Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura

Il 5 novembre 1925 Mussolini dava il via a quelle articolate misure repressive, progettate da tempo, che erano intese a instaurare la dittatura. Il giorno prima, infatti, era “scampato” ad un attentato. Era esattamente ciò che gli occorreva per compiere il liberticidio programmato.

4 novembre 1925, ore 6: un maggiore degli alpini e un suo giovane accompagnatore entrano all’Hotel Dragoni di largo Chigi

Alle sei di mattina, del 4 novembre 1925, un uomo in alta uniforme da maggiore degli alpini, con tanto di decorazioni al petto entrò nell’Hotel Dragoni di largo Chigi 9 a Roma, angolo via del Tritone. Sembrava un patriota ansioso di assistere alla parata per l’anniversario dalla vittoria della Grande Guerra. Si qualificò alla reception come maggiore Domenico Silvestrini. Lo accompagnava un uomo più giovane, lo stesso che alcuni giorni prima si era occupato della prenotazione della camera e che aveva insistito perché si trattasse di una stanza la cui finestra fosse, rispetto alla facciata dell’albergo, centrale e non laterale. Il proprietario dell’hotel, Romano Dragoni gli assegnò la camera numero 90.

Erano passati tre anni dalla marcia su Roma.

Dal 31 ottobre del ‘22 il Regno d’Italia aveva un governo fascista, presieduto da Mussolini – e lo avrebbe avuto per altri vent’anni circa, fino al 25 luglio del ‘43. Anche le elezioni del 1924, svoltesi in un intollerabile clima di violenza fascista, avevano premiato Mussolini, assegnandogli la maggioranza parlamentare.

Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista Unitario, il 30 maggio 1924, alla Camera dei Deputati, però, aveva denunciato le brutalità, riconducibili al Partito Fascista, che avevano compromesso la correttezza delle elezioni tenutesi in aprile, mettendo, così, in discussione la libera formazione del consenso del popolo e, dunque, la stessa legittimità del Parlamento formalmente scaturito dalle urne[1].

A seguito del delitto Matteotti, era sembrato che la stella di Mussolini stesse tramontando. Ma l’illusione era durata poco[2]. Anzi, sempre più veloce andava affermandosi l’instaurazione del regime, annunciata dal discorso tenuto a Montecitorio il 3 gennaio proprio da Mussolini, nell’ambito del quale esplicitava l’intenzione di farla finita con l’opposizione e con il regime di democrazia liberale[3].

L’attentato che non poteva compiersi

Fu in questo contesto che maturò lo strano, quasi bizzarro, attentato a Mussolini del 4 novembre. Strano, perché non si può dire che fallì, visto che in un certo senso neanche iniziò. Infatti, non vi era alcuna possibilità che venisse sviluppato quell’attentato, predisposto e portato avanti da Tito Zaniboni.

Zaniboni voleva colpire il maggiore responsabile dell’omicidio Matteotti e della soppressione delle libertà politiche

Zaniboni, 42enne, già tenente colonnello degli alpini durante la Grande Guerra, pluridecorato per atti di coraggio, massone, ex deputato, ex membro del Partito Socialista Unitario, era un uomo disperato. Si era impegnato personalmente nelle ricerche di Matteotti, prima che ne venisse trovato il corpo. Aveva sperato che le forze di opposizione mostrassero maggior nerbo nel reagire a tale delitto e alla politica liberticida del fascismo. Ma, deluso dall’inefficacia della condotta dell’opposizione e dalla passività del Re, cui pure si era rivolto, aveva iniziato progettare il modo per rovesciare il Governo. Non trovando un serio appoggio neanche in tal senso, si era infine risolto di giustiziare il mandante dell’omicidio di Giacomo Matteotti e l’oppressore della libertà politica degli italiani.

Le autorità di polizia sapevano già tutto

A rendere impossibile il compimento del suo delitto, però, era il fatto che l’intenzione di Zaniboni di uccidere Mussolini era già nota all’autorità di polizia: i personaggi coinvolti, assai prima di quel 4 novembre 1925, erano sotto costante controllo da parte di spie, di carabinieri e poliziotti in borghese. Nel gruppo dei cospiratori vi era perfino un infiltrato, un informatore della polizia, tale Carlo Quaglia, giornalista del periodico del Partito popolare «Il Popolo» e studente in giurisprudenza.

Il maggiore degli alpini Domenico Silvestrini, accomodatosi nella stanza numero 90 dell’Hotel Dragoni quella mattina del 4 novembre 1925, infatti, era, in realtà, Tito Zaniboni e il giovane che lo accompagnava si chiamava Carlo Quaglia.

Tito Zaniboni aveva progettato di sparare a Mussolini, mentre, verso le 10 del mattino, secondo le previsioni, si affacciava dalla terrazza di palazzo Chigi per rivolgere un breve discorso alla folla convenuta in Piazza Colonna, durante la sosta del corteo che da Piazza del Popolo era diretto all’Altare della Patria. A tal fine, era stato collocato all’interno della stanza, in un armadio, un fucile austriaco di precisione.

Poco dopo le 9, però, il vice questore Errico Belloni e i suoi agenti della Questura di Roma comparvero nella stanza, la perquisirono, trovando l’arma, e arrestarono Zaniboni e Quaglia, di cui, naturalmente conoscevano già i nomi veri [4].

Le mosse del 5 novembre e delle settimane successive

I giornali del mattino del giorno dopo non facevano alcun cenno a quanto accaduto nell’albergo di largo Chigi, perché, il 4 Mussolini aveva tenuto la cosa riservata, passandola alla stampa soltanto il 5 novembre.

Così, fu solo a partire dalle edizioni straordinarie del pomeriggio del 5 che venne diffusa la notizia del mancato attentato a Mussolini e degli arresti eccellenti dell’onorevole Tito Zaniboni e del generale Luigi Capello (rispetto al gen. Capello e alla sorte di Zaniboni si veda la nota 4), ma non vi era una riga sul come era stato scoperto il complotto.

A Mussolini interessava suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica e stimolarne il rancore verso gli oppositori del regime, rappresentandoli come moralmente responsabili del tentativo di Zaniboni di sparargli. In tal modo, contava di superare definitivamente gli imbarazzi e le difficoltà del delitto Matteotti e di avere il necessario consenso popolare per le misure liberticide da tempo messe in cantiere e che attendevano solo una apparentemente plausibile ragione per essere adottate.

Quell’attentato fu provvidenziale. Gli consentì di essere visto non più come colui su cui gravavano i sospetti di essere il mandante del massacro di Giacomo Matteotti, ma come la vittima del fanatismo antipatriottico, anti-italiano degli oppositori del fascismo.

I telegrammi, le manifestazioni “spontanee” di «allegrezza popolare» per Mussolini e la violenza squadrista

Furono inviati migliaia di telegrammi a Mussolini per congratularsi dello scampato pericolo. Quello di Roberto Farinacci, segretario del Partito Fascista e capo della sua ala «intransigente», quella impaziente di eliminare tutta l’opposizione, fu pubblicato a lettere cubitali sulle prime pagine di tutti i giornali fascisti e di quelli dei fiancheggiatori[5].

In tutt’Italia, Farinacci organizzò anche manifestazioni “spontanee” per celebrare lo scampato pericolo da parte di Mussolini e per condannare gli autori di un simile gesto. Molti, sia in quelle «manifestazioni di allegrezza popolare» che altrove, chiedevano a gran voce la reintroduzione della pena di morte.

Le squadre fasciste non si limitarono a vociare. Nonostante l’invito del Ministro degli Interni Luigi Federzoni e dello stesso Farinacci a mantenere la calma, le camicie nere scatenarono la loro violenza di strada contro socialisti e massoni in molte città (del resto, come riportato alla nota 2, anche all’indomani del delitto Matteotti avevano dato luogo ad una terribile ondata di violenza lungo tutta la Penisola).

I provvedimenti del Governo contro il PSU, le logge di Palazzo Giustiniani, i giornali, le Camere del Lavoro

Fu, soprattutto, il governo, però, a cogliere la palla al balzo per regolare i conti con gli oppositori politici e non solo. Infatti, non si limitò a occupare militarmente tutte le logge massoniche di Palazzo Giustiniani, dalle quali, secondo l’accusa, era sorto il complotto, ma sciolse d’autorità il Partito Socialista Unitario – sebbene Zaniboni ne fosse stato espulso nei mesi precedenti -, di cui furono chiuse le sezioni e sospeso il quotidiano «La Giustizia».

Toccò, quindi, alla stampa di opposizione subire ulteriori misure restrittive, con sospensioni e sequestri ai danni dell’«Avanti!», de «La voce repubblicana», del «L’Unità», de «Il mondo», de «Il Risorgimento» e de «La rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. «La Stampa», che era stata sospesa a settembre per vilipendio delle forze armate, fu autorizzata a riprendere le pubblicazioni a condizione che non si occupasse più di politica (l’anno dopo, il suo proprietario, il senatore Frassati fu costretto a vendere il quotidiano). Il senatore Albertini fu costretto a lasciare la direzione del «Corriere della Sera», che in breve fu trasformato in un quotidiano amico del Governo.

Neppure i sindacati furono risparmiati. Già ad ottobre, con l’accordo di Palazzo Vidoni (sede del partito fascista) il Governo aveva fatto firmare ai rappresentanti di Confindustria un testo che li impegnava a riconoscere il monopolio della rappresentanza sindacale ai sindacati fascisti, ma dopo l’attentato del 4 novembre furono sciolte le ultime Camere del Lavoro e diverse federazione autonome. Non venivano ancora soppresse le grandi confederazioni, che subirono tale sorte nell’aprile del ’26, con la legge sulle Corporazioni, la quale istituiva il monopolio sindacale del sindacato fascista.

I passi legislativi verso lo stato fascista

Il fallito attentato di Zaniboni permetteva al ministro della Giustizia, l’ex nazionalista, Alfredo Rocco, di far adottare i primi testi legislativi intesi a modificare la natura e la struttura dei poteri pubblici, sostituendo a tutti i livelli il principio democratico con quello autoritario. La legge del 24 dicembre, ad esempio, inventava per il presidente del Consiglio, Benito Mussolini, la funzione di «Capo del governo e Duce del fascismo». Tale legge gli attribuiva la totalità del potere esecutivo, lo rendeva responsabile soltanto verso il Re e non verso il Parlamento, la cui funzione legislativa veniva compromessa e umiliata al punto che il Governo poteva fare le leggi, senza doverne necessariamente riferire alle Camere, che così diventavano, di fatto, dei meri organi di registrazione delle leggi del Governo.

Erano, queste, le prime “leggi fascistissime” rese possibili dai fatti del 4 novembre di 93 anni fa e dal modo in cui Mussolini e i suoi seppero sfruttare questo “strano” attentato fin dal giorno dopo.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Dino Barattin, Tito Zaniboni e il complotto friulano per uccidere Mussolini, Libraria, San Daniele Del Friuli (Ud), 2011.

V. Castronovo e N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età fascista, Bari, Laterza, 1980

Pierre Milza, Mussolini, Carocci Editori, Roma, 2000

www.cultura.biografieonline.it/tito-zaniboni-attentato-al-duce/

www.wikipedia.org

[1] «Nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse», aveva dichiarato Matteotti. Al termine del suo intervento aveva mormorato ai compagni del suo partito: «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Infatti, una decina di giorni dopo, il 10 giugno, veniva sequestrato e ucciso (ma il suo cadavere verrà ritrovato soltanto il 16 agosto).

[2] Anzi l’offensiva squadrista contro gli antifascisti e i non fascisti aveva ripreso vigore fin dalla metà di agosto del 1924, a ridosso del ritrovamento del cadavere di Matteotti. Il 17 agosto, vale a dire il giorno dopo, a Napoli vi furono i primi disordini provocati dalle camicie nere. Il 5 settembre a Torino a Piero Gobetti, indicato da Benito Mussolini come uno di coloro cui si «si doveva rendere la vita impossibile», fu picchiato selvaggiamente. A Roma, dove un operaio, mentalmente disturbato aveva ucciso su un tram a colpi di pistola il deputato fascista Giovanni Corvi, per vendicare Giacomo Matteotti, i fascisti proposero un’escalation di brutalità, culminate nell’assassinio, a colpi di baionetta, di un cameriere di un caffè. Nelle ultime settimane del ’24, a Firenze 10.000 camicie nere incendiarono le sedi del “Nuovo giornale”, del giornale dei combattenti, della massoneria e del Circolo della cultura. A Bologna, Pisa, Siena e Arezzo i fascisti attaccarono oltre ai giornali le abitazioni degli oppositori e a Milano la sede del Corriere della Sera.

[3] Nel suo discorso alla Camera dei Deputati, quel giorno, tra le altre inquietanti affermazioni fece anche la seguente.

«L’Italia, o signori, vuole la calma laboriosa. Noi questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, con la forza se sarà necessario».

Dal giorno dopo, il 4 gennaio del ’25, usò la forza: in primo luogo, mobilitò la Milizia fascista cui all’indomani del delitto Matteotti erano stati forniti 100.00 fucili moderni. E nei giorni appresso la polizia e gli squadristi occuparono le sedi dei partiti antifascisti e dei giornali di opposizione. Numerosi circoli e associazioni furono sottoposti a scioglimento, si svolsero centinaia di perquisizioni e decine di arresti. Molti oppositori del fascismo decisero di darsi alla clandestinità, altri ripararono all’estero. Sul piano istituzionale, però, il regime fascista non venne alla luce in quel gennaio del ’25. Ciò accadrà soltanto un anno dopo, grazie all’inattuato attentato del 4 novembre 1925.

[4] Tito Zaniboni aveva organizzato l’attentato con l’aiuto di un gruppo di persone, che conoscevano il suo proposito ma il cui aiuto era stato tutt’altro che fondamentale, verosimilmente solo un piccolo sostegno economico. Tra questi, fu incluso anche il generale Luigi Capello, arrestato alcuni giorni dopo l’attentato, ma che si dichiarò sempre innocente e fu condannato a trent’anni di carcere. Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trenta anni di reclusione. Nel 1935 spedì diverse lettere a Mussolini per ringraziarlo di aver aiutato economicamente la figlia a terminare gli studi universitari. Inoltre, prese parte dal carcere alla campagna “Oro alla Patria” per finanziare la guerra d’Etiopia e promise di porsi al servizio del Regime. Con altre lettere del 1939 prese poszione in favore del fascismo. Anche la figlia, Bruna scrisse a Mussolini per ringraziarlo del trattamento ricevuto gli regalò la propria tesi di laurea. Zaniboni venne scarcerato l’8 settembre 1943, e fu chiamato da Badoglio a far parte del governo, ma rifiutò. Nel febbraio del ’44 accettò per la nomina di alto commissario “per l’epurazione nazionale dal fascismo”. Nel secondo Governo Badoglio fu poi nominato alto commissario per i profughi e i reduci fino al 1945. Dal 1950 al 1960 fu Presidente dell’UNUCI – Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo d’Italia. Morì a Roma nel dicembre del ’60. Il gen. Capello morì 19 anni prima. Era stato rimesso in libertà il 22 gennaio 1936. La condanna abbreviata fu dovuta alla convinzione di Mussolini che, nonostante le prove, in realtà, il generale fosse estraneo all’attentato, nonché per il riconoscimento degli importanti meriti che il militare aveva acquisito nella Grande Guerra.

[5] Questo era il testo del telegramma: «Duce, se la massa dei fascisti volesse seguire il suo spontaneo impulso avrebbe voluto fare giustizia sommaria di tutti coloro che nei tempi del tragicomico quarterellismo scelsero a proprio leader l’on. Zaniboni, ma abituati come sempre ad ubbidire si limiterà quest’oggi con imponenti manifestazioni di giubilo per la tua immunità, che è immunità dell’Italia, a dimostrarti ancora una volta il suo affetto e la sua devozione. Ho dato ordini a tutti i dipendenti fascisti perché ogni rappresaglia sia scongiurata e ciò per non svalutare le imponenti cerimonie di questi ultimi giorni e per non dare soverchia importanza alle opposizioni che con vile tentativo hanno riaffermato la loro impotenza». Arcovaldo Bonaccorsi, capo delle squadre bolognesi, telegrafò a Mussolini: «Criminalità avversari fascismo et traditori patria impone esemplare punizione colpevoli. Offromi come boja per decapitare arrestati». Anche l’onorevole Balbino Giuliano, ex sottosegretario alla Pubblica Istruzione, nel suo telegramma si offriva come: «boja!».

Assassinio del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin: è il 4 novembre 1995

Sono stato un soldato per ventisette anni. Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere. […] La violenza corrode i fondamenti della democrazia israeliana. Bisogna condannarla, bisogna deplorarla, bisogna isolarla. Non è questa la strada dello Stata d’Israele.

Tra le ultime parole del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin ci sono anche queste. Di lì a poco – è la sera del 4 novembre 1995 – sarà infatti ucciso dai colpi di pistola esplosi da un suo connazionale: Yagal Amir, ebreo estremista della destra israeliana, che riuscì a raggiungere il suo obiettivo, infilandosi tra la folla riunita in piazza dei Re d’Israele, a Tel Aviv (oggi piazza Rabin), durante una manifestazione in supporto agli accordi di Oslo.

Si parlava di pace, come testimoniano lo slogan Sì alla pace, no alla violenza e le parole dell’ex soldato. Rabin combatté infatti a lungo per il proprio paese e si congedò dall’esercito solo dopo ventisei anni di servizio, che gli valsero il grado di tenente generale, il più alto dell’esercito israeliano. Fu però la parabola politica a renderlo globalmente noto.

A partire dal 1968, per cinque anni vive negli Stati Uniti, o meglio, nell’ambasciata israeliana d’oltre oceano, dove consolida il legame tra le due nazioni. Successivamente fa ritorno in patria, dove viene immediatamente eletto parlamentare per il partito laburista. Dapprima ministro del lavoro, in seguito alle dimissioni di Golda Meir è proprio lui a prendere le redini dell’esecutivo, che terrà saldamente per tre anni, vantando il primato di primo premier ad essere nato in Israele. Durante questo mandato, ottiene buoni risultati nelle trattative con l’Egitto, che faranno da solida base per il trattato di pace del 1979, firmato dal primo ministro del governo successivo; così come nei confronti della Giordania, di cui incontrerà più volte il re. In questo caso, dovranno aspettare vent’anni per la stipula dell’accordo.

Dopo la caduta del ‘77, a causa di uno scandalo riguardante un conto corrente all’estero, torna al potere, nelle vesti di ministro della difesa, tra l’84 e il 90: sono anni difficili, di intifada, di sconfinamenti e massacri in terra libanese, come quelli nei campi di Sabra e Shatila. Rabin sarà nuovamente eletto a capo del Governo nel 1992, quando la sua prospettiva era la seguente:

La guerra del Golfo ha aperto uno spazio di opportunità per la pace in Medio Oriente. Ma questa possibilità non resterà aperta all’infinito. Il partito laburista farà il possibile per cogliere l’occasione, mentre il Likud quasi certamente la sprecherà.

Fedele alle proprie parole, a cavallo tra il ’92 e il ’93 hanno luogo i primi contatti tra negoziatori israeliani e dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), in terra norvegese: Oslo fu teatro di tali incontri, prima riservati e poi sulla bocca del mondo intero, ma a Washington (come si vede nella foto in cima all’articolo) furono apposte le firme epocali sulla Dichiarazione dei Principi. Rabin e Arafat che si stringono la mano davanti a Clinton, un’immagine che ha infuso speranza in milioni di cuori, e che varrà ai due capi il Nobel per la pace dell’anno seguente. Era il 13 settembre 1993.

La firma di questa Dichiarazione di principi non è facile né per me, come soldato, né per il popolo d’Israele e per il popolo ebraico, che ci stanno guardando in questo momento con grande speranza mista ad apprensione non è certo facile per le famiglie delle vittime della guerra, della violenza del terrorismo, il cui dolore non passerà mai. Per le migliaia che hanno difeso le nostre vite anche a costo di sacrificare la propria. Per costoro, questa cerimonia è giunta troppo tardi. Oggi, alla vigilia di una opportunità di pace e, forse, della fine della violenza e delle guerre, noi ricordiamo tutto costoro uno per uno con amore imperituro.

La carriera di Rabin non è certo andata esente da errori e prese di posizione poco condivisibili, ma sembra innegabile che, almeno in alcuni momenti, la pace sia stata al centro del suo operato. Essere stato assassinato da un estremista di destra rafforza tale tesi.

Alessio Gaggero

3 novembre 1970, Salvador Allende è presidente del Cile

Ma a che serve la vita  se non si arrischia almeno di quando in quando  questa improbabile eventualità?  Lui ha percorso sino alla fine, a occhi aperti,  questa splendida via senza uscita.
(István Vas, Allende)

I mille giorni del presidente Allende hanno inizio il 3 novembre 1970. Il primo presidente marxista democraticamente eletto nelle Americhe vince le elezioni cilene il 4 settembre, ma, avendo ottenuto una maggioranza relativa, si rende necessario l’avallo del Parlamento. Gli Stati Uniti attuano pesanti pressioni per favorire la nomina irrituale del secondo eletto, candidato delle destre, e per indurre la sollevazione delle forze armate, arrivando ad attentare alla vita del comandante in capo dell’esercito, sostenitore del non intervento.

Ciononostante, il partito di Allende, Unidad Popular, e le forze democratico-cristiane collaborano per trovare un’intesa: viene introdotto un emendamento alla carta costituzionale in base a cui l’esecutivo garantisce libere elezioni e libertà civili e di espressione, per cui la Democrazia Cristiana, pur tra contrasti interni, decide di schierarsi con il vincitore delle elezioni, che può finalmente insediarsi nel palazzo presidenziale della Moneda, ottenendo un’attenzione mediatica internazionale senza precedenti.

Sessantunenne, di famiglia borghese, medico, socialista, marxista, libertario e anti-leninista, e massone

Nato da famiglia borghese, 61 anni, medico, socialista, marxista e massone, nel corso della sua carriera politica Salvador Allende è stato ministro in governi di coalizione e successivamente presidente del Senato cileno. Dal ’52 è ostinatamente impegnato a cercare una via cilena al socialismo democratica e pacifica, ma non per questo meno radicale. “Caro Allende, tu con altri mezzi cerchi di ottenere la stessa cosa” gli ha scritto Che Guevara: anche Allende vuole la rivoluzione, la sovversione degli equilibri economici esistenti, la socializzazione dei mezzi di produzione, ma promette di realizzare queste trasformazioni nel rispetto della costituzione e della legalità.

È un marxista eterodosso, libertario e anti-leninista, rifiuta l’idea del monopartitismo e della dittatura del proletariato; durante l’intervista al New York Times del 4 ottobre 1970, afferma:

Noi partiamo da diverse posizioni ideologiche. Per voi essere un comunista o un socialista significa essere totalitario, per me no… Al contrario, io credo che il socialismo liberi l’uomo.

Quella del 1970 è la sua terza candidatura alla presidenza del Cile; oltre all’appoggio degli operai e degli studenti, ha il sostegno della borghesia progressista (professionisti e piccoli imprenditori vicini alla sinistra) e del mondo intellettuale. Insediato il governo di Unidad Popular, Allende inizia a operare per realizzare la sua piattaforma di riforma socialista della società, la “revolución con sabor a vino tinto y empanadas”, come lui stesso la definisce, sottolineandone il carattere pacifico.

Il sogno di Allende e la complicata realtà politica del Cile

Il sogno rivoluzionario di Allende nasce con indubbi aspetti di criticità in un paese diviso sotto il profilo politico, sociale ed economico. Unidad Popular, con il suo 36% di voti, non rappresenta la maggioranza nel paese e il presidente deve scendere a patti con i democristiani e la destra. Sul fronte progressista, la via pacifica e parlamentare al socialismo è osteggiata a sinistra dal MIR, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, le cui posizioni sono condivise anche da alcuni settori di Unidad Popular; l’alleato più fidato è il Partito Comunista di Luis Corvalàn, che sostiene con decisione la “via cilena” di Allende, considerata l’unica strategia possibile in quel momento.

Anche il panorama economico non è dei più favorevoli. L’avvio della nazionalizzazione delle miniere di rame con il governo precedente non ha portato i frutti sperati, i debiti del Cile sono saliti oltre il livello di guardia, metà dell’export serve a pagare gli interessi. L’indipendenza economica, inoltre, resta un sogno, visto che il 60% dell’import è legato agli USA, mentre la moderata crescita dei consumi degli anni ’60 si è tradotta in un’esplosione inflazionistica.

Pur in tale difficile contesto, il “caso cileno” resta ad oggi un paradigmatico esperimento di transizione economica e politica. In pochissimi credettero allora alla possibilità di una via democratica al socialismo a pochi chilometri dagli Stati Uniti, in un paese ricco di materie prime e di multinazionali straniere, dalle salde tradizioni culturali, a pochi anni di distanza dall’assassinio di Guevara in Bolivia e dalla decisione di Cuba di chiudersi nei propri confini. Tuttavia, dal 1970 al 1973 il Cile vive un’esperienza politica irripetibile, con movimenti e progetti di trasformazione sociale nelle città, nelle scuole, nell’agricoltura e nell’industria.

La straordinarietà di quei 1000 giorni di governo

Sotto la presidenza di Allende, quattro ministeri chiave sono affidati a operai; si procede alla riforma agraria, con sovvenzioni e sgravi fiscali per contadini e piccoli imprenditori e l’espropriazione delle proprietà maggiori di ottanta ettari; si introduce una sorta di tassa sulle plusvalenze e viene avviato un programma di nazionalizzazione delle principali industrie private, delle banche, delle compagnie di assicurazione e, in generale, di tutte quelle attività che condizionano lo sviluppo economico e sociale del paese: produzione e distribuzione di energia elettrica, trasporti ferroviari, aerei e marittimi, comunicazioni, siderurgia, industria del cemento, della cellulosa e della carta. Il governo annuncia inoltre una sospensione del pagamento del debito estero verso potentati economici internazionali e governi esteri. Tutto ciò irrita fortemente la media e alta borghesia e genera un discreto dissenso internazionale.

L’esecutivo introduce il divorzio e annulla le sovvenzioni statali alle scuole private, innervosendo i vertici della Chiesa cattolica, nonostante molti preti e vescovi, seguaci della teologia della liberazione, sostengano Unidad Popular.

Il popolo ha bisogno di alloggiare la famiglia in case decenti, di far istruire i figli in scuole che non siano solo per i poveri, di mangiare a sufficienza ogni giorno dell’anno; il popolo ha bisogno di lavoro, di protezione nella malattia e nella vecchiaia, di rispetto per la persona.

Diventano legge la garanzia di mezzo litro di latte a ogni bambino, gli incentivi all’alfabetizzazione, l’aumento dei salari e delle pensioni minime, alcune tutele sociali, il prezzo fisso del pane, la riduzione degli affitti, i provvedimenti per migliorare le condizioni sociali ed economiche delle donne, l’elargizione gratuita di cibo, istruzione e cure mediche di base alla fascia più povera della popolazione e un programma per ridistribuire la ricchezza a vantaggio degli indigenti, tra cui gli indigeni mapuche. Allo scopo di stimolare la crescita economica, il governo avvia un intenso programma di lavori pubblici.

Allende cerca inoltre di promuovere l’arte presso la popolazione, attraverso il finanziamento di una serie di attività culturali; l’istruzione primaria diventa gratuita e vengono ridotte le tasse per quella secondaria e universitaria, ottenendo incrementi record nelle iscrizioni.

È una strategia che funziona, in un primo momento. Nel ’71 Unidad Popular stravince le elezioni comunali, il prodotto interno lordo cresce dell’8,6%, la disoccupazione si dimezza e l’inflazione scende dal 34 al 22 per cento. Gli effetti delle politiche di redistribuzione della ricchezza sono testimoniate dall’aumento della quota del reddito salariale dal 51% al 65% e dall’incremento del 13% dei consumi delle famiglie e della spesa media personale.

La reazione e il ruolo della CIA

Ma le nazionalizzazioni e le occupazioni di terre provocano una fuga di capitali e l’esodo della media borghesia. La congiuntura internazionale e le pressioni delle corporation statunitensi fanno crollare il prezzo del rame, assestando un duro colpo alla bilancia import-export cilena; grazie alle pressioni USA sulla Banca Mondiale e sul Banco Interamericano de Desarrollo, i crediti passano dai 300 milioni di dollari all’anno a meno di 30: non ci sono soldi nemmeno per i pezzi di ricambio. Il governo perde la fiducia della classe media: le donne dei ceti medi e alti scendono in piazza nella “marcia delle casseruole“, nell’agosto ‘72 i commercianti al dettaglio dichiarano lo sciopero generale, poi tocca ai camionisti.

È la CIA a finanziare gli scioperanti, portando il Cile al tracollo. Già nel 1970, l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Nixon, Henry Kissinger, aveva dichiarato:

Non vedo perché dovremmo restare senza fare niente quando un paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo.

Nelle sue Memorie, William Colby, capo della CIA dal 1973 al 1976, racconta come la Direzione dell’Emisfero Occidentale della CIA abbia organizzato l’operazione di disinformazione e di sabotaggio economico più perfezionata che si fosse mai vista, “un esperimento di laboratorio sull’efficacia di pesanti investimenti finanziari per screditare e rovesciare un governo”.

Di fronte alla crisi ci vorrebbe una reazione decisa e chiara del governo. Ma qui esplodono le divisioni della coalizione tra riformisti e rivoluzionari e il dissenso insanabile tra il partito comunista e il MIR. A novembre, per risolvere la crisi, Allende apre il suo governo alla presenza dei militari: il generale Carlos Prats diventa ministro degli interni, Augusto Pinochet è nominato al vertice dell’esercito. A dicembre il presidente cileno si reca a New York, dove denuncia in un discorso alle Nazioni unite l’aggressione delle multinazionali contro il suo governo.

Nel gennaio del 1973 è già chiaro l’epilogo. Prende il via l’embargo delle imprese statunitensi nei confronti del rame cileno. Fallisce il negoziato con gli Stati Uniti per il risarcimento delle industrie americane nazionalizzate. Escono dal governo i militari. Ad aprile a scendere in sciopero sono i minatori. La Chiesa e la Democrazia Cristiana si schierano contro il governo. L’esercito tenta una prima prova di forza il 29 giugno, ma alcuni generali non aderiscono. In agosto riprende lo sciopero a oltranza dei camionisti che mette in ginocchio l’economia

L’epilogo sanguinoso

Il 10 settembre Allende convoca una riunione straordinaria del consiglio dei ministri e comunica la sua decisione di indire un referendum sulla politica del governo di Unidad Popular, in un tentativo di evitare lo sbocco eversivo, accettando anche, in pratica, di congelare il proprio progetto politico pur di salvare le istituzioni e risparmiare al Paese il colpo di stato.

Ne viene data pronta comunicazione ai militari: la coalizione progressista avrebbe gettato la spugna solo per via democratica, così come era salita al potere. Nella mattinata dell’11 settembre il palazzo presidenziale della Moneda è circondato dai blindati dell’esercito e bombardato dall’aviazione.

Salvador Allende, il “borghese moderato” si uccide o viene forse ucciso dopo aver resistito in armi ai golpisti dal palazzo presidenziale della Moneda:

Restare qui ha un significato politico molto preciso. Sarebbe terribile se, dopo tutto quel che è successo, il presidente del Cile finisse per scappare come un topo, a morire su una strada o farsi trattare da codardo.

Pinochet regnerà per i successivi 17 anni con un governo basato sulla sistematica violazione dei diritti umani. Alla fine della dittatura si contano più di 3000 vittime (anche non cilene) fra morti e desaparecidos e circa 30000 persone torturate.

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
A. Garzia, “Vi racconto la storia di Allende eroe vero e dimenticato”, Liberazione 01/02/2007;
U. Bertone, “I mille giorni di Allende”, www.socialismoitaliano1892.it;
I. Panozzo, “Se Allende vince, rischia anche l’Italia”, www.ilmanifesto.it;
H. Calvo Ospina, “Il golpe contro Allende raccontato da Washington”, www.ossin.org;
J. M. Martinez, “Salvador Allende. L’uomo, il politico”, Castelvecchi

Il 2 novembre 1918 al popolo italiano fu annunciata la resa dell’Austria-Ungheria

La terza battaglia del Piave sancì la conclusione delle ostilità tra Italiani e Austro-Ungheresi: la sconfitta subita dalle forze dell’Impero portò l’esercito allo sfascio e, a cavallo tra ottobre e novembre 1918, la guerra tra i due popoli poteva dirsi finalmente conclusa.

Il 2 novembre, ancor prima della firma dell’armistizio, si diffusa nella penisola la bella notizia:

Travolto dall’esercito italiano, il nemico chiede a Diaz l’armistizio.

Le firme furono apposte il giorno successivo, e il 4 novembre entrò in vigore il ‘cessate il fuoco’.

L’Austria ha capitolato

Così titolava il Corriere della Sera del 5 novembre, riportando il Bollettino della Vittoria. Ci vorranno altri 6 giorni perché la Grande Guerra possa dirsi ufficialmente conclusa: a Compiègne, in Francia, i delegati tedeschi firmarono l’armistizio e le sue pesanti condizioni.

Dopo più di tre anni, nove milioni di morti e ventun milioni di feriti, il secondo più grande conflitto armato della nostra civiltà era dunque giunto al termine. Il primo, una ventina d’anni più tardi, avrebbe mietuto molte più vittime.

Alessio Gaggero

 

Il primo novembre 2017 inizia la visita dell’ONU nei centri di detenzione migranti in Libia

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti Umani due anni fa inviò alcuni osservatori in Libia, per approfondire la questione riguardante i migranti che venivano fermati dalle autorità locali. Ciò che videro andava oltre ogni previsione.

Gli osservatori sono rimasti sconvolti da ciò a cui hanno assistito: migliaia di persone emaciate e traumatizzate, uomini, donne e bambini ammassati l’uno sull’altro, rinchiusi dentro hangar senza accesso ai servizi più basilari e spogliati della loro dignità umana. Molti di quelli rinchiusi nei centri di detenzione sono stati sottoposti al traffico di esseri umani, a rapimenti, torture, stupri e altre violenze sessuali, ai lavori forzati, allo sfruttamento, a terribili violenze fisiche, alla fame e ad altre atrocità nel corso dei loro viaggi attraverso la Libia, spesso per mano dei trafficanti.

Queste le parole di Zeid Ra’ad Al Hussein, allora Presidente dell’organo ONU che si è occupato della visita.

La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità.

Nel mirino, le politiche italiane ed europee sulla questione migrazione, che non riescono ad assicurare la salvezza di migliaia di persone:

L’Unione Europea e i suoi Stati Membri non hanno fatto niente per ridurre i livelli di abusi a cui sono costretti i migranti (ha continuato l’Alto Commissario per i Diritti Umani). Il nostro monitoraggio, infatti, mostra un peggioramento della situazione in Libia.

La richiesta alle autorità libiche era stata, perciò, di compiere significativi passi avanti verso l’eliminazione dei contesti che rimuovono i diritti umani, compresi quelli più basilari, tanto più se si attuano in luoghi sotto il loro controllo.

Alessio Gaggero