1914

Siamo sul Fronte Occidentale, quella lunga lingua di terra che corre tra il Mare del Nord e il confine svizzero, tra Francia e Germania. La Grande Guerra è iniziata da circa sei mesi e gli avversari sono rintanati nelle interminabili trincee che caratterizzano questo estenuante conflitto di posizione. Francesi e Inglesi da un lato. Tedeschi dall’altro.

Nei giorni intorno a quel Natale ’14, sia le Suffragette inglesi che il Papa avevano provato ad invocare una tregua, ma ottennero risposte negative dai comandi. Furono i soldati delle prime linee a stupire il mondo intero, che, però, lo venne a sapere solo a giorni di distanza.

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Dunque, sembra che in diversi punti di quel lunghissimo confine scavato nella terra ci furono dei cessate il fuoco totalmente spontanei, non ordinati da nessun ufficiale, che, anzi, probabilmente tentarono di mantenere la segretezza dell’accaduto. Di più, molti racconti descrivono soldati, che un attimo prima tentavano di uccidersi a vicenda, uscire dalle rispettive trincee e andare incontro al nemico per scambiarsi gli auguri di Natale, non più proiettili. Tante sono anche le storie che parlano di partite di calcio improvvisate con palloni fatti di stracci, organizzate alla bell’e meglio su quelle distese dove, fino a poco prima, giacevano i corpi esanimi e martoriati di compagni e avversari.

L’UEFA, nella persona del Presidente Platini, cinque anni fa ha voluto commemorare quel piccolo scampolo di pace messo in atto dagli uomini, non dai comandanti, inaugurando un monumento a Ploegsteert, località di Saint-Yvon, in Belgio. La partita in questione sembra fu vinta dai tedeschi per 3-2 e Kurt Zehmisch, soldato del 134° reggimento sassone, così lo ricordò:

Il pallone aveva rimpiazzato le pallottole e per la durata di una partita di calcio l’umanità aveva ripreso il sopravvento sulla barbarie.

Alessio Gaggero

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Il rapido 904 esplode e l’Appennino trema

Come oggi, quel 23 dicembre 1984 era vissuto da persone che viaggiavano da una parte all’altra dell’Italia per ricongiungersi ai propri cari, in vista del Natale e delle feste. L’Antivigilia: ormai manca poco alla magica notte, ai regali, ai pranzi e alle cene in famiglia. Su quel giorno, tuttavia, calò un velo di tristezza e dolore, che coprì tutto il nostro paese.

Il buio era ormai sceso sulla penisola e il treno entrò nella galleria da cui non sarebbe più uscito. Non intero quantomeno. A metà tunnel, la bomba fece scoppiare la nona carrozza come un palloncino, uccidendo 15 persone e ferendone 267. Erano passati dieci anni dalla strage dell’Italicus, esploso a breve distanza dall’uscita, probabilmente a causa di un errore di calcolo nell’attivazione del timer. In questo caso, gli attentatori, forse proprio grazie all’esplosione precedente, indovinarono il tempo corretto: il treno si fermò a circa una decina di chilometri sia dall’entrata che dall’uscita. Fortunatamente, il numero di vittime non variò tanto quanto si temeva.

Magra consolazione. La Grande Galleria dell’Appennino diventa nuovamente scenario di morte. E di misteri.

Chi ha messo la bomba? Chi gliel’ha ordinato? Perché? Sono coinvolte delle istituzioni anche in questo caso?

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La magistratura provò a rispondere a queste e altre domande con vari procedimenti e diversi gradi di giudizio. L’ultima risposta si è avuta nel 2015, con Salvatore Riina assolto per insufficienza di prove rispetto al mandato della strage. Un altro mafioso di spicco fu coinvolto nella vicenda: Giuseppe ‘Pippo’ Calò, il banchiere di Cosa Nostra, condannato all’ergastolo per strage. Non che la cosa gli abbia cambiato di molto la situazione giudiziaria, avendo collezionato una lunga serie di condanne con reclusione a vita.

Sfortunatamente, però:

La Commissione parlamentare Stragi, presieduta dal Senatore Gualtieri, nel 1994 ha evidenziato un chiaro contesto in cui sono maturate le azioni terroristiche riportabili alla strategia della tensione, senza riuscire in alcuni casi, come questo del “Rapido 904”, ad individuare un più ampio ambito di responsabilità, avvertendo che restano non pienamente chiariti i contesti diversi e i più ampi disegni strategici cui le stragi sono state funzionali.
(Patrizia Tramma, La mancata verità)

Alessio Gaggero

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Si riapre la Porta di Brandeburgo il 22 dicembre 1989

La questione tedesca è aperta fino a quando la porta di Brandeburgo resterà chiusa.
(Richard von Weizsäcker, sindaco di Berlino Ovest negli anni Ottanta)

Il 22 dicembre 1989, poco più di un mese dopo l’annuncio della riapertura delle frontiere tra le due Germanie divise dal Muro di Berlino, tornò ad aprirsi anche la Porta di Brandeburgo, che dal 13 agosto 1961 era isolata in una terra di nessuno: situata nel periodo della divisione immediatamente dietro la linea del confine, nel settore sovietico della città, si ergeva a ricordo e monito di una separazione, di due Germanie, di un’America e un’Unione Sovietica, di un capitalismo e un comunismo, di un Ovest e un Est, di una guerra fredda durata mezzo secolo.

Simbolo delle aspirazioni di una Germania unita, la Brandenburger Tor, l’ultima delle 18 porte che un tempo davano accesso a Berlino, in quel giorno d’inverno dell’89 richiamò centomila persone per celebrare l’evento della sua riapertura, quando il cancelliere della Germania dell’Ovest Helmut Kohl la attraversò per incontrare il primo ministro della Germania dell’Est Hans Modrow.

La storia del monumento è antica e il suo valore simbolico è cresciuto nel corso dei secoli. Alla fine del Settecento, quando la Prussia era al culmine della sua ascesa, la Porta di Brandeburgo si presentava come un piccolo posto di controllo, che non dava al viaggiatore l’idea di entrare nella capitale di uno dei maggiori poteri europei.

Fu Federico Guglielmo II a commissionare una nuova porta che non doveva chiudere la città, ma anzi aprirla sul viale Unter den Linden, che conduceva al palazzo prussiano. L’architetto Carl G. Langhans la fece costruire, tra il 1788 e 1791, secondo il modello della Propylaea, la porta dell’Acropoli di Atene; le 12 colonne doriche creano cinque passaggi: quello centrale originariamente era riservato soltanto ai reali, i due adiacenti erano riservati all’aristocrazia, mentre i due passaggi più esterni erano per i cittadini comuni.

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La scultura che sormonta la porta, invece, fu progettata da Johann Gottfried Schadow nel 1793, con la statua della Vittoria alata alla guida di un carro tirato da quattro cavalli. Secondo alcune ricostruzioni, tuttavia, non era questo il progetto iniziale: la Porta di Brandeburgo, originariamente, avrebbe dovuto chiamarsi Friedenstor (Porta della Pace) perché simboleggiava un periodo di pace dopo i lunghi anni di guerra del regno di Federico il Grande; di conseguenza, la statua commissionata a Schadow non era quella della Nike, ma quella di Eirene, incarnazione greca della pace. Secondo alcuni storici, nella versione originale, la figura femminile era nuda o coperta solo da una tunica corta. Tanto il significato quanto la scelta dell’abbigliamento incontrarono aspre critiche, che spinsero gli architetti a modificare il proprio lavoro: al ramo di ulivo, simbolo della pace, si sostituì la lancia sormontata dall’alloro e la tunica si trasformò in una lunga veste.

Nel 1806, dopo avere sconfitto l’esercito prussiano, Napoleone entrò a Berlino e ordinò che la statua della Vittoria fosse spedita a Parigi e collocata sugli Champs-Elysées, ma già nel 1815, dopo Waterloo, il feldmaresciallo prussiano Gebhard Leberecht von Blücher entrò con le sue armate a Parigi e per prima cosa ordinò che la Vittoria fosse riportata a Berlino. A seguito di questo episodio, Napoleone si guadagnò il nomignolo dispregiativo di Pferdedieb (ladro di cavalli), mentre la Quadriga fu ribattezzata Retourkutsche, dal francese carrosse de retour, ovvero un particolare tipo di carrozza che poteva essere affittata per un viaggio di sola andata, a patto di pagare anche il costo del ritorno.

Quando la Quadriga tornò a Berlino per essere ricollocata in cima alla Porta di Brandeburgo, Friedrich Schinkel – uno dei più importanti architetti della città – praticò alcune aggiunte alla scultura, inserendo una croce di ferro, la più alta decorazione militare, e sormontando il tutto con l’aquila, simbolo della Prussia.

Da quel momento, la Porta divenne un luogo carico di simbolismo e ideologie. Dopo la vittoria nella guerra contro la Francia e l’unione della Germania nel 1871, l’imperialismo tedesco ne fece lo scenario preferito per innumerevoli parate militari. Al tempo della sconfitta rovinosa nella prima guerra mondiale, in molte città tedesche scoppiarono rivolte spontanee, con combattimenti strada per strada, e una delle prime cose che fecero i rivoluzionari a Berlino fu occupare la Porta di Brandeburgo. Tra il 1933 e il ’45 essa diventò palcoscenico per la propaganda nazista e recò a lungo lo striscione “Führer befiehl, wir folgen!” (Führer ordina, noi seguiamo!).

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Nel 1945, quando la Germania firmò la capitolazione incondizionata, Berlino era un campo di macerie: tre anni di continui bombardamenti avevano annichilito la città, che fu divisa in quattro settori; la Porta di Brandeburgo, danneggiata ma non distrutta, ritornò ad avere la semplice funzione di separare due zone della città, in questo caso il settore britannico da quello sovietico.

Negli anni Cinquanta circa 2,5 milioni di tedeschi dell’Est abbandonarono la DDR. Per porre fine a questo “furto di persone da parte dell’Ovest” (soprattutto professionisti e lavoratori specializzati, e molte diserzioni dall’esercito), nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 a Berlino Est fu avviata la costruzione di un muro attorno ai tre settori occidentali, trasformandoli in pratica in un’isola rinchiusa entro i territori orientali. La Germania Est sostenne che si trattava di un “muro di protezione antifascista” inteso a evitare un’aggressione dall’Ovest.

L’edificazione del Berliner Mauer iniziò proprio dalla Porta di Brandeburgo, divenuta zona sovietica. Sul lato occidentale di essa venne eretta una barriera di cemento armato; a molti metri di distanza, sul lato orientale, un altro muro coperto di filo spinato. Improvvisamente, la porta del XVIII secolo non si trovava più nel vivace centro cittadino, ma in una terra di nessuno piena di torri di controllo, fari di ricerca, allarmi e Volkspolizisten armati. Tutti gli altri edifici della “kill zone” (una striscia larga 10 metri con campi minati e apparecchi che sparavano automaticamente a chi voleva fuggire) vennero demoliti, ma la Porta era troppo imponente: semplicemente, fu resa inaccessibile, sia ai Berlinesi dell’ovest che a quelli dell’est.

Dopo quasi quattro decenni, nell’ottobre del 1989 anche nella DDR gli eventi precipitarono come nel resto dell’ex blocco orientale e, quando il Muro venne abbattuto, grandi folle dalla Germania Est e Ovest si radunarono attorno alla Porta di Brandeburgo per festeggiare.

Oggi una linea rossa ricorda la posizione in cui si trovava il muro.

Nel 1994, all’interno della Porta fu inaugurata una “stanza del silenzio”, per dare la possibilità a chiunque, indipendentemente dalla provenienza, dal colore, dall’ideologia, dalla religione e dalla condizione fisica, di entrare e soffermarsi in silenzio o semplicemente di staccarsi dallo scompiglio della metropoli, per riflettere, meditare, pregare in quel luogo storico pieno di ricordi tristi, ma anche di speranza. La stanza del silenzio costituisce un invito permanente alla tolleranza e alla fratellanza tra gli uomini e un’esortazione continua contro la violenza e il razzismo, un piccolo passo verso la pace.

La Porta di Brandeburgo, simbolo per decenni della divisione della città di Berlino e del mondo, con la caduta del Muro è diventata l’immagine di una speranza per un futuro pacifico in Germania e in Europa: la stanza del silenzio ha ripreso l’idea della Porta della Pace, corrispondendo così dopo due secoli al “genius loci” delle origini.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.berlin.de/it; C. Mantegazza, “22 dicembre 1989: apertura della Porta di Brandeburgo”, www.ildialogodimonza.it; www.berlino.com; www.tourasticoberlino.com; www.viaggio-in-germania.de; A. Fiore, “La Porta di Brandeburgo e la statua della Vittoria: un simbolo dalla storia affascinante”, www.ilmitte.com; www.raistoria.rai.it; www.laborcare.it

L’umanità da non perdere

Anche oggi, ad ogni passaggio televisivo, per i telespettatori è uno di quei film da non perdere. Perché Guardie e ladri (1951, di Mario Monicelli e Steno) è ancora capace di suscitare sia l’aperta risata che l’identificazione con i protagonisti [1]. Arrivato nelle sale italiane il 21 dicembre del 1951, era stato pubblicizzato come un film comico da non perdere. Da non perdere per la accoppiata formata da Totò e Aldo Fabrizi. Non era una pubblicità ingannevole. Tutti ridevano fino a sbellicarsi. Però il film, oltre a divertire, suscitava anche altre, non scontate, reazioni emotive.

Un po’ come noi

La critica dell’epoca, quasi all’unanimità, apprezzò non soltanto le belle interpretazioni dell’intero cast, ma anche la toccante carica di umanità dei personaggi. E questa umanità, come si dice in questi casi, continua a “bucare lo schermo”[2]. In Lorenzo Bottoni, il brigadiere interpretato da Fabrizi, e in Ferdinando Esposito, il ladro e imbroglione cui presta la propria faccia Totò, c’è qualcosa di intramontabile e di universale: una dolente, comune, fragilità.

Sono uomini feriti e già tante volte umiliati. Uomini sulla cinquantina, con mogli e figli, e una sola fonte di reddito, quello che essi portano a casa e che non basta mai. Uomini stanchi, che hanno fatto il pieno della retorica per venti e più anni di fascismo e che hanno visto il loro Paese andare in malora prima, durante e dopo la guerra. Hanno rinunciato, quindi, a farsi illusioni su di sé e sull’Italia miserabile in cui vivono. Però, non avendo altra scelta, tirano avanti e lottano contro il fallimento totale. Per l’uno, il brigadiere, fallire vuol dire non riuscire a catturare il ladro che gli è sfuggito, il che implica automaticamente la perdita dell’impiego e la caduta nel mondo cui appartengono i diseredati come il ladro Esposito; mentre per costui essere arrestato da Bottoni significa far finire la famiglia sul marciapiede.

Però, per quanto la Crisi ci abbia avvicinato alle loro angosce concrete, non è soltanto la fragile precarietà sociale dei due a toccarci oggi: sono le loro emozioni.

Quella solitudine tra le righe che abbiamo conosciuto tutti

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In effetti, è davvero difficile fare il tifo esclusivamente per il brigadiere Bottoni nella sua caccia al ladruncolo che gli è scappato. Perché, da un lato, Aldo Fabrizi riesce a farci sentire come la sua burbera bonarietà e la sua ingenuità siano sopravvissute alle sberle e ai disincanti. Insomma, sappiamo che è una persona perbene, che ha un cuore e anche un forte senso del dovere, e empatizziamo con la sua angoscia di dover dire addio al posto di lavoro, se non cattura il ladro; però, dall’altro, riconosciamo che è a dir poco cinica e meschina la trappola che egli prepara ai danni degli ignari famigliari di Totò. Insomma, la nostra disapprovazione convive con il fatto che nell’arco della nostra vita abbiamo provato, almeno una volta, la sua stessa desolata solitudine: quella che nasce dal non riuscire a condividere con le persone più vicine le paure e la sofferenza che proviamo.

Facce da non perdere

Il brigadiere, infatti, ci appare quasi da subito come un uomo sensibile, ma, nel profondo, molto solo.

Non meno solo è anche il ladro. Di lui, Totò, con quella barba di tre giorni, gli occhi stanchi di uno scugnizzo invecchiato e la faccia di chi troppe ne ha viste, ci trasmette, sotto pelle, l’impossibilità di spartire e di sentire compreso dagli altri quel che si porta silenziosamente dentro. Il peso sfiancante della responsabilità, la spossata rincorsa di un irraggiungibile domani migliore, il sentimento della propria inadeguatezza, i sensi di colpa e di vergogna per la sfilza dei fallimenti accumulati e per l’inconfessabile “lavoro” realmente svolto, la stanchezza e il disgusto per le bugie spacciate anche a moglie e figli.

Non approviamo, perciò, la guardia che si impadronisce della stima di cui il ladro godeva in famiglia, proponendosi fittiziamente come disinteressato benefattore; come non possiamo parteggiare per il ladro, i cui crimini, per quanto apparentemente piccoli, hanno ricadute dolorose sulle altre persone, persone della quali non sa e non vuole preoccuparsi.

D’altra parte, è anche difficile condannare questi due uomini per i loro raggiri e artifizi, come per le bugie che dicono e per le verità che tacciono alle loro moglie e ai loro figli. Sappiamo che per entrambi è vitale non perdere del tutto la faccia in famiglia.

Che fegura ce famo?

«Fèrmate, fèrmate, che fegura ce famo all’estero…» grida, senza fiato, Fabrizi, nella prima parte del film, quando insegue Totò. E, «che fegura ce famo» all’ “interno”? Entrambi i personaggi, in effetti, sono confinati in una solitudine emotiva, perché condizionati dal «che figura ci faccio con i miei famigliari, se scoprono la verità?» Nessuno dei due, infatti, ha messo al corrente moglie o figli su quel che gli succede fuori di casa. Così la famiglia Bottoni ignora il rischio del licenziamento che sta correndo il brigadiere, e la famiglia Esposito non sa che le sue misere entrate sono di natura illecita.

Un amore da non perdere anche al prezzo di una mesta solitudine

Ovviamente, allo stomaco dello spettatore arriva a piccole dosi l’angoscia di questi due mariti e padri che cercano di non perdere, con la faccia, anche l’amore coniugale e filiale. Propongono un’immagine falsa di sé ai loro cari, perché temono che quella vera, se conosciuta, li priverebbe della loro stima e del loro affetto. Quindi, quando escono di casa, ne escono davvero, perché sono, lì fuori, completamente da soli. E quando rientrano rimangono, in realtà, ugualmente soli.

Ma mentire stanca. E la solitudine, generata dal dover reggere una costante finzione, svuota un poco alla volta il senso stesso dei legami. In particolare, il personaggio di Totò sembra cominciare a non reggere più quella stanchezza e ad essere nauseato da quel vuoto.

Una mediazione (spontanea) attorno alla comune dignità da non perdere

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A voler guardare la conclusione della pellicola con gli occhiali della mediazione, si può certamente osservare che alla fine questi due uomini si riconoscono reciprocamente e trovano una collaborazione capace di risolvere con reciproca soddisfazione i loro guai. Però, tentando di sentire i sentimenti di questi due personaggi, quella mediazione spontanea che si sviluppa tra di loro, ha un’implicazione di sommessa malinconia. I due si riconoscono non soltanto come poveri diavoli, figli di un’Italia devastata. Si riconoscono su di un piano più profondo. Apprendono di essere accomunati dalla comune solitudine morale di chi non può rivelarsi davvero per ciò che è alle persone che più ama al mondo.

Un’umanità da non perdere

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Quel che la censura censurò

L’ottusa censura democristiana dell’epoca [3], che rifiutò, in un primo momento, il visto alla circolazione del film, non poteva accettare che una guardia potesse sorprendersi capace di raggiri morali, a ben vedere, non meno devastanti di quelli abitualmente realizzati da un imbroglione di professione. Per i censori era inammissibile che una guardia fosse così umanamente imperfetta e che un ladro fosse ritratto come un uomo e non come uno stereotipo (nulla di così sorprendente, se si pensa alle reazioni politiche recenti o recentissime rispetto ai film A Ciambra e Sulla mia pelle e alla non messa in onda della fiction Tutto il mondo è paese).

Un esempio di giustizia riparativa ante-litteram

Il brigadiere Bottoni, infatti, nel finale comprende il male che sta facendo al truffatore e ai suoi cari. Lo sente, ancor prima di realizzarlo mentalmente. Si accorge che l’altro, colui che lo ha messo nei guai, è un essere umano, come lo è lui. Non è un santo, anzi fa il ladro, ma è una persona. Non è soltanto, quindi, un’entità astratta, il nemico, da perseguire legalmente. Analogamente – pensando ancora in chiave sia criminologica e vittimologica, che di mediazione penale come strumento di Giustizia Riparativa -, al signor Esposito cade quel velo dagli occhi che la sua esausta astuzia gli aveva consentito di tenere su in nome del mors tu, vita mea: incontrando il sig. Bottoni, acquistano spessore umano le vittime dei suoi imbrogli. Diventano vere, cioè, le persone la cui umanità aveva sempre tenuto lontano dalla propria coscienza, tutta intenta ad autogiustificarsi con i soliti meccanismi auto-assolutori: i miei sono illeciti di poco conto, che non fanno davvero male a nessuno; ci sono stato costretto dalle circostanze; è colpa della società; la vittima non è tale perché è più ricca di me, oppure perché se l’è cercata o perché se lo merita per la sua ingenuità credulona o per la sua avidità. E alla realtà della natura umana della sua vittima il ladro non può più sottrarsi. Così convince l’ormai riluttante guardia a portarlo in carcere, essendo approdato a quel sentimento per il quale mors tua significa, in fondo, mors mea. Non è la falsa immagine di sé ciò che va difeso, scopre Totò, non il finto superamento di traguardi mai raggiunti, né è da conservare l’arroganza o la prepotenza con cui si celano le frustrazioni di un riconoscimento sociale non conseguito: è la propria umanità che non va persa.

Un film natalizio

Anche per queste ragioni, oltre che per i tanti pregi tecnici e artistici (si pensi alla fotografia di Mario Bava e alla colonna sonora di Alessandro Cicognini), verrebbe da raccomandare la visione del film di Steno e Mario Monicelli ai ragazzi delle scuole. E, be’, anche agli adulti. Peraltro, con tutta la sua ironia e il suo contagioso umorismo, con il suo umanesimo non pedagogico bensì risolto sul piano dei fatti, delle interpretazioni e delle scelte registiche, si accorderebbe non poco con lo spirito natalizio. Cioè, con quello spirito che tutti, almeno a parole, vorremmo fosse comunemente declinato in termini di comportamenti etici e morali.

Del resto, per quanto nel 1951 l’uscita a ridosso del Natale fosse dovuta ai rinvii legati al braccio di ferro con la censura, non stonò neppure allora con il clima natalizio. Era sì, un film da ridere, ma anche da ricevere nel cuore e da pensare. Ricordava a tutti che la demonizzazione e la de-umanizzazione dell’altro – che avevano sparso devastazioni e atrocità inaudite nell’appeno concluso secondo conflitto mondiale -, potevano essere superate. Perché ognuno di noi è capace di scorgere l’umanità dell’altro e di sentire che la propria umanità è qualcosa da non perdere mai. Anche perché perderla ci rende vuoti e infelici, rancorosi e soli. Mentre il finale di Guardie e ladri non è triste e non suscita rabbia: superando pregiudizi e stereotipi, riconoscendosi reciprocamente come persone, Bottoni ed Esposito trovano qualcuno in grado di comprendere e, così, di colmare, almeno un po’, il vuoto che mestamente si trascinavano dentro.

Alberto Quattrocolo

 

[1] A pensarla così non sono soltanto quegli inguaribili nostalgici secondo i quali “di film così non se ne fanno più”. Proiettato un po’ ovunque, infatti, ha suscitato le stesse reazioni. In Cina, come in Francia, in Spagna come in Egitto, in Uruguay come in Gran Bretagna… Il sottoscritto, inoltre, è stato testimone diretto della sua riuscitissima presa su di un pubblico di diverse nazionalità e culture, allorché, una quindicina di anni fa, a seguito di un lavoro di video interviste e di inchiesta sul campo coinvolgente gli abitanti del quartiere ad alta densità migratoria, Barriera di Milano, a Torino, venne proiettato, il 22 luglio 2004, in italiano e con sottotitoli in italiano, come opera di apertura della prima edizione del festival CinemaINStrada. Un’iniziativa culturale, quella, che avrebbe meritato assai maggiore considerazione mediatica e politica di quella che ricevette. La scelta partecipata, gestita dall’Associazione i313 – che ideò e sviluppò tra mille fatiche e ostacoli, anche economici, quel progetto culturale, quattordici anni fa e per gli 8 anni successivi delle seguenti edizioni -, cadde, quindi, su Guardie e ladri, proprio perché, tra i titoli indicati dagli abitanti intervistati, era una commedia capace di suscitare la risata come la commozione in termini universali, toccando i tasti più delicati di un’umanità che, oggi, ancor più di allora, sarebbe da non perdere.

[2] Il film ottenne il premio per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes del ’52 e procurò a Toto il Nastro d’argento come migliore attore.

[3] Presentato il 19 luglio 1951 alla Commissione di Revisione Cinematografica presieduta da Giulio Andreotti, venne respinto il 2 agosto. Dopo alcune revisioni ad opera di Monicelli e Steno, riuscì ad ottenere poi il visto il 23 ottobre. Analoghe disavventure con la commissione censoria incontrarono Totò e Monicelli con un altro film, Totò e Carolina. In tal caso la Commissione impose tagli tali da rendere la pellicola una delle più devastate dalla censura. Recuperata poi la versione originaria dalla Cineteca di Bologna, fu proiettata in versione restaurata in una delle serate del Festival CinemaInstrada di cui si è fatto cenno nella precedente nota 1. Tornando a Guardia e ladri, inizialmente il film doveva essere diretto da Luigi Zampa (con altri attori: Anna Magnani e Peppino De Filippo), che, però, rinunciò all’idea temendo, a ragione, di doversi misurare con l’ottusità censoria, cosa che lo aveva già provato rispetto ad altre pellicole dirette nell’immediata dopoguerra: in particolare, con L’onorevole Angelina e Anni difficili. In realtà, s’imbatté, comunque, nelle stesse ire della Commissione, cui aveva sperato di sfuggire, con alcune sue opere successive: Anni facili, Processo alla città e L’arte di arrangiarsi. In ordine ai problemi con la censura, su questa rubrica, abbiano ricordato anche il capolavoro di Vittoria De Sica, Umberto D. Gli altri post dedicati, su Corsi e Ricorsi, ad opere cinematografiche sono stati quelli relativi alle uscite di I cancelli del cielo e Il cacciatore, entrambi di Micheal Cimino, e di Tornando a casa, di Hal Ashby.

Spagna, 1973: l’ETA dà la morte all’erede di Franco

In quell’estate da poco lasciata alle spalle, Luis Carrero Blanco era stato nominato Presidente del Governo spagnolo (l’equivalente del Presidente del Consiglio dei Ministri) proprio da Franco. Dopo anni passati fianco a fianco ai più alti (e controversi) vertici politico-militari spagnoli, il caudillo iniziava dunque a farsi da parte, pur mantenendo per sé le cariche di capo dello stato e dell’esercito, e aveva chiaramente indicato il suo successore.

Come dirà più avanti uno dei terroristi baschi, fu proprio questa investitura a costare la vita a Carrero Blanco, che se la sarebbe cavata, per così dire, con un rapimento, secondo i piani originari dell’ETA. Gli organizzatori optarono, invece, per la dinamite.

Posta sotto il manto stradale, per mezzo di un travestimento di diversi uomini fintisi elettricisti, esplose quando la macchina del politico, che compiva lo stesso tragitto tutte le mattine, passò sul punto prestabilito: la vettura compì un volo di diverse decine di metri, scavalcando un palazzo di sei piani lì vicino e finendo nell’interno cortile dello stesso.

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Incredibilmente, Carrero Blanco non morì sul colpo, a differenza dell’autista e dell’agente di scorta, ma resistette fino all’arrivo in ospedale, dove spirò. L’attentato fu poi rivendicato, a circa una settimana di distanza, da un commando basco in Francia, che rivelò l’intero piano. Le indagini non portarono a molto di più, e l’amnistia del 1977, seguita alla caduta di Franco, fece cadere ogni accusa.

Per quanto importanti, queste tre morti compongono un numero tristemente piccolo rispetto a sessant’anni di attività dell’ETA. Euskadi Ta Askatasuna, questo il nome in lingua basca, significa Paese basco e libertà: l’organizzazione ha infatti avuto l’obiettivo di rendere indipendenti il territorio e il popolo basco, che trova uno degli elementi di aggregazione proprio nella lingua. Al confine tra Francia e Spagna non si parla spagnolo né francese, ma una terza lingua non di origine indoeuropea, per la quale, ad oggi, esistono solo ipotesi riguardanti il ceppo di provenienza.

L’ETA fu dunque fondata nel 1958 e pochi anni dopo imbraccerà le armi per condurre le proprie battaglie. Il sangue versato fino al 2018 è stato molto, fino a oltrepassare le 800 persone e a “guadagnarsi” il titolo di organizzazione terroristica da svariati stati, Unione Europea inclusa. Nel 2018 però, ne è stato dichiarato pubblicamente lo scioglimento, dopo che, nel 2011, aveva decretato la fine della propria attività armata.

Alessio Gaggero

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